Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIFI

Risultati per: abbandonato

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La tecnica della pittura

254335
Previati, Gaetano 1 occorrenze
  • 1905
  • Fratelli Bocca
  • Torino
  • trattato di pittura
  • UNIFI
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Il Cennini nota un pavonazzo ottenuto dal macinare l’ametista, e buono per l’affresco, forse per la sua durezza, che intacca le pietre da macinare, abbandonato, giacchè non figura in nessun altro autore.

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IL Santo

668502
Fogazzaro, Antonio 2 occorrenze

Un passo suonò dall'interno, una chiave girò nella toppa, una lama di luce fendette di sghembo la Galleria, si allargò; comparve una figura nera, il prete che aveva abbandonato Benedetto sulla scala. Egli uscì con un atto rapido, richiuse la porta, disse a Benedetto come se niente fosse stato: "Lei sta per trovarsi alla presenza di Sua Santità." Lo fece entrare e chiuse la porta daccapo, rimanendo fuori. Benedetto, entrando, non vide che un tavolino, una lucernetta col paralume verde, una figura bianca seduta in faccia a lui, dietro il tavolino. Cadde ginocchioni. La Figura Bianca stese un braccio e disse: "Alzati. Come sei venuto?" Il viso incorniciato di capelli grigi, singolarmente dolce, aveva una espressione di stupore. La voce, dall'accento meridionale, era commossa. Benedetto si alzò e rispose: "Dal Portone di bronzo fino a un luogo che non so indicare sono venuto col sacerdote che stava presso Vostra Santità; poi sono venuto solo." "Conoscevi il Vaticano? Ti hanno detto che mi avresti trovato qui?" Quando Benedetto gli ebbe risposto che aveva visitato anni prima i musei vaticani, le logge e la Galleria lapidaria una sola volta, che alla logge non era salito dal Cortile di San Damaso, che non sapeva affatto dove avrebbe trovato il Sommo Pontefice, questi tacque un momento, pensoso; poi disse benignamente, affettuosamente, indicandogli una sedia in faccia a lui: "Siedi, figlio mio." Se Benedetto non fosse stato assorto nel volto ascetico e benigno del Papa, avrebbe, mentre il suo angusto interlocutore stava raccogliendo alcune carte sparse sul tavolino, girato lo sguardo non senza meraviglia per quella strana sala di ricevimento, un polveroso caos di vecchi quadri, di vecchi libri, di vecchi mobili, un'anticamera, si sarebbe detto, di qualche biblioteca, di qualche museo dove si fossero intraprese opere di riordino. Ma egli era assorto nel volto del Papa, nel magro, cereo volto che aveva una espressione ineffabile di purezza e di bontà. Si avvicinò, piegò il ginocchio, baciò la mano che il Santo Padre gli stese dicendo con gravità soave: "Non mihi, sed Petro." Quindi sedette. Il Papa gli porse un foglio, gli avvicinò la lucernetta. "Guarda" diss'egli. "Conosci la scrittura?" Benedetto guardò, trasalì, non poté frenare un'esclamazione di mesta riverenza. "Sì" rispose "è la scrittura di un Santo prete che ho molto amato, che è morto e si chiamava don Giuseppe Flores." Sua Santità riprese: "Adesso leggi. Ad alta voce." Benedetto lesse. "Monsignore Affido al mio Vescovo il plico suggellato, chiuso insieme a questo foglietto in una busta recante l'indirizzo a Lei. Lo lasciò a me per essere aperto dopo la sua morte, come sopra vi è scritto, il signor Piero Maironi, ben conosciuto da Lei, prima di scomparire dal mondo. S'egli ancora viva o sia passato di Vita né so né ho modo di sapere. Il plico deve contenere il racconto di una visione di carattere soprannaturale che il Maironi ebbe nel ritornare a Dio dal fuoco di una passione colpevole. Sperai allora che Iddio lo avesse veramente eletto per ministro di qualche singolare opera Sua. Sperai che la santità dell'opera verrebbe confermata dopo la morte del Maironi dalla lettura di questo documento, che se ne rivelerebbe un carattere profetico. Lo sperai benché mi fossi studiato, per prudenza di nascondere al Maironi stesso la mie speranze segrete. Due anni sono trascorsi dal giorno in cui egli scomparve e nulla si è mai saputo di lui. Quando Monsignore, ella starà leggendo quello che adesso io scrivo, sarò scomparso anch'io. La prego di volersi sostituire a me in questa custodia religiosa. Ella ne disporrà secondo la coscienza Sua come crederà meglio. E preghi per l'anima del Suo povero don Giuseppe Flores." Benedetto depose lo scritto e guardò il Pontefice in viso, aspettando. "Sei tu Pietro Maironi?" disse questi. "Sì, Santità." Il Pontefice sorrise con bontà. "Intanto" diss'egli "mi rallegro che vivi. Quel Vescovo ti suppose morto, aperse il plico e credette di doverlo rimettere al Vicario di Cristo. Questo avvenne circa sei mesi sono, vivendo il mio Santo Predecessore che ne parlò ad alcuni cardinali e anche a me. Poi si è saputo che vivevi, e dove e come. Ora ti devo movere alcune domande. Ti esorto a rispondermi la esatta Verità." Il Pontefice fermò gli occhi gravi negli occhi di Benedetto che piegò lievemente il capo. "Qui hai scritto"diss'egli "che stando in quella piccola Chiesa veneta ti sei visto in Vaticano a colloquio col Papa. Cosa ricordi di questa parte della tua visione?" "La mia visione" rispose Benedetto "nel tempo che passai a Santa Scolastica, circa tre anni, mi si venne spezzando nelle memoria, anche perché il mio Maestro spirituale di Santa Scolastica, come il povero don Giuseppe Flores, mi ha sempre consigliato di non tenerne conto. Alcune parti ne restano nette, altre si oscurarono. Che mi ero veduto in Vaticano a fronte del Sommo Pontefice, mi restò sempre fisso nella mente; ma non più di così. Invece, pochi momenti sono, nella galleria buia dalla quale sono entrato qua, mi risovvenni improvvisamente che nella Visione io ero guidato al Pontefice da uno spirito. Me ne risovvenni quando trovandomi solo, di notte, al buio, in un luogo ignoto o quasi ignoto perché c'ero stato una volta sola molti anni addietro, senz'avere un'idea della direzione che avrei dovuto tenere, fui per ritornare sui miei passi e una voce interna, molto chiara, molto forte, mi disse di andare avanti." "E quando hai bussato alla porta" chiese il Papa "sapevi di trovarmi qui? Sapevi di bussare alla porta della Biblioteca?" "No, Santità. Non intendevo neppure di bussare. Ero al buio, non vedevo niente, intendevo di saggiare colla mano la parete." Il Papa stette alquanto sopra pensiero e poi osservò che nel manoscritto ci stava pure: "prima mi guidava un uomo vestito di nero." Di questo, Benedetto non aveva memoria. "Sai" riprese il Papa "che il profetare non è, per sé solo, sufficiente prova di santità. Sai che si possono avere, che si sono avute visioni profetiche, non dico per opera di spiriti maligni, noi ne sappiamo troppo poco per poterlo dire, ma insomma per effetto di forze occulte, forze insite alla natura umana, le quali, a ogni modo, non hanno che fare colla santità. Puoi dirmi le disposizioni dell'anima tua quando hai avuto la Visione?" "Sentivo" rispose Benedetto "un amarissimo dolore di essermi allontanato da Dio, di averne respinto i richiami, una gratitudine infinita per la Sua paziente bontà, un infinito desiderio di Cristo. Mi ero appena viste nella mente, proprio viste, proprio distinte, bianche sopra un fondo nero, queste parole del Vangelo che prima, nel tempo buono, mi erano state tanto care: "Magister adest et vocat te." Don Giuseppe Flores celebrava e la Messa era presso alla fine quando, stando in preghiera, con gli occhi coperti dalle mani, ebbi la Visione; ma istantanea, fulminea!" Benedetto ansava nel ritorno violento delle memorie. "Ha potuto essere un'illusione" diss'egli "Opera di spiriti maligni, no." "Gli spiriti maligni" disse il Pontefice "possono trasfigurarsi in angeli di luce. Possono avere operato allora contro lo spirito buono ch'era in te. Ti sei inorgoglito poi, di questa visione?" Benedetto piegò il capo e pensò alquanto. "Forse una volta" diss'egli "per un momento, a Santa Scolastica, quando il mio Maestro, a nome dell' Abate, mi offerse una veste di converso, la veste che poi mi fu tolta a Jenne. Allora pensai per un momento che questa offerta inattesa confermasse l'ultima parte della Visione e n'ebbi un moto di compiacenza, mi stimai oggetto di una predilezione Divina. Ne domandai subito perdono a Dio e adesso ne domando perdono a Vostra Santità." Il Pontefice non parlò, ma la sua mano si alzò spiegata e ridiscese in un atto di indulgenza. Egli si diede poi a maneggiare le carte diverse che aveva sul tavolino, parve consultarne attentamente più d'una. Quindi le posò, le raccolse, le fece da banda, riprese a parlare. "Figlio mio" diss'egli "ti devo domandare altre cose. Hai nominato Jenne. Io neppure non sapevo che esistesse, questo Jenne. Me lo hanno descritto. Diciamo il vero, non si capisce perché tu ti sia andato a cacciare a Jenne." Benedetto sorrise lievemente ma non volle discolparsi, interrompere il Papa, il quale continuò: "È stata un'idea disgraziata, perché chi può dir bene cosa succede a Jenne? Sai di aver avuto lassù della gente che ti vedeva di mal occhio?" Benedetto pregò semplicemente Sua Santità che lo dispensasse dal rispondere. "Ti capisco" rispose il Papa "e debbo dire che la tua preghiera è cristiana. Tu non dirai niente ma io non posso tacere che sei stato accusato di molte cose. Lo sai?" Benedetto sapeva di un'accusa sola o almeno ne dubitava. Il Papa aveva l'aria più imbarazzata di lui. Egli era sereno. "Ti accusano" ripigliò il Papa "di esserti spacciato, a Jenne, per un taumaturgo e di essere stato causa, per questi tuoi vanti, che un disgraziato morisse in casa tua. Si arriva persino a dire ch'egli è morto per certi beveraggi che gli hai dati. Ti accusano di aver predicato al popolo piuttosto da protestante che da cattolico e anche ..." Il Santo Padre esitò. Al suo pudore verginale ripugnava persino accennare a certe cose. "Di relazioni non lecite" disse "con la maestra del paese. Cosa rispondi, figlio mio?" "Santo Padre" rispose Benedetto, tranquillo, "lo Spirito risponde per me nel Suo cuore." Il Pontefice lo guardò, attonito, ma non solamente attonito; anche un poco turbato, come se Benedetto gli avesse letto nell'anima. Il viso gli si dipinse di un lieve rossore. "Spiegati" diss'egli. "Iddio mi dona di leggere nel Suo cuore che Lei non crede ad alcuna di quelle accuse." A queste parole di Benedetto il Papa contrasse lievemente le sopracciglia. "Adesso" riprese Benedetto "Vostra Santità pensa che io mi attribuisca una chiaroveggenza miracolosa. No, è una cosa che vedo nel Suo viso, che sento nella Sua voce, da povero uomo comune quale sono." "Forse tu sai" esclamò il Papa"chi è stato in questi giorni da me!" Egli aveva fatto chiamare a Roma l'arciprete di Jenne, lo aveva interrogato su Benedetto. L'arciprete, trovato un Papa di suo genio, un Papa ben diverso dai due zelanti che lo avevano intimorito a Jenne, non aveva perduta l'occasione di mettersi facilmente in pace colla propria coscienza, aveva dato sfogo ai rimorsi lodando e rilodando. Benedetto non ne sapeva niente. "No" rispose "non lo so." Il Pontefice tacque, ma il suo viso, le mani, la intera persona, tradivano una viva inquietudine. Egli si abbandonò finalmente sulla spalliera della seggiola, chinò il capo sul petto, stese le braccia al tavolino e appoggiatevi le mani, una presso all'altra, pensò. Mentre pensava, immobile, fissi gli occhi nel vuoto, la fiamma della lucernina a petrolio salì fumigando, rossa, nel tubo. Egli non se n'avvide subito. Quando se n'avvide la regolò e poi ruppe il silenzio. "Credi tu" diss'egli "avere veramente una missione?" Benedetto rispose, con una espressione di fervore umile: "Sì, lo credo." "E perché lo credi?" "Santità, perché ciascuno viene al mondo con una missione scritta nella sua natura. Quand'anche non avessi avuto visioni né altri segni straordinari, la mia natura ch'è religiosa mi imporrebbe il dovere di un'azione religiosa. Come posso dirlo? Ecco, lo dirò ..." Qui la voce di Benedetto tremò di emozione " ...come non l'ho detto a nessuno. Io credo, io so che Dio è il nostro Padre di tutti, ma io sento nella mia natura la Sua paternità. Quasi non è un dovere il mio, è un sentimento di figlio." "E credi avere il cómpito di esercitarla qui, adesso, un'azione religiosa?" Benedetto giunse le mani come se implorasse già di venire ascoltato. "Sì" diss'egli "anche qui, anche adesso." Ciò detto, pose un ginocchio a terra tenendo sempre giunte le mani. "Alzati" disse il Santo Padre. "Di' liberamente quello che lo Spirito ti consiglia." Benedetto non si alzò. "Mi perdoni" diss'egli "io devo parlare al solo Pontefice e qui non mi ascolta il solo Pontefice!" Il Papa trasalì, lo interrogò con gli occhi, severo. Benedetto porse un poco il mento, inarcando le sopracciglia, verso una porta grande alle spalle del Papa. Questi prese un campanello di argento che stava sul tavolino, accennò imperiosamente a Benedetto di alzarsi e suonò. Ricomparve dalla porta della Galleria il prete di prima. Il Papa gli ordinò di far venire in Galleria don Teofilo, il cameriere fedele che aveva portato con sé dalla sua sede arcivescovile del Mezzogiorno. Venuto don Teofilo, egli andrebbe ad attendere Sua Santità nelle sale della Biblioteca. "Ripasserai di qua" diss'egli. Parecchi minuti trascorsero nell'attesa silenziosa che colui rientrasse. Il Pontefice, pensoso, non alzò mai gli occhi dal tavolino. Benedetto, in piedi, teneva chiusi i suoi. Li aperse quando rientrò il prete. Uscito che fu costui per la porta sospetta, il Papa accennò con la mano e Benedetto parlò, a voce bassa. Il Pontefice lo ascoltava stringendo i bracciuoli della sedia, pôrta in avanti la persona e chino il viso. "Santo Padre" disse Benedetto "la Chiesa è inferma. Quattro spiriti maligni sono entrati nel suo corpo per farvi guerra allo Spirito Santo. Uno è lo spirito di menzogna. Anche lo spirito di menzogna si trasfigura in angelo di luce e molti pastori, molti maestri della Chiesa, molti fedeli buoni e pii ascoltano devotamente lo spirito di menzogna credendo ascoltare un angelo. Cristo ha detto: "io sono la Verità" e molti nella Chiesa, anche buoni, anche pii, scindono la Verità nel loro cuore, non hanno riverenza per la Verità che non chiamano religiosa, temono che la Verità distrugga la Verità, pongono Dio contro Dio, preferiscono le tenebre alla luce e così ammaestrano gli uomini. Si dicono fedeli e non comprendono quanto scarsa e codarda è la loro fede, quanto è loro straniero lo spirito dell'apostolo che tutto scruta. Adoratori della lettera, vogliono costringere gli adulti a un cibo d'infanti che gli adulti respingono, non comprendono che se Dio è infinito e immutabile, l'uomo però se ne fa un'idea sempre più grande di secolo in secolo e che di tutta la Verità Divina si può dire così. Essi sono causa di una funesta perversione della Fede, che corrompe tutta la Vita religiosa; perché il cristiano che con uno sforzo si è piegato ad accettare quello ch'essi accettano e a respingere quello che respingono, crede aver già fatto il più per servire Iddio, mentre ha fatto meno che niente e gli resta di vivere la fede nella parola di Cristo, nella dottrina di Cristo, gli resta di vivere il fiat voluntas tua , che è tutto. Santo Padre, oggi pochi cristiani sanno che la religione non è principalmente adesione dell'intelletto a formole di Verità ma che è principalmente azione e Vita secondo questa Verità, e che alla fede vera non rispondono solamente doveri religiosi negativi e obblighi verso l'autorità ecclesiastica. E quelli che lo sanno, quelli che non scindono la Verità nel loro cuore, quelli che hanno il culto supremo di Dio Verità, che ardono di una fede impavida in Cristo, nella Chiesa e nella Verità, ne conosco, Santo Padre!, quelli sono combattuti acremente, sono diffamati come eretici, sono costretti al silenzio, tutto per opera dello Spirito di menzogna, che lavora da secoli nella Chiesa una tradizione d'inganno per la quale coloro che oggi lo servono si credono di servire Iddio, come lo credettero i primi persecutori dei cristiani. Santità ..." Qui Benedetto pose un ginocchio a terra. Il Papa non si mosse. Pareva aver abbassato il capo ancora di più. Il zucchetto bianco era quasi tutto nel lume della lucernina. " ...io ho letto proprio oggi grandi parole di Lei ai Suoi diocesani antichi, sulla molteplice rivelazione di Dio Verità nella Fede e nella Scienza, e anche direttamente, misteriosamente, nell'anima umana. Santo Padre, molti, moltissimi cuori di sacerdoti e di laici appartengono allo Spirito Santo; la Spirito di menzogna non ha potuto entrarvi neppure sotto una veste angelica. Dica una parola, Santo Padre, faccia un atto che rialzi questi cuori devoti alla Santa Sede del Pontefice romano! Onori davanti a tutta la Chiesa qualcuno di questi uomini, di questi sacerdoti che sono combattuti dallo Spirito di menzogna, ne sollevi qualcuno all'episcopato, ne sollevi qualcuno al Sacro Collegio! Anche questo, Santo Padre! Consigli esegeti e teologi, se è necessario, a camminare prudenti poiché la scienza non progredisce che a patto di essere prudente; ma non lasci colpire dall' Indice né dal Sant' Uffizio per qualche soverchio ardimento uomini che sono l'onore della Chiesa, che hanno la mente piena di Verità e il cuore pieno di Cristo, che combattono per difesa della fede cattolica! E poiché Vostra Santità ha detto che Iddio rivela le sue Verità anche nel segreto delle anime, non lasci moltiplicare le divozioni esterne, che bastano, raccomandi ai Pastori la pratica e l'insegnamento della preghiera interiore!" Benedetto tacque un momento, spossato. Il Papa alzò il viso, guardò l'uomo inginocchiato che lo fissava con occhi dolorosi, luminosi sotto le sopracciglie contratte, vibrando nelle mani giunte dove si appuntava lo sforzo dello spirito. Il viso del Papa tradiva una commozione intensa. Egli voleva dire a Benedetto che si alzasse, che sedesse; e non parlò per timore di tradire la commozione anche nella voce. Insistette a cenni, tanto che Benedetto si alzò e presa la sua seggiola, appoggiatevi alla spalliera le mani ancora giunte, ricominciò a parlare. "Se il clero insegna poco al popolo la preghiera interiore che risana l'anima quanto certe superstizioni la corrompono, è per causa del secondo spirito maligno che infesta la Chiesa trasfigurato in angelo di luce. Questo è lo spirito di dominazione del clero. A quei sacerdoti che hanno lo spirito di dominazione non piace che le anime comunichino direttamente e normalmente con Dio per domandarne consiglio e direzione. A buon fine! Il Maligno inganna, così la loro coscienza; a buon fine! Ma le vogliono dirigere essi in qualità di mediatori e queste anime diventano fiacche, timide, servili. Non saranno molte, forse; i peggiori maleficî dello spirito di dominazione sono diversi. Egli ha soppressa l'antica santa libertà cattolica. Egli cerca fare all'obbedienza, anche quando non è dovuta per legge, la prima delle virtù. Egli vorrebbe imporre sottomissioni non obbligatorie, ritrattazioni contro coscienza, dovunque un gruppo d'uomini si associa per un'opera buona prenderne il comando, e, se declinano il comando, rifiutar loro l'aiuto. Egli tende a portare l'autorità religiosa anche fuori del campo religioso. Lo sa l' Italia, Santo Padre. Ma cosa è l' Italia? Non è per essa che io parlo, è per tutto il mondo cattolico. Santo Padre, Ella forse non lo avrà provato ancora, ma lo spirito di dominazione vorrà esercitarsi anche sopra di Lei. Non ceda, Santo Padre! Ella è il Governatore della Chiesa, non permetta che altri governi Lei, non sia il Suo potere un guanto per invisibili mani altrui. Abbia consiglieri pubblici e siano i vescovi raccolti spesso nei Concilii nazionali e faccia partecipare il popolo alla elezione dei vescovi scegliendo uomini amati e riveriti dal popolo, e i vescovi si mescolino al popolo non solamente per passare sotto archi di trionfo e farsi salutare dal suono delle campane ma per conoscere le turbe e per edificarle a imitazione di Cristo, invece di starsene chiusi da principi orientali negli episcopii, come tanti fanno. E lasci loro tutta l'autorità che è compatibile con quella di Pietro! Santità, posso parlare ancora?" Il Papa, che da quando Benedetto aveva ricominciato a parlare gli teneva gli occhi in viso, rispose con un lieve abbassar del capo. "Il terzo spirito maligno" riprese Benedetto "che corrompe la Chiesa, non si trasfigura in angelo di luce perché saprebbe di non poter ingannare, si accontenta di vestire una comune onestà umana. È lo spirito di avarizia. Il Vicario di Cristo vive in questa reggia come visse nel suo episcopio, con un cuore puro di povero. Molti Pastori venerandi vivono nella Chiesa con eguale cuore, ma lo spirito di povertà non vi è bastantemente insegnato come Cristo lo insegnò, le labbra dei ministri di Cristo sono troppo spesso compiacenti ai cupidi dell'avere. Quale di essi piega la fronte con ossequio a chi ha molto solamente perché ha molto, quale lusinga con la lingua chi agogna molto, e il godere la pompa e gli onori della ricchezza, l'aderire con l'anima alle comodità della ricchezza pare lecito a troppi predicatori della parola e degli esempî di Cristo. Santo Padre, richiami il clero a meglio usare verso i cupidi dell'avere, sieno ricchi, sieno poveri, la carità che ammonisce, che minaccia, che rampogna. Santo Padre!" Benedetto tacque, fissando il Papa con una espressione intensa di appello. "Ebbene?" mormorò il Papa. Benedetto allargò le braccia e riprese: "Lo Spirito mi sforza a dire di più. Non è opera di un giorno ma si prepari il giorno e non si lasci questo cómpito ai nemici di Dio e della Chiesa, si prepari il giorno in cui i sacerdoti di Cristo dieno l'esempio della effettiva povertà, vivano poveri per obbligo come per obbligo vivono casti, e servano loro di norma per questo le parole di Cristo ai Settantadue. Il Signore circonderà gli ultimi fra loro di tale onore, di tale riverenza quale ora non è nel cuore della gente intorno ai Principi della Chiesa. Saranno pochi ma la luce del mondo. Santo Padre, lo sono essi oggi? Qualcuno lo è; i più non sono né luce né tenebre." Qui, per la prima volta, il Pontefice assentì del capo mestamente. "Il quarto spirito maligno" proseguì Benedetto "è lo spirito d'immobilità. Questo si trasfigura in angelo di luce. Anche i cattolici, ecclesiastici e laici, dominati dallo spirito d'immobilità credono piacere a Dio come gli ebrei zelanti che fecero crocifiggere Cristo. Tutti i clericali, Santità, anzi tutti gli uomini religiosi che oggi avversano il cattolicismo progressista, avrebbero fatto crocifiggere Cristo in buona fede, nel nome di Mosè. Sono idolatri del passato, tutto vorrebbero immutabile nella Chiesa, sino alle forme del linguaggio pontificio, sino ai flabelli che ripugnano al cuore sacerdotale di Vostra Santità, sino alle tradizioni stolte per le quali non è lecito a un cardinale di uscire a piedi e sarebbe scandaloso che visitasse i poveri nelle loro case. È lo spirito d'immobilità che volendo conservare cose impossibili a conservare ci attira le derisioni degl'increduli; colpa grave davanti a Dio!" Il petrolio veniva mancando nella lucerna, il cerchio delle tenebre si stringeva, si addensava intorno e sopra la breve sfera di luce in cui si disegnavano, l'una in faccia all'altra, la bianca figura del Pontefice seduto e la bruna di Benedetto in piedi. "Contro lo spirito d'immobilità" disse questi "io la supplico di non permettere che sieno posti all' Indice i libri di Giovanni Selva." Quindi, posta la seggiola da banda, s'inginocchiò nuovamente, stese le mani al Pontefice, parlò più trepido e più acceso: "Vicario di Cristo, io La scongiuro di un'altra cosa. Sono un peccatore indegno di venire paragonato ai Santi ma lo Spirito di Dio può parlare anche per la bocca più vile. Se una donna ha potuto scongiurare un Papa di venire a Roma, io scongiuro Vostra santità di uscire dal Vaticano. Uscite, Santo Padre; ma la prima volta, almeno la prima volta, uscite per un'opera del vostro ministero! Lazzaro soffre e muore ogni giorno, andate a vedere Lazzaro. Cristo chiama soccorso in tutte le povere creature umane che soffrono. Ho vista dalla Galleria delle lapidi i lumi che fronteggiano un altro palazzo di Roma. Se il dolore umano chiama in nome di Cristo, là si risponderà forse: "no" ma si va. Dal Vaticano si risponde "sì" a Cristo, ma non si va. Che dirà Cristo, Santo Padre, nell'ora terribile? Queste parole mie, se fossero conosciute dal mondo, mi frutterebbero vituperî da chi più si professa devoto al Vaticano; ma per vituperi e fulmini che mi si scagliassero non griderei io fino alla morte: che dirà Cristo? Che dirà Cristo? A Lui mi appello." La fiammella della lucerna mancava, mancava; nella breve sfera di luce fioca che le tenebre premevano non si vedeva quasi più di Benedetto che le mani stese, non si vedeva quasi più del Papa che la destra posata sul campanello d'argento. Appena Benedetto tacque, il Santo Padre gli ordinò di alzarsi, poi scosse il campanello due volte. La porta della Galleria si aperse, entrò il fido cameriere già popolare in Vaticano col nome di don Teofilo. "Teofilo" disse il Papa, "in Galleria, è riaccesa la luce?" "Sì, Santità." "Allora passa in Biblioteca dove troverai monsignore. Digli che venga qua, che mi aspetti. E tu provvedigli un'altra lucerna." Ciò detto, Sua Santità si alzò. Era piccolo di statura e tuttavia un po' curvo. Mosse verso la porta della Galleria accennando a Benedetto di seguirlo. Don Teofilo uscì dalla parte opposta. Triste presagio, nella buia sala dov'eran corse tante fiammelle di parole accese dallo Spirito, non rimase che la piccola lucernina morente. La Galleria delle lapidi, là dove il Papa e Benedetto vi entrarono, era semibuia. Ma nel fondo una grande lampada a riflettore illuminava l'iscrizione commemorativa a destra della porta che mette nella loggia di Giovanni da Udine. Fra le grandi ali di lapidi schierate da capo a fondo della Galleria, che guardavano l'oscuro dibattito delle due anime viventi come testimoni muti che già conoscessero i misteri di oltre tomba e del giudizio divino, il Papa si avanzava lento, silenzioso, seguito, un passo indietro e a sinistra, da Benedetto. Sostò un momento presso il torso del fiume Oronte, guardò dalla finestra. Benedetto si domandò se guardasse i lumi del Quirinale, palpitò, attendendo una parola. La parola non venne. Il Papa riprese, tacendo sempre, il suo lento andare, con le mani congiunte dietro il dorso, e il mento appoggiato al petto. Sostò presso al fondo, nella luce della grande lampada; parve incerto se ritornare o procedere. A sinistra della lampada la porta della Galleria si apriva sopra uno sfondo di notte, di luna, di colonne, di vetri, di pavimento marmoreo. Il Papa si avviò a quella volta, scese i cinque gradini. La luna batteva per isghembo sul pavimento rigato dalle ombre nere delle colonne, tagliato in fondo alla loggia dall'obliquo profilo dell'ombra piena, dentro la quale mal si discerneva il busto di Giovanni. Il Papa percorse la loggia fino a quell'ombra, vi entrò, vi si trattenne. Intanto Benedetto, fermatosi molti passi indietro per non avere l'aria di premere irriverentemente nel desiderio di una risposta, mirava l'astro veleggiante fra nuvole grandi su Roma. Mirando l'astro, domandò a sé, a qualche Invisibile che gli fosse vicino, quasi anche allo stesso volto severo e triste della luna, se avesse troppo osato, male osato. Si pentì subito del suo dubbio. Aveva forse parlato egli? Oh no, le parole gli erano venute alle labbra senza meditazione, aveva parlato lo Spirito. Chiuse gli occhi in uno sforzo di preghiera mentale ancora levando la faccia verso l'astro, come un cieco che porgesse il viso avido al divinato splendore di argento. Una mano lo toccò lievemente sulla spalla. Trasalì e aperse gli occhi. Era il Papa e il suo viso diceva come avesse finalmente maturate nel pensiero parole che lo appagavano. Benedetto chinò il capo rispettosamente ad ascoltarlo. "Figlio mio" disse Sua Santità "alcune di queste cose il Signore le ha dette da gran tempo anche nel cuore mio. Tu, Dio ti benedica, te la intendi col Signore solo; io devo intendermela anche cogli uomini che il Signore ha posto intorno a me perché io mi governi con essi secondo carità e prudenza; e devo sovratutto misurare i miei consigli, i miei comandi, alle capacità diverse, alle mentalità diverse di tanti milioni di uomini. Io sono un povero Maestro di scuola che di settanta scolari ne ha venti meno che mediocri, quaranta mediocri e dieci soli buoni. Egli non può governare la scuola per i soli dieci buoni e io non posso governare la Chiesa soltanto per te e per quelli che somigliano a te. Vedi, per esempio; Cristo ha pagato il tributo allo Stato e io, non come Pontefice ma come cittadino, pagherei volentieri il mio tributo di omaggio là in quel palazzo di cui hai veduto i lumi, se non temessi di offendere così i sessanta scolari, di perdere anche una sola delle loro anime che mi sono preziose come le altre. E così sarebbe se io facessi togliere certi libri dall' Indice, se chiamassi nel Sacro Collegio certi uomini che hanno fama di non essere rigidamente ortodossi, se, scoppiando un'epidemia, andassi, ex abrupto , a visitare gli ospedali di Roma." "Oh Santità!" esclamò Benedetto "mi perdoni ma non è sicuro che queste anime disposte a scandolezzarsi del Vicario di Cristo per ragioni simili poi si salvino, e invece è sicuro che si acquisterebbero tante altre anime le quali non si acquistano!" "E poi" continuò il Papa come se non avesse udito "sono vecchio, sono stanco, i cardinali non sanno chi hanno messo qui, non volevo. Sono anche ammalato, ho certi segni di dover presto comparire davanti al mio Giudice. Sento, figlio mio, che tu hai lo spirito buono ma il Signore non può volere da un poveruomo come me le cose che tu dici, cose a cui non basterebbe neppure un Pontefice giovine e valido. Però vi sono cose che anch'io, con il Suo aiuto, potrò fare; se non le cose grandi, almeno altre cose. Le cose grandi preghiamo il Signore che susciti chi a loro tempo le sappia fare e chi sappia bene aiutare a farle. Figlio mio, se io mi metto da stasera a trasformare il Vaticano, a riedificarlo, dove trovo poi Raffaello che lo dipinga? E neppure questo Giovanni? Non dico però di non fare niente." Benedetto era per replicare. Il Pontefice, forse per non volersi spiegare di più, non gliene lasciò né il modo né il tempo, gli fece una domanda gradita. "Tu conosci Selva" diss'egli. "Privatamente, che uomo è?" "È un giusto" si affrettò a rispondere Benedetto. "Un gran giusto. I suoi libri sono stati denunciati alla Congregazione dell' Indice. Forse vi si troveranno alcune opinioni ardite ma non vi è confronto fra la religiosità calda e profonda dei libri di Selva e il formalismo freddo, misero di altri libri che corrono, più del Vangelo, per le mani del clero. Santo Padre, la condanna di Selva sarebbe un colpo alle energie più vive e più vitali del Cattolicismo. La Chiesa tollera migliaia di libri ascetici stupidi che rimpiccioliscono indegnamente l'idea di Dio nello spirito umano; non condanni questi che la ingrandiscono!" Le ore suonarono da lontano. Nove e mezzo. Sua Santità prese tacendo una mano di Benedetto, la chiuse fra le sue, gli fece intendere con quella muta stretta sensi e consensi trattenuti dalla bocca prudente. La strinse, la scosse, l'accarezzò, la strinse ancora, disse finalmente con voce soffocata: "Prega per me, prega che il Signore m'illumini." Due lagrime brillavano nei belli occhi soavi di vecchio che mai non si macchiò di un volontario pensiero impuro, di vecchio tutto dolcezza di carità. Benedetto non riuscì, per la commozione, a parlare. "Vieni ancora" disse il Papa. "Dobbiamo discorrere ancora." "Quando, Santità?" "Presto. Ti farò avvertire." Intanto l'ombra, avanzando, aveva inghiottito la Figura bianca e la Figura nera. Sua Santità pose una mano sulla spalla di Benedetto, gli domandò sommessamente, quasi esitante: "Ricordi la fine della tua visione?" Benedetto rispose, pure sottovoce, abbassando il viso: "Nescio diem neque horam." "Non sono nel manoscritto" riprese Sua Santità. "Ma ricordi?" Benedetto mormorò: "In abito benedettino, sulla nuda terra, all'ombra di un albero." "Se così sarà" riprese il Santo Padre, dolcemente "ti voglio benedire per quel momento. Allora sarò ad aspettarti in cielo." Benedetto s'inginocchiò. La voce del Papa suonò solenne nell'ombra: "Benedico te in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti." Il Papa risalì rapidamente i cinque gradini, scomparve. Benedetto rimase ginocchioni, assorto in quella benedizione che gli era parsa venire da Cristo. Si alzò al suono di un passo nella Galleria. Pochi momenti dopo egli scendeva, accompagnato da don Teofilo, al Portone di bronzo.

