Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Piccolo mondo antico

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Fogazzaro, Antonio 2 occorrenze

Poté così, fermo sull'entrata del sottoportico, porger via via, quanto era lunga la pertica, il suo lumicino davanti ai piedi del signor Giacomo che, malissimo contento di questa illuminazione religiosa, procedeva brontolando contro le pietre, le tenebre, il moccolo sacro e chi lo teneva, sinché, abbandonato dal sagrestano e abbrancato dall'ingegnere, fu tratto, malgrado il suo muto resistere, come un luccio alla lenza, sulla soglia di casa Rigey. A Castello, le case che si serrano in fila sul ciglio tortuoso del monte a godersi il sole e la veduta del lago in profondo, tutte bianche e ridenti verso l'aperto, tutte scure verso quell'altra disgraziata fila di case che si attrista dietro a loro, somigliano certi fortunati del mondo che di fronte alla miseria troppo vicina prendono un sussiego ostile, si stringono l'uno all'altro, si aiutano a tenerla indietro. Fra queste gaudenti, casa Rigey è una delle più scure di fronte alla poveraglia delle case villane, una delle più chiare di fronte al sole. Dalla porta di strada un andito stretto e lungo mette ad una loggetta aperta da cui si cala per pochi scalini sulla piccola terrazza bianca che, fra il salotto di ricevimento e un'alta muraglia senza finestre, si affaccia all'orlo del monte, spia giù i burroni ond'esce il Soldo, spia il lago fino ai golfi verdi dei Birosni e del Dòi, fino alle distese serene di là da Caprino e da Gandria. Il signor Rigey, nato a Milano da padre francese e professore di lingua francese nel collegio di madame Berra, perduto il posto, perduta gran parte delle lezioni private per la fama cresciutagli attorno d'uomo irreligioso, aveva comperato la casetta nel 1825 per ridurvisi da Milano a vivere in quiete e con poca spesa, aveva sposato la sorella dell'ingegnere Ribera ed era morto nel 1844 lasciando a sua moglie una figliuola di quindici anni e poche migliaia di svanziche oltre la casa. Appena l'ingegnere ebbe bussato alla porta, non tanto piano, si udì un correr leggero nell'andito, fu aperto e una voce non sottile, non argentina, ma inesprimibilmente armoniosa, sussurrò: "Che strepito, zio!". "Oh bella!", fece patriarcalmente l'ingegnere, "ho da picchiar col naso?" La nipote gli turò la bocca con una mano, lo tirò dentro con l'altra, fece un saluto grazioso al signor Giacomo e chiuse la porta; tutto ciò in un attimo, mentre lo stesso signor Giacomo andava soffiando: "Padrona mia riveritissima ... me consolo propramente ...". "Grazie, grazie", fece Luisa, "passi, La prego, devo dire una parola allo zio." L'ometto passò con il suo cappellone in mano, e la giovane abbracciò teneramente il suo vecchio zio, lo baciò, gli posò il viso sul petto, tenendogli le braccia al collo. "Ciao, neh", fece l'ingegnere quasi resistendo a quelle carezze perché vi sentiva una gratitudine di cui non avrebbe sopportate le parole. "Sì, là, basta. Come va la mamma?". Luisa non rispose che con una nuova stretta delle sue braccia. Lo zio era più che un padre per lei, era la Provvidenza della casa, benché nella sua gran bontà semplice neppur sognasse di aver il menomo merito verso sua sorella e sua nipote. Che avrebbero mai fatto senza di lui, povere donne, con quelle magre dodici o quindici migliaia di svanziche lasciate da Rigey? Egli godeva, come ingegnere delle Pubbliche Costruzioni, di un buon stipendio. Viveva parcamente a Como con una vecchia governante e i suoi risparmi passavano a casa Rigey. Aveva sulle prime apertamente e solennemente disapprovata la inclinazione di Luisa per Franco parendogli quello un matrimonio troppo disuguale; ma poiché i giovani erano stati fermi e sua sorella aveva consentito, egli tenendosi la sua opinione per sé, s'era messo ad aiutare in tutto che poteva. "La mamma?", ripeté. "Sta benino, stasera, per la consolazione, ma ora è agitata perché mezz'ora fa è venuto Franco e ha raccontato che c'è stata una mezza scena con la nonna." "Oh povero me!", fece l'ingegnere, che quando udiva di qualche sproposito altrui soleva commiserarne, con questa esclamazione, se stesso. "No, zio; Franco ha ragione." Rigey pronunziò queste parole con fierezza subitanea. "Ma si!", esclamò perché lo zio aveva messo un lungo "hm!" dubitativo. "Ha cento ragioni! Ma", soggiunse piano, "dice di essere partito di casa in modo che la nonna verrà molto probabilmente a scoprir tutto." "Meglio", disse lo zio, incamminandosi verso la terrazza. La luna era tramontata, faceva buio. Luisa, sussurrò: "Mamma è qui". La signora Teresa, tribolata dalla mancanza di respiro, si era fatta trascinare sulla terrazza, nella sua poltrona, per avere un po' d'aria, un po' di sollievo. "Cosa vi pare, Piero?", disse con voce simile nel timbro a quella di Luisa, ma stanca e più dolce: la voce di un cuor mite cui il mondo è amaramente avverso e che cede. "Cosa vi pare che tutte le nostre prudenze non serviranno a niente?" "Ma no, mamma, questo non si sa ancora, questo non si può dire!" Mentre Luisa parlava così, Franco che stava nel salotto col curato ne uscì per abbracciar lo zio. "Dunque?", disse questi stendendogli la mano, perché gli abbracciamenti non erano di suo gusto. "Cosa è successo?" Franco raccontò l'accaduto velando un poco le espressioni della nonna che potevano riuscire troppo offensive ai Rigey, tacendo affatto la minaccia di non lasciargli un soldo, accusando quasi più la suscettibilità propria che l'insolenza della vecchia, confessando finalmente di aver fatto conoscere, di proposito, la sua intenzione di star fuori tutta la notte. Ciò non poteva a meno di condurre la nonna a scoprir tutto subito, perché lo avrebbe interrogato su quest'assenza, ed egli non voleva mentire, e tacere era come confessare. "Senti!", esclamò lo zio con l'accento vibrato e con la faccia spanta del galantomone che, soffocando in un viluppo di cautele e di dissimulazioni, vi mena dentro due gran gomitate, se ne disbriga e respira: "Vedo che hai avuto torto d'irritar la nonna perché, cosa mai! Bisogna rispettare i vecchi anche nei loro errori; capisco che le conseguenze saranno pessime; ma son più contento così e sarei più contento ancora se tu avessi già detto a tua nonna le cose chiare e tonde. Questo segreto, questo infingersi, questo nascondersi non mi sono mai piaciuti un corno. Cosa mai! L'onest'uomo quello che fa lo dice, alla papale. Tu vuoi ammogliarti contro la volontà della nonna. Bene, almeno non ingannarla!" "Ma Piero!", esclamò la signora Teresa che, insieme ad uno squisito sentimento della vita come dovrebb'essere, possedeva un senso acuto della vita com'è realmente, e data molto più di suo fratello agli esercizi di pietà, molto più familiare con Dio, riusciva più facilmente a persuadersi di aver ottenuta da Lui, per amor di un bene sostanziale, qualche concessione di forma. "Ma Piero! Voi non riflettete." (La signora Teresa, molto più giovane di suo fratello, gli parlava sempre col voi e ne pigliava il tu). "Se la marchesa viene a conoscere il matrimonio in un modo simile e, naturalmente, non vuol saperne di prender Luisa in casa, cosa fanno questi ragazzi? Dove vanno? Qui non c'è posto e quand'anche vi fosse posto non è preparato nulla. In casa vostra nemmeno. Bisogna riflettere. Se si voleva tener la cosa segreta per un mese o due, non era mica per ingannare; era per aver tempo di disporvi la nonna e, se la nonna non volesse piegarsi, di preparar un paio di stanze a Oria." "Oh povero me!", fece l'ingegnere. "Ci voglion due mesi per questo? Non par vero." Un soffio prolungato, nell'ombra, ricordò in quel punto la presenza del signor Giacomo che stava in un angolo, appoggiato al muro, non osando scostarsene per l'oscurità. La signora Teresa non l'aveva ancora salutato. "Oh, signor Giacomo!", diss'ella con grande premura. "Scusi. La ringrazio tanto, sa. Venga qua. Ha sentito quel che si diceva? Dica anche Lei; cosa Le pare?" "La mia servitù", disse il signor Giacomo dal suo angolo. "Propramente non me movo, perché, con la mia povera vista ..." "Luisa!", fece la signora Teresa. "Porta fuori un lume. Ma ha sentito, signor Giacomo; cosa Le pare? Dica." Il signor Giacomo mise nella sua sapienza tre o quattro piccoli soffi frettolosi che significavano: "ahi, questo è un imbarazzo" "No so", cominciò titubante, "no so, digo adesso, se trovandome a scuro ..." "Luisa!", chiamò da capo la signora Teresa. "Eh nossignora, nossignora. M'intendo a scuro de tante cosse che no so. Vogio dir che ne la mia ignoranza no me posso pronunciar. Però, digo, me par che forse se podaria ... adesso, digo, mi son qua per el servizio Suo e de la rispettabilissima famegia, sì ben che no me faria maravegia che l'Imperial Regio Commissario, ottima persona ma sustosèta ... ben, basta, no discoremo, mi son qua, però me pararia, digo, che se podesse tirar avanti un pocheto e intanto qua el nostro nobilissimo signor don Franco podaria forse co le bone, cole molesine ... Ben ben ben, per mi, come che Le comanda." Furono le proteste violente di Franco che fecero voltare così precipitosamente strada al signor Giacomo. Luisa le appoggiò e la signora Teresa, che forse adesso avrebbe pure inclinato a una dilazione, non osò contraddire. "Luisa, Franco", diss'ella. "Riconducetemi in salotto." I due giovani spinsero insieme, seguiti dallo zio e dal signor Giacomo, la poltrona nel salotto. Nel passar la soglia Luisa si chinò, baciò la mamma sui capelli e le sussurrò: "vedrai che tutto andrà bene". Ella credeva di trovar il curato in salotto, ma il curato se l'era svignata per la cucina. Appena Franco e Luisa ebbero accostata la mamma al tavolo dov'era il lume, capitò il sagrestano ad avvertire che tutto era pronto. Allora la signora Teresa lo pregò di annunciare al curato che gli sposi sarebbero andati in chiesa fra mezz'ora. "Luisa", diss'ella, fissando sua figlia con uno sguardo significante. "Sì, mamma", rispose questa; e riprese a voce più alta volgendosi al suo fidanzato: "Franco, la mamma desidera parlarti." Il signor Giacomo capì e uscì sulla terrazza. L'ingegnere non capì nulla e sua nipote dovette spiegargli che bisognava lasciar la mamma sola con Franco. L'uomo semplice non ne intendeva bene il perché: allora ella gli prese sorridendo un braccio e lo condusse fuori. La signora Teresa stese in silenzio la sua bella mano ancora giovane, a Franco, che s'inginocchiò per baciarla. "Povero Franco!", diss'ella dolcemente. Lo fece alzare e sedere vicino a sé. Doveva parlargli, disse; e si sentiva tanto poca lena! Ma egli capirebbe molto, anche da poche parole: "Minga vera?" Così dicendo la voce fioca ebbe una soavità infinita. "Sai", cominciò, "questo non avevo pensato a dirtelo, ma mi è venuto in mente quando tu raccontavi del piatto che hai rotto a tavola. Ti prego di avere riguardo alla situazione dello zio Piero. Egli pensa, nel suo cuore, come te. Se tu avessi veduto le lettere che mi scriveva nel 1848! Ma è impiegato del Governo. Vero che si sente tranquillo nella sua coscienza perché, occupandosi di strade e di acque, sa che serve il suo paese e non i tedeschi; ma certi riguardi vuole e deve averli. Fino a un dato punto bisogna che li abbiate anche voi per amor suo." "I tedeschi andranno via presto, mamma", rispose Franco, "ma sta tranquilla, sarò prudente, vedrai." "Oh caro, io non ho più niente da vedere. Non ho che a vedervi voi altri due uniti e benedetti dal Signore. Quando i tedeschi saranno andati via, verrete a dirmelo a Looch." Portano il nome di Looch i praticelli ombrati di grandi noci dove sta il piccolo camposanto di Castello. "Ma ti devo parlare di un'altra cosa", proseguì la signora Teresa senza lasciar a Franco il tempo di far proteste. Egli le prese le mani, gliele strinse trattenendo a fatica il pianto. "Bisogna che ti parli di Luisa", diss'ella. "Bisogna che tu la conosca bene tua moglie." "La conosco, mamma! La conosco quanto la conosci tu e più ancora!" Egli ardeva e fremeva tutto, così dicendo, nell'appassionato amore per lei ch'era la vita della sua vita, l'anima dell'anima sua. "Povero Franco!", fece la signora Teresa teneramente, sorridendo. "No, ascoltami, vi è qualche cosa che non sai e che devi sapere. Aspetta un poco." Aveva bisogno di una sosta, l'emozione le rendeva il respiro difficile e più difficile il parlare. Fece un gesto negativo a Franco che avrebbe pur voluto adoperarsi, aiutarla in qualche modo. Le bastava un po' di riposo e lo prese appoggiando il capo alla spalliera della poltrona. Si rialzò presto. "Avrai inteso parlar male", disse, "del povero mio marito, a casa tua. Avrai inteso dire ch'era un uomo senza principii e che ho avuto un gran torto a sposarlo. Infatti egli non era religioso e questa fu la ragione per cui esitai molto prima di decidermi. Sono stata consigliata di cedere perché potevo forse influire bene sopra di lui che aveva un'anima nobile. È morto da cristiano, ho tanta fede di trovarlo in paradiso se il Signore mi fa questa grazia di prendermi con sé; ma fino all'ultima ora parve che non ottenessi nulla. Bene, temo che la mia Luisa, in fondo, abbia le tendenze del suo papà. Me le nasconde, ma capisco che le ha. Te la raccomando, studiala, consigliala, ha un gran talento e un gran cuore, se io non ho saputo far bene con lei, tu fa meglio, sei un buon cristiano, guarda che lo sia anche lei, proprio di cuore; promettimelo, Franco." Egli lo promise sorridendo, come se stimasse vani i timori di lei e facesse, per compiacenza, una promessa superflua. L'ammalata lo guardò, triste. "Credimi, sai", soggiunse, "non sono fantasie. Non posso morire in pace se non la prendi come una cosa seria." E poi che il giovane ebbe ripetuta la sua promessa senza sorridere, soggiunse: "Una parola ancora. Quando parti di qua, vai a Casarico dal professor Gilardoni, non è vero?" "Ma, questo era il piano di prima. Dovevo dire alla nonna che andavo a dormire da Gilardoni per fare poi una gita insieme alla mattina; adesso lo sai come sono venuto via." "Vacci lo stesso. Ho piacere che tu ci vada. E poi ti aspetta, non è vero? Dunque ci devi andare. Povero Gilardoni, non è più venuto dopo quella pazzia di due anni or sono. Lo sai, non è vero? Luisa te l'avrà detto?" "Sì, mamma." Questo professor Gilardoni che viveva a Casarico, da eremita, si era molto romanticamente innamorato, qualche