Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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IL RE DEL MARE

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Salgari, Emilio 6 occorrenze

Con una scarica fulminarono i cinque o sei dayaki che avevano abbandonato precipitosamente il falò attorno a cui bivaccavano, poi attraversarono come un lampo la debole linea d'assedio, continuando a sparare e urlando a squarciagola: - Viva Mompracem! I tagliatori di teste, sorpresi da quell'improvviso assalto, che erano ben lungi dall'aspettarsi, non avevano nemmeno tentato di opporre resistenza, sicchè l'animoso drappello potè gettarsi dentro il boschetto spinoso che copriva la cinta. Degli uomini erano comparsi sulle difese interne armati di fucili. Pareva che si preparassero a far fuoco, quando una voce imperiosa gridò: - Fermi! Sono amici! Aprite la porta! - Ohe, amico Tremal-Naik, - gridò Yanez con voce giuliva. - Non abbiamo affatto bisogno del piombo noi. Ne abbiamo avuto già abbastanza di quello dei dayaki. - Yanez! - esclamò l'indiano, con una vera esplosione di gioia. - Chi credevi che fosse dunque? - Alzate la saracinesca! Lesti! I dayaki tornano alla riscossa! Una enorme tavola di legno di tek, pesante come fosse di ferro, fu innalzata da parecchi uomini mediante funi sospese a grosse carrucole e le tigri di Mompracem col pilota ed il meticcio, si precipitarono entro il kampong, mentre i difensori della cinta salutavano gli assedianti con due colpi di spingarda e un violentissimo fuoco di fucileria. Un uomo di statura piuttosto alta, un po' attempato, avendo i baffi ed i capelli brizzolati, di taglia però ancora elegante ed insieme vigorosa, dai lineamenti fini, la pelle un po' abbronzata e gli occhi nerissimi, aveva aperte le braccia per stringere il portoghese. Non indossava il costume dei ricchi bornesi, bensì quello degli indiani modernizzati i quali hanno ormai rinunciato al doote e alla dubgah pel costume anglo-indù, più semplice e più comodo, consistente in una giacca di tela bianca con alamari di seta rossa, fascia larghissima ricamata in oro e calzoni strettissimi pure bianchi e turbantino. - Qui, sul mio petto, amico Yanez! - aveva esclamato, abbracciandolo strettamente. - È destinato che debba sempre ricorrere alla generosità ed al valore delle invincibili tigri di Mompracem. Come sta la Tigre della Malesia? - Muore di salute. - E la tua Surama? - Mi ama sempre intensamente. E Darma dov'è che non la vedo? - La tigre o mia figlia? - L'una e l'altra, giacchè mi scordavo della tua brava bestia. - Mia figlia dorme in questo momento e la tigre marcia verso la costa con Kammamuri. - Come! il maharatto non è qui? - esclamò Yanez. - Temendo che Tangusa non avesse potuto raggiungervi o guidarvi qui, egli è partito nonostante i miei consigli, con una piccola scorta e forse a quest'ora, se è riuscito a sfuggire ai dayaki, si è imbarcato per Mompracem. - Lo ritroveremo più tardi. - Vieni, amico, - disse Tremal-Naik. - Non è questo il luogo per scambiarci le nostre confidenze. Olà, Tangusa, fa' gli onori di casa e prepara da mangiare e da bere alle tigri di Mompracem. S'avviò verso il bengalow che s'alzava fra alcune immense tettoie piene di prodotti agricoli ed una doppia linea di capanne ed introdusse l'amico in una stanza pianterrena che era illuminata da una bella lampada indiana, i cui vetri azzurrognoli attenuavano la luce. Tremal-Naik non aveva rinunciato ai suoi gusti di bengalese. Ed infatti la stanza era arredata con mobili indiani, leggeri sì, ma elegantissimi e tutto all'intorno aveva quei bassi e comodi divani che si vedono in tutte le ricche abitazioni degli adoratori di Brahma, di Siva o di Visnù. - Un buon bicchiere di bram innanzi tutto, - disse l'indiano, empiendo due bicchieri con quell'eccellente liquore composto con riso fermentato, zucchero e succhi di varie palme che lo profumano. - Arresta il sudore. - Ed io sono inzuppato, come un cavallo che ha percorse dodici leghe tutte d'un fiato. Non sono più giovane, amico mio, - disse Yanez, vuotando poi d'un fiato il bicchiere. - Ed ora spiegami questo mistero. - Una domanda prima di tutto, se me lo permetti. Come sei giunto? - Colla Marianna e dopo d'aver forzata la foce del fiume. Più tardi ti narrerò i particolari di quella lotta. - Dove l'hai lasciata? - All'imbarcadero. - È numeroso l'equipaggio? - Ha forze uguali alle mie. Tremal-Naik era diventato meditabondo ed inquieto. - Sono uomini capaci di difendere il mio veliero, - disse Yanez che se n'era accorto. - Sono molti i dayaki, più di quanti credevo e soprattutto ben armati e anche bene esercitati. - Dal pellegrino? - Sì, Yanez. - L'avrai veduto, tu, quel briccone. - Io? Mai! - Non sai nemmeno tu chi è? - chiese Yanez al colmo dello stupore. - No, - rispose Tremal-Naik. - Io gli ho mandato un messo due settimane or sono, pregandolo di presentarsi da me per spiegarmi i motivi del suo odio, promettendogli salva la vita. - E lui si è guardato bene dall'obbedire? - Mi ha fatto rispondere invece che andassi io da lui onde consegnargli la mia testa unitamente a quella di mia figlia. - Tanta audacia ha avuto quel miserabile! - esclamò Yanez, indignato. - Udiamo: hai mai offeso qualche capo dayako? Quei tagliatori di teste sono ferocemente vendicativi. - Io non ho mai fatto male a nessuno, e poi quell'uomo non è un dayako, - rispose l'indiano. - Chi è dunque? - Alcuni affermano che sia un vecchio arabo fanatico, altri un negro e altri ancora un indiano. - Eppure ci deve essere un gran motivo per odiarti tanto. - Certo, ma più ci penso meno riesco a scoprirlo, ed invano tormento il mio cervello. Mi è venuto perfino un sospetto. - Quale? - È così assurdo che rideresti se te lo dicessi. - disse Tremal-Naik. - Gettalo fuori. - Che potesse essere qualche thug. Yanez invece di accogliere quelle parole con un sorriso, come l'indiano s'aspettava, era diventato lievemente pallido. - Sei ben certo, Tremal-Naik, - disse poi con voce grave, - che tutti i luogotenenti di Suyodhana, il capo degli strangolatori, siano stati uccisi da noi nelle caverne di Raimangal o dagli inglesi nelle stragi di Delhi? Chi ce lo assicura? - E tu vorresti che quel qualcuno avesse pensato a vendicare Suyodhana dopo undici anni? - Tu hai provata la tenacia ed hai pure provato l'odio implacabile di quegli assassini. Tu sei stato la causa della loro fine. Tremal-Naik era tornato a diventare pensieroso ed il suo viso tradiva una profonda angoscia. Ad un tratto, fece un gesto come per cacciare via qualche visione, poi disse: - No, è impossibile, è assurdo. I thugs, ammesso che ve ne siano ancora in India, non avrebbero atteso tanto. Quel pellegrino deve essere qualche furfante che cerca d'imporsi ai dayaki per fondarsi qualche sultania e che finge di odiarmi. Avrà fatto spargere la voce che io non sono un mussulmano, che io sono forse un nemico dei dayaki, una creatura inglese incaricata di soggiogarli o qualche cosa d'altro per mandarmi via di qui. Sarà tutto quello che vorrai, anche un vero fanatico, ma non un thug. - Sia come vuoi tu, ma mi pare che tu ti trovi in una non bella condizione. Hai perdute tutte le fattorie? - Le hanno saccheggiate e poi arse. - Sarebbe stato meglio che tu fossi rimasto con noi a Mompracem. - Volevo tentare di colonizzare queste coste e incivilire questi barbari. - E hai fatto un buco nell'acqua, - disse Yanez, ridendo. - Purtroppo. - E ci rimetterai qualche centinaio di migliaia di rupie. Meno male che le tue fattorie del Bengala possono pagare le spese. Quando sgombreremo? - Ti chiedo solo ventiquattro ore, - rispose Tremal-Naik, - per poter raccogliere il meglio che posseggo, poi daremo fuoco a tutto e raggiungeremo la tua nave. - E correremo al più presto verso Mompracem, - disse Yanez. - La nostra presenza è necessaria laggiù. Aveva pronunciate quelle parole con un tono così grave, che l'indiano ne fu colpito. - C'è qualche cosa in aria? - chiese. - Ma ... non si sa ancora. Corrono delle voci che inquietano la Tigre della Malesia. - E quali? - Che gli inglesi abbiano intenzione di farci sloggiare da Mompracem. È un po' di tempo che tutti gli atti di pirateria che succedono lungo le coste occidentali dell'isola li addebitano a noi, quantunque da molti anni i nostri prahos dormano sulle loro àncore. Dicono che la nostra presenza incoraggia i pirati costieri e che noi direttamente o indirettamente li aizziamo contro le navi che si recano a Labuan. Frottole, ma già tu conosci la doppiezza del leopardo inglese. - E anche la sua ingratitudine, - disse l'indiano. - Ecco come vorrebbero compensarci d'aver liberata l'India dalla setta dei thugs. E Sandokan cederebbe? - Lui! Ah! Quell'uomo è capace di gettare il guanto di sfida contro tutta l'Inghilterra e di ... Un lontano colpo di cannone gli aveva interrotta la frase. - Hai udito? - esclamò, balzando in piedi in preda ad una vivissima agitazione. - Sì, il cannone tuona verso il sud. - I dayaki attaccano la Marianna! - Seguimi sull'osservatorio, Yanez, - disse Tremal-Naik. - Di lassù potremo udire meglio da quale parte giungono gli spari.