Piangi piangi così abbandonato sul seno del Padre che ti chiama, che ti vuole perdonare, che vuol dimenticare tutto. Ora verrà il sacerdote e tu glielo dirai, il male che forse hai fatto, così come ricordi, senza angoscia. E poi, sai chi verrà da te nel mistero? Sai che amore, caro, sai che pietà, sai che gioia, sai che Vita?" Lottando con le ombre della morte, figgendo in Benedetto gli occhi vitrei, lucenti di un desiderio intenso e del terrore di non poterlo esprimere, il povero giovine che aveva inteso male il discorso di Benedetto, credendo di doversi confessare a lui, cominciò a dire i suoi peccati. La madre che durante il discorso di Benedetto, buttatasi ginocchioni alla parete di roccia vi teneva le labbra sulla croce aspettando il compimento del miracolo, scattò, al suono strano di quella voce, in piedi, balzò al letto, comprese, gittò un grido disperato con le mani al cielo, mentre Benedetto, atterrito, esclamava: "no, caro, non a me, non a me!" Ma l'infermo non intese, gli cinse con un braccio il collo, lo raccolse a sé, continuò la sua confessione ambasciata, ripetendo Benedetto: "Dio mio! Dio mio!" nello sforzo di non udire, né avendo cuore di strapparsi dal morente. Non udì infatti né udire era facile, tanto rade, rotte e torbide venivano le parole. E non si vedeva arrivare l'arciprete, e don Clemente non ritornava! Passi e voci sommesse si udirono bene al di fuori, qualche testa curiosa comparve all'uscio, ma nessuno entrò. Le parole del morente si perdettero in un garbuglio di suoni fiochi, egli tacque. "C'è gente fuori?" chiese Benedetto. "Qualcuno vada dall'arciprete, dica di far presto." Giovanni e Maria stavano attorno alla madre che, fuori di sé, trabalzava dal dolore alla collera. Dopo aver creduto al miracolo, non voleva credere che il suo figliuolo si fosse ridotto naturalmente a quegli estremi, ora singhiozzava per lui, ora imprecava alle medicine che gli aveva date Benedetto, per quanto i Selva le dicessero che non erano state medicine. Maria se l'era abbracciata e per confortarla e per trattenerla. Accennò a Giovanni che andasse lui dall'arciprete e Giovanni corse via. Gli occhi lucenti del moribondo supplicarono. Benedetto gli disse: "Figlio mio, desideri Cristo?" Il poveretto accennò di sì col capo e con un gemito inesprimibile. Benedetto lo baciò, lo ribaciò teneramente. "Cristo mi dice che i tuoi peccati ti sono rimessi e che tu parta in pace." Gli occhi lucenti sfavillarono di gioia. Benedetto chiamò la madre che dalle aperte braccia di Maria si precipitò sul figlio suo. Ecco entrare don Clemente trafelato, con Giovanni e l'arciprete. Don Clemente aveva trovato in canonica un ecclesiastico non conosciuto da lui, alle prese coll'arciprete. A sentir costui, una turba fanatica voleva portare in Sant' Andrea la pretesa miracolata per un ringraziamento a Dio. Era dovere dell'arciprete impedire un tale scandalo. La guarigione della ragazza se non era impostura non era nemmanco realtà. Il preteso taumaturgo poi aveva predicato un sacco di eresie sui miracoli e sulla salute eterna, aveva parlato della fede come di una virtù naturale, aveva criticato Gesù che guariva gl'infermi. Adesso stava fabbricando un altro miracolo con un altro disgraziato. Bisognava finirla. Finirla? pensava il povero arciprete che sentiva già odore di Sant' Uffizio. Era presto detto "finirla". Ma come, finirla? La visita di don Clemente, che sopravvenne a questo punto del discorso, lo fece respirare. Adesso, pensò, mi aiuterà lui. Invece le cose volsero al peggio. Udito il triste messaggio di don Clemente, quel prete esclamò: "Vede? Ecco i miracoli come finiscono! Ma Lei non deve entrare col Santo Viatico nella casa di quell'eretico s'egli prima non esce e non esce per non tornarci più!" Don Clemente avvampò nel viso. "Non è un eretico!" diss'egli. "È un uomo di Dio!" "Lo dice Lei!" esclamò il prete. "E Lei" proseguì volto all'arciprete "Lei ci pensi! Faccia come vuole, del resto; io non c'entro. A rivederla." Fatto un inchino a don Clemente, senza parole, scivolò fuori della camera. "E adesso? E adesso?" gemette il povero arciprete recandosi le mani alle tempie. "Quello è un uomo terribile ma io non voglio mancare verso Domeneddio. Dimmi tu, dimmi tu!" Aveva un Santo timore di Dio, sì, l'arciprete, ma non era neppure senza un timore fra Santo e umano di don Clemente, della coscienza severa che lo avrebbe giudicato. A don Clemente lampeggiò, nella stretta del momento, il partito da prendere. "Disponi per il Viatico" diss'egli "e vieni subito con me a confessare quel povero giovane. Benedetto farà vedere se è un eretico o se è un uomo di Dio." La fantesca venne ad avvertire che un Signore pregava il signor arciprete di far presto, presto, perché quell'ammalato moriva. Don Clemente, trafelato, entrò nella stamberga con Giovanni e l'arciprete. Chiamò Benedetto a sé, presso l'uscio e gli parlò sotto voce. L'ammalato rantolava. Benedetto ascoltò, a capo chino, le parole dolorose che gli chiedevano un atto di umiliazione santa, s'inginocchiò senza rispondere davanti alla croce scolpita da lui nella roccia, la baciò avidamente nell'incontro delle braccia tragiche e riaspirare in sé dal solco della pietra il segno del sacrificio, il suo amore, il suo bene, la sua forza, la sua Vita; e, rialzatosi, uscì di là per sempre. Il sole scompariva in un turbinoso fumo di nuvoli montanti a settentrione, dietro il villaggio. I luoghi che avevano poco prima brulicato di gente erano un livido deserto. Dalle svolte dei viottoli ghiaiosi, dietro gli usci socchiusi, dai canti dei casolari, donne spiavano. All'apparire di Benedetto si ritrassero tutte. Egli sentì che Jenne sapeva l'agonia dell'uomo venuto a lui per salute, che l'ora della potestà era venuta per i suoi avversari. Don Clemente, il Maestro, l'amico, gli aveva prima chiesto di deporre il suo abito e ora di uscire della sua casa, di uscire da Jenne. Con dolore e amore, ma glielo aveva chiesto. Fra l'amarezza e il digiuno, poiché non aveva potuto prendere la sua refezione meridiana di pane e fave, si sentì quasi venir meno, gli si oscurò la vista. Sedette sulla soglia ruinosa di una porticina chiusa, all'entrata della viuzza della Corte. Un lungo rombo di tuono suonò sul suo capo. Poco a poco, nel riposo, si riebbe. Pensò all'uomo che moriva nel desiderio di Cristo e un'onda di dolcezza gli tornò nell'anima. Sentì rimorso di aver dimenticato per alcuni istanti quel gran dono del Signore, di avere disamata la croce appena bevutone Vita e gioia. Si nascose il viso fra le mani e pianse silenziosamente. Un rumor lieve, in alto, d'imposte che si aprono; qualche cosa di molle gli batte sul capo. Si toglie trasalendo le mani dagli occhi; ai suoi piedi è una rosellina selvatica. Rabbrividì. Da parecchi giorni, o la sera rientrando nella sua spelonca o uscendone la mattina, ogni giorno aveva trovato fiori sulla soglia. Non li aveva tolti mai. Li poneva da banda, sopra un sasso, perché non fossero calpestati; non altro. Neppure aveva mai cercato di sapere qual mano li recasse. Certo la rosellina selvatica era caduta dalla stessa mano. Non alzò il capo e comprese che pur non raccogliendo la rosellina né accennando a raccoglierla, gli bisognava partire. Cercò levarsi, le gambe non lo reggevano ancora bene, tardò un momento a rimettersi in cammino. Il tuono rumoreggiava da capo, più forte, continuo. Una porticina si aperse, se ne porse una giovine vestita di nero, bionda, bianca come la cera, piena gli occhi azzurrini di sbigottimento e di lagrime. Benedetto non poté a meno di volgere il capo a lei. Riconobbe la maestra del Comune, che aveva veduto un momento in casa dell'arciprete, e già proseguiva senza salutarla quando ella gli gettò un gemito: "mi ascolti!" e, fatto un passo indietro nell'andito, cadde sulle ginocchia, gli stese le mani imploranti, ripiegando il capo sul petto. Benedetto si fermò. Esitò un momento e poi disse, con gravità severa: "Che vuole da me?" Si era fatto quasi buio. I lampi abbagliavano, il fragore del tuono empiva la misera viuzza, impediva ai due di udirsi. Benedetto si accostò all'uscio. "Mi hanno detto" rispose la giovine senz'alzare il viso e sostando agli scoppi del tuono "che Lei forse dovrà partire da Jenne. Una Sua parola mi ha dato la Vita, la Sua partenza mi farà morire ancora. Mi ripeta quella parola, la dica per me, solo per me!" "Quale parola?" "Lei stava col signor arciprete, io ero nella stanza vicina colla fantesca e l'uscio aperto. Lei diceva che un uomo può negare Dio senza essere veramente ateo e senza meritare la morte eterna, quando nega quel Dio che gli è proposto in una forma ripugnante al suo intelletto ma poi ama la Verità, ama il bene, ama gli uomini, pratica questi amori." Benedetto tacque. Lo aveva detto, sì, ma parlando a un prete e non sapendo di venire udito da persone forse non atte a comprenderlo. Ella sospettò la cagione di quel silenzio. "Non si tratta di me" disse. "Io credo, sono cattolica. È per mio Padre che ha vissuto così ed è morto così e ... se sapesse! ... hanno persuaso anche mia madre ch'egli non ha potuto salvarsi!" Mentr'ella parlava, rade gocce, grosse, cominciarono a battere, fra i lampi e i tuoni, sulla via, macchiarono la polvere di grandi macchie, scrosciarono col vento, sferzando i muri; ma né Benedetto riparò dentro l'uscio né lei gliene fece invito, e questa fu da parte di lei la confessione sola del sentimento profondo che si copriva di misticismo e di pietà filiale. "Mi dica, mi dica" implorò, alzando finalmente il viso "che mio Padre è salvo, che lo ritroverò in Paradiso!" Benedetto rispose: "Preghi." "Dio! Solo questo?" "Si prega forse per il perdono di chi non può essere perdonato? Preghi." "Oh, grazie! Lei è sofferente?" Queste ultime parole furono sussurrate così piano che Benedetto non poté udirle. Fece un gesto di addio e si allontanò fra le ondate di pioggia che flagellavano e urtavano via per il fango la morta rosellina selvatica. Forse da una finestra, forse dalla porta dell'osteria, Noemi, che vi stava con la ragazza di Arcinazzo, lo vide passare. Si fece dare un ombrello dall'oste e lo seguì sfidando la violenza del vento e della pioggia. Lo seguì, soffrendo di vederlo a capo scoperto e senza ombrello, pensando che se non fosse stato un Santo, lo si sarebbe detto un pazzo. Uscita sulla piazza della Chiesa, vide socchiudersi un uscio a mano diritta, un prete lungo e magro guardare dall'interno. Credette che il prete avrebbe invitato Benedetto a entrare, ma invece il prete, quando Benedetto gli fu vicino, chiuse l'uscio rumorosamente, con grande sdegno di lei. Benedetto entrò in Sant' Andrea ed ella pure vi entrò. Quegli andò a inginocchiarsi davanti all'altar maggiore, ella si tenne presso la porta. Il sagrestano, che sonnecchiava seduto sui gradini di un altare, uditi i loro passi, si alzò, mosse verso Benedetto. Ma egli era del partito dei preti romani e, riconosciuto l'eretico, ritornò indietro, domandò alla signorina forestiera se potesse dirgli niente di quel giovine ammalato di Arcinazzo ch'era stato portato in Chiesa la mattina, quando il sagrestano ci aveva veduta anche lei. E soggiunse che ne domandava perché aveva l'ordine di aspettare l'arciprete che sarebbe venuto per portargli il Viatico. Noemi sapeva che l'uomo di Arcinazzo era moribondo ma non più di così. "Ho capito" disse il sagrestano, forte, con intenzione. "Non vorrà saperne di Cristo. Questi sono i belli miracoli! Sia Benedetto Iddio per i tuoni e i fulmini che altrimenti ci portavan qui la ragazza!" E ritornò a sedere, a sonnecchiare sul suo gradino. Noemi non sapeva levare gli occhi da Benedetto. Non era un proprio e vero fascino né il sentimento appassionato della giovine maestra. Lo vide vacillare, poggiar le mani ai gradini e poi voltarsi, stentatamente, a sedere, né si domandò se soffrisse. Guardava lui ma più assorta in sé che in lui, assorta in un mutamento progressivo del proprio interno che la veniva facendo diversa, non riconoscibile a se stessa, in un senso ancora confuso e cieco di una Verità immensa che le si venisse comunicando per vie misteriose, che le torcesse con sofferenza intime fibre del cuore. I ragionamenti religiosi di suo cognato potevano averle turbata la mente; il cuore non glielo avevano toccato mai. E ora perché? Come? Cos'aveva detto, infine, quell'uomo macilento? Oh ma lo sguardo, ma la voce, ma ... Che altro? Qualche altra cosa, impossibile a comprendere. Un presentimento, forse. Quale? Ma! Chi sa? Un presentimento di qualche futuro legame fra quell'uomo e lei. Lo aveva seguito, era entrata in Chiesa per non perdere l'occasione di parlargli e adesso ne aveva quasi paura. Parlargli di Jeanne, poi anche. Jeanne, lo aveva ella compreso? Come mai aveva potuto Jeanne, amandolo, resistere alla corrente di pensiero superiore ch'era in lui, che forse a quel tempo sarà stata latente ma che una Jeanne doveva pur sentire? Cos'aveva ella amato? L'uomo inferiore? Se gli parlasse, non gli parlerebbe solamente di Jeanne, gli parlerebbe di religione, pure. Gli domanderebbe quale fosse la sua, proprio. E poi, s'egli le rispondesse una cosa sciocca, una cosa volgare? Per questo aveva quasi paura di parlargli. Una folata di pioggia batté dalle invetriate rotte di una finestra sul pavimento. Noemi pensò che mai più non avrebbe dimenticato quell'ora, quella grande Chiesa vuota, quell'oscuro cielo, quel colpo di pioggia entrato come un colpo di pianto, il naufrago del mondo assorto sui gradini dell'altare maggiore, Dio sa in quali sublimi pensieri, e neppure il sagrestano suo nemico, postosi a dormire sui gradini di un altro altare con la famigliarità noncurante di un collega di Domeneddio. Passò molto tempo, forse un'ora, forse più. La Chiesa si venne rischiarando, parve che smettesse di piovere. Suonarono le quattro. Entrò in Chiesa don Clemente e dietro a lui entrarono Maria e Giovanni, contenti di trovar Noemi, della quale non sapevano che fosse avvenuto. Si mosse anche il sagrestano che conosceva il Padre. "Dunque? Il Viatico?" Il Viatico? L'uomo, pur troppo, era morto. Al Viatico si era pensato troppo tardi. Il Padre domandò di Benedetto e Noemi glielo indicò. Parlarono del colloquio che Noemi desiderava. Don Clemente arrossì, esitò, ma poi non seppe come rifiutarsi a chiederlo e raggiunse Benedetto. Mentre i due discorrevano insieme, Giovanni e Maria ragguagliarono Noemi di quel ch'era accaduto. Entrato l'arciprete, l'infermo non aveva parlato più. Non era stato possibile di confessarlo. Intanto era scoppiato il temporale con tale veemenza, tali torrenti strepitavano intorno alla capanna che l'arciprete non aveva potuto uscirne per andar a prendere l'olio Santo. Si credeva che l'ammalato durasse qualche ora; invece, alle tre, era morto. Don Clemente e l'arciprete erano usciti appena lo avevano permesso i torrenti. Giovanni e Maria erano rimasti colla madre, che pareva impazzita, fino all'arrivo della sorella maggiore del morto. Allora erano partiti, anche per venire in cerca di Noemi. Non l'avevano trovata all'osteria, si erano diretti alla Chiesa. Avevano incontrato sulla piazza il Padre che usciva da una casa civile. Non sapevano che ci fosse andato a fare. Maria parlò con entusiasmo di Benedetto, de' suoi conforti spirituali al moribondo. Era sdegnatissima, come suo marito, della guerra fattagli da gente che adesso aveva buon giuoco a voltargli contro tutto il paese. Biasimavano la debolezza dell'arciprete e non erano contenti neppure di don Clemente. Don Clemente non avrebbe dovuto prestarsi alla cacciata del suo discepolo! Perché gli aveva detto lui di andarsene, quando era venuto l'arciprete. Il suo primo torto era stato di portare il messaggio dell' Abate. Noemi non sapeva di questo messaggio. Udito che si voleva spogliare Benedetto della sua tonaca, scattò: Benedetto non doveva obbedire! Intanto Benedetto e il Padre mossero verso la porta. Benedetto si tenne in disparte; il Padre venne a dire ai Selva e a Noemi che, parecchia gente volendo parlare a Benedetto, egli aveva combinato un ritrovo comune presso un Signore del paese. Doveva ora precederli, con Benedetto, colà. Sarebbe venuto a riprenderli in Chiesa fra pochi minuti. Il Signore era quel tale che i Selva avevano incontrato sulla costa di Jenne dove stava in attesa della duchessa di Civitella. La duchessa era poi arrivata con altre due dame e con alcuni cavalieri fra i quali un giornalista, il giovinotto elegantissimo dalla caramella. Il Signore di Jenne non capiva più nella pelle, si sentiva per quel giorno in corpo uno spirito ducale di bontà e di magnificenza. Perciò don Clemente, consigliato dall'arciprete di rivolgersi a lui, ne aveva facilmente ottenuto la promessa, per Benedetto, di un vecchio abito nero da mattina, di una cravatta nera, di un cappello nero a cencio. Quando, nella camera dov'erano preparate le vesti laicali, il discepolo, svestita la tonaca, prese, tacendo sempre, a indossarle, il Maestro, che stava alla finestra, non poté trattenere un singhiozzo. Pochi momenti dopo Benedetto lo chiamò dolcemente. - Padre mio diss'egli. "Mi guardi." Vestito dei nuovi panni, troppo lunghi e larghi, egli sorrideva, mostrando pace. Il Padre gli afferrò una mano per baciargliela; ma Benedetto, ritratta con impeto la mano, allargò le braccia, si strinse al petto lui che parve allora il minore, il figliuolo, il penitente ministro di tristi prepotenze umane che sul palpito divino di quel petto si sciogliessero in polvere, cenere e niente. Stettero così abbracciati lungamente senza dir parola. "L'ho