anno prima, della signora Teresa e le si era timidamente, reverentemente proposto per marito, ottenendo un tale successo di stupore da togliergli poi il coraggio di ricomparirle davanti. "Povero uomo!", riprese la signora Rigey. "Quella è stata una stupidità grande, ma è un cuor d'oro, un buon amico, tenetevelo caro. Il giorno prima che gli venisse quell'accesso di pazzia, mi ha fatto una confidenza. Non te la posso ripetere, e anzi ti prego di non parlargliene se non te ne parla lui; ma insomma è una cosa che potrà, in certi casi, aver molta importanza per voi altri, specialmente se avrete figli. Se Gilardoni te ne parla, pensaci prima di dirlo a Luisa. Luisa potrebbe prender la cosa non come va presa. Delibera tu, consigliati con lo zio Piero e poi parla o non parla, secondo la strada che vorrai prendere." "Sì, mamma." Si picchiò all'uscio, sommessamente, e la voce di Luisa disse: "È finito?" Franco guardò l'ammalata. "Avanti", diss'ella. "È ora di andare?" Luisa non rispose, cinse con un braccio il collo di Franco. S'inginocchiarono insieme davanti alla mamma, le piegarono il capo in grembo. Luisa faceva ogni sforzo per trattenere il pianto, sapendo bene che bisognava evitare alla mamma ogni emozione troppo forte, ma le spalle la tradivano. "No, Luisa", disse la mamma, "no, cara, no", e le accarezzava il capo. "Ti ringrazio che sei sempre stata una buona figliuola, sai; tanto buona; quietati; son così contenta; vedrai che starò meglio. Andate dunque; datemi un bacio e poi andate, non fate aspettare il signor curato. Dio ti benedica, Luisa; e anche te, Franco." Chiese il suo libro di preghiere, si accostò il lume, fece aprire le finestre e l'uscio della terrazza per respirar meglio e mandò via la fantesca che si preparava a tenerle compagnia. Usciti gli sposi, entrò l'ingegnere per salutar sua sorella prima di andare in chiesa. "Ciao, neh, Teresa." "Addio, Piero. Un altro peso sulle vostre spalle, povero Piero." "Amen", rispose pacificamente l'ingegnere. Rimasta sola, la signora Rigey stette ascoltando il rumor dei passi che si allontanavano. Quelli gravi di suo fratello e del signor Giacomo, la coda della colonna, non le lasciavano udire gli altri ch'ella avrebbe voluto accompagnar con l'orecchio quanto era possibile. Un momento ancora e non intese più nulla. Ebbe l'idea che Luisa e Franco si allontanavano insieme nell'avvenire dove a lei non era dato seguirli che per pochi mesi o forse per pochi giorni; e che non poteva indovinar niente, presentir niente del loro destino. "Poveri ragazzi", pensò. "Chi sa cosa avranno passato fra cinque anni, fra dieci anni!" Stette ancora in ascolto, ma il silenzio era profondo; non entrava per le finestre aperte che il fragor lontano lontano della cascata di Rescia, di là dal lago. Allora, supponendo che fossero già in chiesa, prese il suo libro di preghiere e lesse con fervore. Si stancò presto, si sentì una gran confusione in testa, le si confusero alla vista anche i caratteri del libro. La sua mente si assopiva, la volontà era perduta. Presentiva una visione di cose non vere e sapeva di non dormire, comprendeva che non era sogno, ch'era uno stato prodotto dal suo male. Vide aprirsi l'uscio che metteva in cucina ed entrare il vecchio Gilardoni di Dasio, detto "el Carlin de Dàas", padre del professore, agente di casa Maironi per i possessi di Valsolda, morto da venticinque anni. La figura entrò e disse in tono naturale: "Oh sciora Teresa, la sta ben?". Ella credette di rispondere: "Oh Carlin! Bene e voi?", ma in fatto non aperse bocca. "Ghe l'hoo chì la lettra", riprese la figura agitando trionfalmente una lettera. "L'hoo portada chì per Lee." E posò la lettera sul tavolo. La signora Teresa vide chiaramente e con un senso di vivo piacere questa lettera sudicia e ingiallita dal tempo, senza busta e con la traccia di una piccola ostia rossa. Le parve dire: "Grazie, Carlin. E adesso andate a Dasio?". "Sciora no", rispose il Carlin. "Voo a Casarech dal me fioeu." L'ammalata non vide più il Carlin, ma vide ancora la lettera sul tavolo. La vedeva chiaramente eppure non era certa che vi fosse; nel suo cervello inerte durava l'idea vaga di altre allucinazioni passate, l'idea della malattia sua nemica, sua padrona violenta. Aveva l'occhio vitreo, la respirazione penosa e frequente. Un suono di passi affrettati la scosse, la richiamò quasi del tutto in sé. Quando Luisa e Franco si precipitarono in camera dalla terrazza, non si accorsero, causa il paralume della lucerna, che la fisionomia della mamma fosse stravolta. Inginocchiati accanto a lei, la coprirono di baci, attribuirono all'emozione quel respiro affannoso. A un tratto l'ammalata sollevò il capo dalla spalliera della poltrona, tese le mani avanti, guardando e indicando qualche cosa. "La lettera", diss'ella. I due giovani si voltarono e non videro niente. "Che lettera, mamma?", disse Luisa. Nello stesso punto notò l'espressione del viso di sua madre, diede un'occhiata a Franco per avvertirlo. Non era la prima volta, durante la sua malattia, che la mamma soffriva di allucinazioni. All'udirsi domandare "che lettera?" ella capì, fece "oh!", ritirò le mani, se ne coperse il viso e pianse silenziosamente. Confortata dalle carezze de' suoi figli, si ricompose, li baciò, stese la mano a suo fratello e al signor Giacomo, che non avevano inteso affatto cosa fosse accaduto e accennò a Luisa di andar a pigliar qualche cosa. Si trattava di una torta e di una bottiglia preziosa di vino del Niscioree, regalata con altre parecchie, tempo addietro, dal marchese Bianchi che aveva per la signora Rigey una singolare venerazione. Il signor Giacomo, non vedendo l'ora di svignarsela, incominciava a dimenarsi, a soffiare, guardando l'ingegnere. "Signora Luisina", diss'egli vedendo uscire la novella sposa. "La scusa, son propramente per domandar licenza ..." "No, no", lo interruppe con un fil di voce la signora Teresa, "aspetti un poco." Luisa scomparve e Franco scivolò pure fuori dalla stanza dietro sua moglie. La signora Teresa parve presa da uno scrupolo, accennò a richiamarlo. "Ma cosa mai!", fece l'ingegnere. "Ma, Piero!" "Ma cosa?" Le antiche tradizioni austere della sua famiglia, un sottile senso di dignità, forse anche uno scrupolo religioso perché gli sposi non avevano ancora assistito alla messa della benedizione nuziale, impedivano alla signora Teresa di approvare che i giovani si appartassero e insieme di spiegarsi. Le sue reticenze e la bonarietà patriarcale dello zio diedero agio a Franco di sottrarsi ai richiami senza rimedio alcuno. La signora Teresa non insistette. "Per sempre!", mormorò dopo un momento come parlando fra sé. "Uniti per sempre!" "Nualtri", disse l'ingegnere rivolgendosi in dialetto veneto al suo collega nel celibato, "nualtri, sior Giacomo, de ste buzare no ghe ne femo." "Sempre de bon umor, Ela, ingegnere pregiatissimo", rispose il signor Giacomo a cui la coscienza diceva che aveva fatto delle "buzare" peggiori. Gli sposi non ritornavano. "Signor Giacomo", riprese l'ingegnere, "per questa notte, niente letto." L'infelice si contorse, soffiò e batté le palpebre senza rispondere. E gli sposi non ritornavano. "Piero", disse la signora, "suonate il campanello." "Signor Giacomo", fece l'ingegnere senza scomporsi, "dobbiamo suonare il campanello?" "L'idea de la signora Teresa pare propramente questa", rispose l'omino navigando alla meglio tra il fratello e la sorella. "Però mi no digo gnente." "Piero!", insistette la signora. "Ma insomma", riprese suo fratello senza muoversi. "Lei, cosa farebbe? Lo suonerebbe, questo campanello, o non lo suonerebbe?" "Oh Dio!", gemette il Puttini. "La me dispensa." "Non La dispenso un corno." Gli sposi non ritornavano e la mamma, sempre più inquieta, ricominciava: "Ma suonate, dunque, Piero!" Il signor Giacomo, che moriva dalla voglia di andarsene s non poteva andarsene senza salutar gli sposi, incoraggiato dall'insistere della signora, fece uno sforzo, diventò rosso rosso e buttò fuori la sua sentenza: "Mi sonaria." "Caro signor Giacomo", disse l'ingegnere, "mi stupisco, mi sorprendo e mi meraviglio." Chi sa perché, quando era di buon umore e gli capitava in bocca uno di quei sinonimi, li infilzava tutti e tre. "Però", conchiuse, "suoniamo." E suonò molto discretamente. "Sentite, Piero", disse la signora Teresa. "Ricordatevi bene che adesso, quando partite voi, deve partire anche Franco. Ritornerà alle cinque e mezzo per la messa." "Oh povero me!", fece lo zio Piero. "Quante miserie! Insomma, sono marito e moglie, sì o no? Bene bene bene", soggiunse, perché sua sorella si inquietava. "Fate tutto quello che volete, ecco." Invece degli sposi entrò la fantesca portando la torta e la bottiglia e disse all'ingegnere che la signora Luisina lo pregava di uscire un momento sulla terrazza. "Adesso che viene un po' di grazia di Dio, mi mandate fuori", disse l'ingegnere. Egli scherzava, con la solita serenità di spirito, forse non comprendendo bene lo stato grave di sua sorella, forse per certa sua naturale disposizione pacifica verso tutto che fosse ineluttabile. Uscì sulla terrazza dove Luisa lo aspettava con Franco. "Senti, zio", diss'ella, "mio marito dice che certo la nonna scoprirà tutto subito, ch'egli non potrà più stare a Cressogno, che se la mamma fosse in buone condizioni si potrebbe venire da te a Oria, ma che così, pur troppo, non è possibile. Allora dice che si potrebbe mettere all'ordine una camera qui, in fretta, alla meglio; lo studio del povero papà, si diceva noi. Cosa ti pare?" "Hm!", fece lo zio, che non accettava facilmente le novità. "Mi pare una risoluzione molto precipitosa. Fate una spesa, mettete la casa sossopra per una cosa che non può durare." La sua idea fissa era quella di aver tutta la famiglia a Oria, e questo ripiego della camera gli faceva ombra. Temeva che se gli sposi si accomodavano a Castello finissero con restarvi. Luisa si studiò di persuaderlo che non si poteva fare altrimenti, che né la spesa né l'incomodo sarebbero stati grandi, che suo marito, quando avesse a uscir di casa, andrebbe difilato a Lugano e ritornerebbe con i pochi mobili strettamente necessari. Lo zio domandò se Franco non potrebbe invece mettersi a Oria e starvi fino a quando vi potessero scendere la mamma e lei. "Oh, zio!", fece Luisa. S'ella avesse saputo del campanello, si sarebbe ancor più meravigliata di una proposta simile. Ma il buon uomo aveva qualche volta di queste idee ingenue che facevano sorridere sua sorella. Luisa non durò fatica a trovare argomenti contro l'esilio di Franco e ad adoperarli con calore. "Basta", fece lo zio non persuaso, ma placido, allargando le braccia in arco, nell'atto di un Dominus vobiscum più caritatevole, più disposto a cinger di tenerezza le povere creature umane. "Fiat. Oh, e se occorre", soggiunse volgendosi a Franco, "come stai a quattrini?" Franco trasalì, s'imbarazzò. "È il nostro papà, sai", gli disse sua moglie. "Papà niente affatto", osservò lo zio, sempre placidamente. "Papà niente affatto, ma quel ch'è mio è vostro, ecco; vuol dire dunque che vi munirò un poco secondo le mie forze." E ricevette l'abbraccio commosso de' suoi nipoti senza corrispondervi, quasi seccato da una dimostrazione superflua, seccato che non accogliessero più semplicemente una cosa tanto semplice e naturale. "Sì, sì", diss'egli, "andiamo a bere ch'è meglio." Il vino del Niscioree, rosso chiaro come un rubino, delicato e gagliardo, blandì e pacificò le viscere dell'impaziente signor Giacomo, che in quegli anni di oïdium ben di rado bagnava le labbra nel vin pretto e beveva cupamente vin Grimelli di acquosa memoria. "Est, est non è vero, signor Giacomo?", disse lo zio Piero vedendo il Puttini guardar devotamente nel bicchiere che teneva in mano. "Qui almeno non c'è pericolo di crepare come quel tale: et propter nimium est dominus meus mortuus est. " "A mi me par de resussitar", rispose il signor Giacomo, adagio adagio, quasi sottovoce, guardando sempre nel bicchiere. "Allora, un brindisi agli sposi!", riprese l'altro, alzandosi. "Se non lo fa Lei, lo farò io: Viva lü e viva lee E nün andèm foeura d'i pee. Il signor Giacomo vuotò il bicchiere, soffiò molto e batté molto le palpebre in segno dei vari sentimenti che tumultuavano nell'animo suo mentre l'ultimo aroma e l'ultimo sapor del vino gli si perdevano in bocca; offerse la sua servitù alla signora Teresa riveritissima, la sua devozione alla sposina amabilissima, la sua osservanza allo sposo compitissimo; si schermì, menando le braccia e la testa, dai ringraziamenti che gli fioccavano addosso, e preso il cappellone, presa la mazza, si avviò umilmente, soffiando con un misto di compiacenza e di rammarico, dietro la mole placida dell'ingegnere pregiatissimo. "E tu, Franco?", chiese subito la signora Teresa. "Vado", rispose Franco. "Vien qua", diss'ella. "Vi ho accolto così male, poveri figliuoli, quando siete ritornati dalla chiesa. Sai, m'era venuto uno de' miei accessi; lo avete ben capito. Adesso mi sento tanto benino, tanto in pace. Signore, Vi ringrazio. Mi pare d'avere messa la casa in ordine, d'avere spento il fuoco, d'aver dette un po' di orazioni e di andar a dormire, tutta bella contenta; ma non così presto, sai, caro, non così subito. Ti lascio la mia Luisa, caro, ti lascio lo zio Piero; so che li amerai tanto, vero? Ricordati anche di me, però. Ah Signore, come mi rincresce di non vedere i vostri figli! Quello sì. Hai da dar loro un bacio per la povera nonna, tutti i giorni. E adesso va', figlio mio; ritorni alle cinque e mezzo, non è vero? Sì, addio, va'." Gli parlava carezzevole, come a un bambino che non capisce ancora ed egli piangeva di tenerezza silenziosamente, le baciava e ribaciava le mani, godendo che Luisa fosse presente e vedesse; perché nella sua immensa tenerezza per la mamma vi era la immensa gioia di essere divenuto un solo con la figlia e come un'avidità di amar tutto che sua moglie amava, con la stessa forza. "Va'", ripeteva mamma Teresa, temendo anche la commozione propria: "va', va'." Egli obbedì, finalmente; e uscì con Luisa. Anche stavolta Luisa tardò molto a ritornare, ma le anime più sante hanno le loro lievi debolezze e quantunque la fantesca non facesse che andare e venire dalla cucina al salotto, la signora Teresa, tocca dalle dimostrazioni d'affetto che le aveva prodigate Franco, non le disse mai di suonare il campanello.

