Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbandonato

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Racconti 2

662697
Capuana, Luigi 3 occorrenze
  • 1894
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Si lamentava, si lamentava, senza trovar ristoro su lo strame duro, in fondo alla botteguccia buia, dove moriva a poco a poco, abbandonato come un cane, con gli occhi rivolti alla scure che luccicava dalla parete: - Se campo, mi farà giustizia quella lí! - E gli occhi fissi e spalancati parevano ancora vivi! Roma, 10@ 10 maggio 1883@. 1883.

Da che s'era fitto in testa che doveva prendere l'incantesimo della Grotta dalle sette porte , mastro Rocco aveva abbandonato la sua bottega di pizzicagnolo; e se ne stava lassú, in cima al Monte, arrostendosi la gran gobba al sole, scavando qua e là da mattina a sera, per trovar qualche traccia del tesoro incantato, secondo lui, dai Saraceni in quei dintorni. In verità, non gli era mai accaduto d'incontrare fra le macchie e le siepi di fichi d'India il Mercante dal berrettino rosso che teneva in custodia il tesoro incantato; ma sapeva benissimo che parecchi l'avevano veduto, da vicino o da lontano; ed erano quasi morti di paura. Egli però si sentiva un coraggio da leone, e non si sarebbe impaurito degli urli e dei versacci di colui, se si fossero incontrati faccia a faccia. Colui doveva fare a quel modo, per non lasciarsi strappar di mano l'oro e le pietre prezi ose affidate alla sua custodia; ma se in quella circostanza ci si fosse trovato un uomo, un vero fegato d'uomo, il Mercante non avrebbe potuto fargli niente di male, né impedirgli di entrare per le sette porte in fila, fin in fondo alla grotta dove il tesoro aspettava da secoli la fortunata creatura che doveva impadronirsene. Mastro Rocco ne ragionava quasi lo avesse visto proprio con que' suoi occhietti orlati di rosso e lo avesse palpato con quelle mani callose che ora maneggiavano la zappa giorno e notte, scavando sepolcreti antichi. Di giorno, egli scavava nel suo fondicello che pareva una Gerusalemme distrutta, tutto buche spalancate e mucchi di terra torno torno; di notte, nei fondi dei vicini, al lume di luna o a quello di una lanternina quand'era buio, perché i vicini non volevano rovinato il terreno, e si burlavano dell e sue trovature di vasetti inservibili e di monete antiche, con cui non si poteva comprare neppure un soldo di pane. Mastro Rocco rideva sotto il naso di quei tangheri di contadini che non capivano niente. Lui sapeva, per prova, che quei vasetti - specie se con le figurine - e quelle monete ossidate diventavano subito quattrini sonanti quando li portava al barone Padullo, che si metteva gli occhiali per osservarli e sfogliava certi libroni grossi quanto un messale, tutti pieni di figure, per fare i riscontri. Cosí s'era persuaso che il mestiere di salumaio valeva assai meno di quest'altro di scavatore di cose antiche; e f aceva il sornione e alzava la gobba allorché i contadini gli dicevano - Perché non scavate le fosse per le fave, invece di rompervi le braccia a disotterrare ossa di morti? - E rideva loro in faccia, canzonando in cuor suo chi gli ripeteva la solita burletta: - Sapete dove c'è una trovatura, mastro Rocco? - Dove? - Nella vostra gobba. - La trovatura tu l'hai in testa, e te l'ha messa tua moglie! - rispose una volta stizzito. E quasi venne alle mani con Taccareddu che, cornuto pacifico, non voleva intanto sentirselo dire. Mastro Rocco però non la perdonava a quell'asino calzato e vestito di don Ottavio Giglio, proprietario della Grotta dalle sette porte, il quale non permetteva che nessuno andasse là a smuovere un sasso. Don Ottavio credeva anche lui che in quella grotta ci fosse un tesoro incantato dai saraceni e che il Mercante dal berrettino rosso vi facesse la guardia; ma era convinto che per rompere l'incantesimo occorrevano i libri di Rutilio. E se mastro Rocco lo tastava su questo soggetto, dalla lontana, sape ndolo orso e ombroso di tutto, gli rispondeva secco secco: - Minchionerie! - Ma persone con tanto di barba, - insisteva mastro Rocco - il decano Vita, padre Mariano d'Itria, il dottor Puglisi, mi assicurano che la cosa è possibile. - Ve la danno a bere. E poi, ci vuole il Rutilio! - Questo: "E poi ci vuole il Rutilio!" don Ottavio lo diceva cosí solennemente che tagliava corto a ogni discorso. Per due pagine di Rutilio, di quello autentico - correva attorno il falsificato e non valeva uno spicchio d'aglio! - mastro Rocco avrebbe dato tutta la sua pizzicheria e l'asino e le due vacche e chi sa che altro ancora. Ma chi possedeva quel libro se lo teneva caro e non voleva nemmeno farlo sapere, perché correva voce ci fosse la pena della vita e la scomunica della santa chiesa! Mastro Rocco se ne sarebbe infischiato della scomunica, quantunque fosse timorato di Dio e ascoltasse la messa le domeniche e l e feste comandate e comunicasse a Pasqua come ogni fedele cristiano. Impadronitosi del tesoro, sarebbe andato subito a Roma, a confessarsi dal papa, per ottenere l'assoluzione; e sarebbe finita. Ma l'oro e le pietre preziose sarebbero rimaste a lui; e allora avrebbe fatto il signore, lui e i suoi figliuoli; si sarebbe fabbricato un palazzone, avrebbe comprato dei feudi, e non avrebbe piú mangiato pane e cipolla, come gli toccava ora che doveva abbrustolirsi al sole, e bagnarsi alla pioggia, rompendosi la schiena a scavar sepolcreti, spesso non trovando altro che stinchi e cr ani, o lagrimatori da nulla. Anche al tempo dei saraceni - e per mastro Rocco voleva dire al principio dei secoli - la società era stata allo stesso modo: molti poveri e pochi ricchi; si vedeva dalle tombe. Allora però fino i miserabili avevano una moneta da farsi mettere in bocca per pagare il pedaggio nell'altro mondo; mentre oggi, con le tasse che si mangiano viva viva la gente, nessuno ha piú un soldo da portar via nella sepoltura; serve a coloro che restano, per comprare un pane da sfamarsi. Egli faceva queste considerazioni dando colpi di zappa sodi ma cauti, per non rovinare gli oggetti, caso mai sotterra ce ne fossero. E quando gli accadeva di tornare con le mani vuote alla grotta antica e scavata nel vivo masso, della quale, murandovi un uscio, s'era fatto una casa di campagna