Il comandante, attorniato dai suoi ufficiali, non aveva abbandonato il ponte. Yanez fu il primo a salire a bordo. Attraversò la folla e si fece sotto il ponte di comando, dicendo al capitano dello steamer, che non si era mosso per incontrarlo: - Non siete troppo cortese, signore, verso un uomo che avrebbe potuto cannoneggiarvi. - Fatelo, se così vi piace, - rispose freddamente il comandante. - Io non mi oppongo. Pensate però che a bordo della mia nave vi sono cinquecento e più donne, molti fanciulli e molti uomini che non sono inglesi. - Avete scialuppe sufficienti per contenerli tutti, compreso l'equipaggio? - Sì. - La costa bornese non è lontana e il mare per ora non ha alcuna intenzione di guastarsi. Fate imbarcare tutti e andatevene, perchè il piroscafo non appartiene ora che a me. - I miei marinai ed i passeggeri sono liberi di abbandonare la nave, io resterò qui, qualunque cosa debba accadere, - disse l'inglese. - Io non cedo ai pirati di Mompracem. - Ah! ... Sapete chi noi siamo? Bravissimo: vi affonderò colla vostra nave. - Voi l'affonderete? ... - Ci appartiene per diritto di guerra e, non avendo alcun interesse per conservarla, la offriremo ai pesci. Vi accordo due ore e aspetto coll'orologio alla mano. - Vi ripeto che io non lascerò la nave, - rispose l'inglese con ostinazione. - Desidero affondare insieme ad essa. - Se non vi strapperemo colla forza dal ponte di comando, - rispose Yanez, impazientito. Il portoghese stava per ritornare verso i suoi uomini che aiutavano i marinai del piroscafo a mettere in acqua le scialuppe, quando si vide venire incontro un uomo piccolo, tozzo, col mento accuratamente rasato e che celava gli occhi sotto due occhiali affumicati. - Comandante, - gli disse lo sconosciuto, levandosi vivacemente il cappello e sbottonandosi una lunga zimarra di panno oscuro che pareva non gli desse alcun fastidio, nonostante il caldo intenso. - Voi siete uno di quei famosi pirati della Malesia? - Uno dei capi, - rispose Yanez, guardando con curiosità quell'omiciattolo panciuto e paffuto. - Allora mi prenderete con voi, perchè io stavo appunto cercando una nave che mi sbarcasse a Mompracem. - Noi non andammo in quell'isola, che d'altronde non è più in nostro possesso e non imbarchiamo altro che uomini di mare e di guerra. - Io volevo venire con voi per combattere gli inglesi, signore. Io conosco tutte le vostre meravigliose imprese. - Voi! - esclamò Yanez, con accento beffardo. - Voi non sapete chi sono io. - No di certo. - Il demonio della guerra, o meglio, se vi piace, il dottor Paddy O'Brien di Filadelfia, infine un uomo che potrà causare danni immensi agli inglesi. Ecco perchè, signore, voi non rifiuterete d'imbarcarmi sulla vostra nave assieme ai miei bagagli. Vi renderò dei preziosi servigi, tali da far stupire e anche tremare il mondo! ...

Un momento dopo puntava l'istrumento sul piccolo canotto che allora si trovava a non meno di due miglia e che aveva finalmente abbandonato le isolette della foce, per spingersi risolutamente verso la Marianna. Ad un tratto gli sfuggì un grido: - Tangusa! - Quello che Tremal-Naik aveva condotto con sè da Mompracem e che aveva innalzato alla carica di fattore? - Sì, Sambigliong. - Finalmente sapremo qualche cosa su questa insurrezione, se è veramente lui, - disse il dayako. - Non m'inganno: lo vedo benissimo. Oh! - Che cosa avete, signore? - Vedo una scialuppa montata da una dozzina di dayaki che mi pare voglia dare la caccia a Tangusa. Guarda verso l'ultima isola: la vedi? Sambigliong aguzzò gli sguardi e vide infatti un'imbarcazione stretta e molto lunga, lasciare la foce del fiume e slanciarsi velocemente verso il mare, sotto la spinta di otto remi poderosamente manovrati. - Sì, signor Yanez, danno la caccia al fattore di Tremal-Naik, - disse. - Hai fatto caricare una spingarda? - Tutte e quattro. - Benissimo: aspettiamo un momento. Il piccolo canotto che aveva il vento in favore, filava diritto verso la Marianna con sufficiente velocità, nondimeno non pareva che potesse gareggiare colla scialuppa. L'uomo che la montava, accortosi di essere seguìto, aveva legata la barra del timone ed aveva preso due remi per accelerare maggiormente la corsa. Ad un tratto, una nuvoletta di fumo s'alzò sopra la prora della scialuppa, poi una detonazione giunse fino a bordo della Marianna. - Fanno fuoco su Tangusa, signor Yanez, - disse Sambigliong. - Ebbene mio caro, io mostrerò a quei furfanti come tirano i portoghesi, - rispose l'europeo colla sua solita calma. Gettò via la sigaretta che stava fumando, si fece largo fra i marinai che avevano invaso il castello di prora attirati da quello sparo e s'accostò alla prima spingarda di babordo, puntandola sulla scialuppa. La caccia continuava furiosa ed il piccolo canotto, nonostante gli sforzi disperati dell'uomo che lo montava, perdeva via. Un altro colpo di fucile era partito da parte degli inseguitori e senza miglior successo, essendo generalmente i dayaki più abili nel maneggio delle loro cerbottane che delle armi da fuoco, non conoscendo l'alzo. Yanez, calmo, impassibile mirava sempre. - È sulla linea, - mormorò dopo qualche minuto. Fece contemporaneamente fuoco. La lunga e grossa canna s'infiammò con un rombo strano che si ripercosse perfino sotto gli alberi che coprivano le sponde della baia. Sul tribordo della scialuppa si vide alzarsi uno sprazzo d'acqua, poi si udirono in lontananza delle urla furiose. - Presa, signor Yanez! - gridò Sambigliong. - E fra poco affonderà, - rispose il portoghese. I dayaki avevano interrotto l'inseguimento ed arrancavano disperatamente per raggiungere uno degli isolotti della foce, prima che la loro imbarcazione affondasse. Lo squarcio prodotto dalla palla della spingarda, un buon proiettile di piombo misto a rame, del peso d'una libbra e mezzo, era così considerevole da non permettere di prolungare molto quella corsa. Ed infatti i dayaki distavano ancora trecento passi dall'isolotto più vicino, quando la scialuppa, che si riempiva rapidamente d'acqua, mancò loro sotto i piedi, scomparendo. Essendo i dayaki della costa tutti abilissimi nuotatori, perchè passano la maggior parte della loro esistenza in acqua al pari dei malesi e dei polinesiani, non vi era pericolo che si annegassero. - Salvatevi pure, - disse Yanez. - Se tornerete alla carica vi scalderemo i dorsi con della buona mitraglia a base di chiodi. Il piccolo canotto, liberato dai suoi inseguitori, mercè quel colpo fortunato, aveva ripresa la rotta verso la Marianna spinto dalla brezza che aumentava col calar del sole e ben presto si trovò nelle sue acque. L'uomo che lo guidava era un giovane sulla trentina, dalla pelle giallastra, ed i lineamenti quasi europei, come se fosse nato da un incrocio di due razze, la caucasica e la malese; di statura piuttosto bassa e assai membruto; aveva il corpo avvolto in brandelli di tela bianca che gli fasciavano strettamente le braccia e le gambe e che apparivano qua e là macchiati di sangue. - Che l'abbiano ferito? - si chiese Yanez. - Quel meticcio mi sembra assai sofferente. Ohe, gettate una scala e preparate qualche cordiale. Mentre i suoi marinai eseguivano quegli ordini, il piccolo canotto, con un'ultima bordata, giunse sotto il fianco di tribordo del veliero. - Sali presto! - gridò Yanez. Il fattore di Tremal-Naik legò la piccola imbarcazione a una corda che gli era stata gettata, ammainò la vela, poi salì quasi con fatica la scala, comparendo sulla tolda. Un grido di sorpresa ed insieme d'orrore era sfuggito al portoghese. Tutto il corpo di quel disgraziato appariva crivellato come se avesse ricevuto parecchie scariche di pallini e da quelle innumerevoli, quantunque piccolissime ferite, uscivano goccioline di sangue. - Per Giove! - esclamò Yanez, facendo un gesto di ribrezzo. - Chi ti ha conciato in questo modo, mio povero Tangusa? - Le formiche bianche, signor Yanez, - rispose il malese con voce strozzata facendo un'orribile smorfia strappatagli dal dolore acuto che lo tormentava. - Le formiche bianche! - esclamò il portoghese. - Chi ti ha coperto