fatto per te" mormorò alfine don Clemente. "Ti ho portato io il messaggio ignominioso per vedere la grazia del Signore risplendere in questo tuo abito vile più che nella tonaca." Benedetto lo interruppe. "No no" diss'egli "non mi tenti, non mi tenti! Ringraziamo Iddio, invece, che appunto mi castiga per quel compiacimento presuntuoso che ho avuto a Santa Scolastica quando Lei mi ha offerto l'abito benedettino e io ho pensato che nella mia visione mi ero visto morire con quell'abito. Il mio cuore si alzò allora come dicendosi: "sono veramente prediletto da Dio!" E adesso ... "Oh ma ...!" esclamò il Padre e subito tacque, tutto una fiamma nel viso. Benedetto credette intendere che avesse pensato: "non è detto che tu non lo riprenda, l'abito che hai spogliato! non è detto che la visione non si avveri!" e che poi non avesse voluto dire il suo pensiero, sia per prudenza, sia per non alludere alla sua morte. Sorrise, lo abbracciò. Il Padre si affrettò a parlare d'altro, scusò l'arciprete ch'era dolente di quanto accadeva, che non avrebbe voluto allontanare Benedetto ma temeva i Superiori. Non era un don Abbondio, non temeva per sé, temeva per lo scandalo di un conflitto con l' Autorità. "Io gli perdono" disse Benedetto "e prego Dio che gli perdoni, ma questo difetto di coraggio morale è una piaga della Chiesa. Piuttosto che mettersi in conflitto con i Superiori ci si mette in conflitto con Dio. E si crede di sfuggire a questo sostituendo alla propria coscienza, dove Dio parla, la coscienza dei Superiori. E non s'intende che operando contro il bene o astenendosi da operare contro il male per obbedire ai Superiori si è di scandalo al mondo, si macchia davanti al mondo il carattere cristiano. Non s'intende che il debito verso Dio e il debito verso i Superiori si possono compiere insieme non operando mai contro il bene, non astenendosi mai da operare contro il male, ma senza giudicare i Superiori, ma obbedendo loro con perfetta obbedienza in tutto che non è contro il bene o a favore del male, deponendo ai loro piedi la propria Vita stessa, solo non la coscienza; la coscienza, mai! Allora questo inferiore spogliato di tutto fuorché della sua coscienza e della sua obbedienza giusta, questo inferiore è un puro grano del sale della terra e dove molti di questi grani si trovino uniti, ciò cui essi aderiscono resterà incorrotto e ciò cui non aderiscono cadrà imputridito!" A misura che parlava, Benedetto si veniva trasfigurando. Nel pronunciare le ultime parole sorse in piedi. Gli occhi avevano lampi, la fronte un chiarore augusto dello spirito di Verità. Posò le mani sulle spalle di don Clemente. "Maestro mio" diss'egli raddolcendosi nel viso "io lascio il tetto, il pane e l'abito che mi furono offerti, ma non lascerò di parlare di Cristo Verità fino a che avrò Vita. Me ne vado ma non per tacere. Si ricorda di avermi fatto leggere la lettera di S. Pier Damiano a quel laico che predicava? E quello là predicava in Chiesa! Io non predicherò in Chiesa ma se Cristo vuole che io parli nei tugurii, nei tugurii parlerò; se vuole che io parli nei palazzi, nei palazzi parlerò; se vuole che io parli nei cubicoli, parlerò nei cubicoli; se vuole che io parli sui tetti, parlerò sui tetti. Pensi all'uomo che operava nel nome di Cristo e ne fu proibito dai discepoli. Cristo ha detto: lasciatelo fare. È da obbedire ai discepoli o è da obbedire a Cristo?" "Per l'uomo del Vangelo sta bene, caro" rispose don Clemente "ma ora sulla volontà di Cristo ci si può anche ingannare, bada." Il cuore di don Clemente non parlava propriamente così; ma le parole imprudenti, indisciplinate del cuore non furon lasciate passare alle labbra. "Del resto, Padre mio" riprese Benedetto "lo creda, io non sono bandito per avere evangelizzato il popolo. Vi sono due cose ch'Ella deve sapere. La prima è questa: mi è stato proposto, qui a Jenne, da qualcuno che mi parlò quella volta e poi non vidi più, di abbracciare la carriera ecclesiastica per diventare missionario. Risposi che non mi sentivo chiamato. La seconda è questa. Nei primi giorni dopo la mia venuta a Jenne, discorrendo di religione con l'arciprete, gli parlai della vitalità eterna della dottrina cattolica, del potere che ha l'anima della dottrina cattolica di trasformare continuamente il proprio corpo, accrescendone senza limiti la forza e la bellezza. Lei sa, Padre mio, da chi mi sono venute queste idee per mezzo di Lei. L'arciprete deve avere riferito il mio discorso, che gli era piaciuto. Il giorno dopo mi domandò se a Subiaco avessi conosciuto Selva, se avessi letto i suoi libri. Mi disse ch'egli non li aveva letti ma sapeva ch'erano da fuggire. Padre mio, Ella comprende. È per causa del signor Selva e dell'amicizia di Lei col signor Selva che io parto da Jenne così. Non La ho mai tanto amata quanto adesso, non so dove andrò ma dovunque il Signore mi mandi, vicino o lontano, non mi abbandoni nell'anima Sua!" Così dicendo con un tumulto, nella voce, di dolore e di amore, Benedetto si gettò un'altra volta nelle braccia del Maestro che, straziato egli pure da una tempesta di sentimenti diversi, non sapeva se domandargli perdono o promettergli gloria, la vera; e solamente poté dirgli, ansando: "Anch'io, tu non sai! ho bisogno di non essere abbandonato dall'anima tua." Don Clemente raccolse in un fardello, maneggiandolo con mani guardinghe, riverenti, l'abito deposto dal discepolo. Raccolto che l'ebbe, disse a Benedetto che non poteva offrirgli l'ospitalità di Santa Scolastica, che aveva avuto in animo di pregare i signori Selva, ma che ora gli sorgeva il dubbio se a Benedetto fosse opportuno, nell'interesse del suo stesso apostolato, mettersi così pubblicamente sotto la protezione del signor Giovanni. Benedetto sorrise. "Oh, questo no!" diss'egli. "Temeremo noi le tenebre più che non ameremo la luce? Ma ho bisogno di pregare il Signore che mi faccia conoscere, se possibile, la Sua volontà. Forse vorrà questo, forse altro. E adesso vorrebbe farmi portare un po' di cibo e di vino? Poi mi mandi chi mi vuole parlare." Don Clemente si meravigliò, nel suo interno, che Benedetto gli domandasse del vino ma non ne fece mostra. Disse che gli avrebbe mandata pure quella signorina che stava con i Selva. Benedetto lo interrogò cogli occhi, ricordando che quando la signorina, poi riveduta in Chiesa, gli aveva chiesto un colloquio, don Clemente gli aveva stretto il braccio come per ammonirlo tacitamente di stare in guardia. Don Clemente, arrossendo molto, si spiegò. Aveva veduta la signorina a Santa Scolastica insieme a un'altra persona. Quel moto era stato involontario. L'altra persona era lontana. "Non ci rivedremo" diss'egli "perché appena ti avrò mandato il cibo e avrò avvertite queste persone, dovrò partire per Santa Scolastica." Benedetto, parlando di andare a Subiaco o altrove, aveva detto "forse questo, forse altro" con un accento così pregno di sottintesi, che don Clemente, nel congedarsi, gli sussurrò: "Pensi a Roma?" Invece di rispondere, Benedetto gli prese dolcemente di mano il fardello dov'era la povera tonaca concessa e ritolta, se l'accostò, non senza un tremito delle mani, alle labbra, ve le impresse, ve le tenne lungamente. Era il rimpianto dei giorni di pace, di lavoro, di preghiera, di parola evangelica? Era l'attesa di un'ora lucente nell'avvenire? Rese il fardello al Maestro. "Addio" diss'egli. Don Clemente uscì a precipizio. La stanza offerta dal padrone di casa per le udienze di Benedetto aveva un grande canapè, un tavolino quadrato coperto di un panno giallo a fiorami azzurri, delle sedie sgangherate, delle poltrone che mostravano la stoppa per gli squarci del vecchio cuoio stinto, due ritratti di avoli parrucconi dalle cornici annerite, due finestre, una quasi accecata da una muraglia greggia, l'altra aperta sui prati, sulla faccia di un bel monte pensoso, sul cielo. Benedetto, prima di ricevere visitatori, vi si affacciò per un addio ai prati, al monte, al povero paese. Preso da spossatezza, si appoggiò al davanzale. Era una spossatezza dolce dolce. Non si sentiva quasi più il peso del corpo e il cuore gli si ammolliva di beatitudine mistica. Poco a poco, perdendo i suoi pensieri oggetto e forma, il senso della quieta innocente Vita esterna, delle stille che gocciavano dai tetti, dell'aria odorata di montagna, lievemente, occultamente mossa ora in questa ora in quella parte, lo intenerì. Gli rinacquero nella memoria ore lontane della sua giovinezza prima, quando non aveva moglie né pensava al matrimonio, la fine di un temporale nell'alta Valsolda, sui dorsi del Pian Biscagno. Quanto diversa la sua sorte se i suoi genitori avessero vissuto trenta, vent'anni di più! Almeno uno di essi! Si vide nel pensiero la lapide del camposanto di Oria: a Franco in Dio la sua Luisa e gli occhi gli si gonfiarono di pianto. Venne allora una reazione violenta della volontà contro questi languori molli del sentimento, questa tentazione di debolezza. "No no no" mormorò egli, udibilmente. Una voce, alle sue spalle, rispose: "Non ci vuole ascoltare?" Benedetto si voltò, sorpreso. Tre giovani stavano davanti a lui. Egli non li aveva uditi entrare. Quello di essi che pareva il maggiore, un bel ragazzo, basso di statura, bruno, dagli occhi esperti di molte cose, gli chiese arditamente perché avesse spogliato l'abito clericale. Benedetto non rispose. "Non lo vuol dire?" fece colui. "Non importa, senta. Noi siamo studenti dell' Università di Roma, gente di poca fede, glielo dico schietto e subito. E ci godiamo la nostra giovinezza, più o meno; glielo dico subito anche questo." Uno dei compagni tirò l'oratore per la falda dell'abito. "Sta zitto!" disse il primo. "Sì, uno di noi crede poco ai Santi ma è un purissimo. Quello però non è qui davanti a Lei, come non vi sono altri che stanno giuocando all'osteria. Il Purissimo non ha voluto venire con noi. Dice che troverà modo di parlarle da solo a solo. Noi siamo quello che Le ho detto. Siamo venuti da Roma per fare una gita e per vedere un miracolo, s'era possibile; insomma per stare allegri." I compagni lo interruppero, protestando. "Ma sì!" ribatté lui. "Per stare allegri! Scusi, io sono più sincero. Infatti mancò poco che la nostra allegria ci costasse cara. Si scherzò e ci volevano accoppare, capisce; a Suo onore e gloria. Ma poi s'è udito il discorsino ch' Ella fece a quella turba fanatica. Per il demonio, si disse, questo è un linguaggio che ha del novo in una bocca pretina o semipretina, questo è un Santo che ci va meglio degli altri, scusi la confidenza. E ci si accordò subito di chiederle un colloquio. Perché poi, se siamo un poco scettici e gaudenti, siamo anche un poco intellettuali e certe Verità religiose c'interessano. Io, per esempio, sono forse per diventare un neo buddista." I suoi compagni risero ed egli si voltò ad essi adirato. "Sì, non sarò buddista nella pratica ma il Buddismo m'interessa più del Cristianesimo!" Qui successe un battibecco fra i tre per quest'uscita poco opportuna; e un secondo oratore, lungo, sottile, in occhiali, prese il posto del primo. Costui parlava nervoso, con frequenti scatti del capo e degli avambracci rigidi. Il suo discorso fu questo. I suoi compagni e lui avevano discusso più volte intorno alla vitalità del Cattolicismo. Tutti ammettevano che fosse esausta e che la morte seguirebbe presto se non intervenisse una riforma radicale. Alla possibilità di questa riforma chi credeva e chi non credeva. Desideravano conoscere l'opinione di un cattolico intelligente e moderno nello spirito come si era rivelato Benedetto. Avevano molte domande a fargli. Qui il terzo ambasciatore della compagnia studentesca giudicò venuto il suo momento e scaraventò addosso a Benedetto una tempesta disordinata di quesiti. Sarebb'egli stato disposto a farsi propugnatore di una riforma della Chiesa? Credeva nell'infallibilità del Papa e del Concilio? Approvava il culto di Maria e dei Santi nella sua forma presente? Era democratico cristiano? Quale concetto aveva di una riforma desiderabile? Avevano veduto a Jenne Giovanni Selva. Benedetto, conosceva i suoi libri? Approvava le sue idee? Gli piaceva che fosse proi­bito ai cardinali di uscire a piedi e ai preti di andare in bicicletta? Cosa pensava della Bibbia e dell'ispirazione? Prima di rispondere, Benedetto guardò a lungo, severo in viso, il suo giovine interlocutore. "Un medico" diss'egli finalmente "aveva fama di saper guarire tutte le malattie. Qualcuno che non credeva nella medicina andò da lui per curiosità, per interrogarlo sull'arte sua, sugli studî, sulle opinioni. Il medico lo lasciò parlare lungamente e poi gli prese il polso, così." Benedetto prese il polso del primo che gli aveva parlato e proseguì: "Glielo prese, glielo tenne un momento in silenzio, poi gli disse: - Amico, voi soffrite di cuore. Io ve l'ho letto in viso e ora sento battere il martello del falegname che vi lavora la bara." Il giovine dal polso prigioniero non poté a meno di batter le ciglia. "Non parlo per Lei" disse Benedetto. "Parla quel medico a quel tale che non crede nella medicina. E continua: - Venite voi a me per avere Vita e salute? Io vi darò l'una e l'altra. Non ve­nite per questo? Io non ho tempo per voi. - Allora colui, che si era sempre creduto sano, allibbì e disse: - Maestro, eccomi nelle vostre mani, fate che io viva." I tre rimasero per un momento sbalorditi. Quando accennarono a riaversi e a replicare, Benedetto riprese: "Se tre ciechi mi domandano la mia lampada di Verità, cosa risponderò io? Risponderò: andate prima e preparate gli occhi vostri ad essa perché se io ve la dessi nelle mani ora, voi non ne avreste alcun lume, voi non potreste che guastarla." "Non vorrei" disse lo studente lungo, smilzo e occhialuto "che per vedere questa Sua lampada di Verità si dovessero chiudere le finestre alla luce del sole. Ma insomma capisco ch' Ella non voglia spiegarsi con noi, che ci prenda per dei reporters. Oggi noi non abbiamo o almeno io non ho le disposizioni che Lei desidera. Sarò un cieco ma non mi sento di domandar la luce al Papa e nemmeno a un Lutero. Però, se Lei viene a Roma, troverà dei giovani disposti meglio di me, meglio di noi. Venga, parli, permetta anche a noi di udirla. Oggi abbiamo la curiosità, domani, chi sa? potremo avere il desiderio buono. Venga a Roma." "Mi dia il Suo nome" disse Benedetto. Colui gli porse una carta da visita. Si chiamava Elia Viterbo. Benedetto lo guardò, curioso. "Sì Signore" diss'egli "sono israelita, ma questi due battezzati non sono più cristiani di me. Del resto io non ho nessun pregiudizio religioso." Il colloquio era finito. Nell'uscire, il più giovane dei tre, quello dalla gragnuola di domande, tentò un ultimo assalto. "Ci dica almeno se i cattolici, secondo Lei, dovrebbero andare alle urne politiche?" Benedetto tacque. L'altro insistette: "Non vuoi rispondere neppure a questo?" Benedetto sorrise. "Non expedit" diss'egli. Passi nell'anticamera; due colpettini leggeri all'uscio; entrano i Selva con Noemi. Maria Selva entra prima e vedendo Benedetto così vestito, non può trattenere un movimento di sdegno, di compianto e di riso; arrossisce, vorrebbe dire una parola di protesta, non la trova. A Noemi vengono le lagrime agli occhi. Tutti e quattro tacciono per un momento e si comprendono. Poi Giovanni mormora: Non fu dal vel del cuor giammai disciolto e stringe la mano all'uomo che nei suoi goffi abiti gli pare augusto. "Sì ma Lei non deve portare questa roba!" esclamò Maria, meno mistica di suo marito. Benedetto fece un gesto come per dire "non parliamo di ciò!" e guardava il Maestro del suo Maestro con occhi desiderosi e riverenti. "Sa" diss'egli "quanto Vero e quanto bene mi sono venuti da Lei?" Giovanni non sapeva di avere tanto influito su quell'uomo attraverso don Clemente. Suppose che avesse letto i suoi libri. Ne fu commosso e ringraziò nel suo cuore Iddio che gli faceva sentire con dolcezza un po' di effettivo bene operato in un'anima. "Quanto sarei stato felice" ripigliò Benedetto "di lavorare nel Suo orto per vederla qualche volta, per udirla parlare!" Noemi, all'udir ricordare quella sera, si lasciò sfuggire una esclamazione sommessa piena di memorie che non si potevano dire. Giovanni ne prese occasione per offrire a Benedetto l'ospitalità, poiché don Clemente gli aveva detto che intendeva lasciare Jenne la sera stessa. Potremmo partire insieme, quando piacesse a lui, dopo il colloquio ch'egli avrebbe concesso a sua cognata. Noemi, pallida, fissò Benedetto per la prima volta, aspettando la sua risposta. "La ringrazio" diss'egli, dopo avere pensato un poco. "Se busserò alla Sua porta Ella mi aprirà. Ora non Le posso dire altro." Giovanni fece atto di ritirarsi con sua moglie. Benedetto li pregò di restare. Certo la signorina non aveva segreti per loro; almeno per sua sorella se non per il cognato. Anche questo coperto invito a Maria cadde perché Noemi osservò, imbarazzata, che non si trattava di segreti suoi. I Selva si ritirarono. Benedetto rimase in piedi e non disse a Noemi di sedere. Egli sapeva di avere a fronte l'amica di Jeanne, presentiva il discorso che verrebbe, un messaggio di Jeanne. "Signorina" diss'egli. Il modo non fu scortese ma significò chiaramente: "quanto più presto, tanto meglio." Noemi intese. Qualunque altro l'avrebbe offesa. Benedetto, no. Con lui si sentiva umile. "Ho l'incarico" diss'egli "di domandarle se sa niente di una persona ch'Ella deve avere conosciuto molto. Anche molto amato, credo. Il nome, io non so se lo pronuncio bene perché non sono italiana, è don Giuseppe Flores." Benedetto trasalì. Non