comoda e sicura, malediva la propria sorte e quel porco di don Ottavio che non gli permetteva di scavare nella Grotta dalle sette porte! Costui lo aveva fin minacciato di tirargli addosso una schioppettata, se l'avess e incontrato, di giorno o di notte, dalle sue parti; ed era capace di farlo. Invece, quando gli scavi davano buoni risultati, e venivano fuori al sole qualche bel vaso, belle monete d'argento o d'oro che parevano uscite allora allora dal conio, o qualche braccialetto di bronzo, mastro Rocco non capiva nella pelle. Si fregava le mani indolenzite, accarezzava delicatamente quegli oggetti, li ripuliva, li lustrava con la manica della camicia, quasi gli si dovessero guastar fra le dita toccandoli sgarbatamente. E ammirandoli da tutti i lati, interpretava le figure a modo suo, ora che ci aveva un po' di pratica, e calcolava il valore e il prezzo meglio d'un dotto: - Questa volta il barone Padullo deve snocciolarne parecchi de' suoi scudi colonnati! - E, nella grotta affumicata, la minestra di farina di cicerca o le fave allesse gli sapevano piú saporite; e il vino se lo sentiva scendere giú giú per la gola, dal fiasco di terra cotta, come balsamo ristoratore ... Quelle però erano tutte cosine da nulla; se non gli riusciva di prendere la trovatura del Mercante , aveva fatto un buco nell'acqua. Intanto ci voleva il Rutilio, come diceva non Ottavio. Dove pescarlo? - Il Rutilio è qui! - venne a dirgli un giorno don Tino il mussolinaio, andato a trovarlo a posta lassú col pretesto di ammazzare un coniglio in quelle fratte, per non dare nell'occhio ai vicini. E aveva cavato fuori uno scartafaccio squadernato, unto e bisunto. - Quello vero? - Quello vero. Guardate: è stravecchio -. Infatti si vedeva. Caratteracci grossi cosí; cartaccia ingiallita, e figure di pianeti, circoli, triangoli, ghirigori seguiti da sfilate di numeri da far perdere il cervello. Lui, don Tino, aveva stentato due mesi per raccapezzarvi qualcosa: - Perché, capite, bisogna trovare la chiave. - E l'avete trovata? - Mi par di si. Proveremo, con la sonnambula di don Micio il crivellatore, che vede fino a trenta metri sotto terra, come io vedo qui voi e quest'alberi e questi sassi e quei fichi d'India ... Ma, zitto! - Venite a prendere un boccone -. Mastro Rocco lo condusse nella grotta per essere al sicuro da sguardi traditori. E, mangiato e bevuto, tornarono a scartabellare quel libro miracoloso; tanto piú sorpresi e piú ammirati, quanto meno aveano capito della profonda scienza colà nascosta. Presi gli accordi per condurre lassú don Micio il crivellatore e la sua sonnambula, don Tino disse: - Dev'essere di venerdí, a mezzanotte. Avete paura? - Di chi? Del Mercante ? Mi conoscete male, don Tino! - E glielo provò la notte di quel venerdí. Notte tempestosa: lampi, tuoni, vento, pioggia, grandine! Pareva si fossero scatenati tutti i diavoli della Làmia e del lago della Vúria dove è il prete che balla con la nipote, portati via dai diavoli ai tempi dei tempi; infatti l'acqua di quel lago, con sotto il gran fornello dell'inferno, bolle e ribolle. Il vento aveva già smorzata la lanterna; la sonnambula tremava a verga a verga, e non voleva guardare sotterra, come don Micio gli ordinava tenendo le braccia tese e strabuzzando gli occhi che gli luccicavano nel buio a ogni scoppio di saetta. - Coraggio! coraggio! - ripeteva mastro Rocco. La voce però gli tremava e le braccia gli vagellavano nel dare, insieme con don Tino, i colpi di zappa nel posto indicato dalla sonnambula, prima che la lanterna si spegnesse, appena don Tino aveva compitato lo scongiuro del Rutilio. E il vento soffiava, urlando tra gli ulivi e le rocce attorno; e la pioggia veniva giú a catinelle; e i lampi incendiavano la vallata e le coste del Monte; pareva il finimondo. Ma dopo tre ore di fatiche e di stenti, avevano dovuto smettere; ed erano tornati alla grotta piú mor ti che vivi, inzuppati fino al midollo delle ossa, col Rutilio mezzo rovinato; il peggio guaio, perché di quei libri non se ne trova piú, nemmeno a pagarli a peso d'oro. - Siamo stati tante carogne! - disse mastro Rocco il giorno dopo, mordendosi le mani nell'osservare la gran buca scavata quella notte e già ripiena d'acqua e di fango. - Siamo stati tante carogne ... o il vostro Rutilio è falso! Don Tino cominciò a sacramentare: - Corpo! ... Sangue! ... Falso questo Rutilio? ... La colpa è nostra; non abbiamo saputo trovare la chiave -. E non la seppero trovare né allora, né poi. Don Ottavio Giglio però, quantunque non avesse testimoni del fatto, sporse querela contro quel gobbaccio che gli aveva rovinato il fondo. E ora stava, giorno e notte, in guardia lassú tra i fichi d'India, per fargli fare una fiammata con lo schioppo a due canne, a quel gobbaccio. Aveva una gran paura che non gli rubassero davvero l'incantesimo della Grotta dalle sette porte, dopo aver saputo da don Tino che il Rutilio, quello proprio autentico, era nelle loro mani. Forse mancava la chiave. Don Tino gli aveva mostrato il libro con una pagina strappata. - Giusto quella della chiave, sacro Dio! ... Ma può darsi che c'inganniamo -. Dal canto suo, mastro Rocco stava in guardia contro don Tino, don Micio il crivellatore e la sonnambula. Gli era entrato il sospetto che volessero operare soli, da quella domenica in cui aveva visto don Tino in stretti ragionamenti con don Ottavio, sotto il portone di casa di costui. Don Tino gesticolava, si strappava i capelli, e don Ottavio approvava, serio serio. - Perché smisero di parlare, appena mi accostai? - Ma egli non era uomo da lasciarsi canzonare da quei due. Si lasciò canzonare però da Zangàra, Perillo e Passolone, tre burloni che, avuto vento degli scongiuri fatti da mastro Rocco con don Tino, don Micio il crivellatore e la sonnambula, volevano divertirsi. Mastro Rocco se li vide arrivare lassú una mattina, Zangàra col trombone, Perillo col clarinetto e Passolone col corno di caccia; e assordavano le gole di Rosignolo, dell'Arcura e di Santa Margherita. Tru! Tru! Titiri tru! - Ehi! Fate la mattinata alle mulacchie? - Andiamo per una scorpacciata di fave novelle, da un amico qui vicino - rispose Perillo. - Buon pro! - E voi, la trovatura quando la prenderete? - gli domandò Zangàra, ridendo. - La prenderà don