il corpo di quei crudeli insetti così avidi di carne? - I dayaki, signor Yanez. - Ah! Miserabili! Passa nell'infermeria e fatti medicare, poi riprenderemo la conversazione. Dimmi solamente per ora se Tremal-Naik e Darma corrono un pericolo imminente. - Il padrone ha formato un piccolo corpo di malesi e tenta di far fronte ai dayaki. - Va bene, mettiti nelle mani di Kickatany che è un uomo che si intende di ferite, poi mi manderai a chiamare, mio povero Tangusa. Ora ho altro da fare. Mentre il malese, aiutato da due marinai, scendeva nel quadro, Yanez aveva rivolto la sua attenzione verso lo sbocco del fiume dove erano comparse altre tre grosse scialuppe montate da numerosi equipaggi ed una doppia, munita di ponte sul quale si scorgeva uno di quei piccoli cannoni di ottone chiamati dai malesi lilà, fusi insieme con rame tolto dalla carena delle vecchie navi e qualche particella di piombo. - Oh diavolo! - mormorò il portoghese. - Che quei dayaki abbiano intenzione di venirsi a misurare colle tigri di Mompracem? Non sarà con quelle forze che voi avrete ragione di noi, miei cari. Abbiamo dei buoni pezzi che vi faranno saltare come capre selvatiche. - Purchè non abbiano altre scialuppe nascoste dietro le isole, signor Yanez, - disse Sambigliong. - Siamo troppo forti per aver paura di loro, quantunque noi conosciamo l'audacia e lo slancio di quegli uomini, figli di pirati e di tagliatori di teste. Ne abbiamo due di quelle casse. - Palle d'acciaio armate di punte? Sì, capitano Yanez. - Falle portare in coperta e da' ordine a tutti i nostri uomini di calzare stivali di mare se non vorranno guastarsi i piedi. Ed i fasci di spine li hai imbarcati? - Anche quelli. - Falli gettare sulle impagliature tutto intorno al bordo. Se vorranno montare all'assalto li udremo a urlare come belve feroci. Pilota! Padada che si era issato fino sulla coffa del trinchetto per osservare le mosse sospette delle quattro scialuppe era disceso e si era accostato al portoghese guardando obliquamente. - Sai dirmi se quei dayaki posseggono molte barche? - Non ne ho vedute che pochissime sul fiume, - rispose il malese. - Credi che tenteranno di abbordarci, approfittando della nostra immobilità? - Non credo, padrone. - Parli sinceramente? Bada che comincio ad avere qualche sospetto su di te e che questo arenamento non mi è sembrato puramente accidentale. - Il malese fece una smorfia come per nascondere il brutto sorriso che stava per spuntargli sulle labbra, poi disse un po' risentito: - Non vi ho dato alcun motivo per dubitare della mia lealtà, padrone. - Vedremo in seguito, - rispose Yanez. - E ora andiamo a trovare quel povero Tangusa, mentre Sambigliong prepara la difesa.

Vedendoli retrocedere, Darma aveva subito abbandonato il primo uomo per scagliarsi sopra un altro. Con un secondo slancio piombò addosso ad uno dei fuggiaschi, rovesciandolo di colpo, quando una scarica vivissima la colpì. La povera bestia si era bruscamente rizzata sulle zampe posteriori, rimanendo in quella posa alcuni istanti, poi s'abbattè, mentre Kammamuri mandava un urlo disperato: - La mia Darma! Me l'hanno uccisa! Quasi nel medesimo istante si udirono in lontananza tre spari. - Il segnale! Il segnale! - gridò Sambigliong. - In ritirata! Del drappello non rimanevano che undici uomini. Tutti gli altri erano caduti sotto le palle e i kampilang dei dayaki e i loro corpi giacevano sui pendii della rupe, privi della testa. Sambigliong afferrò Kammamuri che stava per scendere verso la tigre, a rischio di farsi fucilare e lo trascinò con sè, dicendogli: - È morta: lasciala. Si erano precipitati a corsa disperata nel burrone, mentre una seconda scarica rumoreggiava verso la costa. Yanez doveva avere molta premura. Il drappello con una corsa fulminea percorse tutta la gola, sotto una grandine di palle, avendo i dayaki ripreso l'inseguimento e sbucò su una piccola pianura alla cui estremità s'alzavano quindici o venti capanne, piantate su dei pali. Al di là rumoreggiava il mare. - Signor Yanez - gridarono Sambigliong e Kammamuri, vedendo dei piccoli prahos ancorati dinanzi al minuscolo villaggio, colle vele già spiegate, pronti a prendere il largo. Il portoghese usciva in quel momento da una capanna, accompagnato da Tremal-Naik e dalla fanciulla, mentre la loro scorta accostava i due legnetti alla riva. - Presto! - gridò Yanez, vedendo i superstiti ad attraversare, sempre correndo, la piccola pianura. Pochi minuti dopo, estenuati e insanguinati, madidi di sudore, si precipitavano sulla riva. - E gli altri? - chiesero a una voce Yanez e Tremal-Naik. - Tutti morti, - rispose Kammamuri con voce affannosa; - anche la tigre, la nostra brava Darma. - Sia dannato quel cane di pellegrino! - gridò l'indiano, sul cui viso traspariva un intenso dolore. - Anche la mia tigre perduta! - Ed i dayaki? - chiese Yanez. - Fra poco saranno qui, - disse Sambigliong. - Lesti, imbarchiamoci. Tu sul più grosso, Tremal-Naik, con tua figlia e la scorta. A me l'altro con Kammamuri ed i superstiti. S'imbarcarono rapidamente e i due legni presero il largo, mentre la popolazione della borgata udendo le grida dei dayaki si salvava precipitosamente nei boschi vicini. Il vento era favorevole, sicchè i due prahos con poche bordate uscirono dalla piccola baia, filando rapidamente verso il sud-ovest, non volendo scostarsi troppo dalla spiaggia, almeno pel momento. I dayaki giungevano allora sulle rive della baia, ma troppo tardi. La preda tanto sospirata ancora una volta sfuggiva loro e proprio nel momento in cui credevano di averla finalmente nella mani. Non sapendo su chi sfogarsi, avevano dato fuoco al villaggio. - Canaglie! - esclamò Yanez, che teneva la barra del timone. - Se avessi ancora la mia Marianna vi darei io una tale lezione da non scordarvela più. Tutto forse non è finito fra noi e voi e chissà che un giorno non vi ritroviamo sui nostri passi e allora guai al vostro pellegrino! I due legnetti, spinti da un fresco vento di settentrione, erano già lontani e stavano girando il capo Gaya, per entrare nella baia di Sapangar, entro cui sbocca il Kabatuan. Erano due piccoli prahos pescherecci, con grandi vele formate di vimini intrecciati, bassi di scafo, privi di ponte e col bilanciere per poter meglio appoggiarsi e resistere alle raffiche senza correre il pericolo di rovesciarsi. Quello montato da Tremal-Naik, dalla fanciulla e dagli otto uomini della scorta era un po' più grosso e portava per armamento un lilà; quello di Yanez invece non aveva che una vecchia spingarda collocata su un cavalletto fissato sulla prora. - Pessimi velieri, - disse Sambigliong, dopo un rapido esame. - Sono vecchi quanto me. - Non vi era di meglio, mio bravo tigrotto, - rispose Yanez. - È stata anzi una vera fortuna trovarli e non ci volle poco a indurre quei pescatori a venderceli. - Muoviamo subito su Mompracem? - Costeggeremo fino a Nosong, prima di intraprendere la traversata. Non vi è molto da fidarsi di queste barcacce che assorbono acqua come le spugne. - Sono impaziente di giungervi, capitano. - Ed io non meno di te, Sambigliong. Che cosa sarà successo laggiù, dopo le notizie portate da Kammamuri? Come desidero saperlo! - Che la Tigre stia combattendo contro gli inglesi? - Non mi stupirei: Sandokan non è un uomo d'abbassare la bandiera e di cedere alle pretese del governatore di Labuan senza opporre una fiera resistenza. Come rimpiango ora d'aver perduto la mia nave! Colla mia Marianna e la sua appoggiati dai prahos da guerra, avremmo potuto dar da fare alle cannoniere di Labuan. - Non è colpa mia, capitano Yanez, - disse Sambigliong. - Tu hai fatto anche troppo per difendere la mia nave, - rispose Yanez, con voce dolce. - Non ho alcun rimprovero da farti, mio bravo. Stringiamo verso la costa e cerchiamo di guadagnare più via che potremo. Se il vento si mantiene, domani notte noi approderemo a Mompracem. Era allora calato il sole e le tenebre scendevano rapide. Il mare era calmo, con leggere ondulazioni che non davano alcun fastidio ai due legnetti, i quali continuavano la loro rotta verso il