Gli amici protestarono che mai non l'avrebbero abbandonato. L'allegro Pedraglio, uso a spendere oltre i desideri di suo padre, osservò che alla peggio a Josephstadt o a Kufstein si viveva più a buon mercato e più virtuosamente che a Torino e che ciò avrebbe consolato il suo "regiôr". "No no!", esclamò Franco. "Andate, andate! Prefetto, persuadili tu!" Ed entrò nell'alcova. "Partite?", gli disse Luisa con quella voce che pareva venire da un mondo lontano. "Addio." Egli le si avvicinò, si chinò a baciar la calzettina che teneva in mano. "Luisa", mormorò, "c'è qui il prefetto della Caravina." Ella non mostrò alcuna sorpresa. "La nonna lo ha fatto chiamare stanotte", continuò Franco. "Gli ha detto di aver veduto la nostra Maria, luminosa come un angelo." "Oh, che menzogna!", fece Luisa con una voce grossa di disprezzo, senz'ira. "Come se fosse possibile che andasse da lei e non venisse da me!" "Maria le ha toccato il cuore", riprese Franco. "Ella ci domanda perdono, ha paura di morire, mi supplica di andar da lei, di portarle una parola di pace anche per te." Neppure Franco credeva all'Apparizione, scettico profondamente com'era per tutto il soprannaturale non religioso, ma credeva che Maria, nella sua esistenza superiore, avesse già potuto operare un miracolo, toccar il cuore della nonna e ciò gli recava una commozione indicibile. Luisa restò di ghiaccio. Neppur s'irritò, come Franco temeva, all'idea di mandar un messaggio amorevole. "La nonna avrà paura dell'inferno", osservò con quella sua freddezza mortale. "L'inferno non c'è, tutto si riduce a un po ' di spavento, è una pena da niente, la subisca e poi muoia anche lei come si muore tutti e amen." Franco intese che sarebbe stato inutile insistere. "Allora vado", diss'egli. Ella tacque. "Non credo che potrò ripassar da casa, nel ritorno", riprese Franco. "Dovrò prendere la montagna." Nessuna risposta. Il giovane disse sottovoce: "Luisa!". Rimprovero, dolore, passione: tutto questo era nel suo richiamo. Le mani di Luisa, che mai non avevano smesso il lavoro, si fermarono. Ella mormorò: "Non sento più niente. Sono un sasso". Franco si sentì mancare, baciò sua moglie sui capelli, le disse addio, entrò nell'alcova, s'inginocchiò, abbracciò il lettuccio voto, pensò alla vocina del suo tesoro: "ancora un bacio, papà", ebbe un assalto di pianto, si contenne, corse via precipitosamente. Gli amici lo attendevano in sala impazienti. Come partire se non conoscevan le strade? L'avvocato conosceva la strada di Boglia, sì, ma era da prendere, volendo sfuggire alle guardie? Quando udirono che Franco intendeva andare a Cressogno rimasero sbalorditi. Pedraglio uscì dai gangheri, disse ch'era un'indegnità di piantar così gli amici nell'imbarazzo. Il prefetto, udito come le cose stavano, s'unì a Pedraglio, offerse di giustificare Franco, gli propose di scrivere due parole ch'egli avrebbe portate a Cressogno. Ma Franco aveva l'idea che la sua Maria volesse da lui questa cosa e non cedette. Gli venne in mente che il prefetto era pratico di tutti i sentieri come una lepre. "Va' tu!", gli diss'egli. "Accompagnali tu!" Il prefetto stava per rispondere che forse la marchesa potrebbe aver bisogno di lui, quando l'avvocato fece: "Zitto! guardate". Proprio davanti alla casa, dove l'ombra del monte Bisgnago si profilava sull'acqua ondulando, c'era una barca ferma. Franco riconobbe la lancia delle guardie di finanza. "Scommetto che quei porci là ci fanno la guardia", mormorò Pedraglio. "Temono che si scappi in barca. Almeno spiano!" "Zitto!", fece ancora l'avvocato affacciandosi alla finestra verso il sagrato. Tutti tacquero, trattenendo il respiro. "Fioeui!", disse V. scostandosi bruscamente dalla finestra: "Ghe semm!". Franco andò alla finestra, vide un uomo solo che veniva correndo, credette a un falso allarme; ma l'uomo, quel tale che portava il nomignolo di "légora fügada", che vedeva e sapeva tutto, gli gittò, passando sotto la finestra, due parole: "La forza!". Si udirono in pari tempo i passi di molte persone. Franco esclamò "Con me! anche tu, prefetto!". Si slanciò, seguito da tutti, nel cortiletto ch'è tra la casa e il monte, raggiunse, passando per una legnaia, la scorciatoia che mette ad Albogasio Superiore. Faceva così scuro che nessuno si accorse di una guardia di finanza appostata con la carabina in pugno a due passi dall'uscio della legnaia. Per fortuna la guardia, certo Filippini di Busto, era un galantuomo che mangiava a malincuore il pane austriaco per non averne potuto trovare altro. "Presto!", diss'egli sottovoce. "Prendano i campi e poi la strada di Boglia! Il sentiero sotto il faggio della Madonnina, a sinistra!" Franco ringraziò quell'uomo, si avventò con i compagni sul ripido sentiero che mette alla stradicciuola comunale di Albogasio Superiore. Giunti a mezza via, saltarono tutti a destra in un campo di granturco e stettero in ascolto. Udirono passi sulla scaletta che sale dal sagrato e poi sul sentiero dov'era appostata la guardia. Evidentemente si voleva accertarsi che tutte le uscite fossero ben guardate. I quattro strisciarono subito via attraverso il granturco e giunti sotto lo scoglio che chiamano "Sass del Lori", tennero consiglio. Avrebbero potuto prendere il sentiero che monta sulla strada di Albogasio proprio alla porta del giardino Pasotti, e poi arrampicarsi di campo in campo fino alla strada di Boglia. Ma il sentiero era difficile a trovare a quell'ora; temendo perdere troppo tempo, prescelsero di raggiungere una scaletta che da Albogasio Inferiore sale presso alla casa Puttini. Quindi, girando a destra la casa Puttini, avrebbero raggiunto in due salti la strada di Boglia. Faceva già un po' meno scuro; ciò era male per un verso ma era bene per cavarsela da quel labirinto di campicelli e di muricciuoli. Nessuno parlava. Il solo Pedraglio, qualche volta, inciampando in un sasso o pungendosi in una siepe, tirava una maledizione meneghina. Allora gli altri zittivano. Arrivarono sulla scaletta preceduti dal prefetto che saltava muri e siepi come uno scoiattolo. Quando furono tutti raccolti sulla scaletta, Franco si staccò dal gruppo. Per la strada di Boglia non avevano bisogno di lui, egli andava a Cressogno. Invano Pedraglio lo afferrò per le braccia, invano il prefetto lo supplicò di non esporsi a un arresto sicuro, magari all'ergastolo. Egli credeva di obbedire alla voce di Maria, a un dovere di coscienza. Si strappò da Pedraglio e disparve su per la scaletta, non volendo andar a Cressogno per S. Mamette che sarebbe stato troppo pericoloso. "Avanti!", disse il prefetto. "Quello là è matto, pensiamo a noi." Girando la casa del Puttini udirono gente che veniva loro incontro e ridiscesero. La porta di casa Puttini era aperta. Vi entrarono. La gente passò discorrendo. Erano contadini e uno diceva: "Dove diavol el va a st'ora chì?". Ahimè, hanno incontrato e riconosciuto Franco. Se i gendarmi e le guardie si mettono alla caccia dei fuggitivi e s'imbattono in quella gente, ecco che trovano una traccia. Sull'alba si trova sempre gente. Stavolta s'è potuta evitare; un'altra volta, forse, non si potrà; un altroincontro può riescir fatale all'avvocato e a Pedraglio come il primo riuscirà probabilmente fatale a Franco. "Bisognerebbe che vi travestiste da contadini", dice il prefetto. All'avvocato, che ha dell'artista e del poeta e conosce bene il Puttini, viene un'idea: pigliar gli abiti del sior Zacomo per il Pedraglio ch'è piccolo anche lui, pigliar per sé un vestito della serva ch'è grande e grossa, cacciar le spoglie proprie in una gerla, caricarsene le spalle e via per Boglia. Il primo deputato politico di Albogasio ha cento ragioni di andare nel bosco del Comune. Detto fatto salgon le scale e il prefetto, ch'è pratico, va diritto a chiamare la Marianna. Costei non risponde; la sua camera è vuota. Il prefetto indovina subito che la perfida servente è andata a S. Mamette per qualche negozio segreto, come quello dell'olio. Ecco perché l'uscio di strada era aperto! Vanno in cucina, accendono due lumi, l'avvocato ne piglia uno e si fa insegnare la camera del sior Zacomo. Intanto Pedraglio es plora la cucina con l'altro lume, in cerca "de on quai diavol de bev" per pigliar fiato. Il sior Zacomo dormiva in una stanza d'angolo oltre una sala che l'avvocato attraversò in punta di piedi camminando tra mucchi di castagne, di noci, di nocciuole e di pere. Egli si accosta all'uscio: è chiuso. Origlia: silenzio. Gira pian piano la maniglia e spinge. L'infame uscio scricchiola, si ode un formidabile soffio e il sior Zacomo dice rabbiosamente: "Andé! No seché! Andé via!". L'avvocato entrò senz'altro. "Via, maledeta, digo!", gridò il sior Zacomo, rizzando sul guanciale la punta bianca del suo berretto da notte. Veduto l'avvocato, si mise a gemere. "Oh Dio, oh Dio! povareto mi, La me perdoni per carità, credeva che fosse la servente! Avvocato distintissimo, in nome de Dio, cossa xe nato?" "Gnente gnente, sior Zacomo", fece l'avvocato contraffacendolo molto lombardamente col suo imperturbabile umorismo. "Ghe xe qua, digo, ciò, el Commissario de Porlezza." "Oh Dio!" Il sior Zacomo fece atto di gettar le gambe fuori del letto. "Gnente, gnente, quieto quieto, soto soto. Andemo in Boglia, digo, ciò, per quel maledeto toro!" "Oh Dio, cossa disela, che a sta stagion in Boglia no ghe xe tori! Mi sudo tuto!" "No fa gnente, andemo, digo, a veder el posto, ciò, dove ch'el gera. Ma il signor Commissario", continuò il beffardo avvocato lasciando un linguaggio che troppo lo imbarazzava, "Le proibisce assolutamente di venire con noi, per le sue buone ragioni. Le proibisce di uscire prima del nostro ritorno e anzi mi ha ordinato di portarle via gli abiti." E si diede a raccogliere rapidamente gli abiti del sior Zacomo, gl'intimò il silenzio in nome del Commissario, pigliò il cappellone a cilindro, arraffò la mazza di canna d'India, ordinò al disgraziato di dare il chiavistello appena uscito lui e di non aprire a nessuno, di non parlare a nessuno prima del ritorno del Commissario e tutto in nome del signor Commissario. Poi, lasciatolo più morto che vivo, raggiunse i compagni che, fruga qua e fruga là, avevano scovato un lurido vestito della Marianna, un fazzolettone rosso, una gerla e una bottiglia di anesone triduo "Accidenti!", fece l'avvocato, quando vide la roba immonda che doveva mettere. Il suo travestimento andava veramente male, la sottana era corta, il fazzolettone non gli nascondeva abbastanza la faccia, ma non c'era tempo di far meglio. Invece il Pedraglio, cappellone in testa e canna d'India in mano, riescì un sior Zacomo perfetto. L'avvocato gli fece prendere sotto l'ascella uno scartafaccio che trovò in cucina, gl'insegnò come doveva camminare e soffiare. Prese per ultimo le chiavi della cantina, due chiavi enormi, ne diede una al Pedraglio e una ne mise in tasca per due possibili pugni, uno in chiave di violino, disse, e l'altro in chiave di basso. E così uscirono, il prefetto davanti, poi il finto sior Zacomo che soffiava come una macchina a vapore, poi la finta Marianna con la gerla. Appena furono in istrada ecco spuntar la Marianna vera di ritorno da San Mamette con un fiasco vuoto. Vista, tra il fosco e il chiaro, la tuba del padrone, diede volta e via a gambe. "Brutta ladra", fece il prefetto. "Benone. Il travestimento va benone." In cinque minuti furono sulla strada di Boglia. Il prefetto ridiscese, udì persone che salivano da Albogasio Superiore discorrendo di gendarmi e di guardie, andò loro incontro, domandò che ci fosse di nuovo. Una bagatella. Polizia, gendarmi, soldati a casa Ribera per arrestare don Franco Maironi e pare anche l'avvocato V., perché sapevano che ci doveva essere e hanno molto domandato di lui. Non hanno trovato né l'uno né l 'altro benché le guardie di finanza sieno state di piantone intorno alla casa fin dalla mezzanotte. Adesso la Polizia perquisisce tutte le case di Oria ritenendo che i due sieno scappati per il tetto. Mentre si danno queste informazioni al prefetto, ecco un ragazzo venir di corsa dalla parte di Albogasio Superiore. Lo fermano. "I gendarmi!", dice. "I gendarmi!" È pallido come un cencio lavato e scappa senza saper perché, non gli si può cavare dove questi gendarmi sieno. Arriva una donna che si spiega meglio. Quattro guardie di finanza e quattro gendarmi sono passati in questo punto dalla piazza di Albogasio Superiore. Pare che don Franco sia stato veduto sulla strada di Castello. Due gendarmi e due guardie hanno preso la strada di Boglia. Il prefetto rabbrividisce. "Già", dice qualcuno. "La strada di Boglia per tagliargli il passo." Questa è la speranza del prefetto, che gendarmi e guardie abbiano di mira il solo Franco. Egli è tanto smilzo, tanto alto: né il finto Puttini né la finta Marianna possono dar sospetto di esser lui. Il loro destino è ormai fuori delle sue mani mentre per Franco egli può far molto ancora. Si incammina verso Cressogno, confidando che a Cressogno Franco arriverà sano e salvo se i gendarmi non ne trovano nuove tracce, perché lo cercheranno su tutti i sentieri che da Castello menano al confine e non mai sulla via di Cressogno. Pedraglio e l'avvocato fecero il primo tratto di strada, da Albogasio alle stalle di Püs, strisciando su per la ripidissima erta come gatti, a passi lunghi e cauti. L'avvocato camminava in silenzio, l'altro malediceva continuamente, sottovoce, il suo vestiario, "el loder d'on cappel" che gl'invischiava la fronte d'unto; "el boia d'un marsinon" che gli puzzava di troppi sudori antichi. Sino a Püs non incontrarono anima nata. A Püs una vecchia uscì tra le stalle un momento dopo ch'eran passati, disse stupefatta: "Sü per de chì, scior Giacom? A st'ora?". L'avvocato mormorò: "Boffa!", e l'altro si mise a soffiar "apff! apff!" come un mantice. "Se perd el fiaa per sti strad chì, cara lü", disse la vecchia. Non incontrarono più nessuno fino alla Sostra. La Sostra è una stalla a mezza montagna, circa, con un fienile, un portico e una cisterna, alquanto in disparte dalla strada. Quella strada è la più dannata che sia in Valsolda, farebbe cacciar la lingua a uno stambecco. Pedraglio e l'avvocato, trafelati, grondanti di sudore, entrarono un momento alla Sostra. Anche lì silenzio e deserto. A quella altezza si respirava già un'aria diversa. E come tutte le cime all'intorno erano abbassate! E come il lago, giù nel profondo, pareva diventato un fiume! L' avvocato guardava su amorosamente alla prima cresta del Boglia dove cominciava il gran bosco dei faggi; un'altra mezz'ora di arrampicata. "Andiamo", diss'egli. Ma Pedraglio che aveva nelle gambe la memoria dell'altra gran corsa da Loveno ad Oria per il Passo Stretto, chiese di sostare un altro poco e si mise tranquillamente a sfogliar lo scartafaccio del Puttini, un poema fratesco, inedito, d'un anonimo cremonese del secolo decimosettimo. "Andiamo!", ripeté il suo compagno dopo un paio di minuti , e si alzava già quando udì venir gente. Ebbe appena il tempo di dire "attento!" e di voltar le spalle per non lasciarsi vedere in viso. Pedraglio, pur ficcando il naso nello scartafaccio, vide spuntar sulla strada prima due guardie di finanza e poi due gendarmi. Avvertì l'amico sottovoce, non batté palpebra. Le due guardie si fermarono. Una di loro salutò: "Riverito, signor Puttini", e disse ai gendarmi: "È il primo deputato politico di Albogasio". I gendarmi salutarono pure, Pedraglio si levò il cappello, alzando un poco lo scartafaccio. Le guardie volevano fare un po' di fermata ma un gendarme intimò loro di proseguire e quando vide incamminata la compagnia venne alla Sostra egli stesso. Era di Ampezzo e parlava italiano benissimo. "Tu, cane, non mi conosci, spero", pensò Pedraglio con una torbida coscienza della sua doppia personalità. "Lascia fare a me." "Signor deputato politico", disse colui, "avrebbe veduto stamattina il signor Maironi di Oria?" "Io? Mai più. Il signor Maironi dorme, a quest'ora." "E Lei dove va?" "Vado lì su quel monte, su quel dannato Boglia lì. Vado su per l'affar del toro comunale." "Bestia", pensò l'avvocato. "Comunale me lo fa diventare!" Ma passò felicemente anche il toro comunale. Il gendarme, un muso da mastino, squadrò bene il suo interlocutore in viso. "Lei è deputato politico", diss'egli insolentemente, "e porta quella roba sul viso?" Pedraglio si prese istintivamente il suo piccolo sottile pizzo nero, barba reproba da liberale. "Taglieremo, taglieremo", diss'egli con serietà comica. "Sì signore. Va sul Boglia anche Lei?" Il gendarme se n'andò duro duro senza rispondergli, senza udire su quale ignominioso patibolo il deputato politico lo mandava. I due si rallegrarono a vicenda di averla scampata bella ma riconobbero che il giuoco si era fatto molto serio. Adesso bisognava contare con le guardie che conoscevano bene il Puttini, e saperne stare a distanza. E se quel mastino di gendarme parlasse della barba? "Su su", fece