Tino, - aggiunse Passolone - ora che possiede il Rutilio -. Mastro Rocco alzò la gobba, tentennando il capo, mostrando indifferenza: - La vera trovatura sono i quattrini in tasca -. Passolone raccontò di aver inteso dallo stesso don Tino che egli l'avrebbe presa certamente l'ultimo venerdí di marzo, a mezzanotte, perché quella notte aveva luogo lassú, presso la Grotta dalle sette porte, la fiera delle fate e degli spiriti che accade ogni dieci anni. Fortunato chi ci si trova! - Non lo sapete che il pecoraio di massaio Ravagna, anni fa, ci capitò in mezzo per caso, e le Fate gli vendettero tre arance per un soldo? Il grullo le diede al padrone, senza sapere che fossero di oro massiccio; cosí è arricchito massaio Ravagna -. Mastro Rocco lo guardava in viso con tanto di occhi, pensando allo scellerato di don Tino che voleva fargli quel tradimento; e si tenne la notizia in corpo, fingendo di non averne saputo niente, fino all'ultimo venerdí di marzo, che era il venerdí santo. Quel giorno non vedeva l'ora che annottasse; e seduto su di un sasso davanti la grotta, non senza un po' di terrore in corpo, - con gli spiriti non si canzona - guardava quel fioco chiarore di luna tra le nuvole dense, dietro i colli di Daguara, che illumin ava la campagna silenziosa; non s'udiva cantare neppure il rosignuolo che soleva cantare ogni notte laggiú, tra i pioppi dell'Arsura. Poi egli era andato ad appostarsi su d'un masso per sentire il rumore dei passi di coloro che dovevano arrivare: don Tino, don Micio e la sonnambula. Non stormiva foglia nell'oscurità, e non si scorgeva ombra umana a quel po' di barlume del cielo nuvoloso. I tronchi degli alberi gli mettevano paura; e i macigni e le macchie già gli parevano strane figure di mostri. Verso la m ezzanotte fu buio pesto, appena la luna venne intieramente velata dalle nuvole fosche ... Ed ecco, qua e là, tra le macchie, lumicini che vanno e vengono, e si spengono e si riaccendono; ed ecco colpi di cembalo coi sonaglini che si agitano, e tacciono, e si rispondono; ed ecco grandi fiammate che spariscono subito. - Ah, madonna santissima! È proprio vero questa volta! - E i lumicini erravano qua e là tra le macchie, dietro i fichi d'India, tra i melagranati di massaio Baccannello e il pagliaio di Cudduzzu; e le fiammate scoppiavano dietro i massi, tra gli ulivi, al suono dei sonaglini del cembalo agitati continuamente ... - Ah, madonna santissima! È proprio vero questa volta! - I lumicini si accostavano da tutte le parti, stringendolo in un cerchio, e le fiammate pure: e mastro Rocco si sentí diventare piccino piccino quando scorse, al chiarore d'una fiammata, una figura mostruosa che gli parve di fuoco e spari. Poi, da destra, da sinistra: - Psi, psi, psi! - Gli spiriti gli accennavano: - Psi, psi, psi! - - Ah, madonna santissima! Perché tremo? Mi lascerò scappar di mano la fortuna? - E mosse incontro agli spiriti che continuavano a fargli: - Psi, psi, psi! - Tratteneva il fiato, vacillando, inciampando, senza una goccia di sangue nelle vene, fino a che gli spiriti non gli saltarono addosso, picchiandogli forte sulla gobba. - Mamma mia! ... Santissimo Cristo alla colonna! Santa Agrippina protettrice! - egli urlava, segnandosi per cacciarli via, correndo a rotta di collo verso la grotta, inseguito fino alla porta dagli spiriti, che picchiavano sulla sua gobba, facendo scrosciare catene infernali! ... E non ritentò piú, quantunque don Tino e don Micio il crivellatore lo stuzzicassero; neppure quando si convinse che la burletta degli spiriti gli era stata fatta da Zangàra, Perillo e Passolone. A chi gliene parlava, giurava che non era vero; giurava che quella nottata egli si trovava a Palagonia per la festa del Santo Sepolcro; e rigiurava con le mani in croce, per non far ridere alle proprie spalle. Intanto si divorava il fegato, e scavava, scavava, dopo trovate certe belle figurine che il barone Padullo gli aveva pagato dieci scudi. Chi sa quanto valevano, se colui si era spinto fino a pagarle dieci scudi! Allora il barone lo vide arrivare piú spesso, insieme con un vecchietto che mastro Rocco diceva compagno di scavi. Visto però che essi portavano sempre figurine simili alle prime, tutte sporche di terra, un giorno il barone disse a mastro Rocco: - Trovate qualcosa altro, o risparmiatevi di venire. Di queste, guardate, ne ho già pieno un armadio -. E gli additava le statuette - Cerere seduta e con le mani sui ginocchi - schierate in fila dietro i vetri dell'armadio, tra vasi greci, lucerne, bronzi e monete antiche d'ogni grandezza ... Mastro Rocco stette un bel pezzo senza farsi vedere. Quando gli si ripresentò, insieme col solito vecchietto, posata delicatamente per terra la cesta coperta di fieno portata sotto il braccio, cominciò a gesticolare, annunziando a quel modo i meravigliosi oggetti riposti nella cesta e coperti di fieno: - Signor barone, gran novità! Voscenza resterà incantato! - Il barone si era messo gli occhiali per ammirare meglio; e vedendo quelle quattro figurine di Cerere simili in tutto alle altre ma con tanto di pipa in bocca, invece di restare incantato cominciò a urlare: - Ah, mastro Rocco ladro! Ah, mastro ladro! - E avrebbe, con una pistolettata, sfracellato il cranio a quei due, se non fossero saltati dalla finestra a pian terreno, senza neppur badare che potevano rompersi il collo. Mastro Rocco si ruppe soltanto un braccio; e fece dire una messa al suo santo protettore che lo aveva aiutato in quella circostanza. E col braccio legato al collo, imprecava al tristo compagno da cui gli era stata suggerita la bella novità della pipa! - Non bastava aver fatto cosí bene la forma dell'idoletto che aveva ingannato il barone Padullo? - D'allora in poi, mastro Rocco si contentò soltanto di scavare e scavare. E se don Tino e don Micio gli riparlavano del Rutilio, rispondeva: - Non me ne parlate. È falso! - Pure non disperava di poter avere in mano, un giorno o l'altro, l'autentico, quello del Cinquecento, come gli aveva detto il decano Vita. L'anno dopo, mentre padre Mariano d'Itria, confortandolo in punto di morte, gli raccomandava di chiedere a Dio la grazia dell'anima: - La vera grazia sarebbe stata un buon Rutilio! - esclamò mastro Rocco con voce mezza spenta. E gli voltò la gobba.