si aspettava questo. "No" esclamò ansioso. "Non so niente!" Noemi lo guardò un momento in silenzio. Avrebbe voluto, prima di parlare, domandargli perdono del dolore che gli avrebbe recato. Disse a bassa voce, mestamente: "Mi è stato scritto di apprenderle che non è più di questa Vita." Benedetto piegò il viso, se lo nascose fra le mani. Don Giuseppe, caro don Giuseppe, cara grande anima pura, cara fronte luminosa, cari occhi pieni di Dio, cara voce buona! Pianse dolcemente due lagrime, due sole lagrime che Noemi non vide, si udì dentro la voce di don Giuseppe che gli diceva: non senti che sono qui, che sono con te, che sono nel tuo cuore? Noemi, dopo un lungo silenzio, mormorò: "Mi perdoni. Vorrei non averle dovuto recare un dolore così grande." Benedetto si scoperse il viso. "Dolore e non dolore" diss'egli. Noemi tacque, riverente. Benedetto le domandò se sapesse quando quella persona fosse morta. Verso la fine di aprile, credeva Noemi. Ella era allora fuori d' Italia. Era nel Belgio, a Bruges, con un'amica sua alla quale era stata scritta la notizia. Per quanto ne aveva udito dall'amica, quella persona, Noemi non ne ripeté il nome per un delicato riguardo, aveva fatto una morte santa. Le sue carte, ella era incaricata di riferire anche questo, erano state affidate al Vescovo della città. Benedetto fece un gesto di approvazione che poteva servire anche per chiusa del colloquio. Noemi non si mosse. "Non ho ancora finito" diss'ella. E soggiunse subito: "Ho un'amica cattolica ... io non sono cattolica, sono protestante ... che ha perduta la fede in Dio. Le hanno consigliato di dedicarsi a opere di carità. Vive con un fratello contrarissimo a qualunque religione. Questa novità che sua sorella si occupi di beneficenza, che si metta in relazione con gente dedita alle opere buone per principio religioso, gli è spiacente. Adesso è ammalato, s'irrita, si esalta, inveisce contro le bigotte del bene, non vuole che sua sorella si occupi di visitare poveri, né di proteggere ragazze, né di raccogliere bambini abbandonati. Dice che tutto questo è clericalismo, è utopia, che il mondo va come vuole andare, che si deve lasciarlo andare e che con questo mescolarsi alle classi inferiori non si fa che metter loro in testa delle idee false e pericolose. Ora è stato detto alla mia amica che deve o mentire a suo fratello facendo di nascosto ciò che prima faceva in palese, o separarsi da lui. Essa ha tanto bisogno di un consiglio sicuro! Mi scrive di domandarlo a Lei. Ha letto nei giornali ch' Ella consiglia qui tanta gente di queste montagne, spera che non rifiuterà." "Poiché suo fratello" rispose Benedetto "è ammalato di corpo e anche di spirito, non le si offre il bene nella sua casa stessa? Diventerà una cattiva sorella per arrivare a conoscere Iddio? Interrompa le sue opere, si dedichi a suo fratello, lo curi come del male del corpo così del male dello spirito, con tutto l'amore che ..." Stava per dire "che gli porta" si corresse per non ammettere così espressamente che conosceva la persona, " ... con tutto l'amore di cui è capace, gli si faccia preziosa, lo vinca poco a poco, senza prediche, solo colla bontà. Farà tanto bene anche a lei di cercar d'incarnare in sé la bontà stessa, la bontà attiva, instancabile, paziente e prudente. E lo vincerà, lo persuaderà, poco a poco, senza discorsi, che tutto quello che fa lei è ben fatto. Allora potrà riprendere le sue opere e le potrà riprendere anche da sola. E vi riuscirà meglio. Adesso le fa per un consiglio avuto, forse non vi riesce tanto bene. Allora le farà per quest'abitudine del bene acquistata con suo fratello, vi riuscirà meglio." "Grazie" disse Noemi. "Grazie per l'amica mia e anche per me, perché mi piace tanto questo che ha detto. E posso io ripetere i suoi consigli, il Suo incoraggiamento in Suo nome?" La domanda pareva superflua poiché incoraggiamento e consigli erano chiesti proprio a Benedetto, proprio per incarico dell'amica. Ma Benedetto si turbò. Era un esplicito messaggio che Noemi gli chiedeva per Jeanne. "Chi son io?" diss'egli. "Che autorità posso avere? Le dica che pregherò." Noemi tremò nel suo interno. Sarebbe stato tanto facile, ora, parlargli di religione! E non osava. Ah perdere una occasione simile! No, bisognava parlare ma non poteva mica pensare per un quarto d'ora a quello che direbbe. Disse la prima cosa che le venne in mente. "Scusi, poiché dice di pregare; vorrei tanto sapere se Lei proprio le approva tutte, le idee religiose di mio cognato?" Appena proferita la domanda, le parve tanto impertinente, tanto goffa, da vergognarne. E si affrettò a soggiungere sentendo di dir cosa ancora più sciocca e dicendola irresistibilmente: "Perché mio cognato è cattolico, io sono protestante e vorrei regolarmi." "Signorina" rispose Benedetto "verrà giorno in cui tutti adoreranno il Padre in ispirito e Verità, sulle cime; oggi è ancora il tempo di adorarlo nelle ombre e nelle figure, in fondo alle valli. Molti possono salire, quale più, quale meno, verso lo spirito e la Verità; molti non possono. Vi hanno piante che oltre una certa zona non fruttificano e, portate ancora più su, muoiono. Sarebbe follia di toglierle al loro clima. Io non La conosco, non posso dirle se le idee religiose di suo cognato possano, portate in Lei così, senza preparazione, dare un frutto buono. Le dico però di studiare molto molto il cattolicismo con l'aiuto di suo cognato, perché non vi è un solo protestante convinto che lo conosca bene." "Lei non verrà a Subiaco?" chiese Noemi timidamente. Qualche nascosta malinconia salì nella sua voce che fece salir nel cuore a Benedetto un senso di dolore dolce, tosto fatto sgomento, tanto era nuovo. "No" diss'egli "non credo." Noemi volle e non volle dire che n'era dolente, pronunciò alcune parole confuse. Si udì gente nell'anticamera. Noemi piegò il viso, Benedetto pure; e il colloquio si sciolse senz'altro saluto. Anche la duchessa volle parlare a Benedetto. Portò con sé compagni e compagne. Non più giovine ma galante ancora, mezzo superstiziosa e mezzo scettica, egoista e non senza cuore, voleva bene alla figliuola tisica di un suo vecchio cocchiere. Udito parlare del Santo di Jenne e de' suoi miracoli, aveva combinata la gita, un po' per divertimento, un po' per curiosità, per vedere se fosse il caso di far venire il Santo a Roma o di mandargli la ragazza. Cugina di un cardinale, aveva conosciuto presso di lui uno dei preti che villeggiavano a Jeanne. Ora colui, incontratala, le aveva già parlato a modo suo del Santo e annunciato il crollo della sua riputazione. Però siccome la duchessa non si fidava di nessun prete ed era curiosa di conoscere un uomo cui si attribuiva un passato romanzesco, e la stessa curiosità avevano i suoi compagni, una compagna in particolare, si risolse di avvicinarlo a ogni modo. Era venuta con lei una vecchia nobildonna inglese, famosa per la sua ricchezza, per le sue toilettes bizzarre, per il suo misticismo teosofico e cristiano, innamorata metafisicamente del Papa e anche della duchessa che ne rideva con i suoi amici. I quali amici, nel vedere Benedetto in quell'arnese, si scambiarono occhiate e sorrisi che per poco non diventarono sghignazzamenti quando la vecchia inglese, prevenendo tutti, prese la parola. Disse, in un cattivo francese, che sapeva di parlare a una persona colta: che lei, con amici e amiche di ogni nazione, lavorava per riunire tutte le Chiese cristiane sotto il Papa, riformando il cattolicismo in alcune parti troppo assurde che nessuno nel suo cuore credeva più buone a niente, come il celibato ecclesiastico e il dogma dell'inferno; che avevano bisogno, per fare questo, di un Santo; che questo Santo sarebbe lui perché uno spirito - ella non era spiritista ma un'amica sua lo era -anzi proprio lo spirito della contessa Blawatzky aveva rivelato questo; ch'era perciò necessaria la sua venuta a Roma e che a Roma egli avrebbe potuto con i suoi doni di santità rendere servigio anche alla duchessa di Civitella, ivi presente. Finì il suo discorso così: "Nous vous attendons absolument, monsieur! Quittez ce vilain trou! Quittez-le bientôt! Bientôt!" Benedetto, girato rapidamente lo sguardo severo per la cerchia delle facce sardoniche o stolide, dall'occhialetto della duchessa alla caramella del giornalista, rispose: "A l'instant, madame!" E uscì della camera. Uscì della camera e della casa, attraversò la piazza camminando male negli abiti disadatti, prese la via della costa senza guardare né a destra né a sinistra, portato dallo spirito più che dalle forze affievolite del corpo, pensando passar la notte sotto qualche albero e l'indomani portarsi a Subiaco e di là, con l'aiuto di don Clemente, a Tivoli dove conosceva un buon vecchio prete solito venire di tanto in tanto a Santa Scolastica. All'ospitalità dei Selva, che gli sarebbe stata cara, non pensava più. Il suo cuore era puro e in pace ma egli non poteva dimenticare che la voce soave di quella signorina straniera e l'accento mesto col quale aveva detto: "Lei non verrà a Subiaco?" gli avevano risuonato dentro in un modo strano, che un minuto secondo era bastato perché gli balenasse in mente questo pensiero: "se Jeanne fosse stata così non mi sarei sciolto." Avevano ragione i mistici: penitenza e digiuno non valgono. A ogni modo tutto era oramai dileguato. Restava solamente l'umile sentimento di una fralezza essenzialmente umana che, uscita vittoriosa da prove difficili, può ricomparire improvvisamente ed essere vinta da un soffio. Il paesello era deserto. La gente di Trevi, di Filettino, di Vallepietra, cessato il temporale, era partita commentando i fatti della mattina, la guarigione dubbia, la guarigione fallita, i moniti seminati alacremente da seconde mani contro il seduttore del popolo, il falso cattolico. All'uscita del villaggio Benedetto fu veduto da due o tre donne di Jenne. L'abito laico le fece allibire, lo credettero scomunicato, lo lasciarono passare in silenzio. Pochi passi più in là fu raggiunto da qualcuno che correva. Era un giovinetto magro, biondo, dagli occhi azzurri, intelligentissimi. "Lei va a Roma, Signore Maironi?" diss'egli. "La prego di non chiamarmi così" rispose Benedetto, spiacente di apprendere che il suo nome, chi sa in qual modo, si era divulgato. "Non so se vado a Roma." "Io La seguo" disse il giovine, impetuoso. "Mi segue? Perché mi segue?" Il giovine gli prese, per tutta risposta, una mano, se la recò alle labbra malgrado la resistenza e le proteste di Benedetto. "Perché?" diss'egli. "Perché ho il disgusto del mondo e non trovavo Dio e oggi mi pare, per Lei, di essere nato alla gioia. Permetta, permetta che La segua!" "Caro" rispose Benedetto, commosso, "non so neppur io dove andrò." Il giovinetto lo supplicò di dirgli almeno quando avrebbe potuto rivederlo, e siccome Benedetto non sapeva veramente come rispondergli, esclamò: "Oh La vedrò a Roma! Lei andrà a Roma, certo!" Benedetto sorrise. "A Roma? E dove trovarmi, a Roma, se ci vado?" Quegli rispose che sicuramente a Roma si parlerebbe di lui, che tutti saprebbero dove trovarlo. "Se Dio vorrà!" disse Benedetto con un affettuoso cenno di saluto. Il giovinetto gentile lo trattenne un momento per la mano. "Sono lombardo anch'io" diss'egli. "Sono Alberti, di Milano. Si ricordi di me!" E seguì Benedetto con lo sguardo intenso finché, a una svolta della mulattiera, disparve. Alla vista della croce dalle grandi braccia, sull'orlo della discesa, Benedetto ebbe un improvviso sussulto di commozione, dovette arrestarsi. Quando si rimise in cammino fu preso da vertigini. Fece pochi passi ancora, barcollando, fuori della via per togliersi dal passaggio della gente e si lasciò cadere sull'erba in un grembo del prato. Allora, chiusi gli occhi, sentì che non era un malessere passaggero, ch'era qualche cosa di più grave. Non smarrì del tutto la conoscenza, smarrì l'udito, il tatto, la memoria, la nozione del tempo. Al primo riaversi, la sensazione, ai dorsi delle mani, del panno grosso, diverso da quello della solita sua veste, gli mise una curiosità non tormentosa, quasi divertente, circa l'identità propria. Si andò tastando il petto, i bottoni, gli occhielli, senza capire. Pensò. Un ragazzo di Jenne che gli passò vicino sul prato, corse a Jenne, raccontò ansante che il Santo giaceva morto sull'erba, presso la croce. Benedetto pensò con quell'ombra di ragione oscura che ci governa nel sogno e al primo svegliarci. Non erano i panni suoi, erano i panni di Piero Maironi. Egli era Piero Maironi ancora. Ne fu sgomentato e rinvenne del tutto. Si levò a sedere, si mirò la persona, girò lo sguardo intorno, per il prato, per i monti velati dalle ombre della sera. Alla vista della grande croce la sua mente si ricompose. Si sentiva male, male assai. Cercò di rimettersi in piedi e vi riuscì a fatica. Si avviò verso la mulattiera domandandosi che potrebbe fare in quello stato. Vide qualcuno venir frettoloso per la mulattiera, da Jenne, fermarglisi in faccia; udì esclamare: "Dio, è Lei!" riconobbe la voce della donna che gli aveva parlato con tanta passione fra i tuoni e i lampi. Ella sola, di tanti che avevano udito a Jenne il racconto del ragazzo, era venuta. Gli altri non avevano creduto o non avevano voluto credere. Era venuta correndo, folle di angoscia. Ora si era fermata di botto, a due passi da lui, incapace di proferir parola. Egli non sospettò che fosse venuta per lui, le diede la buona sera e passò. Ella non gli ricambiò il saluto, affannata, dopo la prima gioia, di vederlo camminare male, non osando seguirlo. Lo vide fermarsi con un uomo a cavallo che saliva, parlargli; fece un balzo avanti per udire. L'uomo era un mulattiere mandato dai Selva in cerca di Benedetto. I Selva erano partiti da Jenne poco dopo quest'ultimo, con due muli per le Signore, credendo raggiungerlo sulla costa. Giunti all' Aniene senza veder nessuno, avevano interrogato un viandante che veniva da Subiaco. Colui non seppe darne notizia. Noemi che doveva prendere l'ultimo treno per Tivoli, era partita con Giovanni, nascondendo il suo rammarico; il mulattiere era stato rimandato a Jenne per cercarvi di Benedetto e anche per riportarne un ombrellino dimenticato all'osteria; Maria era rimasta ad aspettarlo sulle ghiaie dell'Infernillo. La giovine maestra udì Benedetto domandare al mulattiere, per carità, che gli portasse da Jenne un po' d'acqua. I due si parlarono ancora ma lei non attese altro, scomparve. Benedetto aveva accettato, dopo una breve conversazione col mulattiere, di raggiungere, a cavallo, la signora Selva. Rimasto solo, sedette sotto la croce aspettando il ritorno del mulattiere con l'acqua e con l'ombrello. La luna falcata si veniva dorando nel cielo chiaro sopra i monti di Arcinazzo; la sera era senza vento, tepida. Benedetto si sentiva le tempie pulsare e ardere, celere e breve il respiro. Dolore non sentiva; e l'erba odorante del prato, gli alberi sparsi, le grandi montagne ombrose, tutto gli era vivo, tutto gli era pio, tutto gli era dolce di un mistero di amore orante che inclinava la stessa falce della luna verso le cime placide nel cielo di opale. Don Giuseppe Flores gli diceva nel cuore che sarebbe soave di morire così col giorno, pregando insieme alle cose innocenti. Passi frettolosi, dalla parte di Jenne. Si fermarono un po' discosto. Una bambina si avanza verso Benedetto, gli porge timidamente una bottiglia d'acqua e un bicchiere, fugge indietro. Benedetto, meravigliato, la richiama; ella viene lenta, vergognosa. Richiesta del suo nome, tace; dei suoi genitori, tace. Una voce dice: "È la bambina dell'oste." Benedetto riconosce la voce e, al fioco lume della luna, la persona silenziosa rimasta indietro per lo stesso squisito sentimento che le ha fatto prender con sé la bambina. "Grazie" diss'egli. Ella si appressò un poco, tenendo la bambina per mano, sussurrò: "Sa che i preti hanno parlato colla madre del morto? Sa che ora questa donna accusa Lei di averlo fatto morire?" Benedetto rispose con qualche severità nella voce: "Perché mi dice questo?" Ella conobbe di avergli fatto dispiacere accusando alla sua volta, esclamò desolata: "Oh mi perdoni!" E riprese: "Posso farle una domanda?" "Dica." "Ritornerà mai a Jenne?" "No." La donna tacque. Si udirono venire, da lontano, il mulattiere e il suo mulo. Ella disse, a voce più bassa: "Per pietà, una domanda ancora. Come si figura Lei l'altra Vita? Crede che uno possa ritrovare le persone conosciute in questa?" Se il lume della luna non fosse stato così fioco, Benedetto avrebbe vedute due grosse lagrime rigar il viso della giovine. "Credo" rispose gravemente "che fino alla morte del nostro pianeta l'altra Vita sarà per noi un grande continuo lavoro sopra di esso e che tutte le intelligenze aspiranti alla Verità e all' Unità vi si ritroveranno insieme all'opera." Le scarpe ferrate del mulattiere suonano vicine sui ciottoli. La donna dice: "Addio." Stavolta le lagrime suonano anche nella voce. Benedetto le risponde: "A Dio." Egli scende sul mulo, ardendo di febbre, nelle ombre della valle. Andrà dunque a casa Selva. Sa, lo ha saputo dal mulattiere, che non troverà Noemi, ma questo gli è indifferente, non la teme, neppure ricorda quel momento di lieve emozione. Un altro pensiero si agita, infiammato dalla febbre, nell'anima sua. Vi turbinano parole di don Clemente, parole di quel giovine Alberti, parole della vecchia dama inglese, vi lampeggiano dentro immagini rotte della Visione. A casa Selva, sì, ma per poco! Egli scende e la gran voce dell' Aniene gli rugge in profondo, più e più forte: "Roma, Roma, Roma."