l'avvocato, "teniamo loro dietro e se li vediamo o li udiamo tornar giù, gambe in spalla e via a sinistra verso il confine." Partito disperato, quest'ultimo, perché non conoscevano il terreno, certo familiare alle guardie. Il mastino dovette sudare e ansar troppo dietro ai suoi compagni per aver poi voglia di parlar di barbe, Pedraglio e l'avvocato, salendo adagio, videro il nemico guadagnar la cresta del monte al faggio della Madonnina, fermarvisi alquanto e sparire. Il gran faggio antico che portava nel tronco una immagine della Madonna e che cedette, morendo, quest'onore a una cappelletta, era come la sentinella del gran bosco di Boglia, il soldato posto in una insellatura della cresta a spiar il pendio precipitoso, il lago, i clivi di Valsolda. Il venerabile esercito di faggi colossali stava tutto raccolto in un'altra conca silenziosa fra l'erta della Colmaregia, i facili Dorsi della Nave, le radici rocciose dei Denti di Vecchia o Canne d'Organo e l'altra sella del Pian Biscagno fra la Colmaregia e il Sasso Grande, fronteggiante le profondità della Val Colla da Lugano a Cadro. Una lista scoperta, erbosa, correva fra il faggio della Madonnina e il bosco, sull'orlo della cresta. I due fuggiaschi pensarono ai casi loro. Quale partito prendere? Cercar il sentiero sotto il faggio di cui aveva parlato la guardia salvatrice, o entrar nel bosco? No, entrar nel bosco non conveniva, con quella selvaggina che vi era entrata prima. Nel bosco avrebbero trovato un palmo di foglie secche. Era impossibile passarvi senza farsi correre addosso tutti i segugi che vi si aggiravano; e da vicino il travestimento non poteva servire. Prender il sentiero? Ce n'era più d'uno, sotto il faggio; qual era il buono? Pedraglio maledisse Franco che non era venuto con loro. Invece l'avvocato studiava la Colmaregia che si poteva salire senza entrare nel bosco. Egli era stato due volte sulla Colmaregia, il superbo, sottile vertice erboso del Boglia, tagliato per metà dalla linea di confine; sapeva ch'era possibile scendere di lassù al villaggio svizzero di Brè e risolse di tentar quella via. Sulla cresta che ascende dal faggio della Madonnina verso la Colmaregia non si vedeva nessuno. La punta era avvolta nelle nuvole. Pochi passi sotto il faggio i due furono colti da un'ondata di nebbia che venuta su per un versante si riversava rapidamente per l'altro, una nebbia fredda e densa, un "Dio fece" disse V. Non si vedeva niente a cinque passi. Così avvenne che, presso al faggio, Pedraglio andò quasi a urtare una guardia di finanza. Era uno dei quattro e aveva la consegna di sorvegliare la lista scoperta fra la cresta del monte e il bosco. Visto l'ometto dal cappellone, fece: "In Boglia, signor ...?". L'avvocato si sbarazzò immediatamente della gerla. Infatti la guardia non compié la frase, restò un momento a bocca aperta, poi esclamò: "Come?". L'avvocato non aspettò altro. "Così", diss'egli placidamente; e raccoltisi sul petto i due pugni in uno ne menò a colui nello stomaco una terribile puntata che lo buttò sul prato a gambe all'aria. Pedraglio gli saltò subito addosso, gli strappò la carabina. "Se gridi, cane, ti brucio", diss'egli. Ma che gridare? Con un pugno di V. nello stomaco non c'era, per un quarto d'ora, neanche da tirare il fiato. Infatti l'uomo pareva morto e ci volle del buono perché arrivasse a gemer sottovoce "ahi ahi!". "L'è nient, l'è nient", gli diceva V. con la solita flemma canzonatoria. "Sono scosse che fanno bene. Vedrà. Lü adess el se drizza in pee ben polito e viene con noi in Colmaregia. Vedrà come va bene. Non ho adoperato questo a posta." E gli mostrò la chiave. "Oh che pugno!", gemeva la guardia. "Oh che razza di pugno!" "La salita è un po' maledetta", riprese l'avvocato pigliando la carabina dalle mani di Pedraglio. "Ma noi le terremo su, con licenza, il di dietro con questo affare qui. A questa maniera si va su che l'è un piacere. Poi Lei viene giù con noi a Brè. La carabina gliela portiamo noi. Lei, per compenso, ci porta una piccola gerla. Parli polito? Andemm, marsch!" Il disgraziato non riusciva a mettersi in piedi e non si poteva certo lasciarlo lì a rischio che poi si mettesse a chiamar aiuto. "Mincion!", fece Pedraglio. "Ghet daa tropp fort!" V. rispose che gli aveva dato un pugno da donna, restituì la carabina all'amico e ghermita la guardia per il colletto dell'uniforme, la tirò in piedi, le fece imbracciare la gerla. "Andem, lizòn", diss'egli. "Poltronaccio, andiamo!" Su tra il nebbione freddo e denso, su, su. L'erta è ripidissima, si dura fatica a piantar la punta del piede fra i ciuffi dell'erba molle, si sdrucciola, si lavora di piedi e di mani, ma fa niente, su, su, per la libertà. Su tra il nebbione, invisibili come spiriti, prima la finta Marianna, poi la guardia che soffia e geme sotto il peso della gerla, poi il finto sior Zacomo che le promette le belle viste e la urta con la carabina. La carabina fa miracoli. In mezz'ora i tre raggiungono la cresta che scende verso Bré, pochi passi sotto il cocuzzolo. Allora siedono sull'erba e giù, e giù a precipizio, scivoloni. Si mette a piovere, la nebbia si dirada, ecco in fondo, tra i piedi, il rosso dei boschi cedui. Primo vi arriva di volo il venerabile cappellone del sior Zacomo scaraventato abbasso da Pedraglio con un "viva l'Italia!" mentre scivola a braccetto della guardia. A Bré Pedraglio fece correre tutto il paese sparando a festa la carabina, distribuì anesone triduo agli uomini e mezz'once alle ragazze, domandò al curato di poter appendere in chiesa il "marsinon" per grazia ricevuta, si attavolò a mangiare con la guardia, gli fece predicar dal prete il perdono dei pugni nello stomaco e gli diede lettura di una stanza del poema fratesco che finiva così: A questo punto il Padre Lanternone Disse: ho mutato ancor io opinione. Gli dimostrò che se aveva mutato un Padre Lanternone poteva mutar anche lui e lo persuase a disertare, gli fece buttar via l'uniforme e indossare il "marsinon" fra le risate e gli applausi. Il solo che non rideva era l'avvocato. "E quel povero Maironi?", diss'egli. Franco non attraversò Castello. Giunto alla cappelletta di Rovajà, saltò giù per il sentiero che mena alla fontana di Caslano, raggiunse la stradicciuola di Casarico, si mise a salir per quella e all'ultima svolta che fa sotto Castello, dove appare la chiesa di Puria sotto un anfiteatro di dirupi, si gittò a destra nella valle per un sentiero da capre, ne risalì sotto la chiesa di Loggio e giunse a Villa Maironi senz'aver incontrato nessuno. Carlo, il vecchio servitore che gli aperse, tramortì, quasi, dalla commozione e gli baciò le mani. In quel momento c'era il medico. Franco decise di attender che uscisse e intanto confidò al vecchio fedele che aveva i gendarmi alle calcagna. Il dottor Aliprandi uscì presto e Franco, sapendolo patriota, si confidò anche a lui, poiché gli occorreva mostrarsi, informarsi dello stato della nonna. L'Aliprandi era stato chiamato nella notte ed era venuto dopo la partenza del prefetto per Oria, aveva trovato dell'agitazione nervosa, una terribile paura di morire ma nessuna malattia. Adesso la marchesa pareva tranquilla. Franco si fece annunciare e fu introdotto dalla cameriera che lo guardò con ossequiosa curiosità e uscì dalla camera. Le imposte socchiuse della camera dove la marchesa giaceva a letto lasciavano entrare due sole oblique lame di luce grigia che non giungevano alla faccia supina sul guanciale. Franco, entrando, non la vide, udì solo la nota voce dormigliosa: "Sei qui, Franco?" "Sì, addio nonna", diss'egli e si chinò a darle un bacio. La maschera di cera non era scomposta; lo sguardo aveva però qualche cosa di vago e di scuro che pareva insieme desiderio e sgomento. "Muoio, sai, Franco", disse la marchesa. Franco protestò, riferì ciò che gli aveva detto il medico. La nonna lo ascoltava fissandolo avidamente, cercando di leggergli negli occhi se il medico gli avesse proprio detto così. Poi rispose: "Non fa niente. Son pronta". Dalla nuova espressione dello sguardo e della voce, Franco intese perfettamente che la nonna era pronta a vivere altri vent'anni. "Mi rincresce della tua disgrazia", diss'ella, "e ti perdono tutto." Non eran parole di perdono che Franco si aspettava da lei. Egli credeva esser venuto a portarlo il perdono, e non a riceverlo. Confortata, rassicurata, la marchesa di ogni giorno ricompariva poco a poco sotto la marchesa di un'ora. Voleva bene acquistar la pace ma come un sordido avaro tentato da qualche cupidigia, che spremendosi dolorosamente dal pugno il prezzo del suo piacere cerca trattenersene fra le unghie quanto può. In altri momenti Franco avrebbe scattato, avrebbe respinto sdegnosamente quel perdono; ora, con la dolce Maria nel cuore, non poteva essere così. Aveva però notato che la nonna si era rivolta, col suo perdono, a lui solo. Questo no, non glielo poteva permettere. "Mia moglie, lo zio di mia moglie ed io abbiamo sofferto molto", diss'egli, "prima dell'ultima sventura; e adesso abbiamo perduto tutta la nostra consolazione. Lo zio Ribera lo metto fuori di causa; davanti a lui bisogna che ci inchiniamo, tu, io, tutti; ma se mia moglie ed io abbiamo delle colpe verso di te, perdoniamoci a vicenda." Era un boccone amaro; la marchesa lo trangugiò e tacque. Benché non vedesse più la morte al suo capezzale aveva però nel cuore lo sgomento dell'Apparizione e di certe parole del prefetto che l'aveva confessata. "Farò testamento", diss'ella, "e desidero che tu sappia che tutta la roba Maironi sarà per te." Ah marchesa, marchesa! Misera, gelida creatura! Credeva ella di aver comperato la pace con questo? Qui veramente aveva sbagliato anche il prefetto perché il consiglio di far questa dichiarazione al nipote gliel'aveva dato egli, buon galantuomo ma privo di tatto, incapace di comprendere l'alto animo di Franco. A Franco l'idea che si potesse credere esser egli venuto per interesse, riuscì intollerabile. "No no", esclamò fremendo tutto e temendo del proprio sangue focoso, "no no, non mi lasciar niente! Basta che tu faccia pagare i miei interessi a Oria. La roba Maironi, nonna, lasciala all'Ospitale Maggiore. Ho paura che i miei vecchi abbiano sbagliato a tenerla!" La nonna non ebbe tempo di rispondere perché fu picchiato all'uscio. Entro il prefetto e fece che Franco pigliasse congedo per non stancare l'ammalata. "Bisogna sbrigarsi!", diss'egli, fuori. "Qui hai fatto più che il tuo dovere. Lo sanno in troppi, oramai, che sei qui e i gendarmi possono capitare da un momento all'altro. Ho combinato tutto coll'Aliprandi. L'Aliprandi suppone che per la marchesa ci sia bisogno di un consulto, piglia la gondola di casa e va a Lugano per cercar un medico. I due barcaiuoli sarete Carlo e tu. Piove. Ci sono i mantelli di tela incerata col cappuccio. Mettete quelli e tu sta a poppa. Adesso ti tagliamo il pizzo; col cappuccio in testa sfido a riconoscerti. Sei sicuro. Forse non vi faranno neanche approdare alla Ricevitoria. A ogni modo non ti riconosceranno. Se c'è da parlare, parla Carlino." L'idea era buona. La gondola della marchesa era sempre guardata dagli agenti dell'Austria con grande rispetto come se portasse un uovo dell'aquila dalle due teste; anche quando ritornava da Lugano non si faceva approdare alla Ricevitoria che pro forma . La gondola uscì dalla darsena dopo le otto. Le nebbie delle alte cime erano calate sul lago e pioveva. Triste triste giorno, triste triste viaggio! Né Franco, né il domestico, né l'Aliprandi parlarono mai. Passarono San Mamette e Casarico. Ecco tra i vapori, oltre gli ulivi di Mainè, le bianche mura della dimora di Ombretta. Gli occhi di Franco si riempirono di lagrime. "No, cara", egli pensa, "no, amore, no, vita, tu non sei là dentro e sia benedetto il Signore, che mi dice di non credere questa cosa orribile!" Poche remate ancora ed ecco la casetta del tempo felice, delle ore amare, della sventura; la finestra della stanza dove Luisa si perde in un dolore tenebroso, la loggia dove passerà quind'innanzi solo le sue giornate il vecchio zio Piero, l'uomo giusto che discende silenziosamente, tribolato e stanco, verso la tomba. Franco vorrebbe pur sapere cosa è successo dopo la sua partenza, se lo zio, se Luisa hanno avuto molestie dalla Polizia. Guarda, guarda, non vede persona viva né sulla terrazza né in giardinetto né alle finestre della loggia; tutto è silenzioso, tutto è tranquillo. Cessa di remare, vorrebbe vedere qualche segno di vita. Il dottor Aliprandi apre lo sportello di poppa del felze e lo supplica di remare, di non tradirsi. In quel momento la Leu si affaccia alla ringhiera del giardinetto con un vassoio in mano, guarda la gondola, entra in loggia. Dunque lo zio Piero è in loggia, quello è il solito bicchier di latte che gli portano, nulla dev'essere successo. Franco torna a remare e il dottor Aliprandi chiude lo sportello. Passa il giardinetto, passano le case di Oria, la gondola piega all'approdo della Ricevitoria. Il Biancòn, che sta pescando alle tinche, con l'ombrello, vede la gondola, abbandona le sue lenze, e viene ad ossequiare la marchesa. Ma trova invece il dottor Aliprandi il quale lo turba tanto con le cattive notizie della dama ch'egli sente il bisogno di chiamare anche la sua Peppina e di parteciparle la cosa; e la Peppina, poveretta, recita sotto l'ombrello del suo Carlascia una piccola commedia d'intenerimento. Marito e moglie eccitano l'Aliprandi a far presto, a ritornar presto. Il bestione gli permette di filar dritto, al ritorno, da Gandria a Cressogno e il dottore si volta a Franco, dice: "Andiamo!". Franco ha assistito impassibile al colloquio, con le mani sul remo, sperando apprender qualche cosa de' suoi amici e di casa sua; ma nessuno ha fiatato di Polizia né d'arresti né di fughe come se casa Ribera fosse nella China. La gondola indietreggia lentamente dall'approdo, gira la prora verso Gandria, si allontana, sfuma oltre il confine, nella nebbia. Alla riva di Lugano il dottor Aliprandi aperse lo sportello e fece entrare Franco. Si conoscevano poco ma si abbracciarono come fratelli. "Quando verrà l'ora delle cannonate", disse l'Aliprandi, "ci sarò anch'io." Convennero di congedarsi lì e che Franco uscisse prima, solo, perché Lugano era piena di spie e il dottore doveva pure usare certi riguardi. Il dottore non aveva fretta, del resto; gli premeva più di trovar un barcaiuolo che un medico. Franco si tirò il cappuccio sugli occhi e scesea terra, andò all'albergo della Corona. Alcune ore più tardi, quando la gondola era ripartita, egli usci in cerca di valsoldesi per avere notizie, si avviò alla farmacia Fontana e incontrò sotto i portici i suoi amici che uscivano appunto dalla farmacia insieme a un vecchio. Gli saltarono al collo, piansero di commozione. Erano andati anche loro a cercar notizie. Alla farmacia si diceva che Franco fosse stato arrestato. Che gioia di trovarlo e che gioia di sentirsi terra libera sotto i piedi! Mi sia permesso di ricordare il vecchio che accompagnava Pedraglio e l'avvocato, bizzarra figura del piccolo mondo antico luganese, artista e degno che un altro artista, passandogli così vicino, gli renda onore. Egli era un tal Sartorio, pittore, poeta e suonatore di chitarra, che a quei tempi si vedeva spesso balenar qua e là per le oscure vie di Lugano con la sua bella barba bianca, con il suo cappello bianco tirato sull'occhio destro, con il suo nobile abito nero e il fiore all'occhiello. Poverissimo ma pulitissimo, cavaliere con le dame e con le pedine, pronto sempre a un'anacreontica e a una chitarrinata, adoratore della propria città, egli viveva di pane, formaggio e acqua, fiutava e rincorreva i forestieri per far loro gli onori di Lugano, era sempre pieno di queste faccende, sempre in moto fra Villa Ciani, l'Hôtel du Parc e Villa Chialiva. L'Hôtel du Parc era per lui l'ottava meraviglia del mondo. Aveva aiutato a inaugurarlo e se ne compiaceva assai, godeva particolarmente citare, col suo classico accento luganese, la strimpellata e la lirica ispirategli dalla sala da pranzo: "ca l'è poeu quand ca ga disi: Le trombe squillano Nel gran salone, Ai suoni accordisi Questa canzone. Ora egli si era spontaneamente accompagnato a Pedraglio e a V. che gli avevan narrata la loro fuga. Li aveva condotti lui alla farmacia Fontana per cercarvi notizie di Franco. "Come?", diss'egli dopo l'incontro. "È questo il Loro amico? Sfuggito anche lui agli artigli dell'aquila rapace di Asburgo? Benissimo! Benissimo! Ho fatto anni sono, per altri lombardi fuggiti qua dopo la rivoluzione di Vall'Intelvi, un'ode ca l'era minga mal. Ho descritto, neh, la loro fuga per la Val Mara, la calata a Maroggia, l'arrivo a Lugano, ca l'è poeu quand ca ga disi: O baldi figli di Lombardia, V'apre le braccia Lugano mia. È una cosetta che va benissimo anche per Loro. Adesso corro a prender la chitarra e poi gliela faccio sentire all'albergo." "Madonna!", fece Pedraglio.