Studiacchiata un po' di teologia, come avrebbe studiacchiato un po' di codic e o di medicina all'università, ricevuti gli ordini, la messa, e in fine il canonicato, aveva posto subito i libri teologici a dormire sotto la polvere negli scaffali, e s'era abbandonato interamente alla sua passione giovanile, la caccia. Ora, il vero breviario gli pareva quel fucile a due canne, novità fatta venire da Malta, e costata un occhio; e i colpi sparati alle beccacce, ai conigli, alle pernici, alle lepri, alle volpi, quando capitavano, ai porci spini, anche piú rari, gli suonavano all'orecchio assai meglio di tutti i salmi, di tutte le antifone e dello stesso uffizio dei morti, che pure veniva pagato lí per lí, appena terminata la funzione. A casa sua era un via vai di cacciatori e dilettanti e di professione. Chi lo pregava per ottenere in prestito il bracco o il levriere, o il furetto; chi si raccomandava per un po' di quella polvere miracolosa, che si trovava soltanto presso il signor canonico ed era inutile cercarla altrove; chi veniva a dargli l'avviso di certo posto dove la selvaggina formicolava; chi a raccontargli le peripezie di una partita di caccia andata a male: - Ah, ci voleva il signor canonico! - E il signor canonico, sorridendo invanito, prestava il bracco, il levriere, il furetto, pei quali poco prima s'era lasciato scappare: - Non li presterei neppure a mio padre! - E regalava, due, tre cariche di quella polvere proprio inglese, che, a sentirlo, pareva gli fosse stata portata a dirittura di mano degli angioli, e di cui c'erano al mondo le sole poche libbre da lui possedute. Il gran confidente del canonico però era 'Nzulu Strano, la "prima balestra del paese", com'egli lo aveva battezzato. Arrivava ordinariamente verso un'ora di notte, stanco d'una giornata di caccia, mestiere di cui viveva, allampanato e giallastro, con quel vestito di frustagno color cece, che lo faceva parere piú smorto, coi calzoni infilati negli stivali e la pipa di radica in bocca. Quando portava qualche gran notizia, si fermava nel vano dell'uscio, con le gambe allargate, agitando una mano: - Il Padre Eterno dei bracchi! L'ha un saponaio di Ragusa. - Chi te l'ha detto? - E 'Nzulu, una sera, aveva sfilato una storia che non finiva piú; vita e miracoli di quel Padre Eterno dei bracchi: - Instancabile! E un fiuto! E un fermo! Inchiodava la selvaggina. Il cacciatore poteva con tutto il suo comodo ricaricare il fucile e godersi il colpo; una meraviglia! - Vorrà venderlo? - Neppure a Ferdinando II -. Gli occhi del canonico sfavillarono cupidi: - Se tu riescissi! - 'Nzulu, compreso che significassero quelle tre parole buttate cosí per aria, alzò le spalle masticando il bocchino della pipa: - E se mi arrestano? - Va' là! Il capitan d'armi di Modica è un amico. Ti hanno forse arrestato per Nièula e per Cardillo? Trattandosi di cani, il canonico Salamanca aveva pochi scrupoli, perdeva facilmente le giuste nozioni del tuo e del mio. Per quel Padre Eterno dei bracchi, avrebbe speso mezzo canonicato, senza rifletterci un solo istante; ma poiché il saponaio diceva di no: - Neppure a Ferdinando II! - voleva fargli vedere che lui, povero canonico e nient'altro, si sentiva piú forte del re. - 'Nzulu, se tu riescissi! - Riesciva sempre quel diavolo allampanato e giallastro, maledetto da Dio! E il mezzo canonicato se lo beccava lui, a poco a poco, lamentandosi tutti i giorni del suo brutto mestiere che non andava piú, della selvaggina diventata rara, della polvere cattiva, dei pallini che costavano cari, quasi fossero fatti di argento e d'oro; di quella tristaccia della Capraia, che gli rodeva gli occhi del capo, malata dodici mesi all'anno! - Costei è la mia rovina. Ora ci vogliono sei tarí per un intruglio dello speziale, e non ho nemmeno due grani - Cosí, oggi erano sei, domani dodici tarí, che il canonico gli metteva nel pugno, di nascosto di sua sorella donna Agnese, la quale sarebbe diventata una lima sorda, se se ne fosse accorta. Ella ce l'aveva contro quel pezzo di scroccone, e non dava requie al fratello. Succedeva un battibecco di due ore, quando il canonico le diceva: - Verrà 'Nzulu, per due tumoli di frumento. Poveraccio! Perisce di fame. - Dategli quello del canonicato, che mandate in casa di donna Totò! Chi ne vede un chicco? - E spesso, infatti, egli inviava 'Nzulu da donna Totò, perché il grano del canonicato i fittaiuoli della collegiata andavano a scaricarlo là, con la scusa che il canonico gliel'aveva venduto. - Sta bene, signor canonico! - rispondevano i fittaiuoli. E sacravano sotto voce: - La roba di Dio va al diavolo! - Ogni mattina, donna Totò preparava la pipa al canonico, perché facesse una fumatina, intanto che si riposava della salita, ora che la podagra gli aveva mezze spezzate le gambe. Il fumo non rompeva digiuno; e se Gesú Cristo, entrandogli in bocca dopo la consacrazione, sentiva un po' di puzzo di tabacco, poteva ben compatirlo. Fumava anche il papa! Poi, il caffè di donna Totò aveva un'aroma speciale. Quello preparato da donna Agnese pareva al canonico proprio acqua affumicata. E sua sorella non pensava né a crostini, né a biscotti, né a pan di Spagna da intingere. Indossando il camice e la pianeta, egli già cominciava a sentirsi solleticare le narici da quel profumo delizioso. Al vedere nella patena l'ostia da consacrare, pensava subito ai crostini, che erano assai piú sostanziosi; e si spicciava, si spicciava dall'"introibo" all'"ite missa est", tanto che il sagrestano durava fatica a tenergli dietro con gli "amen" e i "cum spiritu tuo". In campagna, nella chiesola della masseria, egli si sbrigava per un altro verso. Ogni sabato sera, suo fratello don Franco gli mandava la mula, e la partenza del canonico era uno spettacolo nella viuzza dove egli abitava. Tutti i suoi cani, sguinzagliati, abbaiavano, si rincorrevano festosamente, facevano un chiasso indiavolato attorno alla mula sellata, che il garzone teneva per la briglia, aspettando che il canonico scendesse le scale portando in mano il fucile e la carniera ad armacollo. 