sud-ovest, tenendosi a due o tre gomene l'uno dall'altro. Yanez, seduto a poppa, su una grossa pietra che serviva da ancora, teneva la mano sulla barra, consumando le sue ultime sigarette, mentre la maggior parte dei suoi uomini russavano stesi sul fondo del legno. Soli quattro vegliavano a prora, per la manovra. Nessun lume brillava sul mare, già divenuto color dell'inchiostro. Anche verso la costa tutto era tenebroso. Solo verso l'isolotto di Sapangar, che chiude a ponente la baia omonima, un punto rossastro brillava, la torcia forse di qualche pescatore notturno. Al di là del capo Gaya, il vento era venuto quasi a mancare ed i due velieri non avanzavano che con estrema lentezza. - Bramerei trovarmi ben lontano dalla baia prima dell'alba, - mormorò il portoghese. - La foce del Kabatuan per poco non è stata fatale alla mia Marianna. Vegliò fino alle una del mattino, poi non scorgendo nulla di sospetto, cedette la barra a Sambigliong, sdraiandosi sotto un banco, su una vecchia vela di vimini. Un grido del mastro lo svegliò bruscamente alcune ore dopo: - All'armi! Tutti in piedi! Cominciava allora ad albeggiare e i due prahos, che durante la notte avevano camminato pochissimo, si trovavano verso la punta settentrionale dell'isola di Gaya. Yanez, udendo il grido del suo fedele mastro, era balzato rapidamente in piedi, chiedendo: - Ebbene, che cosa c'è? Che non si possa dormire un momento tranquilli e ... Si era bruscamente interrotto, facendo un gesto che tradiva una viva ansietà. Un grosso giong, un veliero assai più rotondo e più lungo dei soliti prahos, con due vele triangolari, usciva in quel momento dalla baia, seguìto da una mezza dozzina di doppie scialuppe munite di ponte e da una scialuppa a vapore che non portava alcuna bandiera sull'asta di poppa. - Che cosa vuole quella flottiglia? - si era domandato il portoghese. Un colpo di mirim, partito dal giong, sparato a bianco, fu la risposta. La flottiglia intima ai due prahos di fermarsi. - I dayaki, signori! - gridò in quell'istante Sambigliong, che si era slanciato verso prora per meglio osservare gli uomini che montavano il veliero e le doppie canoe. - Signor Yanez, virate di bordo e gettiamoci verso la costa! Il portoghese mandò una bestemmia. - Ancora essi! - esclamò poi. - Ecco la fine! Era una follia tentare d'impegnare la lotta con forze così poderose e munite di lilà e di mirim e fors'anche di spingarde. Fuggire era pure impossibile: la scialuppa a vapore, che era pure montata da uomini di colore, malesi e dayaki, non avrebbe tardato a raggiungere i due vecchi e pessimi velieri. Gettarsi verso la costa o meglio ancora verso l'isola di Gaya che era coperta di folte foreste, era l'unica salvezza che restasse ai fuggiaschi. - Appoggiate sulla costa! - gridò Yanez. - E armate i fucili. Il praho di Tremal-Naik che si trovava a sette o otto gomene da quello di Yanez, aveva già virato di bordo e muoveva sollecitamente verso Gaya. Disgraziatamente il tempo mancava. Il giong, accortosi dell'intenzione dei fuggiaschi, con una lunga bordata si era frammesso fra i due prahos, seguìto subito dalla scialuppa a vapore ed aveva cominciato a far fuoco coi suoi lilà, cercando di abbattere le manovre. - Ah! Canaglie! - aveva gridato Yanez. - Ci separano per distruggerci più facilmente. Su, tigri di Mompracem, diamo battaglia e affondiamo tutti piuttosto che cadere vivi nelle mani di quei selvaggi. Afferrò la carabina e pel primo aprì il fuoco, sparando sul ponte del giong. I suoi uomini avevano pure impugnate le armi, moschettando vigorosamente l'equipaggio della nave avversaria. Anche sul praho di Tremal-Naik, quantunque stretto fra il grosso veliero e la scialuppa a vapore che tentava di abbordarlo, le carabine tuonavano furiosamente, tentando una suprema resistenza. Non doveva durare a lungo quella lotta così impari. Una bordata di mitraglia disalberò d'un colpo solo il praho dell'indiano rasandolo come un pontone ed immobilizzandolo, mentre una piccola granata, sparata dal pezzo d'artiglieria che armava la scialuppa a vapore sfondava la ruota di prora, aprendo una falla enorme. - Tigrotti di Mompracem! - aveva gridato Yanez, che si era subito accorto della disperata situazione in cui trovavasi Tremal-Naik. - Andiamo a salvare la fanciulla! Il praho virò per la seconda volta di bordo cercando di accostarsi a quello dell'indiano, quando si vide tagliare la via dal giong. Il grosso veliero, compiuta la sua opera di distruzione, si era rivolto verso quello di Yanez, mentre la scialuppa a vapore abbordava, con due doppie scialuppe d'appoggio, quello di Tremal-Naik che cominciava ad affondare. - Fuoco sul ponte, Tigrotti! - gridò il portoghese. - Almeno vendichiamo gli amici! Una voce dall'accento metallico, si levò in quel momento dalla poppa del giong: - Arrendetevi al pellegrino della Mecca! Vi prometto salva la vita! Il misterioso nemico era apparso sul cassero col suo turbante verde in capo, impugnando una di quelle corte scimitarre indiane chiamate tarwar. - Ah! Cane! - gridò Yanez. - Anche tu ci sei! Prendi! Aveva in mano la carabina carica. La puntò e fece fuoco rapidamente. Il pellegrino aprì le braccia, le richiuse, poi cadde addosso al timoniere, mentre un altissimo urlo di furore s'alzava fra l'equipaggio del giong. - Finalmente! - gridò Yanez. - Ed ora fumiamo la nostra ultima sigaretta!

Non era trascorso un quarto d'ora da che i due parlamentari avevano fatto ritorno per la seconda volta all'accampamento, quando Yanez e Tremal-Naik, che non avevano abbandonato il terrazzo, curiosi di godersi quel miracolo, videro due drappelli di dayaki, formati d'una quindicina d'uomini ciascuno, tutti disarmati, accostarsi al kampong portando delle grandi ceste colme di pietre, per la maggior parte piatte, che dovevano aver raccolte di certo nel letto di qualche ruscello. Si fermarono a cinquanta passi dal terrazzo e si misero a disporle in modo da formare una specie di aia, larga una mezza dozzina di metri e lunga il doppio. - Preparano il letto del braciere, - disse Yanez a Tremal-Naik che lo interrogava. Ripartiti i due drappelli, se ne avanzarono due altri carichi di legname resinoso che accumularono sulle pietre e che poi accesero lasciandolo avvampare per un paio d'ore. Yanez, Tremal-Naik e tutta la guarnigione, eccettuate le sentinelle, avevano assistito pazientemente a quei preparativi, tenendosi al riparo degli alberi i cui rami fronzuti proiettavano una fresca ombra sulle terrazze costruite sulla cinta per permettere ai difensori di far fuoco più comodamente. I dayaki, che da quanto si poteva capire, ci tenevano a mostrare all'uomo bianco, - essere superiore per loro, - i miracoli del pellegrino, a poco a poco si erano radunati intorno al falò, senza che i difensori del kampong si fossero presi la briga di protestare, essendosi avanzati tutti inermi. - Ecco un divertimento che non godremo mai più, - aveva detto Yanez, - e che non produrrà alcun effetto, almeno sui miei Tigrotti. - E nemmeno sui miei malesi e giavanesi, - aveva aggiunto Tremal-Naik. - Già non credono in Allah come questi fanatici imbecilli. Chi può essere stato a far conoscere a questi selvaggi la religione maomettana? - Gli arabi antichi, mio caro, - rispose il portoghese. - Non sai tu che quegli intrepidi navigatori conoscevano e percorrevano queste regioni, quando gli europei non sapevano nemmeno che esistessero in questa parte del globo le grandi isole malesi? Tu non conosci certo Tolomeo che visse 166 anni dopo la nascita di Gesù Cristo, il dio dei cristiani. Ti posso però dire che fino da quell'epoca gli arabi conoscevano perfettamente i malesi, la Chersoneso Aurea ove si poneva il monte Ofir, che altro non sarebbe che Sumatra; Glabadiva che è l'attuale Giava; i Satiri che sono Battias, gli antropofagi. Eh! Guarda il pellegrino che si avanza! Quel birbone si lascerà bruciare le piante dei piedi per dare ad intendere ai suoi fanatici che è un semi-dio, un essere superiore, un vero discendente del gran Profeta? Io ammiro la sua forza d'animo. - Ed io vorrei ucciderlo