POESIE

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MICHELSTAEDTER, Carlo 1 occorrenze

Dato ho la vela al vento e in mezzo all'onde del mar selvaggio, nella notte oscura, solo, in fragile nave ho abbandonato il porto della sicurezza inerte. Al mare aperto drizzata ho la prora per navigare, ed alla sorte oscura la forza del mio braccio ho contrapposta. Non ho temuto il vento avverso e l'onda canuta, né la mensa famigliare e l'usato giaciglio ho rimpianto o il commercio delle care e dolci cose. Né deserto e triste m'è apparso il mar sonante nella notte, anzi la voce sua come un appello mi sonò in cor della mia stessa vita; mi parve dolce cosa naufragare nel seno ondoso che col ciel confina, né temuta ho la morte ... Alla punta del golfo donde il mare s'apre libero e vasto senza fine tu m'attendi sicura e fiduciosa, le vesti al vento, ritta sullo scoglio. Costeggiar mi conviene la scogliera per uscire dal golfo, quindi uniti navigheremo, poiché a me t'affidi: sì breve tratto da te mi divide e dal libero mar sì breve tratto! - Ma perch'io tenti la bordata e tenda la vela al vento, pur l'inerte chiglia non fende l'onda, ch'ora sulle creste spumanti, or negli abissi, or sur un bordo or sull'altro la trae senza riposo. E se l'albero gema, se la scotta a spezzarsi si tenda, e nella vela ingolfandosi il vento il mio naviglio minacci di sommergere, pur sempre alla stessa distanza io mi ritrovo dalla punta agognata. Col timone io m'adopero invano al mare aperto dirizzare la prora: a chiglia inerte il timone non giova. Il vento e l'onde intanto lentamente come un rottame verso la scogliera mi spingono a rovina senza scampo. Ch'io debba naufragar senza lottare fra la miseria dei battuti scogli, presso al porto esecrato, come un vile, senza esser giunto al mare, e te lasciando sola e distrutta dopo il sogno infranto fra le stesse miserie? Gorizia, 15 settembre 1910

CAINO E ABELE

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Perodi, Emma 6 occorrenze

Dopo avere abbandonato Velleda nella grotta, Costanza era tornata a casa; trascinandosi dietro Alessio. Ella tremava per aver lasciato Maria sola al piano superiore della villa. Se la bambina si fosse destata e avesse cercato Velleda e lei, poteva mettersi a gridare, spaventarsi, e allora? Vieni, - diceva supplichevolmente la donna, - di che temi? Non c'è nessuno, il cuoco non può sentirti e fra poco usciremo di nuovo insieme per riportare qui la dormente, vieni, - e gli accostava la bocca alla bocca e lo cingeva con quelle braccia desiose, dalle quali Alessio non sapeva svincolarsi. Cosi, a forza di preghiere e di promesse, lo aveva trascinato in camera sua e dopo essersi assicurata che Maria dormiva, era tornata a lui assetata di carezze, sempre più accesa di brame, sempre chiedente nuovo piacere. Ella, nelle braccia di quell'uomo che la trattava come una schiava e compiacevasi di disprezzarla, dimenticava ogni cosa. A un tratto balzò in piedi e disse : - Alessio, vieni, dev'esser tardi - e presolo per mano gli fece scendere al buio le scale. Appena ebbero aperto la porta della villa, furono sferzati in faccia da un colpo di vento. Essi, nell'oscurità, si fissarono spaventati. Il mare mugolava e scrosciava sinistramente, il cielo era tutto nero; un dubbio li assali entrambi, un dubbio che impediva loro di parlare. Essi si diedero a correre lasciando aperto il cancello del giardino, a correre sulla sabbia, fra le piante, in direzione, della grotta. Più avanzavano e più il dubbio cresceva. Il mare in tre ore s'era gonfiato smisuratamente, aveva invaso la spiaggia e batteva contro le dune di alghe. Alcuni cavalloni le sormontavano pure e gli spruzzi andavano a sferzare il volto di Alessio, il volto di Costanza. Quando giunsero alla grotta fecero un balzo indietro. Il mare ne chiudeva rimboccatura e saliva fin sul monticello formato dalla volta. Costanza! - esclamò Alessio spaventato. La donna, con l'occhio penetrante scrutava il mare su cui galleggiavano le alghe ritolte alla spiaggia. Un baleno squarciò le nubi ed illuminò l'acqua. Vedi, - disse Costanza al suo compagno, - è morta! Morta! - ripetè egli atterrito. Sì, è morta, e il padrone è liberato da una vipera. Taci! Ma appena Costanza ebbe nominato il padrone, fu assalita dal timore del castigo, e togliendosi gli orecchini e il vezzo, li mise in mano ad Alessio, dicendogli: Va', fuggi, fuggi a Sciacca per la spiaggia, imbarcati e scrivi a Giovanni dove sei. Il giovane le rese con disprezzo quei gioielli. Assassina! Infame! - le disse e si diede a cor rere a traverso le sabbie. Costanza rimase a guardarlo per un po' di tempo al chiarore dei lampi, poi fuggi anch'essa per tornare alla villa. E morta! - diceva fra sé con rabbia feroce. La cena era durata fino a tardi in casa Moltedo e Roberto erasi coricato dopo la mezzanotte, ma la impazienza di dire a Velleda che aveva vinto, il desiderio di rivederla, lo fecero destare a giorno, e così il sole era appena alzato quand'egli trottava sulla via di Selinunte. Com' era felice di ringraziare Velleda, di attribuirle tutto il merito di quel fatto, di chiederle scusa dei dolori che le aveva involontariamente ci, rionali e di assicurarla che tutto l'avvenire lo avrebbe consacrato a lei! -Egli si sentiva più sicuro di sé dopo quella lotta nella quale aveva misurato le sue forze e con la mente abbracciava tutto il vasto campo che relezione recente schiudeva alla sua attività. Voleva emergere, voleva conquistare nel mondo politico un posto eminente per offrirlo a lei, alla sua cara, e la vaga speranza che ella fosse un giorno libera, che potesse farla sua, gli s'insinuò nel cuore. La partenza dovrà esser rimandata, - disse a un certo punto il Lo Carmine. - Sento che il vento soffia gagliardo. Ne avremo per tre giorni, - rispose -Roberto. Peccato! Sono impaziente di partile e la signora Velleda ha bisogno di svago. Povera signora! - dissero i due amici. - Ha tanto sofferto. La carrozza procedendo oltrepassala gruppi d'operai dello Stabilimento. Tutti si schieravano, salutando il padrone. Come sono cambiati! - diceva Roberto. Sì, - rispondeva il Varvaro, - ma quel povero Federico non mi esce mai dalla mente. Che barbari! E tacevano di nuovo, prestando orecchio al sordo brontolìo del mare, che pareva un cannoneggiamento lontano, e ai sibili del vento, che parevano gridi. Lasciatemi fare, Lo Carmine, - diceva Roberto scorgendo le rovine; - questa Selinunte, che ha dormito tanti secoli, noi la desteremo; dobbiamo frugare le viscere della terra e ci debbono restituire i tesori che tengono nascosti. La bonificheremo anche, vedrete! Ma che mare! - aggiunse alzandosi sulla carrozza. - Il " Selino " si regge male sugli ormeggi; bisognerà fargli prendere il largo. Vedo già che ci hanno pensato perché, la macchina è accesa. Oggi doveva giungere un vapore da Malta, non lo vedo. L'occhio del padrone, l'occhio sereno dell'uomo educato al lavoro, si stendeva già su quel piccolo mondo che amava. Roberto non era mai tornato più fiducioso, più contento in quella "villa che racchiudeva tutti i suoi affetti e le sue speranze. Ne la signora Velleda ne Maria si vedono, - disse quando la carrozza fece una breve sosta allo stabilimento per lasciare il Varvaro. Con questo tempo è naturale che stiano in casa, osservò il Lo Carmine. Sì, ma come mai sono chiuse le finestre della villa? disse Roberto assalito da un vago terrore. Costanza è pigra, - osservò Saverio, - e se non le apro io, non le apre nessuno. La carrozza si fermò dinanzi al cancello e tutti ne scesero. Roberto entrò in casa e non vedendo altri che il cuoco gli chiese di Costanza. Non è scesa, - rispose. È strano, - diceva Roberto salendo in fretta le scale. Su era tutto buio. Maria; udendo i passi del babbo, s'era alzata e socchiudendo la porta sporgeva la bocca per essere baciata. Sei stato eletto, babbo? Sì, cara, ma Leda? Dorme, ora la desto, come sarà contenta! E la bimba socchiuse la finestra, guardò e vedendo il letto vuoto, ritornò alla porta, chiamando: Babbo! Babbo! Roberto accorse. Vedi, Leda non c'è! - e gli mostrava il letto che serbava ancora l'impronta del corpo e i vestiti ripiegati sulla sedia. Oh Dio! - esclamò Roberto e si diede a chiamare Costanza. La donna fingeva di dormire e rispose : Mi vesto. Costanza, - disse il padrone accostandosi alla porta di lei, - dov'è la signora? Sarà scesa. Ma la sua veste, la sua biancheria sono qui! Babbo, dove sarà Leda? - domandava la bambina avviticchiandoglisi mezza nuda e tremante alle gambe. Costanza! - gridò di nuovo Roberto. La donna comparve ancora mezzo discinta. Ieri sera avete accompagnato in camera la signora? Sì, l'ho spogliata; saranno state le dieci. Che ha detto, si sentiva male? No, voleva alzarsi presto per venirle incontro; e poi ha dormito senza chiamarmi mai! Roberto scese tutto sconvolto e incontrò il Lo Carmine. Amico, accompagnatemi, non so quello che sia successo. Velleda non c'è. Velleda! Velleda! - gridava nel giardino, - ma nessuno rispondeva e il vento mozzava il grido. Il cuoco e Saverio, vedendo il padrone così agitato, si diedero anch'essi a cercare, inoltrandosi fra le rovine, frugando fra gli appj, spingendosi fino alla Casa dei Viaggiatori. .Roberto aveva spedito il Lo Carmine allo stabilimento a chiamare i guardiani affinchè cercassero nella campagna, ed egli solo correva in riva al mare, senza. cappello, come un pazzo, ripetendo il nome della sua cara. Il vento gli faceva svolazzare la barba e i vestati; l'acqua gli bagnava le gambe, gli spruzzava il volto, ma eg'li continuava a chiamare e a correre. A un tratto spalancò gli occhi, il nome che gettava al mare; al vento, alla campagna, gli spirò sulle labbra ed egli rimase con i piedi inchiodati al suolo. A pochi passi da se aveva veduto un corpo bianco, di una bianchezza di giglio, penzoloni sopra un mucchio di alghe; ogni ondata ne copriva il volto, ne baciava il seno. Roberto mandò un ruggito, percorse il breve tratto e preso fra le braccia quel corpo grondante acqua, quel corpo abbandonato, livido, gelato, si diede a correre attraverso il giardino, su per le scale" finché non lo ebbe deposto sul letto. Nessuno lo aveva veduto, nessuno lo aveva udito ed egli stringevasi a sé quelle povere membra irrigidite o cercava di rianimare quelle pallide labbra, senza riuscirvi. Allora un ruggito gli usci dal petto, un ruggito di belva e cadde in ginocchio col capo abbandonato sulla mano della sua cara, della sua morta. I guardiani erano giunti dallo stabilimento e chiamavano il padrone. Costanza, che era intenta a vestire Maria, sentiva tutto e le sue mani tremanti non riuscivano a compiere l'ufficio cui erano use, ma non si moveva. Però uno degli uomini vedendo tracce d'acqua sul marmo dell'ingresso e sulle scale, le seguì e giunse fino in camera di Roberto, il quale balzò in piedi udendo rumore. Gli altri guardiani erano entrati in camera anch'essi o guardavano il cadavere, muti, riverenti. Ditemi! Ditemi chi l'ha uccisa - urlò Roberto. Tutti si strinsero nelle spalle. Uno dei guardiani recava in mano la lettera di Franco a Velleda, che il duca poco prima gli aveva gettata dalla finestra, raccomandandogli di portarla alla villa, senza dirgli a chi, supponendo forse che ne sapesse leggere l'indirizzo, ed egli la porse al padrone. Roberto ne stracciò la busta, ma appena vi ebbe gettato gli occhi, mandò un grido, afferrò un revolver e fuggì. I guardiani lo seguirono, ma egli correva più veloce, correva come il vento e a un tratto, senza fermarsi, buttò via l'arme. I quattro uomini non erano ancor giunti allo stabilimento, che Roberto era già in camera di Franco, e scotendolo dal sonno, gli diceva con voce che non aveva più nulla d'umano: Che n'hai fatto di Velleda? Il duca taceva spaventato. Tu l'hai uccisa, confessa? No, - rispondeva Franco balzando dal letto. Roberto lo afferrò gridando: Vieni, vieni a veder la tua vittima! Assassino! Franco fece un balzo e afferrato accanto al letto un revolver, quello stesso da cui Roberto aveva tolto le cariche; pochi mesi prima, per impedirgli di morire, fece fuoco. Una palla penetrò nel cuore di Roberto. Caino! - gridò egli prima di spirare.