'Nzulu Strano era lí, alla cantonata, con la pipa in bocca e il fucile in ispalla per fargli compagnia; e carezzava i cani, o li richiamava col fischio e con la voce, se si allontanavano per le vie accosto: - Tèh, Nièula! Tèh, Cardillo! - Tutte le donnicciuole sugli usci. Bambini scalzi e stracciati schiamazzavano insieme coi cani attorno alla mula, che si lasciava tirare per la coda o per la criniera pacificamente, conoscendoli uno per uno, tante volte li aveva visti per la stessa occasione. - Buona caccia, signor canonico! - Felice viaggio, signor canonico! - Solo una vecchierella non gli diceva nulla, comare Nina la sciancata. Il canonico aveva notato che a ogni "Buona caccia, signor canonico" di quella vecchia sciancata, la polvere non gli diceva piú, i cappellotti non prendevano, i conigli si scotevano da dosso i pallini quasi fossero stati goccie d'acqua benedetta, e nell'andarsene via quatti quatti, voltatisi indietro, agitavano le orecchie per canzonarlo. - Voi non dovete dirmi niente, jettatoraccia! Avete capito? - E la povera vecchierella non gli aveva detto piú niente. Alla masseria, il "preparatio ad missam" era la posta pei colombi selvatici. Intanto che il massaio, sonando con la buccina marina l'appello ai contadini per la santa messa, faceva rintronar la vallata, il canonico andava ad appostarsi laggiú, sotto il sorbo, e 'Nzulu buttava sassi di cima alla rupe, tra i fichi d'India e gli oleastri, per ispaventare i colombi e farli scappare dai nidi. Essi scappavano a stormi, con gran fruscio di ale, a ogni sasso che rumoreggiava sbalzando tra le schegge della rupe, i f ichi d'India e gli oleastri; e subito, si udivano due colpi di fucile, uno dietro l'altro, laggiú, di sotto il sorbo. 'Nzulu ne vedeva il fumo; e vedeva anche il canonico raccogliere frettolosamente i morti e riporli nella carniera. E la buccina del massaro continuava ad assordare la vallata; e i colpi di fucile a echeggiare tra le rupi. Nella chiesuola, i cani scodinzolavano e saltavano attorno al canonico mentre 'Nzulu lo aiutava a indossare i paramenti sacri, a preparare il calice e aprire il messale. Il canonico gli aveva insegnato a servir messa. Che quegli storpiasse il latino, non importava; Domineddio capiva lo stesso. E poi, era affare di un quarto d'ora. Un giorno però la messa del canonico durò anche meno. A un " dominus vobiscum ", dalla porta spalancata, in fondo al viale affollato di contadini inginocchiati che la chiesola non capiva, davanti le piante dei carciofi, aveva visto un cane di pelo castagno, piccolo, seduto su le gambe posteriori, col muso all'erta, le orecchie ritte e lo sguardo fisso. Testa intelligente, naso di razza, musino bene affilato da cane da fermo; non poteva sbagliarsi. Da prima, resistette alla curiosità e sbrigò l'evangelo; ma voltatosi di nuovo, a una squadratura piú lunga, da quell'espertissimo cacciatore ch'egli era, poté giudicarlo meglio. Accennò a 'Nzulu, e fingendo di dirgli qualcosa che riguardava il servizio divino, gli soffiò a voce bassa: - Quel cane ... presso i carciofi, guarda. Di chi è? - 'Nzulu, data un'occhiata, rispose con una mossettina di testa e di spalle: - Di chi? Non lo sapeva. - Ma ne domandò al massaio inghinocchiato presso l'altare. Il massaio si rivolse per guardare; e allora coloro ch'erano nella chiesuola si voltarono tutti, intrigati; e fuori, nel viale, seguí un piú rapido movimento di teste alla direzione della carciofaia, un domandare e un rispondere con monosillabi e con cenni ... Nessuno ne capiva niente. Il cane, quasi ne avesse capito qualcosa lui, si levò e disparve, mentre il canonico, aprendo le braccia per un altro " dominus vobiscum ", sgranava gli occhi, arrabbiato che fosse andato via prima ch'egli avesse terminato la messa. Quei cinque minuti, che occorsero per arrivare affrettatamente alla benedizione trinciata in un battibaleno, gli erano parsi un'eternità. Cavatosi il manipolo, la pianeta, il camice, che stracciò a una manica, disse al massaio: - Di chi è quel cane? - Dev'essere di Corda-al-piede - rispose un contadino accostatosi per sapere di che si trattasse. Infatti, presso i carciofi, il figlio di Corda-al-piede lisciava l'animale e gli diceva ridendo: - Hai sentito la messa anche tu? - Il cane salterellava, faceva le viste di volergli mordere la mano, per carezza, ringhiando eccitato e allegro; e abbaiava, a riprese, se qualcuno gli toccava la coda, o tentava di accarezzarlo il padrone. - Che ne fai di questo cane? - gli domandò il canonico. - È di mio padre. - Me lo prendo io. - Neppure per chiasso. Gli costa mezza salma di fave. - Gliene darò una intera. - Niente, signor canonico. Gli vuol bene piú che a me che gli son figlio. - Su: venga a prendersi le fave. Va' a dirglielo -. Ma, un'ora dopo, Corda-al-piede arrivò, trafelato pel cammino fatto, strepitando: - Voglio il mio cane! - Bestia, che te ne fai? - Voglio il mio cane! - Non rispondeva altro. E siccome 'Nzulu e il massaro cercavano d'inframmettersi, cominciò a sbraitare e a dir loro delle parolacce. 