con un buon colpo, - rispose Tremal-Naik. - Non commettiamo un simile assassinio, amico mio. Dobbiamo essere gli ultimi a rispondere alle provocazioni. Siamo persone civili, noi. Un urlo immenso li avvertì che il pellegrino stava per lasciare l'accampamento onde mostrare all'uomo bianco ed ai suoi guerrieri la sua invulnerabilità e la sua potenza di essere superiore. Darma, la gentile e graziosa anglo-indiana, aveva raggiunto suo padre e Yanez. Anche i Tigrotti di Mompracem si erano radunati sul terrazzo, appoggiando le carabine ai parapetti, temendo qualche sorpresa da parte di quei selvaggi nei quali non avevano nessuna fiducia. Il pellegrino si avanzava verso la via formata dalle pietre, rese ardenti da due ore di fuoco continuo. Aveva sul capo il suo turbante verde ed il viso nascosto da un piccolo drappo di seta d'egual colore. Il corpo invece era avvolto in una specie di camicia assai attillata, di nanchino giallo, che gli scendeva fino alle ginocchia ed i suoi piedi erano nudi. - O che quell'uomo è un gran ciurmadore o è una vera salamandra, - disse Yanez. - Forse che i fakiri dell'India non passeggiano sui tizzoni ardenti invece che sulle pietre arroventate? - disse Tremal-Naik. - Non ricordi della festa di Darma Ragia, dove tu hai conosciuto l'adorabile Surama, la nipote del rajah di Gualpara? - Per Giove! Se me ne ricordo, - rispose Yanez. - Anche in quella festa i fanatici correvano sulle brace. - Ma uscivano da quell'inferno zoppi, mentre questo demonio di pellegrino promette di passeggiare su quelle pietre scaldate a bianco senza alcun malanno. - Lo vedremo, Yanez, a meno che non sia un gran fakiro. - Apri gli occhi, Darma, - disse Yanez, vedendo la fanciulla curvarsi sul parapetto. - Non mi fido di quei bricconi. - Che cosa temete, signor Yanez? - Eh! Un colpo di carabina si fa presto a spararlo. - Non hanno alcuna arma, - rispose Darma. - Sì, visibile. Avanti, signor discendente di Maometto, mostrateci il vostro miracolo. Il misterioso avversario di Tremal-Naik era giunto dinanzi all'aia lastricata di pietre che doveva proiettare un calore assolutamente intollerabile. Stette un momento raccolto in se stesso, colle mani alzate e gli sguardi fissi verso occidente, ossia in direzione del lontanissimo sepolcro del Profeta, agitò per qualche po' le labbra come se recitasse una preghiera, poi si slanciò risolutamente sulle pietre, gridando per tre volte, con voce rimbombante: - Allah! Allah! Allah! Quindi con passo sicuro, insensibile all'ardente calore che saliva dalle pietre, coi piedi e le gambe nude, s'avanzò sull'aia, a passi lenti, senza che gli sfuggisse un moto che tradisse qualche dolore. I dayaki, stupiti, ammaliati da una simile prova, lo guardavano con profonda ammirazione, alzando le braccia. Quell'uomo per loro doveva essere assolutamente un semi-dio, un vero discendente del grande Profeta. Il pellegrino compiuta la traversata si fermò un momento, poi ritornò sui suoi passi, sempre calmo, sempre impassibile, come se passeggiasse su un prato anzichè su delle pietre che potevano cuocere benissimo del pane. - Costui deve essere un figlio di compare Belzebù! - esclamò Yanez, che non poteva fare a meno di ammirare lo stoicismo di quell'uomo. - Come può resistere a quel calore? Eppure i suoi piedi sono nudi e qui non vi può essere alcun trucco. - Quell'uomo deve essere insensibile come una vera salamandra, - rispose Tremal- Naik. Il pellegrino, compiuta la seconda prova, volse il viso mascherato dal drappo verso Yanez, guardandolo per qualche istante, poi si allontanò a lenti passi, dirigendosi verso la sua tettoia, mentre i dayaki, in preda ad una vera esaltazione, urlavano a squarciagola: - Allah! Allah! Allah! Qualche minuto dopo, mentre i guerrieri raggiungevano i loro accampamenti, precipitandosi verso il pellegrino, il parlamentario, accompagnato dal suo tamburino, si presentava per la terza volta sotto la terrazza. - Che cosa vuoi ancora, uomo noioso? - gli chiese Yanez. - Vengo a chiederti se dopo una simile prova data dal discendente del gran Profeta tu ti sei deciso ad arrenderti, - disse il guerriero. - Ah! È vero, dovevo darti una risposta, - disse Yanez. - Dirai dunque al figlio o nipote o pronipote di Maometto, che io lo ringrazio dell'interessante spettacolo che si è degnato di offrire a noi, poveri miscredenti. Poi levandosi, con un gesto superbo, un magnifico anello che portava in un dito, lo gettò al parlamentario stupito, aggiungendo: - E questa è la sua ricompensa! ...

Verso mezzanotte Tremal-Naik s'avvicinò a Sandokan, il quale non aveva ancora abbandonato il suo posto. - Amico mio, - gli disse, - che cosa ci rimane da fare? - Prepararci a morire, - rispose la Tigre della Malesia, con voce calma. - Io sono pronto, e le fanciulle? Sandokan invece di rispondere, stese la destra verso l'ovest, e disse: - Eccole: le vedi? - Chi, Sandokan? - Le navi nemiche. - Di già! - mormorò l'indiano che non seppe frenare un brivido. - Accorrono come belve feroci per distruggere le ultime tigri della Malesia. I loro sguardi sono ormai fissi su di noi. Tremal-Naik guardò nella direzione indicata, mentre gli uomini di guardia sulla piattaforma gridavano: - Navi a poppa! Parecchi punti luminosi scintillavano sull'orizzonte ed ingrandivano rapidamente. - Sono pronti i nostri uomini? - chiese Sandokan. - Sì, - rispose Yanez che gli stava presso. - E le fanciulle? - domandò con un tremito. - Sono tranquille. - Vorrei salvarle. - Che cosa dovremmo fare? - Sbarcarle su una scialuppa e allontanarle prima che quelle navi ci rinchiudano. - Si rifiuteranno; mi hanno giurato che se dovremo morire, esse s'inabisseranno con noi. - Vi è la morte qui! ... - L'aspettano. - Salvale, Yanez. - Ti ripeto che si rifiuterebbero; non insistere. - Ebbene, sia! ... Se dovremo morire, non cadremo invendicati! ... A me, tigri di Mompracem! Le navi nemiche accorrevano a tutto vapore, formando un ampio semicerchio, che doveva più tardi restringersi fino a rinchiudersi, per prendere in mezzo il Re del Mare e mandarlo rotto, fracassato, a picco col numero strabocchevole delle loro artiglierie. Sandokan e Yanez, che nel supremo momento del pericolo avevano ritrovata la loro calma, impartivano gli ordini con voce tranquilla. Quando videro che tutti gli uomini erano a posto di combattimento, andarono sulla passerella di comando. Sull'albero militare di poppa avevano fatto innalzare la bandiera rossa colla testa di tigre nel mezzo. Quattro fasci di luce, proiettati dai riflettori, si erano concentrati sul Re del Mare, sempre immobile, illuminandolo come in pieno giorno. - Sì, guardateci: siamo noi, - disse Sandokan. Quattro grosse navi a vapore, senza dubbio le più poderose della flotta degli alleati, si erano silenziosamente disposte in semi-cerchio intorno al Re del Mare, minacciandolo colle numerose artiglierie. Nessun colpo era però stato sparato. Aspettavano l'alba per impegnare la lotta o per intimare la resa, parola questa che non esisteva nella lingua del fiero pirata. Darma si era accostata silenziosamente alla murata di poppa. Era pallidissima, ma tranquilla, come tutto l'equipaggio dell'incrociatore. Il suo sguardo vagava da una nave all'altra con viva insistenza. Che cosa cercava? Certo sir Moreland. Una voce segreta le diceva che l'uomo amato doveva essere vicino, su una di quelle poderose corazzate che dovevano demolire il povero ed ormai impotente Re del Mare. Intanto le navi alleate, che avevano spenti i riflettori elettrici, giravano lentamente intorno all'incrociatore, stringendo sempre più il cerchio. Sfilavano come fantasmi nella notte tenebrosissima e pareva che i loro fanali, come occhi ardenti, si fissassero sanguinosamente sulla loro vittima. Non erano però ancora a portata utile delle grosse artiglierie. Sicuri ormai di tenere le tigri di Mompracem, non si davano premura di stringersi troppo addosso ad esse. Verso le due del mattino, Sandokan e Yanez che non avevano mai lasciato il loro posto, furono veduti scendere lentamente dalla passerella, e dirigersi verso il centro della