La piccola signora si portò il bicchiere alle labbra; Costanza ebbe un sussulto di gioia e con una premura insolita le slacciò il vestito; le tolse le scarpe e non si allontanò se non quando la vide a letto, col capo abbandonato sui guanciali; addormentata profondamente. In casa quella notte, non era rimasto che il cuoco, e Velleda di buon'ora aveva, chiuso il cancello e sciolti i cani. Costanza prese le chiavi che la signora aveva posato sul comodino, scese scalza e attirando i mastini col leccume di un pezzo di carne, potè acchiapparli e legarli; poi con passo rapido si diresse al cancello. Alessio attendeva dall'altra parte. Ci sei? - domandò lei. Son qui, - rispose l'operaio. La chiave girò nella serratura. Entra! - disse Costanza. - La tua accusatrice dorme; sta' sicuro che non si desterà fino alle sei. Alessio entrò, ma appena vide le ombre dei palmizj che si allungavano sul viale, appena udì il fruscio del vento fra le foglie come nella notte fatale, si fermò. Vieni, devi aiutarmi, - disse la donna. Non voglio, - rispose l'altro assalito dal rimorso e dalla paura. - Questa casa mi porta disgrazia. I cani s'erano messi ad abbaiare e Alessio sfuggendo a Costanza, che lo aveva afferrato per la manica, retrocesse fino al cancello. Vieni, - gli ripetè lei impazientita. Non verrò; porta qui la mia nemica; in casa del padrone non voglio entrare. Costanza mandò una imprecazione, ma risali sola. Alessio, che era rimasto sul cancello, fu assalito da un vago timore e guardavasi intorno tremante. Se qualcuno mi vedesse! - pensava sgomento ed ebbe per un momento la tentazione di attaccarsi alla campana, di chiamare i guardiani dello stabilimento, d'impedire che si commettesse un'azione nefanda. Ma in quel momento vide Costanza comparire nel viale camminando a stento, curva sotto il peso che si era caricato sulle spalle. Era una notte scura; sopra alla villa scintillavano rare le stelle, ma verso il mare e dal lato di terra le nubi formavano un cerchio, che aveva la forma e l'aspetto della testa di un cappuccino. Da quei nuvoloni neri ogni tanto si sprigionava un lampo e allora come un fremito di luce biancheggiava dietro la cortina densa e nel punto ove s' era prodotto il lampo le nuvole acquistavano strane forme. Il tuono non si faceva udire, ma una raffica di vento; annunziante la burrasca, passava di tanto in tanto attraverso le palmette e gli alti palmizj, producendo un fruscio che somigliava allo scrosciar della pioggia. Sotto quelle raffiche il mare si agitava, mandava sordi mugolii e ogni tanto un'onda più forte delle altare infrangevasi con un colpo secco, quasi tagliente, contro la riva. Prendi, - disse Costanza abbassandosi, affinchè Alessio la liberasse dal peso di quel corpo. Il giovine lo sollevò nelle braccia poderose. Velleda era vestita di una sola camicia, sulla quale Costanza aveva gettato uno scialle. Quando Alessio sentì il contatto di quelle carni morbide, il profumo sottile che emanava da quel corpo delicato e vide quella testina riversa che a ogni passo che egli faceva inchinavasi all'indietro come la testa di un cadavere, fu preso di orrore e disse a Costanza: Riportiamola a letto, io non voglio essere il tuo complice. E troppo tardi; il cancello è chiuso, il duca ci aspetta, vieni! E fecero ancora alcuni passi in silenzio fra la sabbia coperta di piante e Alessio fermandosi di nuovo riprese : Costanza, perché vendicarci? Non sono libero forse? Vieni, - ripetè la donna a denti stretti afferrandolo per un braccio. - Sei libero, sì, ma per lei saresti in galera e io mi dannerei. Non parlarono più e quando penetrarono nel fondo della grotta Alessio depose il bei corpo bianco sulle alghe e, acceso un fiammifero, si mise a guardarlo. Franco non vi era ancora e Costanza, uscendo sulla spiaggia, non lo vide neppure al bagliore dei lampi che si facevano più fitti. Quando rientrò nella grotta sorprese il giovane in ammirazione. È bella? Ti piace? Godine, io non sarò gelosa, anzi la vendetta sarà più grande quanti più saranno gli uomini che l'avranno insozzata, la maledetta! Taci! Taci; strega, - diceva Alessio rivoltato da quel cinismo. Velleda era bella davvero col piccolo capo appoggiato sopra un mucchio di alghe e il corpo circondato dalle scure piante. La camicia sottile seguiva le curve del seno e delle anche e i piedi soltanto erano nudi. Pareva una giovinetta pudicamente coricata, una giovinetta composta e casta anche nel sonno. Eccolo! - disse Costanza udendo un rumore di passi sulla sabbia indurita dall'acqua. Alessio si alzò e usci, mentre il duca entrava. Perché così tardi? - gli domandò Costanza. Sono passati i doganieri e ho avuto paura di esser sorpreso. Hai scelto invero un luogo molto strano. Non dubitate; c'è chi veglia, - ella rispose. - Lei è là e dorme. Non v'indugiate troppo, - aggiunse con intonazione sarcastica. - Venite, - e presolo per la mano lo condusse accanto alla dormente. Ci vedi anche nelle tenebre! - osservò Franco. È l'odio che mi guida; voi non sapete odiare come me. Addio, - e uscì per andare in cerca d'Alessio. Franco, eccitato dalla lunga attesa, si gettò come un pazzo su Velleda, ma appena sentì quelle carni ghiacciate dall'aria della notte e quella bocca che non rispondeva ai suoi baci, fu preso da un vago terrore. Non così aveva sognato di possederla; non così. Se l'era figurata nelle lunghe veglie, piena di ardori, di ribellione forse; aveva vagheggiato di lottare con lei, di domarla alla fine con l'impeto della sua passione, ma mai aveva pensato di stringerla a sé inerte, insensibile. Oh! non era quello il premio dopo un così lungo delirio : non era un premio! Velleda! Velleda! - le diceva scotendola, ma ella dormiva sempre sotto l'azione del potente narcotico, dormiva così profondamente che a Franco a momenti veniva il sospetto che fosse morta, ma quel sospetto si dileguava sentendola debolmente gemere. Allora la baciava di nuovo, l'accarezzava tutta, cercava di riscaldarla al contatto della sua carne, della sua carne ardente, fremente di desiderio e di brama, e per un istante illudevasi di averla scossa dal letargo, di averle comunicato il suo fuoco, di averla fatta fremere, ma l'illusione svaniva presto lasciandolo spossato e non pago. Ma poiché tutti i tentativi per destarla riuscivano vani, Franco si alzò dal giaciglio di alghe e, fattosi sull' imboccatura della grotta, chiamò Costanza. Nessuno rispose. Intanto il vento aveva rinforzato, i lampi eransi fatti più spessi e il mare s'infrangeva con fracasso sulla spiaggia, spingendo lingue listate di spuma sulla sabbia asciutta. Franco chiamò di nuovo e credè di sentire una voce die gli rispondesse : Vengo! Egli era così turbato, così scosso da quell'ora di amore senza corrispondenza, da quelle carezze smaniose prodigate a un corpo inanimato, sentiva tanto forte il disgusto di sé, che non vedeva il momento di fuggir lontano da Velleda e dal luogo che gli ricordava la sua ignominia. Gli pareva d'essere abbietto e vile, come quei satiri che vanno a scoperchiare le tombe delle giovinette per violarle. Ah! il freddo di quel corpo, lo sentiva ancora sulla carne, lo agghiacciava ancora, mentre il sudore della angoscia gli scendeva dalla fronte. Fuggire! Non voleva altro che fuggire! Egli si diede a correre sulla spiaggia, travergando quel terreno coperto di colonne infrante e di massi biancheggianti fra l'appio e le palme, che al chiarore dei lampi parevano tombe, ora inciampando, ora rialzandosi, preso da un terrore che toglievagli il respiro. E l'impressione di quelle carni gelide, di quella bocca che non si schiudeva a nessuna carezza, a nessun grido, lo perseguitò anche nella sua camera, ove appena giunto accese molti lumi, per scacciare i fantasmi che lo perseguitavano. Quando ebbe fumata una sigaretta e si fu alquanto calmato, esclamò con un ghigno di rabbia: Sono sempre un inetto, anche nel male! Ho forse goduto? L'ho forse umiliata? No, Velleda non saprà nulla e domattina, destandosi nel suo letto, ignara di tutto, correrà a stender le braccia, a offrire la bocca desiosa di baci a Roberto! No, non lo farà, si vergognerà di farlo; questo almeno voglio - e ubbidendo a un pensiero improvviso, andò alla scrivania e tracciò sulla carta queste parole: Velleda, mentre stanotte tu credevi di dormire nel tuo letto, giacevi nella grotta in riva al mare, su un letto d'alghe. Su quel letto, come una belva mi sono gittate sul tuo corpo nudo e ti ho fatta mia. Voglio che tu lo sappia affinchè il pensiero di quest'onta tu lo senta anche nelle braccia di mio fratello, affinchè tu lo respinga inorridita. Si, sei stata mia, rammentalo sempre. Tu arrossirai ora dinanzi a me, tu non potrai più trattarmi con disprezzo, poiché tu mi appartieni; ma non è inerte, insensibile che ti voglio ancora. Ti voglio, viva, animata, fremente; ti voglio subito, poiché il mio desiderio ,si è fatto più vivo, più imperioso. A quando? Il duca non firmò la lettera, ma dopo averla chiusa in una busta e avervi fatto l'indirizzo la sigillò con l'anello di smeraldo, che portava incisa la mano che spezza il pane, con lo stemma dei Frangipani. Domattina saprà tutto, - disse, e accesa un'altra sigaretta prese a fare con cura minuziosa la sua toilette toiletteda notte.

Allora il Lo Carmine si diede a esporre a Velleda il bene che Roberto avrebbe potuto fare a quel paese così abbandonato dal Governo. Prima di tutto bonificarlo, riprendendo dopo tanti secoli i lavori intrapresi da Empedocle; poi creare una colonia agricola nei terreni strappati alla palude e alla malaria, in terzo luogo ottenere del bilancio dell'istruzione pubblica maggiori fondi per gli scavi. Qui la volevo! - esclamò Velleda. - Dica la verità: ella desidera che un uomo colto, un archeologo, conoscitore di questi luoghi vada alla Camera, per ottenere che Selinunte esca dalla terra che la copre, perché lei possa frugare questa spiaggia in tutti i versi. Sarebbe forse un desiderio colpevole? - domandò il Lo Carmine, balbettando più del consueto. No davvero. Anzi è un'ambizione molto modesta ; le mie sono più vaste, più grandi. Lo scienziato non le domandò a che miravano quelle ambizioni; lo indovinava ed era sicuro che Roberto avrebbe accettato il mandato per compiacerla. Noi vi sorprendiamo! - esclamò Roberto mostrando 0171 la testa di dietro un muro basso. - Ah! ho capito! aggiunse rivolgendosi a Velleda scherzando. - Non è voluta venir con noi perché aveva un appuntamento col Lo Carmine! Il viso di lui mi dice che qui si tratta di un complotto. Sì, - rispose Velleda, - noi si cospira contro l'onorevole Orlando, il quale sarà in questo momento nella suo villetta, senza sospettare che dinanzi al mare due persone attentano alla sua felicità. Franco, che era sopraggiunte insieme con Maria, non capiva nulla; Roberto credere che si trattasse del processo, perché l'avvocato Orlando era appunto il difensore d'Alessio e disse : Io non devo saper nulla di questo complotto? Per ora no; più tardi forse. È curioso? - gli domandò ridendo Velleda. - Un poco. Tutti insieme si diressero verso casa. Roberto aveva pregato il Lo Carmine di pranzare con loro, così che quella sera il pranzo fu più animato. Velleda però era taciturna. Era bastato un sorriso di trionfo di Franco per agghiacciarle il sangue. Evitava d'incontrare lo sguardo freddo, sarcastico del duca, ma bastava la voce di lui per ferirla e barbaramente ripeteva a sé stessa, per risentire la vergogna dell'insulto : Mi ha baciata! Mi ha baciata! Era già notte alta, una notte quieta e serena, quando Velleda si alzò da tavola. Ella offrí il caffè agli ospiti e a Roberto e poi per non parlare con Franco, condusse Maria a letto. Le altre sere lasciava per solito a Costanza quella cura, ma quella sera volle spogliare da sé la bambina. Che cosa hai fatto oggi? - le domandò. Niente; mi sono divertita con lo zio Franco. Figurati; fingeva che io fossi grande e mi trattava come 0172 una signora. Mi diceva che ero bella, che avevo gli occhi come un'orientale, la pelle morbida e tante altre schiocchezze. E tu gli credevi? No! Che me ne importa di esser bella ora? Quando sarò grande, allora sarò duchessa. - Ma che duchessa! Egli non può trasmettere il suo titolo altro che ai proprj figli. - T'inganni, Leda: tu sai tutto, ma queste cose le sa meglio Franco di te. Il duca non lasciò a lui il suo titolo? - Perché era un maschio. Le femmine non ereditano titoli; esse portano il nome del padre e poi quello del marito; e se tu mi vuoi bene, Maria, la prima volta che lo zio ti parla di queste sciocchezze devi rispondergli che tu non hai bisogno di titoli, perché ti basta il nome onorato del babbo. Me lo prometti, Maria? S'era inginocchiata accanto al letto della bimba e la guardava con tale intensità d'affetto, che ella, attratta da quello sguardo, le buttò le braccia al collo, dicendole : Farò quello che tu vuoi; Leda, perché ti voglio tanto bene! Ora; dormi, cara, - disse, e chiamata Costanza ricornò in sala. Il Lo Carmine, già s'era alzato per andarsene. Bravo, - gli disse in modo da essere udita da Franco - Lei sa che devo parlare al signor Roberto. Gli parli subito e farà bene, - rispose l'altro. Il duca rimase un momento perplesso, ma poi si rassicurò pensando che del fatto della mattina non avrebbe letto niente a suo fratello, che si sarebbe fatta piuttosto ammazzare. Per via voleva confessare il Lo Carmine e per questo gli usò la cortesia di ricondurlo fino alla Casa dei Viaggiatori, ma il Lo Carmine non si fece confessare. Era 0173 uomo di poche parole ed aveva quella serietà di carattere che è uno dei tanti pregi dei siciliani; eppoi il duca non gl'ispirava nessuna simpatia. Franco rimase per alcun tempo a passeggiare sulla spiaggia, guardando la villa illuminata e specialmente la sala, nella quale scorgeva Velleda seduta vicino alla vetrata aperta. Non vedeva Roberto, ma ne indovinava la presenza, osservando che Velleda parlava animatamente come se cercasse di convincerlo di un fatto. Gli rivela tutto, lo aizza contro di me! - diceva perplesso e ansioso. - Perfida! Ma un momento dopo, vedendo Velleda che cessava di parlare e appoggiando la testa alla spalliera della poltrona sorrideva ascoltando tranquillamente ciò che rispondevate l'altro, si calmò. Non è di me che parla: c'è un altro mistero; una cosa che la fa felice. Se avesse narrato di me, avrebbe pianto, sarebbe andata in collera; invece ha una espressione severa sul volto; non ha astio! La conversazione fra Velleda e Roberto durava lungamente e Franco non sapeva scendere dal monticello di sabbia dal quale il suo occhio si spingeva dentro la sala. A un tratto vide Roberto alzarsi, accostarsi a lei, ma invece di curvarsi a baciarla, sollevò la mano che Velleda posava sul bracciale del seggiolone e se la portò alle labbra. Un momento dopo Roberto era in giardino, e chiudeva il cancello; dall'alto della terrazza Velleda gli gridava : Buona notte, mio buon signore! - e rientrava in sala per scomparire. Velleda aveva vinto le esitazioni di Roberto perché gli aveva detto: Io, che ho rasentato la gloria, non ho più ambizioni per me; tutte le mie ambizioni sono riposte in lei. Accetti e sarà eletto. Col suo ingegno, con la sua attività, con le larghe vedute e specialmente col suo cuore, 0174 che ha tutte le virtù più elette e si commuove a tutti i dolori, capisce tutti i bisogni dell'età moderna; potrà fare tanto bene. Lei, che è un solitario, un carattere integro e assolutamente puro, portando fra tanti utilitarj la sua rettitudine di giudizio e la sua coscienza retta, farà, dei proseliti. Non è possibile che non si manifesti una reazione; che un bisogno di probità e di onoratezza non si faccia strada nelle masse; e lei sarà l'apostolo di queste due virtù, il rigeneratore. Accetti! Ma saremo spesso divisi! - aveva osservai Roberto. È vero, - aveva risposto Velleda, - ma quello divisioni ci faranno meglio sentire l'affetto che ci lega. Accetti e mi farà felice! Roberto s'era lasciato convincere ed era stato in quel momento che Velleda aveva appoggiato la testa alla spalliera della poltrona, e, sicura della vittoria, aveva tracciato a Roberto tutto quello che poteva far di utile, specialmente nel campo della legislazione sociale, proponendo leggi per migliorare la condizione degli operai, per assicurare le famiglie in caso d'infortunio, per far cessare quell'odio di classe; che si accentua ogni giorno più contro la borghesia, la trionfatrice crudele del 1793. Sì Vellcda, io farò tutto quello che vuole, io mi lascerò guidare da lei, - aveva risposto Roberto e le aveva baciato la mano. Franco aveva assistito a quella scena, avevo udito Velleda dar la buona notte a Roberto, eppure non credeva alla purezza del loro affetto, e la sua fantasia eccitata glieli rappresentava ora stretti in un ardente abbraccio, ora dolcemente stanchi dopo lunghe ore d' amore, ma mai mai egli voleva ammettere che amandosi così profondamente, essi si fossero imposti un sacrifizio sovrumano. Anche quella sera Franco tornò stanco e irritato nel suo quartiere e penò molto prima di addormentarsi. 0175 Perché il Signorini non gli rispondeva? Ah! se avesse potuto scoprire una macchia sul passato di Velleda, l'avrebbe avuta in suo potere! Come sarebbe stato felice allora di sapere umiliata quella superba, di poterla piegare alle sue voglie, di vedersela dinanzi supplichevole, offrendo il suo amore in cambio del silenzio. La solita idea fissa lo torturava. Ora anche l'invidia per Roberto era meno viva; non lo invidiava più per la fortuna negli affari, per la stima di cui godeva, per quella superiorità che tutti gli riconoscevamo su di lui e neppure per i benefizj che Roberto gli aveva fatti ; lo invidiava soltanto per essersi fatto amare da Velleda. Questa invece non pensava a lui. Il passo che stava per dare Roberto dietro suo consiglio, le pareva così grave che ne esaminava con mente calma tutti i vantaggi e gli svantaggi, e in certi momenti si pentiva del consiglio, ma subito dopo ripensava alla nobile opera che egli avrebbe potuto compiere e ricacciava nel fondo dell'anima i dubbj. Fu in uno di questi momenti di fiducia che scrisse al Lo Carmine di comunicar pure ai suoi amici che Roberto accettava. Ella posò la lettera senza chiuderla sulla scrivania, per vederla appena desta e modificarla nel caso che il sonno le avesse dato un altro consiglio. Sia il sonno l'avvalorò, invece, nel suo proposito e la lettera fu recapitata la mattina presto al suo indirizzo.