'Nzulu lo tirò da parte, vicino al pollaio: - Come? Dite di no al signor canonico? Non lo sapete dunque ch'egli può giovarvi in tutte le circostanze? ... - Voglio il mio cane! - Quel giorno il canonico tornò di malumore al paese; e per una settimana discorse di quel cane con 'Nzulu e con gli altri che venivano a fargli visita, al solito, pel levriere, o pel furetto, o per qualche carica di polvere da caccia, di quella che si trovava soltanto presso di lui ed era inutile cercarla altrove ... Cottone, un altro cacciatore di mestiere, lo conosceva meglio di tutti il cane di Corda-al-piede: - Animale coi fiocchi! Cacciava da sé, e portava i conigli al padrone senza che nessuno l'avesse addestrato. Ma quello zotico non si degnava nemmeno di prestarlo -. Mezzo paese si mise in moto, per far cosa grata al signor canonico. E 'Nzulu andava e veniva, aumentando ogni volta il prezzo che quegli era pronto a pagare. Corda-al-piede piú si vedeva pregato, e piú diventava duro. Il canonico, quando gli riferivano le risposte, si mordeva le mani. Non gli era mai accaduto un caso simile; gli pareva impossibile che quel pezzo di villanzone resistesse alle offerte e alle minacce. Giacché egli, alla fine, era ricorso alle minacce per intimorirlo. Corda-al-piede rispond eva: - Nel mondo, due sono potenti: chi ha molto e chi non ha niente. Che può farmi il canonico? - Questi, tornando a dire la messa in campagna, aveva delle distrazioni. Vedeva sempre, là, in fondo al viale, presso la carciofaia, il cane di Corda-al-piede, che non c'era piú, e non s'era piú visto perché il padrone lo teneva in casa incatenato. - Né io, né lui! - decise il canonico. E trovò chi, con la scusa di dire una parolina a Corda-al-piede, andò a buttargli in casa una polpetta di stricnina pel cane. Ma un sabato sera, il canonico Salamanca, andando a Bardella per la messa della domenica, vide proprio la morte con gli occhi, come diceva 'Nzulu Strano, raccontando il fatto. Corda-al-piede, che attendeva allo svolto della strada, presso il vallone della Lamia, gli puntò il fucile in faccia, esitante: - Per la Madonna! ... Dovrei farvi fare una fiammata e andarmene in galera! - Il canonico, colto alla sprovvista, fermò la mula, pallido come un cadavere, balbettando: - Contro un sacerdote? - Ringraziate la chierica di Cristo, che non siete degno d'avere in testa! - E Corda-al-piede, abbassato il fucile, aveva tirato, per spavalderia su le macchie di rovi del ciglione, avanti che 'Nzulu spiccasse un salto per tentare di disarmarlo. Ahimè! I bei tempi delle grandi giornate di caccia erano già lontani; gli anni e, piú, la podagra, avevano ridotto il canonico a camminare come un invalido, reggendosi su la canna d'india, allorché s'avviava per andare a celebrare la messa, o a recitare l'uffizio. Le sue fermate da donna Totò, grassa e fresca a dispetto dell'età, erano diventate piú lunghe pei malanni e per l'abitudine. Il nuovo vescovo, rigido quanto il predecessore, nell'occasione della visita diocesana, fece al canonico un'altra lavata di capo. - Scandalo! Dovrò levarle la messa? - Che scandalo vuol ella che io dia, monsignore mio? - aveva risposto il canonico con voce di rimpianto. - Non vede come sono ridotto? - E il vescovo s'era stretto nelle spalle brontolando, e lo aveva lasciato in pace. Per ciò ogni mattina si vedeva il canonico Salamanca che, appoggiandosi alla canna d'India, trascinava per la salita le gambe indolenzite, fino alla porta di donna Totò. Ella lo attendeva al terrazzino, sapendo l'ora, e accorreva per aiutarlo con una mano a montare i pochi scalini, levargli il mantello e prendere il nicchio per riporli sul letto, e porgergli la pipa già preparata sul tavolino con accanto la scatola di latta dei fiammiferi di legno. Pareva che, senza quella pipata preventiva, il canonico non potesse né dir messa, né cantare al coro; pareva che, senza lo stimolo di quella tazza di buon caffè e il conforto dei crostini, non avesse potuto piú avere la forza di arrivare a casa. In verità, le sue visite erano oramai la cosa piú innocente di questo mondo. Il canonico si divertiva coi merli e con le gazze che donna Totò ammaestrava per proprio svago e chiamava figliuoli. A uno dei merli, al piú vecchio, ella aveva messo nome Canonico. Non cantava piú; stava appollaiato tristamente sulla stecca della gabbia, quasi seccato di vivere, e si cibava soltanto di zuppa di biscottini, di quelli che il canonico amava intingere nel caffè. Egli lo guardava, mandando fuori grandi boccate di fumo, quasi fosse stato il suo ritratto. - Invalido anche lui, quel povero Canonico, dentro la gabbia! - E gli fischiava, quasi dovessero intendersela bene fra loro, uno piú invalido dell'altro. Canonico rizzava la testa spiumata, scoteva le ali e la coda, mandava fuori un flebile chioccolio, e rimaneva lí, appollaiato su la stecca, immobile, aspettando di morire. Le due gazze intanto accorrevano a beccare familiarmente la punta delle scarpe del canonico, che si compiaceva d'incitarle. Vivaci, striminzite per le ali tagliate assai corte e il codione senza penne, esse gli s'arrampicavano su per le gambe, sporcandogli la zimarra, impertinenti, crocidanti, ciangottando parole con la lingua mozzata a posta per addestrarle a parlare. - Figlio! Figlio! - suggeriva donna Totò, contenta e superba delle sue bestioline. - Chi è? Chi è? - E le gazze ripetevano, roche e stridule: - Figlio! Figlio! Chi è? - Il canonico, continuando a fumare, diceva alla signora: - Prendetemi la cassettina -. Si occupava, là e a casa, fabbricando chioccolii per la caccia delle quaglie; e in quella cassetta, come nell'altra che aveva a casa, stavano riposti pelli di capretto conce, cannellini di stinchi di tacchino, minuzzoli di candele di cera fattisi dare dai sagrestani, matasse di refe grosso, forbici, aghi, un ditale e il legnetto intagliato a vite, con cui dare le pieghe a mantice ai sacchettini dei chioccoli. Ritagliava la pelle sul modello di cartone e ne cuciva gli orli combaciati attentamente; poi, foggiata con le dita una