nave. Erano sempre freddi, impassibili. S'avvicinarono a Tremal-Naik che stava appoggiato ad un argano, seguendo con gli sguardi inquieti sua figlia che vagava, come un fantasma sul castello di prora. - Amico, - gli disse Sandokan con accento triste. - Qui domani si inabisseranno le ultime tigri di Mompracem. Tremal-Naik aveva provato un brivido ed aveva alzata vivamente la testa. - Chi credi che siano quegli incrociatori per poter vincere la tua poderosa nave? - chiese. - I quattro grossi incrociatori che hanno cercato di catturarci nella baia di Sarawak. Noi siamo certi di non ingannarci. - E quelli affonderanno il tuo Re del Mare? - Ne ho la convinzione. - Ed anch'io, - disse Yanez. - Quelle navi devono possedere un'artiglieria formidabile e sono in quattro. - E poi siamo immobilizzati, - aggiunse Sandokan. - Infine che cosa volete concludere? - chiese l'indiano. - Proporti di recarti a bordo di una di quelle navi e di arrenderti, conducendo con te tua figlia e Surama. Tremal-Naik si era rizzato, facendo un gesto di sorpresa e insieme di dolore. - Io allontanarmi da voi! - esclamò. - Oh no, mai! Se qui morranno le ultime tigri di Mompracem a cui io debbo la vita e tanta riconoscenza, morranno anche il vecchio cacciatore della jungla nera e sua figlia. - Io debbo avvertirti però che tua figlia ama ed è riamata da un uomo che potrebbe farla felice, - disse Sandokan. - sir Moreland, è vero? - disse Tremal-Naik. - Me n'ero accorto. Avete informato Darma del grave pericolo che corriamo? - Sì, - rispose Yanez. - Che cosa ti ha detto? - Che non lascerà la nostra nave. - Non poteva rispondere diversamente, - disse l'indiano, con orgoglio. - Il buon sangue non mente. Se il destino ha segnato la nostra fine, si compia il fato. Si strinsero la mano e si diressero tutti tre verso il ponte di comando. Ad un tratto Yanez si fermò, mandando un grido: - Stupido! Ed io che lo avevo ancora dimenticato. - Chi? - chiesero ad una voce Sandokan e Tremal-Naik. - Il demonio della guerra. Una pazza speranza aveva attraversato il cervello del portoghese. Si era rammentato in quel momento dello scienziato americano, di Paddy O'Brien, che teneva come prigioniero in una delle cabine del quadro, guardato giorno e notte. Scese rapidamente sotto coperta, attraversò la corsia e s'arrestò dinanzi alla stanzetta occupata dall'omiciattolo: - Sveglia il prigioniero, - disse al malese di guardia. - È già in piedi, signor Yanez. Yanez aprì la porta ed entrò. Paddy O'Brien stava seduto dinanzi ad un tavolo e pareva immerso in un calcolo intricatissimo, col naso su un foglio di carta coperto di cifre. - Voi, signor de Gomera? - disse il dottore, assicurandosi gli occhiali. - Qual vento vi conduce qui? È molto che non vi vedo e vi aspettavo. - Dottore, - disse il portoghese senza preamboli, - le navi nemiche ci hanno circondati e stiamo per venire colati a fondo. - Ah! - fece l'americano senza scomporsi. - Voi mi avete detto che siete possessore d'un tremendo segreto. - E ve lo confermo. - Ecco giunto il momento di esperimentarlo, signor demonio della guerra. - Fate portare in coperta le mie casse. - Non farete saltare la nostra nave, invece? - chiese Yanez un po' inquieto. - Salterei anch'io insieme a voi e per ora non ho alcuna voglia di morire, - rispose il dottore. - Signor de Gomera, approfittiamo di questi momenti di calma. Salirono in coperta, mentre i marinai portavano le casse del dottore. - Sono là le navi alleate, - disse Sandokan accostandosi allo scienziato. - Sì e vedo che vi hanno circondato, - rispose Paddy O'Brien, corrugando la fronte. - Ecco quella che salterà per prima. Una nave, un piccolo incrociatore, che prima non era stato scorto, si era staccato dal grosso della squadra e girava attorno al Re del Mare mantenendosi ad una distanza di due a tremila metri. Veniva per spiare o per provocare il fuoco dei pirati di Mompracem? Paddy O'Brien fece aprire le sue casse che contenevano degli apparati elettrici, incomprensibili per Yanez e per Sandokan. Esaminò attentamente ogni cosa, senza fretta e con gran calma, come un uomo sicuro del fatto suo, poi volgendosi verso Yanez che lo sorvegliava colla destra appoggiata al calcio della pistola, gli disse: - Quando vorrete? - Fate funzionare il vostro apparecchio. - Ecco che la nave ci passa a tribordo: salterà, - disse Paddy freddamente. Un brivido era corso per le ossa di tutti i marinai che circondavano l'americano. Sarebbe stato capace di operare quel miracolo quel piccolo uomo? - Attenzione, - gridò ad un tratto l'americano. Aveva appena pronunciate quelle parole che un lampo accecante ruppe bruscamente le tenebre, seguìto da uno spaventevole rimbombo. Una immensa colonna d'acqua s'era alzata attorno al piccolo incrociatore, mentre una tempesta di rottami cadeva tutto all'intorno. Un immenso urlo, sfuggito da centinaia di petti, era echeggiato lugubremente per l'aria, spegnendosi bruscamente. La nave era saltata e affondava rapidamente coi fianchi squarciati. Nel medesimo istante una granata scoppiava sul ponte del Re del Mare fra l'apparecchio e Paddy O'Brien. L'americano aveva mandato un grido ed era caduto quasi ai piedi di Yanez, il quale era sfuggito miracolosamente alle scheggie del proiettile. - Dottore! - gridò il portoghese, precipitandosi verso di lui. - Le ... mie ... le ... mie ... - mormorò il disgraziato inventore, agitando le braccia con un gesto disperato. Si portò le mani al petto, per comprimersi il sangue che sfuggiva da un'orribile ferita. Sandokan si era slanciato verso le casse. Un grido di disperazione gli sfuggì. La granata aveva distrutto l'apparato, e sminuzzato le pile. Yanez aveva alzato dolcemente la testa dell'americano. - Signor O'Brien, - disse, mentre un singhiozzo gli moriva in gola. Il ferito aprì gli occhi fissandoli sul portoghese. Un rauco sibilo gli usciva dalle labbra a lunghi intervalli. - Fi ... nito ... fi ... nito ... - rantolò. Colla destra lorda di sangue strinse quella di Yanez, poi si raggomitolò su se stesso e ricadde. - Morto, - disse Yanez con voce triste. - Ecco la prima vittima, - rispose Sandokan. Yanez depose sulla tolda il disgraziato inventore, gli chiuse gli occhi, lo coprì con una tenda strappata lì presso, poi levandosi in tutta la sua altezza, disse: - Tutto è finito: qui morranno le ultime tigri di Mompracem. Tremal-Naik, Darma, Surama, nella mia torretta e voi, ai vostri pezzi! Le nostre vite sono nelle mani di Dio! ... - Ai vostri posti di combattimento! - gridò Sandokan. - Mostriamo a costoro come sanno morire i pirati della Malesia. L'alba, un'alba rosea che annunciava una superba giornata, fugava rapidamente le tenebre, tingendo le acque di miriadi di pagliuzze d'oro. Un colpo di cannone in bianco partì dall'incrociatore più prossimo, il più grosso dei quattro: intimava la resa. Sandokan fece alzare subito la bandiera rossa, segnale di combattimento. L'incrociatore nemico invece di aprire il fuoco fece dei segnali colle bandiere che significavano: - Prima di cominciare il fuoco, mandate al mio bordo le due fanciulle. Sir Moreland risponde delle loro vite. - Ah! - esclamò Yanez. - Abbiamo l'anglo-indiano dinanzi. Cercheremo di affondargli una seconda volta la nave. Darma, Surama! Le due fanciulle erano uscite dalla torretta. - Si propone a voi di salvarvi su quelle navi, - disse Sandokan. - Accettate voi? Una scialuppa è pronta. - Mai! - risposero energicamente le due fanciulle. - Pensateci. - No, - disse Darma. - Non lascerò nè voi, nè mio padre. - Comunicate la loro risposta, - comandò Yanez. Un quartiermastro americano segnalò subito. Allora si videro salire lentamente sugli alberetti di maestra dei quattro incrociatori, quattro bandiere nere. Un colpo di vento le allargò mostrando nel mezzo, in giallo, una mostruosa figura con quattro braccia che tenevano nelle mani degli strani emblemi. Un grido di stupore ed insieme di furore era sfuggito dalle labbra di Yanez, di Sandokan e di Tremal-Naik. Avevano riconosciuto l'emblema dei thugs, degli strangolatori indiani. Erano dunque quelle le navi del