ATTRAVERSO L'ATLANTICO IN PALLONE

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Salgari, Emilio 3 occorrenze

"Sarà stato abbandonato dal suo equipaggio." "Abbandonato! No, Mister Kelly." "Come lo sapete?" "Ho veduto sospese alle gru di babordo e di tribordo quattro imbarcazioni." "È impossibile, O'Donnell!" "Guardate, Mister Kelly." L'ingegnere prese a sua volta il cannocchiale e guardò. "Avete ragione" disse poi. "Le scialuppe sono a posto." "Che l'equipaggio si sia salvato su di una zattera?" "Avrebbe portato con sé anche le imbarcazioni, che sono sempre preferibili a una zattera che veleggia male e che una tempesta può facilmente sfasciare." "Che l'equipaggio sia stato raccolto da qualche nave?" "Potrebbe essere; ma perché la nave salvatrice avrebbe lasciato le imbarcazioni, che hanno un certo valore?" "Sarei curioso di chiarire questo mistero, Mister Kelly." "Lo chiariremo, O'Donnell. Il vento ci spinge proprio diritti su quella nave, e prima di sera noi l'abborderemo." "Purché il vento non cambi." "Sono deciso ad abbassarmi ed a gettare le mie àncore. Forse su quella nave possiamo trovare dell'acqua e riempire i nostri barilotti, che si stanno svuotando con una rapidità che mi spaventa. È molto se ne abbiamo centocinquanta litri." "In trenta ore il sole ci ha assorbito più di quaranta litri!" esclamò O'Donnell. "Se questa calma ci tiene imprigionati quattro o cinque giorni ancora, noi saremo alle prese con la sete." "Vedete che è necessario abbordare quella nave." "Se vi passeremo solamente vicini, io sono deciso a calarmi in acqua, Mister Kelly, e a rimorchiare il pallone." "Ed io a sacrificare un po' d'idrogeno." Perdurando la calma, l'aerostato si avvicinava alla nave con estrema lentezza, essendovi appena appena un soffio d'aria, e non sempre continuo. Era molto se i due fusi percorrevano uno spazio di cinque o sei chilometri all'ora, mentre quel rottame si trovava lontano trenta e anche più. A mezzodì anche quel leggerissimo alito di vento venne a mancare, e il Washington rimase immobile a ventidue o ventiquattro chilometri di distanza. Però verso le tre, quando il gran calore, che aveva raggiunto la spaventevole cifra di 42o, cominciò a scemare, s'alzò una brezza mi po' fresca, che lo spinse con la velocità di otto chilometri all'ora. Fortunatamente non aveva cambiato direzione, e il Washington continuava ad abbassarsi. In un altro momento quella discesa sarebbe stata rimpianta dagli aeronauti: ora invece la benedicevano, poiché permetteva loro di abbordare il rottame senza sacrificare l'idrogeno. Alle quattro pomeridiane l'oceano non era che a centocinquanta metri e la nave a soli dieci chilometri. A così breve distanza, con l'aiuto del cannocchiale, l'ingegnere e l'irlandese potevano scorgerla nettamente. Era un veliero della portata di forse milleduecento tonnellate, di forme svelte, dipinto di nero. I suoi alberi pareva fossero stati tagliati rasente la coperta, poiché non si vedevano che due corti tronconi; qua e là, disperse a prua e a poppa, pennoni, lembi di vele e cordami. Dalle barcacce di babordo e di tribordo si vedevano pendere in acqua i paterazzi, le sartie e le griselle. Quella nave, che doveva essere stata attrezzata a brick o a brigantino, era inclinata sul babordo. Pareva che il suo carico si fosse improvvisamente spostato, forse durante qualche grande tempesta. Sul ponte non si scorgeva persona alcuna: però si vedeva correre da prua a poppa una forma nera che non si poteva ancora ben distinguere. "Che sia qualche animale?" chiese O'Donnell. "Sarà forse un cane" rispose l'ingegnere. "Abbandonato dell'equipaggio?" "Certamente." "Allora il disastro deve essere recente: se risalisse a qualche settimana, quel povero animale sarebbe già morto di fame." "Lo credo anch'io." Alle cinque il Washington si trovava a soli tre chilometri dalla nave. Il venticello lo spingeva proprio sopra di essa. L'ingegnere fece attaccare l'ancorotto a patte alle guide-rope e calò quasi a fior d acqua: per maggior precauzione fece calare anche i due coni, per fermare prontamente l'aerostato, se il vento lo avesse sospinto al largo. Alle cinque e un quarto il Washington si trovava a poche decine di passi dal rottame, il quale era immobile come un cadavere abbandonato in mezzo ad un bacino d'acqua tranquilla. Sul ponte, un cane enorme, dal pelame nero, guardava con due occhi ardenti il pallone che s'avvicinava, facendo udire dei sordi brontolii. "Attento all'àncora. O'Donnell" gridò l'ingegnere. "Fila dritta sulla baraccia di babordo e prenderà fra le sartie pendenti o le gru delle imbarcazioni" rispose l'irlandese. Il Washington si trovava proprio sopra la nave. Ad un tratto provò una forte scossa, i due grandi fusi s'abbassarono bruscamente, poi virarono su di loro e rimasero immobili. L'àncora, guidata dal braccio dell'irlandese, aveva preso, fissandosi fra le sartie e le griselle pendenti della barcaccia poppiera di babordo. Il cane, un enorme molosso, s'avventò rabbioso verso l'àncora, emettendo minacciosi ululati. "Diavolo!" esclamò O'Donnell. "Sarà un po' difficile ammansire quel guardiano! Se la prenderà coi nostri polpacci, Mister Kelly." "Lo uccideremo, O'Donnell. Ma ... " "Che cosa?" "Non sentite delle pestifere esalazioni salire fino a noi?" "Per mille merluzzi! E odore di morti questo!" esclamò l'irlandese, impallidendo. Ed era vero. Da quel vascello abbandonato sull'oceano, senza alberi, senza vele, semirovesciato, preda sicura del primo uragano, saliva un tanfo di carne corrotta che appestava l'aria. Si sarebbe detto che portava un carico di cadaveri: come un sinistro cimitero galleggiante!" L'ingegnere e O'Donnell, entrambi in preda a grand'emozione, cercavano di discernere qualcosa attraverso il boccaporto maestro, che era spalancato come la bocca d'una tenebrosa voragine, ma invano. "Gran Dio!" esclamò l'irlandese. "Quale lugubre scoperta abbiamo fatta! Che sia questo il vascello fantasma dell'olandese maledetto, o la nave-feretro?" "Siete coraggioso, O'Donnell?" chiese l'ingegnere. "Lo credo" rispose l'irlandese. "Allora seguitemi!" "E Simone?" "Rimarrà a guardia dell'aerostato. Un altro spavento lo farebbe impazzire." "Non fidatevi, Mister Kelly. Guardate i suoi occhi e il suo viso." L'ingegnere si volse verso il negro e lo vide curvo sul bordo della scialuppa, con gli occhi fissi sulla nave; ma quegli occhi tradivano una paura orribile, e il volto era diventato grigio, cioè pallidissimo. "Simone!" disse l'ingegnere. Il negro non rispose e non abbandonò la sua posa. Pareva che cercasse d'indovinare la causa di quelle esalazioni pestifere, che salivano fino all'aerostato, a ondate. "Simone," ripetè "cosa fai?" Questa volta il negro alzò il capo e guardò il padrone con due occhi smarriti. "Dei morti?" chiese, battendo i denti. "Io paura." "Ma quali morti, pauroso?" "Là! Là!" balbettò il negro, rabbrividendo e indicando il boccaporto. "È la nave dei morti!" "Tu sogni, Simone" "No" disse l'africano con strana energia. "Rimanete a guardia del Washington Mister Kelly" disse l'irlandese. "Quel povero pazzo può farci un brutto scherzo." "Quale?" "Può tagliare la fune e lasciarci su quella nave del malanno." "Rimanete qui voi, O'Donnell. Scenderò io." "Ma laggiù vi è un carnaio, signore, e un cane idrofobo." "Non ho paura. Rimanete a guardia di Simone e, se vi sarà bisogno d'aiuto mi raggiungerete." "Ah no, signore. Voi siete il capitano qui e non dovete abbandonare l'aerostato ed esporvi a dei pericoli." Poi, prima che l'ingegnere pensasse a opporsi, il bravo irlandese superò il bordo della scialuppa, s'aggrappò alla fune e si lasciò scivolare. "Badate al cane" gridò l'ingegnere. "Ho la rivoltella" rispose O'Donnell. Di mano in mano che scendeva, il puzzo diventava così orribile che si sentiva asfissiare. Gli pareva di scendere in una immensa fossa di cadaveri putrefatti. Giunto all'ultimo nodo, si fermò e guardò sotto di sé. L'enorme molosso stava presso all'ancora e lo guardava con due occhi che mettevano paura, mandando dei sordi brontolii. Aveva il pelo arruffato, la coda penzoloni e delle lunghe bave alla bocca. "È idrofobo!" esclamò O'Donnell che si sentì correre un brivido per le ossa. "Bel guardiano a questa nave dei morti!" Impugnò la rivoltella con la mano destra, mentre con la sinistra si teneva aggrappato alla fune, e scaricò quattro colpi contro quel cagnaccio, il quale stramazzò sul ponte della nave. "È morto?" gli chiese l'ingegnere, dall'alto. "Lo credo" rispose O'Donnell. "Se si rialza ho altri due colpi." Si lasciò andare e cadde sulla tolda. "Corna di cervo!" esclamò. "Che profumi! Ma che cos'è accaduto qui? Che l'equipaggio si sia scannato?" S'avvicinò al cane e vedendolo ancora agitarsi lo fulminò con una quinta palla in un orecchio; vincendo la ripugnanza che lo invadeva e coprendosi il naso con una pezzuola, avanzò verso il boccaporto maestro, che era, come si disse, aperto. Guardò in quella voragine e vide che era semipiena di botti accatastate confusamente le une sulle altre e addossate alle pareti di bordo. In mezzo ad esse, scorse il cadavere di un marinaio in piena putrefazione. "Non può essere quello solo che manda queste pestifere esalazioni" mormorò. Si diresse verso il quadro di poppa, e sulla ruota del timone lesse queste parole: Benito Juarez. Vera Cruz. "È una nave messicana" gridò, volgendosi verso l'ingegnere, che lo guardava con ansietà. "Vi sono dei morti?" chiese l'ingegnere. "Ho veduto un solo marinaio; ma temo che nel quadro e nella camera di prua ve ne siano ben altri, dalla puzza orribile che qui si sente." "Udite nessun rumore, nessun gemito?" "Regna un silenzio di tomba. Mister Kelly. Qui devono essere tutti morti, e forse da qualche settimana." "Temo un grave pericolo, O'Donnell." "Bah! I morti non si muovono." "Ma avvelenano, uccidono." "Ho la pelle dura" rispose l'irlandese, che forse non aveva compreso l'allusione dell'ingegnere. Senza aggiungere parola, scese coraggiosamente la scaletta che metteva nel quadro, malgrado la puzza orrenda che ne usciva. La sua assenza fu breve. L'ingegnere lo vide risalire rapidamente, coi capelli irti, il viso sconvolto, pallido come un cadavere, e precipitarsi verso l'ancora, che con un colpo di mano staccò dai paterazzi e dalle griselle. "Fuggiamo, Mister Kelly, fuggiamo!" gridò con accento di terrore. S'aggrappò alla guide-rope e, senza rispondere all'ingegnere per non perdere tempo, si mise a salire facendo sforzi sovrumani per far più presto che poteva. In un minuto superò la distanza e si issò sulla scialuppa, ripetendo con voce atterrita: "Fuggiamo, Mister Kelly, fuggiamo!" "Ma che cosa avete veduto, O'Donnell?" chiese l'ingegnere. "Siete pallido e sconvolto." "Ho ... che forse noi, che abbiamo respirato ... quei miasmi, ... siamo perduti." "È scoppiata una epidemia su quella nave?" "Sì, e forse la più tremenda: la febbre gialla!" "Fuggiamo" ripeté l'ingegnere, il quale, nonostante il suo coraggio, aveva provato un brivido. Rovesciarono i coni, che mantenevano il pallone prigioniero, e gettarono un sacco di zavorra. L'aerostato, scaricato di quel peso, s'innalzò rapidamente, fuggendo dalle mortali esalazioni che irrompevano da quel cimitero galleggiante.