pallottolina di cera, la cacciava in fondo al sacchetto allestito; serviva per dare appoggio al chioccolo sul polpastrello del pollice, quando dovevano suonarlo. Indi, infilatovi il legnetto, avvolgeva la pelle con uno spago tra i pani della vite, perché prendesse le pieghe e servisse da mantice. E che ammattimento quei cannellini di osso, forati in mezzo, da adattare alla bocca del sacchet to con un tappo di cera, pel suono! E quei peduncoli di spago da appiccare in calce al chioccolo, per poterlo tener fermo! ... Lavoro di pazienza, insomma, che svagava molto il canonico. Gli rammentava i bei giorni d'estate tra i seminati della Piana, ai tempi ch'egli e 'Nzulu davano la caccia alle quaglie con reti e fucile! Quacquarà! Quacquarà! E le quaglie accorrevano al richiamo, incappando fra le vaste reti stese sui seminati che si piegavano, cascando fulminate da colpi infallibili: Tum! Tum! Gli pareva di sentirseli ancora dentro gli orecchi. Tum! Tum! Da donna Totò egli lavorava tranquillamente. A casa, sua sorella donna Agnese, a vedergli sciupare quelle buone pelli di capretto che costavano tanti quattrini, brontolava da mattina a sera: - Che ne fate dei chioccoli, ora che non potete piú andare a caccia? Pazzo, pazzo da legare! -E, se lo trovava a frugare pei cassettoni in cerca d'un mozzicone di candela, o d'una matassa di refe, lo sgridava peggio di un bambino: - Non sconvolgete ogni cosa! Non vi bastano ancora cento e piú chioccoli? - Egli stava zitto, e intascava i mozziconi di candele, se ne trovava. Quando non ne trovava, ricorreva fin alle candele benedette della Candelora, che donna Agnese teneva appese al capezzale e dovevano servire in punto di morte. - Scomunicato! E siete sacerdote! Anche le candele benedette! - Donna Agnese non se ne dava pace. Per questo, a ogni accesso di podagra che inchiodava il canonico su la poltrona, e lo faceva trambasciare, non lo compativa, indispettita: - È castigo di Dio! Dovreste intenderlo -. Faceva meraviglia come egli non perdesse la pazienza. - A che siamo co' chioccoli? - gli domandava 'Nzulu, che ora veniva piú di rado. - Quattrocento! - Dovreste darmene un paio; è la stagione delle quaglie. - Serviranno per me, quando sarò morto. - Come mai, signor canonico? - Gli ho destinati ai ragazzi poveri, per testamento; dovranno accompagnare la mia bara, suonandomi dietro: Quacquarà! Quacquarà! - E rideva. Con tal pretesto, non regalava un chioccolo neppure a 'Nzulu Strano. - Non vi si riconosce piú, signor canonico! - Non si riconosceva egli stesso, su quella poltrona maledetta, dove non trovava requie da un mese, né giorno né notte. 'Nzulu gli recava le notizie di donna Totò. Il vecchio merlo Canonico, morto di sfinimento; una delle gazze, la migliore, annegata in un catino d'acqua; donna Totò poverina, n'avea pianto quasi come per una figliuola! E non si sentiva bene neppur lei. Voleva il dottore ... Da lí a qualche giorno, le cattive notizie incalzarono: donna Totò stava male assai. Il canonico dondolava la testa: - Ah, se accade una disgrazia, 'Nzulu! ... - Dove sarebbe andato per la sua fumatina prima della messa? E, dopo, pel caffè coi crostini e i biscotti? Una mattina che si sentí in gambe, cominciò lentamente a vestirsi. 'Nzulu allora, atteggiando a compunzione il viso allampanato e giallastro, credette opportuno dirgli: - Restate in casa, signor canonico ... Fate la volontà di Dio! ... Siamo tutti destinati a morire! Due lagrime rigarono la faccia smunta del canonico; pure volle finire di vestirsi, e scese le scale reggendosi al braccio di 'Nzulu. - Almeno celebrerò la santa messa in suffragio dell'anima sua! - Presero però un'altra strada, per non passare davanti quella porta dove donna Totò gli veniva incontro per aiutarlo a salire i quattro scalini. In sagrestia, rivolti gli occhi al gran crocifisso di carta pesta che sormontava gli scaffali: - Signor Iddio! - esclamò lamentosamente il canonico: - O che non vi bastava Maria Maddalena in paradiso? - E lasciò infilarsi il camice dal sagrestano. Roma, settembre 1891@. 1891.

I PESCATORI DI BALENE

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Salgari, Emilio 8 occorrenze

Koninson per primo aveva abbandonato il suo domicilio per arrampicarsi sulla gran gabbia e parecchi altri marinai l'avevano seguito, anzi alcuni si erano spinti più in alto, fino alle crocette. Persino il flemmatico tenente si era arrampicato sul trinchetto e dalla coffa esplorava il mare con un forte cannocchiale. Alle 10 del mattino il "Danebrog" girava il capo Rumjänzow ed entrava nella baia di Chactoole, assai aperta e poco sicura, a nord-est della quale, fra il 64o e il 65o di latitudine nord e il 163o e il 164o di longitudine ovest, si apre la baia di Norton, scoperta dal celebre capitano Cook nel 1778. Le coste apparivano dirupate e altissime, frastagliate, minate, sventrate dall'eterna azione del mare e con piccolissimi "fiords" entro i quali si ingolfavano le onde con grande fragore. Qua e là si vedeva qualche abete, qualche betulla nana, qualche cespuglio e delle cascate d'acqua che balzavano di roccia in roccia con bellissimo effetto. Il "Danebrog" per qualche tratto navigò in prossimità delle coste, indi mise la prua verso la baia di Norton che raggiunse verso le 4 del pomeriggio dopo aver girato un capo dirupatissimo che cadeva quasi a piombo sul mare. Quasi subito si udì Koninson dall'alto della gran gabbia gridare: - Il capodolio a prua! Tutti gli occhi si volsero verso la direzione accennata. A cinque sole gomene dal "Danebrog", vicinissimo alla costa, galleggiava coi ventre in aria il cetaceo circondato da migliaia e migliaia di uccelli marini che formavano, colle loro discordi grida, un baccano indiavolato.