figlio di Suyodhana, del loro implacabile e invisibile nemico? Quelle bandiere lo confermavano. A bordo del Re del Mare successe un lungo silenzio, tanto era lo stupore che aveva invaso tutti, poi la voce metallica di Sandokan lo ruppe bruscamente: - Fuoco! Fuoco! Fuoco! Spaventevoli detonazioni coprono le sue ultime parole. Le granate piovono da tutte le parti sul Re del Mare, che il flusso ha insensibilmente portato verso il banco di Vernon e che si trova sempre immobilizzato coi fuochi spenti. Sono uragani di ferro e d'acciaio che escono dai grossi pezzi della coperta e da quelli di medio calibro delle batterie: ma non sono diretti sul ponte del Re del Mare dove si trovano, entro la torretta blindata, Darma e Surama. Quelle masse metalliche battono invece solamente i fianchi dell'incrociatore, come se gli artiglieri avessero ricevuto l'ordine di risparmiare le fanciulle, i due comandanti e Tremal-Naik che sono con loro. Delle granate vengono però lanciate contro le torri che riparano i grossi pezzi da caccia, cercando d'imbroccarli o di frantumare le grosse piastre di ferro. Il Re del Mare si difende furiosamente. È un vulcano che fiammeggia da tutte le parti. Le ultime tigri di Mompracem sono ben risolute a far pagar cara la vittoria allo strapotente nemico. I suoi grossi obici battono in breccia le navi avversarie, danneggiando i ponti, squarciando le ciminiere e aprendo larghi fori nelle piastre metalliche. In mezzo a quel rimbombo assordante, si ode tratto tratto la voce formidabile di Sandokan che urla: - Fuoco, tigri di Mompracem! Distruggete, massacrate! Ma quanto potrà resistere il Re del Mare al tiro terribile di tante bocche da fuoco? I suoi fianchi, quantunque solidissimi, dopo mezz'ora cominciano a cedere; anche i suoi pezzi uno ad uno vengono smontati e ridotti al silenzio. Le sue torri, ad eccezione della torretta di comando, sempre risparmiata, cominciano a sfasciarsi sotto quella pioggia incessante di granate, e nelle batterie i morti si accumulano. Sandokan e Yanez, chiusi nella torretta, contemplano quel terribile spettacolo, calmi e sereni. Il primo si morde di quando in quando le labbra a sangue; il secondo fuma flemmaticamente la sua eterna sigaretta e sembra solamente un po' commuoversi, quando il suo sguardo s'incontra con quello di Surama. Darma, seduta in un angolo, su un mucchio di cordami, a fianco di Tremal-Naik, colle mani appoggiate agli orecchi per attenuare il rombo assordante delle grosse artiglierie, sembra che guardi nel vuoto. D'improvviso, il Re del Mare, sollevato da una forza misteriosa, sobbalza da prora a poppa, mentre una enorme colonna d'acqua si rovescia sulla sua coperta spazzandola. Tutto il suo scafo vibra e sembra sfasciarsi come se scoppiassero le munizioni del Re del Mare. Horward, l'ingegnere americano, si precipita in quel momento entro la torretta, pallido, esterrefatto: - Hanno torpedinato il Re del Mare! - grida. - Coliamo a fondo! Grida selvagge salgono dalle batterie, confondendosi cogli ultimi spari dei due pezzi da caccia della coperta, ancora servibili. Il fuoco cessa bruscamente sulle quattro navi nemiche. Sandokan volge un triste sguardo ai suoi due compagni, poi dice: - Ecco il momento supremo: la tomba è aperta per le ultime tigri di Mompracem. Alza Darma ed esce dalla torretta, seguìto da Yanez, da Tremal-Naik e da Surama, e si arresta al di fuori a guardare la sua nave. Povero Re del Mare! La superba nave che ha resistito a tante prove e che pareva invincibile, non è più che una carcassa affondante. Ondate di fumo sfuggono dai boccaporti dai quali irrompono, neri di polvere e lordi di sangue, gli uomini delle batterie. - Una scialuppa in mare! - comanda Sandokan. - Non occuparti di noi. Gli equipaggi degli incrociatori vengono a raccoglierci. Infatti numerose imbarcazioni si staccano dai fianchi delle navi vittoriose ed accorrono a forza di remi. Nella prima si vede sir Moreland, il quale sventola un fazzoletto bianco. La scialuppa, montata dalle due fanciulle, da Tremal-Naik, da Kammamuri e da quattro rematori, s'allontana dal Re del Mare perchè la nave affonda sempre. - Ed ora, - disse Sandokan con un gesto superbo, - lassù, avvolto nella mia bandiera. Vieni Yanez: tutto è finito. - Bah! - fece il portoghese, gettando in aria una boccata di fumo. - Non si può mica vivere all'infinito. Attraversarono il ponte ingombro di frammenti di palle e di granate e salirono sulle griselle dell'albero militare, arrestandosi sulle piattaforme. In lontananza, Tremal-Naik, Darma e Surama facevano cenno a loro di gettarsi in acqua. Risposero con un saluto della mano e un sorriso. Poi Sandokan, strappando la sua rossa bandiera che gli sventolava sopra la testa, si avvolse fra le sue pieghe, dicendo: - È così che muore la Tigre della Malesia. Sotto di loro, gli ultimi Tigrotti di Mompracem, un centinaio circa, per maggior parte feriti, aspettavano, impassibili e silenziosi, che il gran gorgo li aspirasse, tenendo gli sguardi fissi sui loro due capi. Il Re del Mare affondava lentamente, vibrando, e si udivano le acque a muggire cupamente entro la stiva. Le scialuppe degli incrociatori facevano sforzi disperati per giungere in tempo a raccogliere quei naufraghi, votatisi volontariamente alla morte. Quella di sir Moreland era sempre la prima ed era subito seguìta da quella montata da Tremal- Naik e dalle due fanciulle che tornava verso la nave, avendo l'indiano compreso il disegno disperato dei suoi vecchi amici. Sandokan, sempre avvolto nella sua bandiera, li guardava impassibile, con un superbo sorriso sulle labbra. Yanez, colla fronte un po' corrugata, fumava la sua ultima sigaretta colla sua calma abituale. Quando le acque cominciarono ad invadere la coperta, il portoghese lasciò cadere la sigaretta quasi finita, dicendo: - Va' ad aspettarmi in fondo al mare! Ad un tratto, quando pareva che lo scafo dovesse tutto sommergersi, la discesa di quella enorme massa cessò bruscamente. Il flusso che aveva spinto la nave verso l'est, doveva averla portata addosso al banco di Vernon, più di quanto l'equipaggio supponeva e la chiglia doveva essersi indubbiamente posata sul fondo. Ed infatti, nel momento in cui le due scialuppe montate una da sir Moreland e da sei marinai indiani e l'altra da Tremal-Naik, Darma e Surama coi rematori malesi giungevano sotto la scala di babordo, lo scafo s'inclinava dolcemente a tribordo coricandosi di sul fianco. Sir Moreland, vedendo la nave ormai immobile, erasi affrettato a salire sul ponte, seguìto subito da Tremal-Naik e dalle due fanciulle. Yanez si era voltato verso Sandokan, la cui faccia appariva assai abbuiata. - Nemmeno la morte ci vuole, - gli disse. - Che cosa vuoi fare? Si sbarazzò della bandiera e scese lentamente la grisella, colla maestà d'un re che scende i gradini d'un trono e si fermò dinanzi a sir Moreland, dicendogli: - Ebbene? Che volete fare di noi? L'anglo-indiano, che pareva in preda ad una viva commozione, si levò il berretto salutando i due eroi della pirateria, poi disse con nobiltà: - Permettetemi una parola, prima, signori. Prese per una mano Darma, che era salita a bordo con Surama e, conducendola dinanzi a Tremal-Naik, gli disse: - Io l'amo ed ella m'ama: io non potrei vivere senza vostra figlia, eppure i numi dell'India sanno quanto io ho fatto per dimenticarla. Colmate con una vostra parola il rivo di sangue che mi separava da voi onde il grido terribile del mio assassinato genitore si spenga per sempre. La sua anima mi è comparsa ieri notte e mi ha detto di perdonare a tutti! - Che cosa dite, sir Moreland? Di qual genitore parlate? - chiese Tremal-Naik, con angoscia. - Darma, mi amate? - chiese sir Moreland, senza rispondere all'indiano. - Sì, immensamente, - rispose la fanciulla arrossendo e abbassando gli occhi. - La guerra è finita fra noi, - disse sir Moreland, - e la macchia di sangue è cancellata. Tremal-Naik benedite i vostri figli. - Ma chi siete voi? - gridarono ad una voce Yanez, Sandokan e Tremal-Naik. - Io sono ... il figlio di Suyodhana! Venite! Siete miei ospiti.