Aveva quindi abbandonato quegli attrezzi, più di peso che di utilità, e si diceva che si fosse dato allo studio delle correnti aeree, volendo tentare un grande viaggio. Si sapeva che da parecchi mesi faceva delle ascensioni sulle coste della Nuova Scozia e dell'Isola Brettone con un pallone frenato; poi egli era improvvisamente partito per New York, assentandosi per varie settimane. Nei primi di aprile del 1878 il telegrafo annunciava che Ned Kelly avrebbe tentato la traversata dell'Oceano Atlantico, con un pallone di nuovo modello. Quella notizia commosse profondamente americani e canadesi. Gli scienziati dei due paesi s'affrettarono a chiamare quell'audace impresa un suicidio; i giornali si divisero in due campi, l'uno a favore dell'ingegnere, l'altro contro; il pubblico, salvo poche eccezioni, chiamò quel tentativo una pazzia! ... Pazzia, o suicidio, o buona riuscita, le persone meglio munite di denaro s'imbarcarono in massa chi sui piroscafi, chi sui velieri, chi sulle lance, e si portarono all'Isola Brettone. Tutti volevano assistere alla partenza della spedizione, quantunque i più fossero convinti di veder scoppiare quel nuovo pallone appena si fosse alzato e altri di assistere all'agonia dell'aeronauta e dei suoi compagni, se ne avesse trovati, perché non dubitavano che si sarebbero tutti annegati in mezzo all'ampio oceano. Mentre gli aiutanti dell'ingegnere si preparavano a gonfiare l'aerostato, la cui enorme massa occupava una gran parte dell'immenso recinto costruito sulla spiaggia, a tre miglia da Sidney, e a disporre i sacchi di zavorra, le casse dei viveri, i barili d'acqua, le gomene, le ancore, ecc., gli americani, gli inglesi e i canadesi, seguendo la loro passione, scommettevano con furore. I più giocavano contro la riuscita dell'impresa: ma taluni, che forse avevano una grande fiducia nell'ingegnere o nel suo pallone, puntavano in suo favore, eccitando la più alta sorpresa o la più clamorosa ilarità. A un tratto un grido echeggia: "Silenzio! ... " Le urla, le risa, le discussioni cessano come per incanto, gli occhi di quei tremila spettatori si fissano in mezzo al vasto recinto, dove si stendono due enormi tubi, le cui estremità si prolungano da una parte verso un caseggiato, dove si fabbrica l'idrogeno, e dall'altra scompaiono sotto due enormi cumuli di seta, che cominciano ad agitarsi, come se sotto di loro s'introducesse una rapida corrente d'aria. Un grido immenso scoppia da ogni parte: è un grido di stupore, che si converte subito in esclamazioni d'ogni genere e in discussioni animate. I dialoghi s'incrociano ancora da ogni parte. "Chi ha mai visto un pallone di quel genere? ... " "Un pallone! ... Ma sono due i palloni! ... " "A me sembrano due pelli di balena!" "Che Kelly abbia trovato il modo di dirigere gli aerostati? ... " "L'ingegnere ci farà perdere le scommesse." "A vantaggio nostro che abbiamo scommesso per lui! ... " "By God!" "Sapristi!" "Hurrah!, Hurrah!" Un alto grido scoppia da tutte le parti, e una carica di applausi frenetici rimbomba, coprendo i muggiti delle onde, che si frangono con furore contro la spiaggia, e le grida degli aiutanti. Quei due ammassi di seta si sono distesi sotto la spinta dell'idrogeno che s'ingolfa attraverso i tubi, e le forme che assumono strappano a tutti grida di meraviglia. Non sono i soliti palloni, che sembrano fiaschi rovesciati: sono due fusi immensi, lunghi quasi quaranta metri, con un diametro di quindici al centro, che si alzano lentamente con un leggero ondeggiamento, tendendo le corde che gli aiutanti, in numero di trenta, tengono con mani robuste. Al di sotto di quei due fusi, che rammentano le forme dei sigari avana, appeso a una lunga asta che occupa il centro dello spazio lasciato dai due aerostati, ma a una distanza di tre metri dal loro lato inferiore, si agita una specie di battello, lungo trenta piedi, già carico d'una infinità di oggetti, di pacchi, di sacchetti, di botti, di casse, ma costruito d'un metallo leggero e che si direbbe argento. Ancora pochi minuti e quell'immensa macchina spiccherà il volo sopra i flutti muggenti dell'Atlantico. L'emozione degli spettatori è al colmo. Ognuno dimentica le scommesse e tiene gli occhi fissi su quei due palloni, che sempre più si gonfiano, mentre gli aiutanti eseguono delle manovre misteriose con certe pompe. Si direbbe che iniettino, nell'interno dei due aerostati, un gas speciale o qualche cosa di simile. Ma quell'emozione prende enormi proporzioni quando si vede apparire l'ardito aeronauta, uscito allora dal caseggiato dove si fabbrica l'idrogeno. E un bell'uomo sui trentacinque anni, di statura alta, slanciato, con la fronte spaziosa, gli occhi neri e lampeggianti, i lineamenti energici. Indossa un semplice costume di lana bianca ed è seguito da un giovane negro di diciotto o vent'anni, vestito come lui. Un "hurrah" immenso scoppia: gli spettatori agitano pazzamente i berretti, i cappelli, i fazzoletti. "Viva Kelly!" "Viva il Washington!" "Hurrah ... Hurrah! ... " L'ingegnere, giunto in mezzo al recinto, fa spiegare sulla poppa di quell'imbarcazione argentea che deve servirgli da navicella, la bandiera stellata degli Stati dell'Unione, provocando da parte dei suoi compatrioti entusiastici evviva, poi con rapido sguardo esamina il suo magnifico apparecchio aereo, e volgendosi verso il pubblico, dopo aver reclamato con un gesto energico il più assoluto silenzio, dice: "Ho cercato, ma invano, un terzo compagno che mi segua in questo grande viaggio aereo attraverso l'oceano. Se qualcuno di voi si sente il coraggio di salire sul mio Washington, offro un posto." Un silenzio glaciale accoglie le parole dell'aeronauta: l'entusiasmo s'è estinto ad un tratto. Gli spettatori si guardano in viso l'un l'altro; ma nessuno emette un sì. Applaudire quel coraggioso, sta bene; ma accompagnarlo, seguirlo sull'oceano su quella macchina capricciosa in balia del vento, per perire forse nei flutti, è un altro affare! Nessuno si sente in vena di morire per la scienza. Kelly attende un minuto, poi balza nella navicella, seguito dal giovane negro, gridando: "Pronti al comando! ... " Ad un tratto un uomo si slancia attraverso la massa del pubblico, aprendosi il passo con spinte irresistibili, balza sopra il recinto e si precipita verso l'ingegnere, gridando: "Cercate un compagno: eccomi!" La folla per un momento raffreddata, si riscalda come per incanto chi è quel giovanotto che osa affrontare la morte? Nessuno lo sa; ma deve essere un coraggioso, e gli audaci sono e devono essere ammirati. Gli "hurrah" prendono proporzioni tali da assordare; gli applausi scoppiano dovunque, tutti agitano i cappelli e i fazzoletti, tutti urlano, si agitano, si dimenano come ossessi. Ma d'improvviso, mentre l'ingegnere sta per dare il comando di "Via tutti!" e i suoi trenta aiutanti stanno per abbandonare le funi, si odono delle grida di rabbia: "È lui!", "Addosso, policemen," "Prendiamolo!", "Fermate! ... Fermate!" Quindici o venti policemen, guidati da alcuni capi, si precipitano nel recinto, correndo verso il pallone, ma ormai è troppo tardi. Il vascello aereo, libero, s'innalza maestosamente, trasportando con sé l'ingegnere, il suo negro e quello sconosciuto, giunto all'ultimo momento. "Scendete!" gridano i policemen, che sembrano furiosi. Uno di loro con un salto si aggrappa a una fune pendente dalla navicella; ma il vascello aereo, che deve avere una potenza ascensionale immensa, lo trascina con sé. Il pubblico scoppia in una clamorosa risata. Lo sconosciuto però, che pare si aspettasse un simile colpo di scena, si curva sul bordo della navicella e taglia la fune con un rapido colpo di coltello, facendo capitombolare sconciamente l'agente di polizia, e rovescia sul capo degli altri un sacco di zavorra, accecandoli. Una guardia estrae il revolver e lo punta in alto; ma il pubblico, che s'è riversato nel recinto come una fiumana, glielo strappa di mano, per tema che guasti quella meravigliosa nave aerea. Un ultimo immenso grido riecheggia: "Hurrah! Hurrah per Kelly! Viva il Washington!" I due palloni erano allora tanto alti che già parevano due sigari: si videro per alcuni istanti rasentare un grande nuvolone che si estendeva sopra l'oceano, poi sparire verso il nord, in direzione di Terranova. Quasi contemporaneamente una rapida nave a vapore, un incrociatore della Real Marina, usciva precipitosamente da Sidney e si slanciava sulle tracce degli aeronauti.

Mentre così discorrevano, la notte era calata e l'aerostato aveva ripreso la sua discesa con una certa rapidità, trovandosi nel mezzo di una corrente di aria piuttosto fredda, quantunque non avesse abbandonato gli ardenti paraggi del tropico. Alle nove aveva già toccato i mille metri e non accennava ad arrestarsi; alle dieci, solo seicento metri lo dividevano dall'oceano. O'Donnell, che era assai stanco si coricò a poppa, mentre l'ingegnere si sedeva a prua fumando una sigaretta, in attesa che trascorresse il suo quarto di guardia. Il vento si manteneva sempre fresco, trasportando il Washington con la velocità di sedici miglia all'ora, ma aveva subito una notevole modificazione nella direzione poiché ora soffiava verso il nord. Mister Kelly non si inquietava però, anzi si rallegrava quantunque non si avvicinasse alle coste africane. Egli sperava di raggiungere i paralleli europei e di trovare, più tardi, una corrente che lo spingesse verso la Spaglia o il Portogallo. Verso le undici, volendo guardare i suoi strumenti per accertarsi dell'altitudine e della velocità del vento, accese una candela. Si era appena alzato per accostarsi alla murata di babordo, alla quale erano appesi gli strumenti, quando gli parve di udire echeggiare un grido. Sorpreso al massimo grado, guardò in alto, credendo che lo avesse emesso qualche grosso uccello marino, ma non vide nulla traversare il cielo stellato: guardò giù, ma nulla distinse sulla nera superficie dell'oceano. "È strano," esclamò. "Che qualche nave passi sotto di noi? Una nave! Ma si vedrebbero i fanali di posizione, mentre sull'oceano non scorgo alcun punto luminoso." Ascoltò alcuni minuti, tendendo gli orecchi e questa volta udì distintamente una voce umana che sbalzava dall'oceano. "O'Donnell!" gridò. L'irlandese che aveva il sonno leggero si svegliò bruscamente. "Tocca il quarto?" chiese. "Non ancora, ma volevo chiedervi se avete udito un grido." "No, Mister Kelly: dormivo come un ghiro." "Udite ... " Un grido come una chiamata disperata, era giunto ai loro orecchi. Pareva che venisse dal nord, cioè nella direzione in cui l'aerostato veniva spinto. O'Donnell benché non fosse superstizioso mormorò: "Che sia la voce del negro? ... Si dice che i morti sull'oceano riappaiono." "Fole di marinai," disse l'ingegnere. "Ma chi supponete che sia? Qualche grosso pesce forse?" "No: era un grido umano." "Zitto ... " "Ancora?" Nelle tenebre si udì distintamente una voce argentina, una voce quasi da fanciullo, a gridare: "Help! ... Help!" Kelly e l'irlandese si curvarono sul bordo della scialuppa e scrutarono avidamente la nera distesa dell'Atlantico, sperando di scorgere qualche cosa, ma l'oscurità era troppo intensa. "È un inglese!" esclamò O'Donnell. "O un americano," disse l'ingegnere. "E mi parve la voce di un fanciullo." "Forse è un naufrago." "E lo lasceremo perire, Mister Kelly?" "Ah no!" Fece con le mani una specie di portavoce e gridò con voce tonante: "Chi siete?" "Un naufrago," rispose la voce di prima. "Siete solo?" "Solo." "Potete mantenervi a galla fino all'alba?" "Monto un canotto." "Siete un ragazzo?" "Un mozzo." "Vi salveremo." "Grazie, buon signore!" "Non perdiamo tempo, O'Donnell," disse l'ingegnere. "Il vento ci trasporta con notevole difficoltà e non bisogna scendere fuori di vista." "Sacrificheremo dell'altro gas?" "È necessario, O'Donnell. Fortunatamente l'idrogeno è condensato, e non ne perderemo molto per abbassarci di cinque o di seicento metri." Impugnò le due funicelle che pendevano dai due fusi e con uno strappo aprì le due valvole di sfogo. Tosto in alto udirono dei leggeri scoppiettii e si sparse intorno alla navicella un acuto odore d'idrogeno. "Spegnete la candela," disse l'ingegnere. O'Donnell obbedì, poi calò le due àncore a cono per rallentare la discesa e frenare il pallone. Il Washington si abbassava con un largo dondolio, descrivendo di quando in quando dei giri concentrici. "Basta," disse l'ingegnere, lasciando andare le due funicelle. Le due valvole si chiusero, ma l'aerostato continuò ad abbassarsi con notevole rapidità. I due coni e la guide-rope sommersero e tosto rallentarono la sua marcia discendente, mantenendolo a sessanta metri dalla superfìcie dell'oceano. "Vedete nulla?" chiese O'Donnell all'ingegnere che aveva puntato un canocchiale da notte. "Sì, mi pare di scorgere una piccola striscia nera scivolare sull'oceano." "È lontana?" "Tre o quattro chilometri." "Allora fra poco il naufrago sarà qui. Come mai un ragazzo si trova perduto in mezzo all'Atlantico e solo?" "Lo sapremo più tardi. Udite lo sbattere dei remi?" "Mi pare di udire un lontano rumore. Ci vedrà quel mozzo ?" "Accendete una torcia: gli servirà da faro." La sottile striscia nera avanzava sempre verso il pallone e si distingueva ormai senza bisogno di cannocchiale e si udiva anche nettamente lo sbattere dei remi. In capo a mezz'ora era lontana poche centinaia di metri, su di essa si scorgeva una forma umana di piccole dimensioni, la quale manovrava i remi con grande energia. "Coraggio, giovanotto!" gridò Mister Kelly. "Grazie signore," rispose il naufrago. In pochi minuti superò la distanza, abbandonò il canotto, si fermò alcuni istanti sul primo nodo della guide-rope per riposarsi, poi si arrampicò con l'agilità di un gatto e raggiunse la navicella. O'Donnell lo afferrò per le braccia e lo depose nella scialuppa. "Grazie," ripeté il naufrago. Poi, dopo aver girato lo sguardo ardente sulle casse e sui barili che ingombravano la scialuppa, mormorò: "Da bere! ... Da bere, signori! ... Muoio di sete!"

I MISTERI DELLA GIUNGLA NERA

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Salgari, Emilio 4 occorrenze