- gridò la malata dopo una scossa violenta e poi ricadde col capo abbandonato sui guanciali e chiuse gli occhi. Roberto, spaventato, le prese la fronte fra le mani e le accostò la bocca alla bocca per sentire se respirava ancora, Vive! - esclamò, e due lagrime mute gli scesero lungo il viso. Egli non aveva mai passato una notte così straziante, così angosciosa, mai! Dopo quell' accesso, Velleda non riaprì gli occhi. Respirava affannosamente e pareva assorta in una specie di letargo. L' aria, entrandole direttamente nella gola, produceva un lieve gorgoglio, come un rantolo cadenzato, che Roberto non poteva udire. Dio, come si sentiva isolato su quella spiaggia lontana, senza soccorsi della scienza, senza poter calmare la sua ansia, senza poter chiamare al capezzale della malata tutti i medici possibili; a fine di trovarne uno almeno che sapesse suggerire il rimedio pronto, il rimedio sicuro! Vedeva don Calogero dubbioso, ricorrere ogni momento alla farmacia, chiedendo forse il suggerimento al cartellino di una boccetta; lo vedeva preparare ora una ricetta e ora un'aura, incerto forse sulla natura del male, che egli al solito aveva battezzato per infezione malarica, scosso nella sua fede nel chinino, che non faceva punto scemare la febbre, perplesso di fronte a certi sintomi che non sapeva spiegare. Quel sonno stesso lo sgomentava e a un certo punto; rialzando gli occhi dal volto alterato della malata, incontrò lo sguardo di Roberto. È imminente il pericolo? - domandò questi con voce strozzata. Non so, non so nulla, le idee si confondono; speriamo nelle forze dell'inferma. Segui a queste parole un lungo e penoso silenzio; il medico non esperimentava più rimedi, solo rinnovavate il ghiaccio sulla testa e usciva ogni tanto per andarlo a spezzare in una stanza di toilette, dove lo aveva fatto megere; Saverio si era addormentato sul ripiano delle scale e Roberto rimaneva solo presso la malata, solo a piangere senza neppure avvertire quelle lagrime, che dal cuore gli salivano agli occhi. Ora, Velleda, da rossa si era fatta livida, le labbra eransi scolorate e gli occhi chiusi parevano due globi scuri in mezzo a quel pallore terreo del volto. Ogni tanto una recrudescenza di dolore, o un brivido la faceva trasalire e ognuno di quei sussulti strappava a Roberto nuove lagrime. Gli occhi di lui erano velati dal pianto, la sua anima era immersa in un dolore infinito. Avrebbe dato la vita per veder risorgere quella creatura adorala e non poteva far nulla; - nulla! Umiliato da quella impotenza; chinava il capo non rassegnato, ma affranto, sentendo tutta la insufficienza dell'amore, tutta la insufficienza della volontà. A un tratto Velleda fece un movimento con la persona e da supina si mise di fianco; allora il gorgoglio cessò e lentamente le labbra si chiusero. Dottore, - urlò Roberto, assalito da un dubbio atroce, che non poteva esprimere con parole. Don Calogero prese il polso dell' inferma e dopo un momento disse : Le pulsazioni si fanno più regolari, la febbre accenna a declinare. Un lieve filo di speranza s'insinuò nel cuore di Roberto a quelle parole e nuove lagrime gli scesero lungo le guance. Una di quelle cadde sulla mano di Velleda; ella aprì gli occhi, fissò Roberto, e gli sorrise. Oh! quel sorriso! La vista del sole per un cieco non potrebbe procurargli piacere più intenso, gioia più grande che quel -sorriso non procurasse a Roberto. Ella, con quel sorriso gli aveva affermato che viveva, che voleva vivere per amarlo. Dopo, Velleda richiuse gli occhi e si assopì, e Roberto rimase a vegliarla con lo sguardo fisso in lei, con l'anima anelante, ma piena di speranza. I primi albori del giorno nascente penetrarono in camera senza che Velleda si destasse. Il respiro si era fatto eguale e le labbra avevano ripreso una lieve tinta vermiglia. Don Calogero, vedendola calma, si era gettato sul lettino di Maria e dormiva, ma Roberto non sentiva il sonno, non sentiva la stanchezza; sentiva di vivere per quell'affetto immenso che lo legava a Velleda, accresciuto dal timore di perderla. Egli era seduto per modo da volgere le spalle alla porta; udendo un lieve rumore alzò gli occhi e vide, nello specchio che aveva davanti, la figura di Costanza. La donna, credendo che il padrone dormisse al pari di don Calogero, si fermò e, vedendo l'inferma riposare tranquilla, volse su di lei un'occhiata sinistra, un'occhiata che non sfuggì a Roberto, il quale ebbe una percezione subitanea, e non ben definita, dei sentimenti della nutrice, che gli apparve sotto un nuovo aspetto. Egli si volse improvvisamente per non darle il tempo di ricomporre il viso e le domandò: Che cosa significa il tuo sguardo, Costanza? La donna, tremò vedendosi scoperta e tacque. Che cosa significa il tuo sguardo? - ripetè Roberto. Nulla, signore. Non mentire, - le disse accostandosi e parlandole con la bocca accosto al viso. - Che cosa ti ha fatto la signora? Nulla, poveretta, nulla. Ho dormito vestita, mi sono svegliata facendo un brutto sogno e avrò avuto la faccia sconvolta. Poveretta, sta meglio, eh! Roberto non insisté sulla domanda. La sua natura rifuggiva dall'ammettere il male e il cuore fiducioso accettava ogni giustificazione che avesse apparenza di verità. Del resto; Costanza si mostrava così premurosa per Velleda e in punta di piedi andava riordinando la stanza e faceva sparire tutto ciò che attestava delle cure affettate della notte, chiudeva le imposte perché la luce troppo viva non turbasse il senno della malata, e a vederla così attenta, così silenziosa; pareva una creatura, devota. Roberto si alzò per andare a destar Maria con un bacio, come le aveva promesso, e la perfida creatura, non sentendosi più osservata, si chinò su Velleda e mormorò fra i denti: Vivi, vivi pure per la mia vendetta, e io saprò convertire la tua vita in una agonia, in un supplizio! -Al ritorno di Roberto, Costanza era ritornata umile e. premurosa e soltanto dietro invito di lui lasciò la camera per andare a vestir Maria. Ma prima di uscire gli raccomandò di chiamarla se c'era bisogno. Don Calogero, dopo un sonno di, poche ore; si destò e dal polso capì cubito che la febbre non avrebbe continuato con violenza. "Declinava, anzi; rapidamente e il viso della malata era coperto di sudore. Credo che non ci sia più nulla da temere; andate pure ai vostri affari; - disse a Roberto. L'assenza del Varvaro obbligava Roberto a recarsi allo stabilimento. Egli non pensava più alla seduta, eletforale del giorno precedente, ne al discorso dell'Orlando ; tutto spariva dalla sua mente, eccettuato la malattia di Velleda. Col cuore riaperto alla speranza, egli si diresse dunque alla vasta fabbrica che sorgeva sulla riva del mare e dalla quale s'inalzavano pennacchi di fumo. Appena vi pose il piede, traversò con passo rapido il piazzale e andò nel suo studio ad aprire la posta. I capi-officina, vedendolo giungere, si erano affrettati a recarsi da lui. Che cosa volete? - domandò loro Roberto. Padrone, gli operai hanno letto il discorso dell'avvocato Orlando. Ebbene? Essi c'inviano per sapere se sono vere le intenzioni che vi si attribuiscono. Vere! - esclamò Roberto meravigliato. - Non mi conoscete forse? Non vi ho provato che il mio scopo consiste nel dar lavoro e nel far guerra con questo alla miseria del paese? Come può nascervi un sospetto sulle mie intenzioni? I capi-officina uscirono per riferire le parole del padrone, ma esse non distrussero il sospetto destato dallo affermazioni dell'Orlando. Quando lo avremo eletto, - diceva Giovanni ai compagni, battendo svogliatamente sui cerchi dei fusti, questi li farà fabbricare con le macchine che ha già pronte, per nulla non ha fatto quella spesa. E i falegnami ripetevano con rabbia: - E' vero; per nulla non ha fatto quella spesa! La stessa scena avveniva sul piazzale fra quelli che rotolavano i fusti, nei lunghi magazzini, dove gli operai travasavano il vino. Quando due si incontravano; accennando gli elevatori già montati accanto ai pozzi; dicevano: Quando gli avremo dato il voto, metterà in moto quelli e noi saremo licenziati. E questo timore, che si traduceva in malcontento; aveva invaso tutti e delle macchine; del tram, di quelle innovazioni che avrebbero ridotto a una proporzione ineschinissima il numero dei lavoranti, si parlava da tutti, e il lavoro languiva. Roberto, dopo aver letto le lettere, andò a sorvegliare gli operai. Perchè questa rilassatezza? - domandò a Giovanni. Perché è inutile lavorare, quando sappiamo che ci manderete via, padrone. Sì, i pigri non fanno per me e neppure i turbolenti, rispose egli. Udiste? - domandò Giovanni ai compagni appena Roberto fu uscito. - Saremo mandati via; l'Orlando aveva ragione. Roberto non aveva prestato se non una fugace attenzione a quegli incidenti: il suo pensiero era inchiodato presso l'inferma, presso la sua cara. Egli salì un momento da Franco, per dirgli che l'avvocato di Roma aveva avuto una proposta di acquisto per una vigna sulla via Salaria. Rispondigli tu; io non ho tempo ne voglia, aggiunse. Sta meglio la signora? - disse Franco. Credo, spero; ma ora deve giungere il professor Angelini da Palermo e io corro alla villa. Nonostante le esortazioni dei capi-officina, gli operai non lavorarono più non appena il padrone ebbe lasciato lo stabilimento. Soltanto il vecchio Federigo e pochi altri portavano il vino da un punto all'altro dei vasti magazzini deserti. L'officina dei fusti era vuota e Giovanni e gli altri malcontenti erano adunati sul piazzale, discutendo. Franco vedevali dalla finestra di camera sua e gioiva.

Se tu non lo facessi, io dovrei dirgli di partire, e lontano di qui sarebbe anche più abbandonato e infelice. Saprai essere forte contro le sue insinuazioni, Maria? Roberto aveva nella voce e nello sguardo quell'affascinante dono della persuasione, proprio degli apostoli, di coloro che parlano al cuore degli individui e delle masse, fascino indescrivibile che sfugge ali' analisi e che consiste forse nella grande armonia fra il pensiero e il sentimento. Maria subì il fascino delle parole e dello sguardo paterno e si gettò nelle braccia di Roberto, commossa. Egli la baciò affettuosamente e nell'alzarsi disse a bassa voce a Velleda: Ci sarà fatale, Franco? Ella non rispose. I suoi presentimenti erano sinistri, ma non voleva turbare la pace di quella grande anima, e i sibili del vento, la burrasca che si scatenava sulla villa; le parvero in quel momento i prodromi dell'altra che sentiva accumulare sulle loro teste.