IL VENTRE DI NAPOLI (VENTI ANNI FA - ADESSO - L'ANIMA DI NAPOLI)

682533
Serao, Matilde 3 occorrenze
  • 1906
  • FRANCESCO PERRELLA EDITORE
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Mille volte, questo popolo di Vicaria obbliato, abbandonato, tradito, ha trovato in Ettore Ciccotti non l'ipocrita che mette mano al portafogli e dà due lire, e compera due lire di tranquillità di coscienza, ma un cuore paterno, pieno di quella celestiale indulgenza che è la forza dei soggiogatori del popolo, ma un'anima virile che, nell'istesso tempo, ha detto la parola che solleva e ha prestato l'opera che redime, che ha consolato il dolore e ha aperto gli spiriti alla speranza di una vita più cosciente e più civile. Non vi stupite se le donne violenti di Porta Capuana e le male donne di via Martiri d'Otranto lo adorino! Così la Maddalena adorò Cristo: così la Maslova, perduta e criminale, adorò Tolstoi. Il vincolo sociale è fondato sull'alta e nobile e riabilitante carità fraterna: il miracolo sociale, è creato solo da un sublime e ardente sentimento di pietà e di amore. E che gli importa di esser deputato di Vicaria. a Ettore Ciccotti? L'uomo, in lui, è superiore a questa carica tenuta, spesso da gente vile o sciocca. La beltà della sua anima non soffre miscela di ambizione puerile: egli non è un arrivista: il socialismo non gli è servito per emergere: per cento altre forze intellettuali e morali, che sono in lui, egli sarebbe emerso. E non fu sempre socialista: e la sua storia della sua via di Damasco, tutta a onor, suo, è il romanzo di uno spirito retto e puro che si ribella, d'un colpo solo, alla infamia sociale, in tutti i ceti, infamia che non colpisce lui, ma chi sta intorno a lui: è la ribellione oscura e impetuosa di un altruista. Sia, sia, sempre il padre del popolo di Vicaria, Ettore Ciccotti! Non dimentichi questo popolo che egli ha amato, che lo ama: non lo abbandoni, di nuovo alla sua sorte tetra e truce: apporti, egli la luce della parola, la bellezza dell'esempio, la efficacia dell'azione a quella gente sventurata che, pure, è umana, è cristiana, ha i segni della intelligenza e del sentimento, nella persona. A ciò, non serve esser deputato. E, forse, domani, Ettore Ciccotti lo sarà di nuovo, se il giovine patrizio che ne prese il posto, non si decida, e forse è capace di farlo, a diventare, di Ettore Ciccotti, scolaro, cooperatore, fratello, in quartiere Vicaria. Il titolo di padre, è così bello, è così degno! Niuno che lo pronunzi, senza esserne commosso: ed in bocca a un popolo, esso significa preghiera e benedizione. Napoli, Novembre del 1904

Per via Roma, la più importante strada della città, il tratto da San Nicola alla Carità, fino alle Chianche della Carità, vale a dire, due piazze, due lunghi marciapiedi, sino alle otto della mattina, è abbandonato ai rivenditori di frutta, di erbaggi, di legumi: un contrasto di fichi e di fave, di uva e di cicoria, di pomidori e di peperoni; e un buttar acqua, sempre, uno spruzzare, uno scartare la roba fradicia; dopo le otto, quel tratto è un campo di battaglia di acque fetenti, di buccie, di foglie di cavolo, di frutta marcite, di pomidori crepati, tanto che, come la mano fatale di lady Macbeth, che tutte le acque dell'Oceano non potevano lavare, quel tratto di strada, via Roma, malgrado le premure degli spazzini, non arriva mai a detergersi. Intanto il grande mercato di Monteoliveto lì presso, resta semi-vuoto, con la malinconia dei grandi fabbricati inutili; quello di San Pasquale a Chiaia, è addirittura chiuso; il venditore napoletano non vuole andarci, vuol vendere nelle strade. Tutto il quartiere della Pignasecca, dal largo della Carità, sino ai Ventaglieri, passando per Montesanto, è ostruito da un mercato continuo. Vi sono le botteghe, ma tutto si vende nella via; i marciapiedi sono scomparsi, chi li ha mai visti? I maccheroni, gli erbaggi, i generi coloniali, le frutta, i salami ed i formaggi, tutto, tutto nella strada, al sole, alle nuvole, alla pioggia; le casse, il banco, le bilancie, le vetrine, tutto, tutto nella via; vi si frigge, essendovi una famosa friggitrice; vi si vendono i melloni, essendovi un mellonaro famoso per dar la voce ; vanno e vengono gli asini carichi di frutta; l'asino è il padrone tranquillo e potente della Pignasecca. Qui il romanzo sperimentale potrebbe anche applicare la sua tradizionale sinfonia degli odori, poichè si subiscono musiche inconcepibili: l'olio fritto, il salame rancido, il formaggio forte, il pepe pestato nel mortaio, l'aceto acuto, il baccalà in molle. Nel mezzo della sinfonia della Pignasecca, vi è il gran motivo profondo e che turba; la vendita del pesce, specialmente del tonno, in pieno sole, su certi banchi inclinati, di marmo. Alla mattina il tonno va a ventisei soldi e il pescivendolo grida il prezzo con orgoglio: ma, come la sera arriva, per il declinare dell'ora e della merce, il tonno scende a ventiquattro, a una lira, a diciotto soldi; quando arriva a dodici soldi, la gran nota sinfonica del puzzo ha raggiunto il suo apogeo. La Pignasecca non può mai essere pulita; nessun Municipio ha mai osato dichiararla via di sbarazzo . Il quartiere del Sangue di Cristo, detto piuttosto 'o sanghe d'e galline , per rispetto al nome del Redentore, se ne ride del Municipio. Del resto, tutto questo è bellissimo, pel pittore e pel novelliere. Nulla di più pittoresco che la strada di santa Lucia, di esclusiva proprietà dei signori pescatori e marinai, intrecciatori di nasse e venditori di ostriche; nonchè delle loro signore mogli, venditrici di acqua sulfurea e di ciambellette, cucinatrici di polipi e friggitrici di peperoni; nonchè dei loro signori figliuoli, in numero indefinito, nudi e bruni come il bronzo. In quella strada, all'aria aperta, tutto si fa: il bucato e la conserva di pomidoro, la pettinatura delle donne e la spulciatura dei gatti, la cucina e l'amoreggiamento, la partita a carte e la partita alla morra. La strada di santa Lucia appartiene ai luciani , che fanno il loro comodo. Le quattro viottole cieche che salgono da santa Lucia verso la collina, valgono i fondaci del quartiere Mercato, per il luridume: i cavalcavia uniscono le case pencolanti e sbuzzanti, le cordicelle vanno da un balcone all'altro, un lumicino innanzi a una Madonnina nera illumina soltanto la viottola, dove va a cadere tutto il sudiciume di quella gente. Non vi è più marciapiede, verso il mare: i luciani se lo pigliano tutto, per le nasse, e per le fiasche dell'acqua sulfurea. Nell'estate, anzi, dormono sul marciapiede o sul parapetto e brontolano contro colui che osa passare e svegliarli. Verso le case, non vi si accosta nessuno: lì per scherzo, volano i torsi di spighe e le buccie di fichi e le cantine mettono le tavolelle dei bevitori, nella via. I luciani sopportano che il tram passi per la loro via, ma vi bestemmiano contro, spesso e volentieri, poichè è una usurpazione della loro strada: le venditrici di acqua sulfurea paiono tanti uomini vestiti da donne, con gli zoccoli dal tacco alto, la gonna corta legata sullo stomaco, le rosette di perle sostenute con un filo all'orecchio, perchè non si spezzi il lobo, pel peso. Sono naturalmente rissose e brutali: vi dànno a bere l'acqua per forza, litigano fra loro, rubandosi gli avventori. Sono indomabili: per poterle governare, il delegato del quartiere deve essere anche un luciano , che le pigli a male parole. Una volta, due di esse, bastonarono fino all'estenuazione, una guardia municipale che voleva loro assegnare una contravvenzione: è vero, però, che il giorno seguente si quotarono per aiutarne la vecchia madre, mentre il figlio era all'ospedale. Ma santa Lucia, tutta pittoresca, resta sempre fuori delle leggi dell'edilizia e d'igiene: è un borgo fortificato. Forse il colera non vi avrà fatto strage; vi è il mare e vi è il sole. Ma che mare nero, untuoso! Ma qual putrefazione, non illumina quel sole! È pittoresco, per un amante del colore, veder girare, di sera, per via Roma, un carretto disposto a mensa, su cui, in tanti piattelli, vedi dei castelletti di fichi d'India, sbucciati: un uomo spinge il carretto, una lampada a petrolio vi fumiga, il carretto si ferma ogni tanto. Riparte, lasciando dietro di sè le bucce spinose e sdrucciolevoli. È pittoresco, assai, per un novelliere, girare dopo mezzanotte: e trovare degli uomini che dormono sotto il porticato di san Francesco di Paola, col capo appoggiato alle basi delle colonne: degli uomini che dormono sui banchi dei giardinetti, in piazza Municipio; dei bimbi e delle bimbe, che dormono sugli scalini delle chiese di san Ferdinando, santa Brigida, la Madonna delle Grazie, specialmente quest'ultima, che ha una larga scala e certi poggiuoli ampli, nel centro di via Roma. Può piacere all'uno e all'altro, che giusto a due passi da via Roma, vi sia il Chiostro di San Tommaso d'Aquino, dove non vi sono più monaci, ma che è un piccolo fondaco , una piccola Corte dei Miracoli, con le sue vanelle , e le sue botteghe brulicanti di ombre e le case brulicanti di poveri e d'infelici. Ma in realtà è molto, molto crudele che tutto questo esista ancora, e che creature umane lo subiscano, e che uomini di cuore sopportino che questo sia.

E quel popolo che è stato tradito, poichè non ha avuto quanto la nazione gli aveva donato, per redimerlo igienicamente e moralmente, quel popolo che è abbandonato, che lo sa, che un po' ne ride, un po' ne sospira, un po' ne digrigna i denti, questo grande popolo che noi dobbiamo amare, che noi amiamo, perchè ci sentiamo affratellati con esso, perchè anche noi siamo popolo, perchè noi siamo come esso e figliuoli del medesimo Iddio di giustizia e di clemenza, questo popolo non resiste agli antichi istinti, al bisogno di vivere come che sia, al bisogno di vendicarsi di questa società ingrata e traditrice: non resiste alla suggestione del vizio, del male: e giuoca: e ruba: e si vende: e ferisce: e uccide: e colà, di giorno, di notte, appena dietro il paravento, o nel Rettifilo istesso, il crimine, il delitto, si espandono, fioriscono, eterna rampogna, eterno rimorso a coloro che, fedifraghi al Re, ad Agostino Depretis, a Niccola Amore, a Guglielmo Sanfelice, alla Nazione, commossa di orrore e di pietà, mancarono ai patti giurati e ruppero ogni promessa, lasciando il popolo napoletano a languire, a struggersi, a patire, ad agonizzare, nella più profonda ignavia del corpo e dell'anima.

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