Sull'albero che aveva allora allora abbandonato, scorse la tigre aggrappata ad uno dei rami; i suoi occhi scintillavano come quelli di un gatto e i suoi artigli strappavano la corteccia della pianta. Puntò rapidamente il fucile verso la fiera, la quale, sgomentata, si slanciò giù per guadagnare la jungla, ma si trovò dinanzi al rinoceronte. I due formidabili animali si guardarono reciprocamente per qualche istante. La tigre, che forse sapeva di nulla avere da guadagnare in una lotta col brutale colosso, cercò di fuggire, ma non ne ebbe il tempo. Il rinoceronte aveva fatto udire il suo grido. Abbassò la testaccia mostrando l'aguzzo suo corno e si slanciò furiosamente sulla belva, dimenando rabbiosamente la corta sua coda. L'urto fu terribile. La tigre aveva fatto un salto immenso, cadendo sulla groppa del colosso, il quale, fatti trenta o quaranta passi, si gettò a terra costringendola a lasciarlo. - Bravo rinoceronte! - mormorò Kammamuri. I due nemici s'erano entrambi risollevati, con rapidità fulminea, precipitandosi l'un sull'altro. Il secondo assalto non fu fortunato per la tigre. Il corno del rinoceronte le fracassò il petto lanciandola di poi in aria per più di quaranta metri. Ricadde, cercò di risollevarsi mugolando di dolore e di rabbia e tornò a volare ancor più in alto perdendo torrenti di sangue. Il rinoceronte non attese nemmeno che ricadesse. Con un terzo colpo della sua terribile arma la sventrò, poi rivoltandola contro terra la schiacciò coi suoi larghi piedi riducendola in un ammasso di carni sanguinolente e di ossa infrante. Tutto ciò era successo in pochi secondi. Il colosso, soddisfatto, emise due o tre volte il suo sordo fischio, indi rientrò nella jungla a devastare i bambù, senza però allontanarsi dallo stagno. La sua ritirata giungeva in buon punto, poiché Tremal-Naik, in preda al delirio e ad una violentissima febbre, s'era risvegliato chiamando Kammamuri. Ciò rendeva la situazione dei due indiani estremamente pericolosa, poiché l'intrattabile animale poteva udire le loro voci e comparire improvvisamente fra gli alberi. Il maharatto sapeva bene che non vi era da illudersi sulle probabilità di salvare la vita, nemmeno colla fuga, poiché tutte le specie di rinoceronti superano nella corsa l'uomo più agile. S'affrettò a raggiungere il padrone ed a liberarlo dalle erbe che lo coprivano. - Silenzio, - diss'egli, ponendogli un dito sulle labbra. - Se ci ode, siamo irremissibilmente perduti. Ma Tremal-Naik, in preda al delirio, agitava pazzamente le braccia e dalle labbra gli uscivano parole insensate: - Ada ... Ada! ... - gridava egli, sbarrando spaventosamente gli occhi - dove se' tu, vergine della pagoda? ... Ah! ah! mi ricordo ... Sì, mezzanotte! mezzanotte! ... Ed essi sono venuti, tutti armati, molti contro uno, ma non ho paura no, io, non tremo, sai, Ada, sono il cacciatore di serpenti ... forte! molto forte! L'ho visto sai quell'uomo, quello che ti ha condannata. Era brutto, molto brutto e voleva strangolarmi. Perché quegli uomini hanno dei lacci? Perché hanno anche loro il serpente sul petto? Quanti serpenti, quante teste di donna. Ma non mi fan paura. Che? io aver paura di loro? Io, Tremal-Naik? ... Ah! ... Ah! ... Tremal-Naik diede in uno scroscio di risa, che fece fremere il maharatto fino in fondo all'anima. - Ma padrone, sta' zitto! - supplicò Kammamuri, che udiva il maledetto animale saltare furiosamente sul limite della jungla. Il delirante lo guardò con occhi semi-chiusi e proseguì a voce più alta: - Era notte, notte molto buia, io scendevo dall'alto e sotto di me vagava la visione. L'ho udito il profumo cadere sulle pietre. Perché, crudele, adorare quella divinità? Non mi ami tu adunque? ... Tu sorridi, ma io fremo. Tu sai quanto ti ama il cacciatore di serpenti. Avrei forse un rivale? Guai a lui! ... Guarda che si avvicinano i maledetti ... ridono, sghignazzano e mi minacciano ... via di qui, via, assassini, via, via! ... Hanno ancora i lacci, li gettano ... aspettate che io vengo ... La vendicherò, assassini, eccomi! ... Kammamuri! Kammamuri! mi strangolano! Il delirante si alzò a sedere cogli occhi stralunati e la schiuma alle labbra e tendendo il pugno chiuso verso il maharatto gridò: - Sei tu che vuoi strangolarmi? Kammamuri, dammi le pistole che lo accoppi. - Padrone, padrone, - balbettò il maharatto. - Ah tu ... non sai chi sono? Kammamuri, mi strangolano! ... Aiuto! ... aiu ... Il maharatto gli soffocò le grida, mettendogli rapidamente una mano sulla bocca e rovesciandolo a terra. Il ferito si dibatteva furiosamente ruggendo come una fiera. - Aiuto! ... - tornò ad urlare. Dalla parte degli alberi si udì un potente grugnito. Il maharatto, tremante di spavento, vide il muso triangolare del rinoceronte far capolino fra le fronde. Si tenne per perduto. - Grande Siva! - esclamò, raccogliendo in furia la carabina. Il rinoceronte guardò il gruppo coi suoi occhietti piccoli e brillanti, ma più con sorpresa che con collera. Non vi era un istante da perdere. Quella sorpresa non doveva durare molto, per quel brutale colosso, che tanto facilmente si irrita. Il maharatto, reso ardito dall'imminenza del pericolo, puntò freddamente la carabina, mirò uno degli occhi e lasciò partire la scarica, ma la palla mal diretta si schiacciò sulla fronte del rinoceronte, il quale tese orizzontalmente il corno preparandosi ad assalire. La perdita dei due indiani era ormai quasi certa. Ancora pochi minuti e avrebbero subìta la medesima sorte della tigre. Fortunatamente Kammamuri non aveva perduto il suo sangue freddo. Visto l'animale ancora in piedi, lasciò cadere l'arma diventata inutile, si precipitò sopra Tremal-Naik, lo sollevò fra le sue braccia, corse allo stagno e saltò dentro, sprofondando fino alle spalle. Il rinoceronte caricava allora con furia irresistibile. In quattro salti varcò la distanza e piombò pesantemente nell'acqua, sollevando uno sprazzo di fango e di spuma. Kammamuri, atterrito, cercò di fuggire, ma non lo poté. Le sue gambe si erano affondate in una sabbia tenacissima e in modo tale, che ogni sforzo riusciva inutile. Il poveretto, mezzo asfissiato, tremante, pallido, gettò un urlo straziante: - Aiuto! Son morto! ... Udendo dietro di sé sordi fischi, si volse e vide il rinoceronte dibattersi furiosamente e avventare a destra e a sinistra tremendi colpi di corno. Il colosso, trascinato dall'enorme peso, era affondato fino al ventre e continuava ad affondare nelle sabbie mobili. - Aiuto! ... - ripeté il maharatto, sforzandosi di mantenere fuori dall'acqua il padrone. Un lontano latrato rispose alla disperata chiamata. Kammamuri trasalì: quel latrato l'aveva udito ancora e non una, ma mille volte. Una pazza speranza gli balenò in mente. - Punthy! ... - gridò. Un cane nero, vigoroso, grosso, sbucò dalla fitta massa di bambù e corse verso lo stagno latrando con furore. Quel cane che arrivava in così buon punto, era proprio il fedele Punthy, il quale lanciossi contro il rinoceronte tentando di azzannargli un orecchio. Quasi nel medesimo istante si udì la voce di Aghur. - Tieni fermo, Kammamuri! - gridava il bravo giovanotto. - Ci sono! ... Il bengalese con un salto varcò una fitta macchia, scomparve fra i bambù e riapparve sulla riva dello stagno. Armò rapidamente il fucile, si mise in ginocchio e sparò contro il rinoceronte, il quale, colpito nel cervello, cadde su di un fianco, scomparendo più che mezzo sott'acqua. - Non muoverti, Kammamuri, - proseguì il destro cacciatore. - Ora compiremo il salvataggio; ma ... Cos'ha il padrone? ... È forse ferito? - Taci e spicciati, Aghur, - disse il maharatto, che tremava ancora. - Nella jungla vagano dei nemici. Il bengalese sciolse in fretta la corda che cingevagli il dubgah e gettò un capo a Kammamuri che l'afferrò solidamente. - Tieni fermo, - disse Aghur. Radunò tutte le sue forze e cominciò a tirare. Kammamuri si sentì strappare da quelle tenaci sabbie e trascinare verso la riva, sulla quale frettolosamente si arrampicò. - Ebbene, - chiese Aghur con ansietà, mirando con occhio atterrito il padrone. - Cosa gli è accaduto? - L'hanno pugnalato. - Ah! ... E chi mai? - Gli stessi che assassinarono Hurti. - Quando? ... Come? ... - Te lo dirò più tardi. Sbrigati, costruisci una barella e partiamo; siamo inseguiti. Aghur non volle saperne di più. Snudò il coltellaccio, tagliò sei o sette rami, lì legò con solide corde e sopra quella rozza barella ammonticchiò alcune bracciate di foglie. Kammamuri sollevò lentamente il padrone che non era ancora tornato in sé, e ve lo stese sopra. - Andiamo e silenzio, - comandò Kammamuri. - Hai il canotto? - Sì, è arenato sulla sabbia, - rispose Aghur. - Hai le pistole cariche? - Tutt'e due. - Avanti allora e tieni gli occhi aperti. - Siamo forse spiati? - Forse sì. I due indiani sollevarono la barella e si misero in marcia preceduti dal cane, seguendo uno stretto sentiero aperto nel mezzo della jungla. In quindici minuti giunsero al fiume, sul quale galleggiava il canotto. Nel momento che s'imbarcavano, Punthy abbaiò. - Zitto, Punthy, - disse Kammamuri, prendendo i remi. Il cane, anziché ubbidire, mise le zampe sul bordo del canotto e raddoppiò i suoi abbaiamenti. Pareva in preda ad una forte eccitazione. I due indiani guardarono verso la jungla, ma non videro alcuno. Eppure Punthy doveva aver udito qualche rumore. Misero le pistole sui banchi, afferrarono i remi e si spinsero al largo rimontando il fiume. Non avevano ancora percorso trecento braccia, che il cane ricominciò ad abbaiare rabbiosamente. - Alto là! - gridò una voce imperiosa. Kammamuri si volse indietro stringendo nella dritta una delle pistole. Sulla riva, sul luogo da essi abbandonato, si teneva ritto un colossale indiano col laccio nella dritta e il pugnale nella sinistra. - Alto là! - ripeté egli. Kammamuri invece di ubbidire sparò. L'indiano si accasciò su se stesso agitando le braccia, indi scomparve fra i cespugli. - Arranca! Arranca, Aghur! - gridò il maharatto. Il canotto fendette rapidamente le acque dirigendosi verso il cimitero galleggiante, nel mentre che una voce tonante, ripiena di minaccia, gridava dalle coste dell'isola maledetta: - Ci rivedremo! ...

. - Se mi vede tornare, crederà che io abbia abbandonato Kammamuri e mi spaccherà la testa con una palla di carabina. Quell'uomo non ischerza. Aprì adagio adagio i bambù e guardò verso il nord. A quattrocento passi di distanza scorse la capanna ed accanto ad essa Tremal-Naik in piedi, colla carabina in mano. - Ah! - esclamò il miserabile. - Ucciderlo non sarà tanto facile, ma Manciadi è più furbo di un cacciatore di serpenti. Ripigliò la corsa verso l'est, trottando furiosamente per sei o sette minuti, poi si slanciò nella pianura. La capanna stava alla sua destra e Tremal-Naik gli mostrava un fianco. Con un po' d'astuzia poteva avvicinarsi e cogliere la vittima alle spalle. La sua risoluzione fu prontamente presa. Si mise a strisciare fra le erbe come un serpente, allungandosi quanto poteva onde non venire scorto da Tremal-Naik e procurando di non far rumore. Però, il venticello che sfiorava la piantagione, curvando dolcemente le alte cime dei bambù, produceva un leggiero stropiccio, sufficiente per coprire lo strisciare di un uomo. Così avanzando e soffermandosi per tendere gli orecchi e guardare Tremal-Naik che pareva non s'accorgesse di nulla, riuscì a guadagnare la capanna. Con uno scatto da tigre si rizzò. Un sorriso atroce sfiorava le sue labbra. - È mio, - mormorò con un filo di voce. - Kâlì mi protegge. Camminò in punta dei piedi lungo le pareti della capanna e si fermò a dieci passi da Tremal-Naik. Diede un ultimo sguardo alla jungla e non scorse nessuno. Un secondo sorriso, più crudele del primo, apparve sulle labbra ed i suoi occhi scintillarono come quelli di un gatto. Un secondo ancora e la vittima sarebbe caduta per non più rialzarsi. Fece fischiare rapidamente il laccio attorno a sé e lo slanciò facendo un balzo avanti. Tremal-Naik piombò al suolo come un albero sradicato dal vento, ma, per un caso fortuito, una mano era rimasta presa nel laccio. - Kammamuri! - gridò il disgraziato, afferrando coll'altra mano la corda e tirando a sé con disperata energia. - Muori! muori! - urlò l'assassino, trascinandolo sul suolo. Tremal-Naik mandò un secondo grido. - Kammamuri! aiuto! - Eccomi - tuonò una voce. Manciadi digrignò i denti con furore. Sul limite della piantagione era improvvisamente apparso il maharatto: dinanzi, correva, con balzi giganteschi la tigre, fiancheggiata da Punthy. Un lampo squarciò la notte seguìto da una fragorosa detonazione. Manciadi fece un salto di dieci passi e s'avventò all'impazzata verso la riva vicina. Un secondo sparo rimbombò e Manciadi piombò nel fiume, scomparendo fra i gorghi.

La fregata aveva abbandonato il molo e scendeva maestosamente il fiume, vomitando nubi di fumo e mandando lunghi fischi. I thugs, sfiniti, impotenti di più oltre lottare, si erano arrestati guardando con occhio feroce la nave, che passava a duecento passi dalla imbarcazione. - Tutto è perduto! - urlò un di loro, tendendo il pugno. - No, no! ... - esclamò Tremal-Naik. Si curvò, raccolse la carabina, l'armò e diresse la canna sulla fregata. Sul ponte di comando aveva veduto un uomo e l'aveva subito riconosciuto: era il capitano Macpherson. Già aveva imbracciato l'arme, già stava per far partire il colpo, quando un thug lo atterrò. - Tu vuoi farci assassinare, - disse lo strangolatore, disarmandolo. Tremal-Naik si rialzò cogli occhi accesi, le pugna alzate, il viso stravolto. - Ma non sai tu, miserabile, che se i thugs perdono Raimangal io perdo la mia Ada? - urlò egli. - Calmati, Tremal-Naik. Vi sono altre navi che si recano nelle Sunderbunds. - Quali? - Guarda quella cannoniera. Imbarca cannoni e botti di polvere. Non vedi sul picco la bandiera inglese? Tremal-Naik vide infatti una grande cannoniera, ancorata dinanzi alla spianata dello Strand, che preparavasi a partire. Un pennacchio di fumo usciva dal camino. - Se fosse vero! ... - mormorò egli con voce tremante. - Al molo! al molo La baleniera con quattro arrancate approdò dinanzi a Kuti-Bazar. Proprio nel medesimo istante, un canotto montato da un quartier-mastro della Reale Marina prendeva il largo. - Ohe! Hider! - gridò un thug. Il quartier-mastro, indiano pur egli, si volse. - Olà, amici, dove andate? - chiese egli tornando a riva. - Chi è quel marinaio? - chiese Tremal-Naik. - Un affiliato, gli fu risposto. Hider in quel frattempo era sbarcato. Era un bell'uomo di alta statura, sui quarant'anni, con una barba nerissima e folta, occhi lucentissimi e membra muscolose. Tra le labbra teneva una corta pipa e fumava vigorosamente. - Amici miei, - disse, avvicinandosi, - qui succedono delle cose assai gravi. - Lo sappiamo, - disse Tremal-Naik. - Chi sei tu? - chiese il quartier-mastro, con diffidenza. Tremal-Naik gli mostrò l'anello che portava in dito. Il marinaio cadde in ginocchio. - Ordina, inviato di Kâlì, - disse con voce tremante. - Conosci il capitano Macpherson? - Forse più di te. - Sai dove conduce la fregata? - Nessuno sa ove vada la Cornwall, ma io ho un sospetto. - La conduce a Raimangal. - Il quartier-mastro scagliò la pipa a fracassarsi sui sassi. - A Raimangal! ... - esclamò egli. - A Raimangal hai detto? - Sì, egli va ad assalire Suyodhana. - Lo sospettavo. Ho fatto imbarcare due affiliati sulla Cornwall. - Che ordini hanno? - Di vegliare e di informarci di quanto succede, appena potranno disertare. - Allora siamo perduti. Il quartier-mastro non rispose. Non trovava parole. - Cosa fa quella cannoniera che si sta armando? chiese Tremal-Naik. - Ci rechiamo a Colombo. - Bisogna che cada in nostra mano. - Cosa vuoi fare della Devonshire? - Per raggiungere la Cornwall prima che getti l'ancora a Raimangal. - E colarla a fondo? - Questo è affar mio, - disse Tremal-Naik. - Comanda. - Quanti affiliati ci sono a bordo della Devonshire? - Siamo in sei. - L'equipaggio ammonta a ... ? - Trentadue uomini. - Bisogna imbarcare almeno dieci affiliati. - È impossibile! - esclamò Hider. - Con sei affiliati non si conquista la cannoniera. - Lo so. - Cosa imbarcano ora? - Cannoni. - E poi? - Delle provviste. - Imbarcheranno delle botti di biscotto e di acqua, suppongo. - È vero. - Sta bene. Invece di botti di biscotto imbarcheranno delle botti contenenti dei thugs. Puoi fare questa sostituzione tu? - Dirigo io l'armamento della Devonshire. - Una parola ancora. Quando si parte? - A mezzanotte, mi disse il capitano. - Credi tu che si raggiungerà la Cornwall? - Forzando molto la macchina si potrebbe raggiungerla. - Mi basta. A questa sera, Hider.