Vedendo uscire i guardiani, hanno creduto di poter meglio compire il furto, mentre lo stabilimento era quasi abbandonato. Ecco quello che ha confessato il malandrino e a questa rivelazione lo ha spinto il timore di esser complicato in un affare più grave: quello del rapimento della signorina. Inoltre, pare provato che i malandrini non avessero nessun rapporto con Alessio, il quale la sera del fatto fu visto fino alle nove in un osteria a Castelvetrano, mentre gli altri erano già a quell' ora nei dintorni dello stabilimento e non si sa che sieno mai stati in città negli ultimi tempi. Ma Alessio allora? Probabilmente avrà altri compiici; ma il giudice istruttore è sicuro che il movente dell'attacco allo stabilimento era il furto, mentre qui era invece la vendetta. Ma come è possibile che tanta gente congiuri contro di noi! - esclamò Velleda presa dallo sgomento. I carabinieri, mentr'ella parlava, si mostrarono nel viale, tornando da una perlustrazione. Oh! se si potesse vivere in pace come prima! disse la signora. - Tutti questi timori che ci agitano di continuo, questo malvolere che ci circonda, queste cupidigie insensate che si manifestano con tentativi di rapine e con uccisioni, disgustano della vita e del 0116 soggiorno in questo luogo. Povero signor Roberto! Egli si studia con ogni mezzo di fare il bene e raccoglie invece dolori! E per il primo maggio, a proposito? Ha ricevuto istruzioni? Sì, doman l'altro gli operai lavoreranno fino a mezzogiorno soltanto. Questo è l'ordine. In quel giorno però scemeranno una parte delle sue responsabilità, aggiunse il Varvaro. Come mai? - domandò Velleda. La sera giungerà il signor Roberto: domattina egli parte da Roma. E non me lo diceva! - esclamò Velleda. Avevo ordine di non rivelare a nessuno l'arrivo di lui. Egli non vuole neppure la carrozza alla stazione. Andrà a dormire dai Moltedo; nella sera parlerà con il giudice istruttore e forse con Alessio, che domani sarà tolto dalla corsia comune dell'ospedale, perché nessuno assista alle interrogazioni che vuol rivolgergli il signor Roberto. Da Roma egli ha disposto tutto. Oh! creda, se fosse stato qui, nessuno avrebbe osato turbare la nostra quiete. Egli incute timore e rispetto; egli sa far rispettare la sua persona e i suoi averi. Maria corse sulla terrazza per chiedere un pezzo di zucchero e Velleda si alzò per darglielo. Avrebbe voluto interrogare ancora il Varvaro, sentirlo ancora parlare di Roberto con affetto e ammirazione, ma parevate di aver lasciato troppo tempo solo il duca e rientrò in sala. Ella prese un ricamo: una portiera di raso sulla quale trapuntava grandi fiori in seta, e curva su quella rimase a parlare con Franco. La felicità la rendeva eloquente, e senza dire che Roberto sarebbe tornato tra due giorni gli dipingeva con vivaci colori l'esistenza lieta che avrebbero menato allorché suo fratello fosse stato in mezzo a loro. - Tutto langue ora in questo luogo, - ella diceva, 0117 perché l'anima manca; ma vedrà come ogni piccolo avvenimento si cambia in festa, come ogni cosa risorge. Mentre parlava pareva a Franco che dietro la pelle alabastrina del volto di Velleda si accendesse una face, illuminandola dall'interno. Quella face è l'amore, - pensava Franco fissandola con sorda gelosia. - Basta che senta parlar di lui, che ne parli, perché ella si trasformi. Le spariscono dal volto le tracce delle sofferenze, le svaniscono dalla mente i timori e le ansie; ella rivive, palpita e ogni sguardo contiene un inno di adorazione, ogni parola è una carezza per l'assente. Oh! che adorabile, che unica amante deve essere quella donnina, che si concede tutta col pensiero, che non ha finzioni, non ha reticenze! E la guardava sempre più avidamente, fingendo di seguire con l'occhio i fiori delicati che pareva sbocciassero sotto le sue manine bianche, senza anelli, trasparenti come il volto; quelle manine di cui Franco sognava le carezze blande sulla faccia e nei capelli. A un certo momento il Varvaro si alzò per ritornare alla sua casa e il duca dovette seguirne l'esempio. Tutti e due, ogni sera prima di andarsene, facevano una ispezione al giardino dalla parte interna e poi da quella esterna, insieme coi carabinieri e affidavano a Saverio, che ora dormiva alla villa, la cura di chiudere le porte. Soltanto dopo essersi assicurati che non vi era nulla da temere, andavano allo stabilimento. Essi non permettevano che Velleda si esponesse più, e la signora, per non lasciare sola Maria in camera, vi si rinchiudeva insieme con lei e mentre la bambina dormiva, ella scriveva o leggeva. Costanza dormiva, come si è visto, nella camera accanto, e Saverio, sul ripiano della scala, sopra una materassa che poneva attraverso all'uscio della camera in cui Velleda vegliava. 0118 La felicità quella notte impedì alla signora di sentir la stanchezza. Ella rimase lungamente seduta a una scrivania, rileggendo la lettera memorabile di Roberto, quella cui ella non aveva potuto rispondere subito. Gli aveva scritto però il giorno dopo, senza reticenze, senza false vergogne, col cuore. Non s' era mostrata sorpresa della confessione dell'affetto di Roberto, ne della sicurezza che egli dimostrava di esser corrisposto. Accettava i voleri di lui perché non aveva più volontà propria, ne vita propria; perché soltanto accanto a lui poteva vivere. Dal momento che questo grande affetto mi ha soggiogata, - avevagli scritto, - io ho sentito che nel mondo sussisto la felicità, che la vita ha le sue gioie; come il deserto ha i suoi fiori, e che sui ruderi di una esistenza barbaramente angosciata; può costruirsene una nuova. E la felicità che provo io non la vedo limitata al presente, ali' età delle illusioni, alla breve gioventù che ci riinane; ma io la vedo estesa ai tardi anni della vecchiaia, la vedo raggiare dai nostri volti rugosi, estrinsecarsi in una grandiosa opera d'amore in cui i nostri cuori si rinnoveranno sempre, sempre giovani fino alla pausa suprema, alla quiete della tomba. In questi giorni stessi di angosce continue, io sento la carezza del suo affetto, sento la forza che m'infonde, la lucidità che presta al mio cervello; sento il legame che stabilisce fra noi, a tanta distanza, e che mi sostiene e mi sprona a proteggere tutto ciò che le è caro. L' assicurazione che ella mi da, che senza un ostacolo vivente mi avrebbe fatto il dono del suo nome, mentre mi strappa lacrime di tenerezza, non desta in me nessuna meraviglia. La stima di cui mi circonda; il dominio assoluto che mi ha dato sulla sua casa, la fiducia che ha in me, grande, completa, mi dicono ben chiaro che, liberi entrambi, ella mi avrebbe affidato il suo nome che io avrei accettato umilmente, sentendo tutta la grandezza 0119 del dono e tutta la felicità di riceverlo. Perché io non mi sento umiliata del mio passato. Se sono stata vittima delle colpe altrui, non ho fatto nulla che la coscienza mi rimproveri. E in mezzo alle tentazioni di una esistenza agitata credo mi abbia salvato il presentimento che un giorno avrei incontrato un uomo buono, onesto, dinanzi al quale dovevo poter alzare serenamente gli occhi, cui volevo poter offrire un cuore degno del suo. E questo giorno è venuto e io ho ora un premio insperato che mi compensa della vita solitària, dolorosa; che mi compenserebbe di mille martirj più atroci di quello sofferto. Io sono, mio buon signore in atteggiamento umile dinanzi a lei, come Maria all'annunzio dell'angelo, perché mi piace ringraziarla di tutti i doni che sparge sul mio capo, perché sono commossa; ma non chino la fronte contrita come la Maddalena dinanzi al Signore, il rossore non mi copre le guance; io sono degna di lei. Questo aveva scritto Velleda al suo buon signore, come ella lo chiamava qualche volta soltanto, ma le pareva di non aver saputo esprimere tutta la gioia che provava il suo cuore, di non aver saputo sciogliere l'inno di riconoscenza, che, come melodia divina, sentiva fluttuare nell'anima, e ripensando a quella lettera, guardava la penna posata accanto al calamaio, considerandola come strumento insufficiente a esprimere con parole un sentimento più grande delle cose che si prestano alla descrizione. E intanto che ella affrettava col pensiero il ritorno di Roberto e pregustava la gioia di rivederlo senza rammentare che le ore trascorrevano mentr' ella meditava, un'altra creatura vegliava, a pochi passi da lei; vegliava agitata, rosa dall'amore e dall'odio, due sentimenti che s'erano imposessati del suo cuore. Quella vegliante era Costanza. Da otto anni, cioè dal tempo della nascita di Marla 0120 ella era in casa di Roberto Frangipani. Egli l'aveva fatta venire dalla Piana de' Greci, il paese che dà le più belle nutrici alle famiglie signorili della Sicilia. Costanza aveva perduto il suo bambino un mese prima di partire da casa, e il buon posto che aveva trovato parve a lei e al marito una fortuna. La balia aveva allora diciotto anni ed era un fiore. La morte della signora, il grande affetto che Roberto aveva per la sua piccina, crearono a Costanza una situazione invidiata e comoda alla villa. Ella abitava al primo piano, era servita, pranzava sola e il padrone le faceva continui regali. Ebbe la fortuna che Maria crescesse bella e forte, e di questo si faceva un merito alla nutrice. Chiese un aumento di salario e l'ottenne; era vana ed ebbe vesti sfarzose, ricamate d'oro alla foggia del suo paese, e gioielli come ne portano le paesane della Piana dei Greci. Il benessere, la vita comoda, la speranza di non lavorare più la fecero affezionare alla casa e alla bambina; anzi l'amore per Maria si fece dispotico ed esclusivo; non voleva altre donne in casa, e al marito, che la richiamava supplichevolmente in famiglia, rispondeva inviando denaro perché comprasse terre, ma non movevasi di dov'era. Nell'esser sempre vicina al giovane signore, Costanza vagheggiò il pensiero di farsene amare, di essere la distrazione, se non la consolazione della vita vedovile di lui, ma dovette convincersi che Roberto non la guardava neppure e se non l'allontanava era soltanto perché credeva che nessuna donna avrebbe potuto voler bene alla bambina quanto lei, che avevale dato il suo latte. Di questo disprezzo della sua bellezza, Costanza sentì sempre una ferita alla sua vanità muliebre, ma la speranza di sanarla un giorno e il tornaconto che trovava nel rimanere in quella casa, la indussero a celarla con cura. Durante tutta l'infanzia di Maria, ella dominò alla villa. Il padrone, per non staccarla dalla bambina, la conduceva 0121 seco nelle gite in mare, in carrozza e se andava a Palermo, a Napoli o altrove, Costanza lo accompagnava sempre. Il marito di lei, vedendo aumentare ogni anno i loro possessi, aveva finito per consolarsi della lontananza della moglie e non la richiamava più. Spesso, fino dal tempo in cui Maria aveva cinque anni, Robetto aveva voluto a fianco una signora, ma Costanza aveva tanto pianto, si era tanto disperata, che il padrone commosso avevale lasciato la cura esclusiva di Maria. Ma quando la bambina ebbe circa sette anni Roberto chiamò un giorno Co' stanza e le disse: La signorina deve essere educata ed istruita. Se volete continuare a starle vicina, dovete assuefarvi al pensiero che in casa venga una istitutrice. Se vi opponete, se istigate la bambina contro di lei, vi rimanderò alla Piana de' Greci. Questa volontà ferma fu significata con un tono calmo; che non ametteva replica e Costanza chinò il capo e non dette in ismanie. Fu allora che Roberto scrisse a Firenze per avere una istitutrice. Per più mesi non si parlò più dell'arrivo di quella, ma in quel tempo sopravvenne un cambiamento notevole nei sentimenti di Costanza. Alla villa era stato chiamato a lavorare il più abili: falegname dello stabilimento: Alessio, al quale il padrone voleva molto bene. A lui, per dargli un salario maggiore e anche per poterlo meglio sorvegliare; aveva affidato un lavoro importante, che consisteva nel rivestire di scaffali il suo stadio per collocarvi la biblioteca, che. cresceva continuamente, poiché Roberto riceveva invidi libri quasi ogni giorno. Quelli che si riferivano alla vinicoltura, alla chimica erano tutti allo stabilimento ma i libri di arte, di letteratura, di storia di archeologia stavano alla villa, perché il giovane studioso aveva diviso in due parti la sua vita: una dedicandola al lavoro 0124 - Addio, e tu come ti chiami? - domandò Alessio. Costanza Arcanica. Costanza la strega, ti chiamerò io. Perché? Non lo so; a te, mi pare, debban somigliare le streghe. Tu sarai orribile da vecchia, Costanza. E tu sarai sempre bello, Alessio. La voce di Maria si fece udire dalla sala, e Costanza uscì in fretta dalla stanza. La mattina dopo- l'operaio s'era appena rimesso al lavoro che la donna comparve. Buon giorno, Alessio, - disse. Buon giorno, strega. Ti ho stregato forse? Oh! no, - ribattè il giovane con fare sprezzante, Ci vogliono altre donne che te per un pari mio. Costanza abbassò il capo umiliata. Nessuno mi ha detto mai che fossi brutta. Bella non sei, - disse l'operaio avvolgendola in uno sguardo freddo sotto il quale Costanza tremò da capo a piede e non ebbe più coraggio di restare in quella stanza. A mezzogiorno trovò il mezzo di andargli a portar la colazione nel tinello e lo serviva attentamente. Alessio la lasciava fare e ogni tanto le gettava una parola dura, sprezzante per vederla fremere da capo a piede, per fissarla negli occhi lampeggianti. Perché non te ne vai, come dianzi? - le domandò a un certo punto. Perché preferisco il tuo sprezzo alla tua lontananza ; perché mi hai messo il fuoco addosso. E come lo vuoi spegnere quel fuoco? Con le carezze, - rispose ella, - e con un gesto rapido del braccio destro, gli cinse il collo e lo baciò sugli occhi. Poi fuggì ansante in giardino premendosi il cuore, allargandosi il colletto dalla camicia, come se si sentisse soffocare. 0125 In tutto il giorno non ritornò nella stanza in cui lavorava Alessio, ma la sera era ad attenderlo sul viale della villa, mentre Maria giocava alla palla a poca distanza. Addio strega! - le disse l'operaio quando le fu vicino, - L'hai spento il fuoco? No, ardo più che mai da che ho posato la bocca sul tuo volto, Alessio. Egli fece una mossa indifferente con la spalla e si mosse per andarsene. Ella lo trattenne e gli disse: Alessio, abbi compassione di me; sarò la tua schiava, amami. Ti farò felice. Ho in serbo tesori di tenerezza e li spargerò tutti sul tuo petto. Alessio, amami! Ne riparleremo, - rispose lui e avvolgendosi nel mantello breve, si mise a camminare cantarellando. Costanza rimase a guardarlo per un pezzo, mentre si allontanava fra le piante d'appio e le palmette, ferma e rigida come una statua; poi umiliata, a testa bassa tornò accanto a Maria. Nella notte seguente non dormì mai. Stendeva le braccia in cerca di lui, protendeva le labbra e lo vedeva nelle tenebre sempre dinanzi, con quel ghigno di sprezzo sulle labbra, quegli occhi affascinanti e quei muscoli di uomo forte. Se le veniva fatto di figurarsi che la stringesse fra le braccia poderose, sentiva un brivido correrle per la schiena e intravedeva mille voluttà ignorate nella breve vita coniugale. Oh! se mi amasse! - diceva mordendosi le mani, e le parole sprezzanti di lui tornandole alla memoria acuivano i suoi spasimi amorosi. Era "una febbre violenta che l'aveva assalita, uno di quei ribollimenti improvvisi del sangue che si verificano nelle nature ardenti, condannate a una lunga castità. Così smaniò tutta la notte e all'alba girava per la casa silenziosa iu attesa di Alessio, da cui non osava sperare 0126 conforto, spinta da un desiderio prepotente a rivederlo a implorare da lui la felicità. Nella mattina non potè mai parlargli, perché il padrone era insieme con Alessio, sorvegliandone e dirigendone il lavoro, e in quell'attesa la smania di Costanza si convertì in spasimo. Appena ella vide il padrone uscir fuori della villa, entrò di corsa nella stanza ov' era Alessio, e, senza parlargli, gli buttò le braccia al collo, baciandolo furiosamente sulla bocca. Strega, vattene! - le diceva Alessio senza però respingerla, lusingato da quell' ardente passione che aveva destato nella donna e infiammato dai baci di lei. Costanza non gli dava retta e continuava a coprirlo di carezze. Ora lo baciava sul collo, su quella linea scura che lo circondava come un nastro e diceva fra i baci : Come sei bello! Amore! Vita mia! Da quel momento die ella non si vide più respinta, correva di continuo da Alessio a baciarlo. Ma quei baci non smorzavano il fuoco che la consumava; erano a quella fiamma nuovo alimento. Un giorno Alessio le disse fissandola: Dimmi, strega, quando si fanno le nozze? Ella credè impazzire, benché fosse preparata a quella domanda. Stasera, durante il pranzo del padrone; aspettami nella grotta dopo la capanna del bagno; non ti far vedere da nessuno, sii prudente. Egli fece un gesto come per dire che lasciasse fare a lui: non era un novizio, e con la testa le indicò la porta. Al tramonto s'incontrarono nella grotta, ove l'acqua del mare penetrava nei giorni di burrasca, lasciandovi un letto d'alghe. E su quel letto umido, odoroso e cosparso di conchiglie e di frammenti marmorei, quelle due creature quasi selvagge si unirono senza pronunziare 0127 una parola. Costanza tenne tutte le sue promesse, e quando si lasciarono ebri ancora, egli le disse brevemente : - A domani sera, strega. Ah! dunque tu mi desideri ancora! - ella esclamò trionfante. Alessio non rispose e si allontanò sollecitamente per raggiungere la distesa delle alte piante di fichi d'India, fra le quali era più facile camminare senza esser veduto. Costanza lentamente tornò a casa pallida, con gli occhi ardenti; e salita in camera sua si gettò in ginocchio a pregar la Madonna che proteggesse il suo amore e le serbasse Alessio. Ella non aveva neppure il sospetto di commettere un sacrilegio, tanto la sua religione era impastata di reminiscenze pagane penetrate nella sua coscenza col sangue e di superstizione alimentata giornalmente dalla ignoranza. Nei primi tempi Alessio non mancò mai ai convegni e ora s'incontrava con la Costanza nella grotta marina, ora sotto le lunghe rame di una carrubba, che li avvolgeva col suo fogliame scuro, ora in una casupola abbandonata a poca distanza della villa. Poiché egli fu sazio delle carezze ardenti della donna, si fece pregare, supplicare, e quelle suppliche sollecitavano la sua vanità. Spesso le dava un convegno e poi mancava. Costanza dava in ismanie, pregava la Madonna, poi faceva le carte per vedere se era tradita e non riacquistava la pace altro che quando lo stringeva fra le sue braccia frementi di passione e lo vedeva desideroso di lei. In questo tempo Velleda giunse alla villa e Costanza non l'accolse ostilmente, perché sperava di avere maggior libertà ora che la signora si sarebbe occupata di Maria. Velleda, con la sua grazia tranquilla esercitò subito una specie di fascino su quella creatura quasi 0128 selvaggia. La signora era inoltre delicata, e la bellezza parla sempre alle anime meridionali e le induce alla simpatia. Poi Velleda non era superba; anzi parlava a Costanza con bontà e non le diceva di uscire quando talvolta divertiva Maria narrandole novelle meravigliose, che la contadina ascoltava a bocca aperta, che la distraevano dal pensare ad Alessio e l'aiutavano a trascorrere meno angosciosamente le ore in attesa dei convegni. Alessio aveva terminato di lavorare alla villa e Roberto lo aveva generosamente ricompensato. Ma la generosità del padrone invece di commuovere quell' anima pervertita; gli dette sete di maggiori guadagni. Allo stabilimento lavorava di più e era pagato meno. Fu allora che si diede a sobillare i compagni, spingendoli a chiedere un aumento di salario. Il malcontento, nato nell'officina dei fusti, si propagò ben presto ai magazzini, e un sabato sera, mentre Roberto era occupato a firmar lettere nello studio, si presentò un guardiano ad annunziargli che una deputazione di otto operai chiedeva di parlargli. A Roberto non erano sfuggite le mene e i chiacchierii di quegli ultimi giorni e capì subito di che si trattava, ma dette ordine che passassero. Alla testa degli operai era Alessio ed a lui gli altri lasciarono la parola. - Noi non possiamo continuare a lavorare alle condizioni di prima. - disse. - Vogliamo un aumento di salario. Lo stabilimento prospera e noi abbiamo diritto a viver meglio. Roberto s'era alzato e dominava tutti con l'alta persona. La sua bella calma non lo abbandonava. Non posso dare aumenti e anche se potessi non cederei mai dinanzi al tuo " voglio ". Alessio. Tu guadagni più degli altri e mi fa specie che tu osi lamentarti. - Io difendo i diritti dei miei compagni e sono con 0129 loro solidale. Se non abbiamo la promessa di un aumento, lunedì nessuno di noi si presenterà al lavoro. Ebbene; lo stabilimento rimarrà chiuso, - rispose Roberto. - Potete andare, e con un gesto della mano indicò agli operai la porta. Fuori gli altri attendevano e quando Alessio riferì la risposta avuta, si udirono fischi e grida. Roberto non s'intimorì per questo. Uopo aver firmato le lettere, guardò la pendola sospesa al muro e vedendo che indicava l'ora del desinare, si alzò, prese il cappello e traversato il piazzale uscì dalla porta dello stabilimento, passando in mezzo alla turba eccitata. Nessuno lo salutò, ma nessuno osò torcergli un cappello. Il lunedì mattina neppur un operaio andò al lavoro; ma il giovedì già cento si erano raccomandati per venire riammessi e il lunedì successivo anche Alessio tornava, insieme con gli altri della deputazione. In quella settimana aveva fatto baldoria e spesso alla sera era andato a cercar Costanza nella grotta per chiederle danaro, che ella gli dava tutta lieta, dicendogli : Prendi; tutto quello che ho è tuo: non sono tua io? Pochi giorni dopo che era terminato lo sciopero, Roberto aveva trovato Alessio in combriccola insieme con altri operai nell'ora del lavoro e aveva sorpreso queste parole : Abbiamo dovuto chinar la testa, ma verrà il giorno che la chinerà lui. Il padrone aveva fissato Alessio per fargli intendere di aver capito tutto, ma non aveva aperto bocca. Però, essendosi accorto in seguito che molti lavoravano svogliatamente, aveva chiamato Alessio e gli aveva detto : Se l'ordine e la disciplina non ritornano nello stabilimento, tu sarai licenziato. 0130 Perché io? - aveva domandato sfrontatamente Alessio. Perché tu sei il mal seme, che occorre estirpare. Ti ho ammonto più volte, ho cercato di ricondurti sulla buona via; tutto è stato inutile, peggiori sempre. Alessio era andato via borbottando. La sera dopo Roberto, tornando da Castelvetrano a cavallo seguito da un guardiano aveva sentito due palle fischiargli all'orecchio. Non aveva fatto denuncia, anzi aveva ingiunto al guardiano di tacere, ma la mattina dopo s'era rinchiuso insieme con Alessio nello studio e gli aveva detto : Tu hai voluto uccidermi ieri sera. Se ritenti il colpo e sei più fortunato, vai in galera, perché io ho scritto un rapporto del fatto, designandoti come colpevole. Per ora non ti denuncio, ma ti mando via. Esci subito. Alessio non aveva detto una parola a sua discolpa e se n'era andato. Alla fine della settimana erano licenziati i suoi amici, e da quel giorno l'ordine, la disciplina e il rispetto per il padrone avevano regnato nello stabilimento. Però da quel momento era incominciata una vita d'inferno per Costanza. Alessio non aveva trovato lavoro non voleva andarne a cercare a Marsala e viveva alle spalle di lei. Prima le aveva finito tutti i risparmj, poi le aveva preso le gioie, e se la donna non si mostrava arrendevole, egli stava giorni e giorni senza farsi vedere. Più volte le aveva chiesto di farlo entrare di notte alla villa, per non esser sorpresi nella grotta o in aperta campagna, ma ella si era sempre rifiutata per timore d'essere scoperta dal padrone. Dopo la partenza di Roberto aveva ceduto ed Alessio era stato diverse notti nella camera di Costanza, salendo da una scala di corda che ella gettava già dopo le undici prima che la signora sciogliesse i cani e si ritirasse in camera. Un indugio di Velleda nella sera fatale aveva 0131 portato all'arresto d'Alessio, e ora nella camera che le rammentava tante voluttà, la selvaggia contadina in preda alla smania malediceva la signora e con la mano alzata in alto minaccioso, diceva: Madonna, fate che possa soffrire quanto soffro io!

Le Fate d'Oro

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Perodi, Emma 2 occorrenze

La morente Regina in quello stesso istante si alzò, aprì le ali e volò all’alveare abbandonato, seguìta dalle suddite meravi- gliate. - Ho avuto il saluto dall’alto! - esclamò ella. - Mi è giunto dal cielo, dove stanno i veri felici! -

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In città tutti avevano abbandonato le case, i lavori; i vecchi, i malati, si face- vano trascinare in piazza per vedere quella gran meraviglia. Le donne regalavano gli orecchini, gli uomini le catene e gli anelli d'oro e d'argento al fortunato suonatore, il quale, a sera, aveva già fatto un sacco di quattrini. Le cose andarono bene per un mese. Tutti i giorni il Conte suonava e il Toro ballava; ma dopo un mese il Conte era stufo e ristufo di quella vita da zingaro che faceva, non accarezzava più il Toro come da principio, e non sognava altro che di comprare un castello coi quattrini che aveva fatti, per poi ritornare a far la vita da signore. Difatti un giorno, invece di farsi insegnare la strada dal Toro, si avviò da sé verso il luogo dove era la ca- sina, e per la strada pensava: - Domani rimetto il Toro nella stalla e vado a vedere se nei dintorni trovo un castello da comprare. Che bella cosa tor- nare come prima! E poi chi m'ha visto m'ha visto! - Mentre rimuginava questi pensieri nel- la mente non s'accorgeva che il Toro lo guardava fissamente e leggeva sul suo volto tutto ciò che pensava, come se fosse scritto in un libro. Cammina, cammina e cammina, arri- varono finalmente alla Casina del Toro; il Conte si spogliò del vestito da zampognaro; il Toro si spogliò delle vesti da donna, e buona notte signori, uno di qua, uno di là, andarono a riposare. Quando il Conte dormiva saporita- mente, il Toro, che aveva chiuso un occhio solo e vedeva sempre come scritti in un libro i pensieri del Conte, scavò prima una buca fonda dove sotterrò tutti i quattrini; poi salì piano piano nel fienile della casina, e colle corna sfondò il tetto. Quindi prese il volo e attraversò mari e monti, fuggendo quell'ingrato padrone. La luna, che lo vide, si mise a ridere sgangheratamente; le stelle ridevano an- che loro; due spiriti folletti che passavano di lì si presero per la mano e fecero una corsa in segno di gioia; e un vecchio gatto burlone accordò il violino e fece una suo- natina, che valeva un tesoro, poi mandò il suo amico, un cane ringhioso, nei pressi della casina perché gli raccontasse per filo e per segno come era rimasto il Conte de- standosi. Il cane tornò tutto allegro la mattina e glielo disse. Il Conte, destandosi, gira e gira, non trovando più i quattrini, non tro- vando più il Toro, era rimasto con un palmo di naso.

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