Aveva abbandonato ogni prudenza e camminava rapidamente, a balzelloni, coi pugni chiusi, gli occhi sbarrati, in preda a una specie di delirio. Non udiva nemmeno la voce di Kammamuri, che lo supplicava di frenare la sua esaltazione. Per fortuna lo scrosciare delle folgori si ripercuoteva sempre sotto le cupe arcate, soffocando il rumore dei passi. D'improvviso il cacciatore di serpenti urtò contro un oggetto acuminato che gli traforò la veste toccandogli le carni. S'arrestò di botto indietreggiando. - Chi è là? - chiese egli con voce stridula, impugnando il coltellaccio e alzandolo. - Cos'hai trovato? - domandò il maharatto, che si preparava ad avventare innanzi Darma. - Qualcuno sta presso di noi, Kammamuri. Sta' in guardia. - Hai visto qualche ombra? - No, ma fui urtato da una lancia. La punta mi toccò il petto e per poco non mi ferì. - Eppure Darma non dà segni d'inquietudine. - Che mi sia ingannato? Non è possibile. - Ritorniamo? - Giammai. Mezzanotte forse sta per iscoccare. Avanti, Kammamuri. Fece per slanciarsi innanzi e sentì la stessa punta acuta che gli penetrò, questa volta, nelle carni. Egli gettò una sorda imprecazione e allungò la man dritta, afferrando una specie di lancia tesa orizzontalmente all'altezza del suo petto. Si provò a tirar a sé, ma resistette; tentò di torcerla ma non fu capace. Tremal-Naik si lasciò sfuggire un'esclamazione di sorpresa. - Cosa significa ciò? - mormorò egli. - Ebbene, padrone? - chiese Kammamuri. - Che ostacolo è? - Una lancia irremovibile, forse infissa nel muro: deviamo. Si volse a destra e dopo qualche passo incontrò una seconda lancia pure irremovibile. La sua sorpresa giunse al colmo. - Forse è un'opera di difesa, - pensò, - e forse qualche strumento di tortura. Volgiamo a sinistra. Qualche via la troverò per tirare innanzi. Camminò per qualche tratto, poi urtò colla testa sotto una volta assai bassa, e mise i piedi su di un gradino. Ne discese con precauzione quattro o cinque, poi si fermò. La sua mano s'incontrò con quella di Kammamuri e gliela strinse fortemente. - Odi, padrone? - chiese il maharatto. - Sì, odo, - rispose Tremal-Naik sommessamente. - Cos'è questo mormorìo? - Non lo so, taci ed ascolta. Tesero l'orecchio trattenendo il respiro. Cosa invero strana, sulle loro teste udivasi una specie di gorgoglìo che l'eco della galleria ripeteva. Un momento dopo, sotto la volta, apparve un disco lievemente illuminato che si spense quasi subito. Un cupo boato vi tenne dietro. Kammamuri e Tremal-Naik si sentirono invadere da una viva inquietudine ed afferrarono le pistole. Passò qualche minuto, poi il disco riapparve e tornò a scomparire seguìto ancora dal rimbombo misterioso. - Comprendi qualche cosa? - chiese il maharatto. - Credo di sì - rispose Tremal-Naik. - Questo sgocciolare e questo gorgoglìo fanno sospettare la presenza dell'acqua.. Forse sul nostro capo scorre un fiume. - E quel disco che appare e scompare? - Forse è una lente di vetro o di quarzo. Il chiarore proviene dai lampi e il boato è il tuono che scroscia al di fuori. - Lo credi, padrone? - Vero o no, non farò un passo indietro. Mezzanotte è vicina. - Siamo in un luogo orribile, padrone. Io tremo come se avessi freddo. Questo silenzio e queste tenebre mi fanno paura. - È inquieta Darma? - No, padrone, è tranquilla. - È segno che il nemico non è ancora vicino. Andiamo avanti. Ripresero la marcia fra le tenebre fredde ed umide, salendo e discendendo, urtando spesso la testa sotto le volte, camminando a casaccio seguiti sempre dalla tigre, che non dava ancora segno alcuno d'inquietudine. Passarono così altri dieci minuti lunghi come dieci ore. I due indiani già credevano di aver preso una falsa via e stavano per ritornare, quando ad una svolta videro una grande fiamma ardere in mezzo alla galleria. Tremal-Naik scorse vicino ad essa un indiano semi-nudo, appoggiato ad una specie di zagaglia, sormontata dal misterioso serpente. Un sospiro di sollievo gli uscì dalle labbra. - Finalmente! - mormorò egli. - Cominciavo a temere di essermi inoltrato in una caverna disabitata. Attento, Kammamuri. - Abbiamo il nemico in vista? - Sì, c'è un indiano. - Oh! - esclamò il maharatto, rabbrividendo. - Quell'uomo ci sbarra la via. - Lo uccideremo. - Non si può evitarlo? - Sì, ritornando, ma Tremal-Naik non ritorna. - Farai rumore, egli griderà e gli avremo tutti addosso. - Quell'uomo ci volge le spalle e Darma ha il passo silenzioso. - Sta' in guardia, padrone. - Sono deciso a tutto, anche a pugnare contro mille uomini. Si chinò verso la tigre che fissava ferocemente l'indiano, mostrando le acute zanne ed i lunghi artigli. - Guarda quell'uomo, Darma, - disse Tremal-Naik. La tigre emise un sordo brontolìo. - Va' e sbranalo, amica mia. Darma guardò il padrone, poi l'indiano. I suoi occhi si dilatarono e parve che s'incendiassero. Aveva compreso ciò che il cacciatore di serpenti desiderava. Si abbassò fino a toccare col ventre la terra, guardò un'ultima volta Tremal-Naik che le additava l'indiano e s'allontanò con passo silenzioso, ondeggiando lievemente la coda, come un gatto in collera. L'indiano nulla avea udito né veduto, volgendo la schiena al fuoco. Si avrebbe detto anzi che si era assopito appoggiato alla lancia. Tremal-Naik e il maharatto, colle carabine in mano, seguivano ansiosamente i movimenti di Darma, la quale fissava con occhio ardente la vittima, avanzando con precauzione. I loro cuori battevano fortemente di timore. Bastava un grido dell'indiano, perché l'allarme si spargesse nei sotterranei e l'audace impresa crollasse come un castello di carta - Riuscirà? - bisbigliò il maharatto, all'orecchio di Tremal-Naik. - Darma è intelligente, - rispose il cacciatore di serpenti. - E se fallisse? - Tremal-Naik provò un forte brivido. - Daremo battaglia, - disse poi con ferma voce. - Taci e guarda! L'indiano non aveva ancora udito nulla, tanto era silenzioso il passo del feroce animale; d'un tratto questi si arrestò, raccogliendosi su se stesso. Tremal-Naik strinse fortemente la mano di Kammamuri. La tigre non era che a dieci passi dall'indiano. Passarono due secondi, poi la tigre fece un balzo spaventevole. Uomo e animale caddero entrambi per terra e s'udì un sordo scricchiolìo, come di ossa che s'infrangono. Tremal-Naik e Kammamuri si slanciarono verso il fuoco, drizzando le carabine verso il corridoio. - Brava, Darma, - disse Tremal-Naik passandole una mano sulla robusta schiena. S'avvicinò all'indiano e lo sollevò. Il poveretto non dava più segno di vita ed era inondato di sangue. La tigre gli aveva schiacciato la testa fra i denti. - È proprio morto, - disse Tremal-Naik, lasciandolo ricadere. - Darma non poteva eseguire il colpo con maggior destrezza. Vedrai, Kammamuri, che con questa brava compagna noi faremo grandi cose. Mi pare che la salvezza di colei che amo, sia ora una cosa facile. - Lo credo anch'io, padrone. Sarà un bel colpo, quando Darma si scaglierà in mezzo all'orda: metteremo in fuga tutti. - E noi approfitteremo per rapire Ada. - E dove la trasporteremo? - Alla capanna innanzi tutto; poi vedremo se sarà meglio condurla a Calcutta o più lontano. - Zitto, padrone! - Cosa c'è? - Ascolta! In lontananza s'udì un'acuta nota. I due indiani la riconobbero subito. - Il ramsinga! - esclamarono. Un colpo sordo e formidabile echeggiò sotto i corridoi e si ripercosse parecchie volte. Era un boato simile a quello udito la notte che avevano approdato a Raimangal per cercare Hurti, e che li aveva tanto sorpresi. Tremal-Naik fremette da capo a piedi e gli sembrò che le forze si centuplicassero. Fece un salto da tigre alzando la carabina. - Mezzanotte! - esclamò egli, con un tuono di voce che più nulla aveva d'umano.- Ada! ... Oh! mia fidanzata! ... Non seppe dire di più. Emise un urlo strozzato e s'avventò furiosamente sotto la galleria seguito da Kammamuri e dalla tigre. Pareva una belva, anziché un uomo. Aveva gli occhi iniettati di sangue, la spuma alle labbra e brandiva nella dritta il coltellaccio pronto a sfondare qualsiasi ostacolo. Non aveva più paura di nessuno. Mille indiani non lo avrebbero arrestato nella sua pazza corsa. L'hauk continuava a rullare, destando tutti gli echi delle caverne e delle gallerie, chiamando a raccolta i settari della misteriosa dea, e in lontananza s'udivano le acute note del ramsinga ed un confuso mormorìo di voci. Il momento terribile s'avvicinava; la mezzanotte stava per iscoccare. Tremal-Naik raddoppiava la velocità, poco calendogli che venissero uditi i suoi precipitosi passi. - Ada! ... Ada! ... - lo si udiva rantolare e si scagliava colla furia d'un toro sotto le gallerie, le quali si succedevano le une alle altre. Un chiarore immenso apparve nel fondo ed uno scoppio di grida rintronò nei sotterranei. - Eccoli! - urlò Tremal-Naik con voce strozzata. Kammamuri si slanciò su di lui e radunando tutte le sue forze lo arrestò. - Non un passo! - gli disse. Tremal-Naik gli si volse contro digrignando i denti. - Cosa vuoi dire? - gli chiese con feroce accento. - Se ti è cara la vita della tua Ada, non un passo di più, - gli ripeté Kammamuri avvinghiandosi a lui. - Lasciami, maharatto, lasciami! Ho la febbre ... m'assale il delirio! - È ben perché sei fuori di te stesso, che non voglio che tu vada innanzi. Se tu irrompi in quella caverna prima del tempo, ci perderai. Frenati, padrone, e noi la salveremo egualmente. - Lo credi? - chiese Tremal-Naik. - Ho il cuore che mi balza furiosamente in petto e il sangue che mi bolle. Mi sento tanto forte da scuotere queste mura e seppellire sotto le macerie tutti quei mostri. Odi! ... Non hai udito quel grido straziante? - Non ho udito nulla; ti sei ingannato. - Mi era sembrato di avere udita la sua voce. - È il delirio. Sii calmo, padrone, se vuoi salvarla. - Sarò calmo, ma non arrestiamoci qui, Kammamuri. - No, non ci arresteremo. Vieni con me, ma se commetti un'imprudenza, io ti abbandono. Dammi la mano. Kammamuri afferrò la sinistra di Tremal-Naik e si inoltrarono verso la caverna. Poco dopo si arrestavano dietro una enorme colonna donde potevano vedere senz'essere scoperti. Uno strano spettacolo s'offerse tosto ai loro occhi. Dinanzi a loro si apriva una vastissima caverna scavata nel granito rosso come i famosi templi di Ellora, sostenuta da ventiquattro colonne adorne di sculture più o meno bizzarre, di teste di elefanti, di teste di leoni e di divinità. Ai piedi di essi si scorgevano Parvadi, dea della morte, seduta su di un leone, e la dea Ganesa colle sue otto braccia, seduta fra due elefanti che congiungevano le loro trombe sopra la sua testa. Ai quattro angoli c'erano le statue di Siva e nel mezzo una dea mostruosa con una lingua rossa che le usciva dalla bocca, una cintura di mani e una collana di crani, una dea simile a quella che Tremal-Naik aveva veduta nella pagoda. Dalla volta, coperta di altirilievi, rappresentanti i combattimenti di Rama col tiranno Ravana, rapitore della bella Sita e le guerre dei Kurù e dei Pandù, che contesero per lungo tempo pel possedimento di Babrata Varca, pendevano numerose lampade di bronzo, le quali spandevano all'intorno una luce azzurrognola, livida, cadaverica. Quaranta indiani seminudi col serpente tatuato sul petto, il laccio di seta stretto attorno le reni e ii pugnale in mano, erano seduti all'ingiro a mo' dei mussulmani, cioè colle gambe incrociate, fissando la mostruosa divinità di bronzo. Uno di loro aveva vicino un enorme tamburo, un hauk, ornato di piume e di crini e di quando in quando lo percuoteva facendo rimbombare le volte della caverna. Tremal-Naik, come si disse, si era arrestato dietro alla colossale colonna, sorpreso ed atterrito ad un tempo, ma stringendo convulsivamente le armi. - Ada! ... - mormorò egli, percorrendo con un solo sguardo tutta la caverna. - Dov'è la mia Ada? ... Un raggio di gioia brillò negli occhi del povero indiano. - Il sacrificio non è ancora incominciato! esclamò. - Siva sia benedetto. - Non parlare così forte, padrone - disse Kammamuri, stringendo il collo della tigre. - Se tutti gli indiani che abitano il sotterraneo sono questi, rapire la tua donna sarà cosa non impossibile. - Sì, sì, la salveremo, Kammamuri! - esclamò Tremal-Naik con esaltazione. - Faremo un'orribile strage. - Zitto ... L'hauk batteva dodici colpi e i quaranta indiani si erano alzati come un sol uomo. Tremal-Naik provò una stretta al cuore e s'aggrappò alla colonna, come se temesse di non sapersi frenare. - Mezzanotte! - diss'egli, con voce soffocata. - Calma, padrone, - disse per l'ultima volta Kammamuri, afferrandolo per la cintola. Una porta si aprì con grande strepito ed un indiano di alta statura magrissimo, col volto ornato da una lunga e nera barba, gli occhi scintillanti e avvolto in un ricco dootèe di seta gialla, entrò nella caverna. - Salve a Suyodhana, figlio delle sacre acque del Gange! - esclamarono in coro i quaranta indiani. - Salve a Kâlì ed ai suoi figli, - rispose l'indiano con voce cupa. Tremal-Naik, nel mirare quell'uomo, emise una sorda imprecazione e fe' atto di slanciarsi nella caverna. Kammamuri lo trasse indietro. - Non muoverti, padrone, - gli sussurrò. - Guarda quell'uomo! - esclamò Tremal-Naik coi denti stretti. - Sì, lo so, è il capo di questi uomini. - È lo stesso che mi pugnalò. - Ah! miserabile! Suyodhana entrò rapidamente nel tempio, s'inchinò dinanzi alla mostruosa divinità di bronzo e volgendosi verso gl'indiani gridò con voce tonante: - L'estrema ora della vergine della pagoda è suonata, fratelli. Manciadi è morto. Un mormorìo minaccioso percorse le file degli indiani. - Si dia fiato ai tarè, - comandò il terribile capo degli strangolatori. Due indiani presero due lunghe trombe e trassero alcune note tristi, lamentevoli. Cento indiani carichi di legne irruppero nella caverna e rizzarono, di fronte alla dea, ai piedi di un colonnato, un gigantesco rogo versandovi sopra torrenti d'olio profumato. Un drappello di devadasì si slanciò, piroettando, nella sala, facendo tintinnare campanelluzzi e cerchietti d'argento e circondò la dea Kâlì. I loro abbigliamenti erano sfarzosi, leggiadri, i più acconci che si possa immaginare a far spiccare la bellezza e le grazie. Corazze sottilissime d'oro tempestate di diamanti della più bell'acqua brillavano sui loro petti; corte gonnelline di seta rossa, pendevano sotto la larga fascia di cachemire che stringeva i loro fianchi, e pantaloni bianchi scendevano fino al collo del piede. Anelli di argento e campanellini d'egual metallo portavano alle braccia ed alle gambe, e leggieri veli, dai colori vivissimi, coprivano le loro teste. Al suono dell'hauk e dei funebri tarè cominciarono, attorno alla dea Kâlì, una danza scapigliata, facendo volteggiare in aria i loro veli di seta azzurra o rossa, e formando un intreccio di effetto magico, sorprendente. D'un tratto la danza cessò. Le devadasì sfilarono dinanzi alla dea, toccando la terra colla fronte e si ritrassero da parte, unendosi in un gruppo superbo, pittoresco. Gli indiani che erano tornati a sedersi, ad un cenno di Suyodhana si rialzarono. Tremal-Naik comprese che il supplizio stava per cominciare. - Kammamuri, - balbettò l'infelice appoggiandosi alla colonna, Kammamuri! ... - Calma e coraggio, padrone, - disse il maharatto che batteva i denti. - La testa mi gira, il cuore mi scoppia ... Ada! ... Ada! ... In lontananza echeggiò una scarica di tamburi. Tremal-Naik si raddrizzò cogli occhi in fiamme ed i pugni chiusi attorno alle pistole. - Eccoli! - ruggì egli, con indefinibile accento d'odio. I tamburi s'avvicinavano e il loro rullo si ripercuoteva indefinitivamente sotto le nere volte della caverna e dentro i tenebrosi corridoi. Ben presto si udirono delle voci scordate e selvagge accompagnate dal suono dei tam-tam. - Eccoli!- esclamò una seconda volta Tremal-Naik. La tigre mandò un sordo brontolìo e agitò la coda. Una larga porta si aprì ed entrarono dieci strangolatori con dei grandi vasi di terra cotta coperti di pelle, chiamati dagli indiani mirdengs. Poi dietro a quei dieci ne entrarono altri venti, con dei grandi gautha, sorta di campanelli di bronzo, e quindi altri dodici muniti di ramsinga, di tarè e di tam-tam. Finalmente dietro a quegli uomini, che percuotendo i mirdengs ed i tam-tam, agitando i gautha e soffiando nei ramsinga e nei tarè formavano un baccano spaventevole, apparve l'infelice Ada colla sua corazza d'oro tempestata di diamanti d'inestimabile prezzo, la sottana e calzoni di seta bianca ed i capelli sciolti sulle spalle. La vittima, che quegli spietati uomini si preparavano a scagliare in mezzo al rogo, era pallida come un cadavere, sfinita dai lunghi digiuni e istupidita dalle bevande oppiate fattele prima inghiottire. Due strangolatori coperti da una lunga tonaca di seta gialla la sostenevano, ed altri dieci la seguivano cantando elogi pel suo eroismo e promettendole infinite felicità nel paradiso di Kâlì, in ricompensa delle sue virtù. Il momento terribile era vicino. Già Suyodhana aveva dato fuoco alla pira e le fiamme s'alzavano, a guisa d'immani serpenti, verso la volta della caverna; già gli strangolatori, assordandola con mille urli la trascinavano; già i tamburi e i tarè intuonavano la marcia della morte. D'un tratto la vittima ritornò in sé. Vide la pira che fiammeggiava dinanzi a lei e il pericolo che correva. Attraverso l'ebbrezza dell'oppio, si rammentò della condanna pronunciata dal truce Suyodhana. Un urlo straziante le lacerò il petto. - Tremal-Naik! ... Oh Tremal-Naik! ... In fondo al nero corridoio rimbombò un urlo feroce: - Sbrana, Darma! ... Sbrana! ... - La gran tigre del Bengala non attendeva che quel comando. Uscì dal nascondiglio colla bocca aperta e gli artigli tesi, s'allungò, s'accorciò emise un rauco ruggito, indi spiccò un balzo gigantesco piombando in mezzo alla folla degli strangolatori. Un grido di terrore sfuggì da tutti i petti alla vista del feroce carnivoro che aveva di già atterrati, con due potenti colpi d'artiglio, due uomini. - Sbrana, Darma! ... Sbrana! ... - ripeté la stessa voce di prima. Poi rimbombarono quattro detonazioni che mandarono a gambe levate quattro indiani e fecero cadere in ginocchio tutti gli altri e in mezzo alla nube di fumo apparve il cacciatore di serpenti della jungla nera colla faccia stravolta ed il coltello in pugno. Sfondare con irresistibile slancio le file degli atterriti indiani, afferrare la giovanetta che era caduta a terra priva di sensi, stringerla fra le braccia e scomparire sotto la galleria con Kammamuri e la tigre alle calcagna. fu cosa di un sol momento.

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