. - Ebbene, che mangi anche il mio rampone - gridò Koninson che aveva abbandonato precipitosamente la rete. - Mille milioni di fulmini! Era tempo che se ne incontrasse una! Olà! Ragazzi, sangue freddo e audacia, e io rispondo della vittoria! - Il capitano diede ordine al timoniere di dirigere il "Danebrog" verso il gigante, mentre Koninson e i marinai calavano a fior d'acqua le due più solide e più svelte baleniere, mettendovi dentro tutti gli attrezzi necessari: remi, ramponi, lancie, lenze e le "droghe". - A un chilometro di distanza il "Danebrog" si mise in panna. Avvicinarsi troppo ad una balena che si caccia non è prudente, perchè essa quando è ferita perde completamente la testa e si getta contro qualunque cosa. Il capitano Weimar ben si ricordava del brutto caso toccato alla nave "Essex" nel 1820, quando, investita da una balena resa pazza dal dolore cagionatole da una ferita, era andata a picco. Subito il tenente Hostrup, Koninson e quattro marinai presero posto nella maggiore baleniera e mastro Widdeak, Harwey e altri quattro remiganti nell'altra. - Badate che non ci sfugga - disse il capitano che era rimasto a bordo. - Vi, giuro, signore, che non si ripeterà il caso del capodolio - disse Koninson. - Mi sento indosso un coraggio da non temere venti balene. - Al largo, dunque! Le due baleniere si staccarono dal "Danebrog" e si diressero, rapidamente, ma senza far rumore, verso il cetaceo. Quella del tenente precedeva di una gomena quella di mastro Widdeak. Ben presto i cacciatori giunsero a sole trecento braccia dalla preda, la quale non aveva ancor dato il più piccolo segno di inquietudine. Era una superba balena franca, lunga più di venti metri, del peso di ottanta o novanta tonnellate, con una testa voluminosissima, convessa superiormente e fornita di una bocca enorme, lunga più di tre metri e alta più di quattro. La pelle del gigante, nera, liscia, untuosa, sotto ai raggi del sole brillava così vivamente da offendere gli occhi di chi la guardava. - Cosa fa? - chiese sottovoce il tenente a Koninson che la fissava con occhi fiammeggianti. - Pascola in mezzo al banco di "boete". - rispose il fiociniere. - Se si potesse sorprenderla.. - Lo dubito, tenente. Ecco che comincia a dar segni d'inquietudine. La balena infatti, che fino allora aveva conservato una immobilità quasi perfetta, aveva alzato la sua potente coda terminante in una pinna orizzontale, triangolare e larga sei o sette metri. Con un colpo vigoroso lanciò a destra ed a sinistra due altissime onde, poi agitò le pinne pettorali che sono lunghe ben tre metri, causando nuove onde e si mise a filare fra il banco di "boete", cacciando fuori dagli sfiatatoi due colonne di vapore, il quale ricadeva sotto forma di goccioline che formavano sull'acqua macchie oleose. - Attento, Koninson! - disse il tenente, facendo segno ai remiganti di raddoppiare la battuta. - Spingete innanzi la baleniera senza tema, signore, - rispose il fiociniere che aveva afferrato il suo terribile rampone. - Sono pronto! - Ad un tratto la balena si tuffò lasciando dietro di sè un piccolo vortice. Il tenente guardò attentamente da qual parte aveva piegata la coda per indovinarne la direzione presa, poi comandò ai remiganti di avanzare lentamente e senza far rumore. Passarono alcuni minuti che parvero lunghissimi, poi si udì un rumore simile ad un tuono lontanissimo e sulla tranquilla superficie del mare si scorse un largo tremolio. - Attenti! - disse il tenente. - La balena sta per mostrarsi. Sei pronto, Koninson? - Sempre! - rispose il fiociniere. Il rumore si faceva sempre più distinto, poi a quattrocento passi dalla baleniera, verso prua, apparve un punto nero, l'estremità del muso del cetaceo, indi gli sfiatatoi, il dorso e finalmente la formidabile coda, la quale battè violentemente il mare. - Il gigante è inquieto - disse il tenente. - Ci ha sentiti. Allungate la battuta, ragazzi. Tornata a galla, la balena aveva lanciato in aria, a parecchi metri d'altezza due colonne di bianco vapore, poi si era un po' immersa. Per trenta o quaranta secondi scivolò mostrando solamente il dorso, e a intervalli la coda; indi rialzò la testa e gettò due altre colonne di vapore. Tornò a immergere la testa e per parecchi minuti ancora ripetè quella manovra gettando, di quando in quando, colonne di vapore che diventava però sempre meno denso, e agitando la coda innanzi e indietro. - La briccona scandaglia - mormorò Hostrup,. Le due baleniere avanzavano lentamente e con prudenza. I due fiocinieri in piedi, colla coscia cacciata nella scanalatura di prua, il rampone in aria un po' pallidi, lanciavano sguardi di fuoco sulla preda. Il cetaceo non fuggiva, ma dava sempre segni di inquietudine. Il suo respiro, che si ode a una non breve distanza, era più frequente, la sua coda si alzava e si abbassava con molta violenza; e spesso sollevava la testa fuori dell'acqua come se cercasse di vedere i nemici che la seguivano. - Arranca a tutta lena! - gridò ad un tratto il tenente. La baleniera partì rapida come una saetta. In brevi istanti si trovò a sole venti braccia dal cetaceo. - Koninson! - gridò il tenente. - Pronto, signore! rispose il fiociniere. - Getta! ... Koninson alzò il rampone, lo fece oscillare innanzi e indietro e lo lanciò con tutta la forza del suo braccio, piantandolo profondamente nel fianco destro della balena in un punto ricco di tendini e di carne. Parve che il cetaceo subito non si accorgesse di essere stato ferito, ma dopo alcuni secondi agitò furiosamente la coda lanciando contemporaneamente una nota così acuta da udirsi a parecchi chilometri di distanza. - Attenti ragazzi! - gridò il tenente, mentre Koninson afferrava una lancia munita di una specie di palla taglientissima. La baleniera si spinse innanzi a tutta velocità, ma il cetaceo si rovesciò bruscamente sul fianco ferito sforzandosi di strapparsi l'arma, che doveva farlo soffrire atrocemente; indi si tuffò con grande fracasso, dopo aver lanciato un'altra e più formidabile nota. - Maledetto! - gridò Koninson - Se aspettava due secondi ancora, gli tagliavo i tendini e l'arteria della coda. La lenza filava rapidissimamente, anzi tanto che si dovette bagnare il bordo della baleniera affinchè per il continuo strofinio non si accendesse. Ben presto fu quasi tutta finita; Koninson ne aggiunse un'altra. - Per mille, boccaporti! - gridò il fiociniere. - Vuol scendere all'inferno? - Pazienza, - Koninson - disse il tenente. Ricomparirà, te lo dico io. Mezzo minuto dopo la lenza cessò di filare. - Ehi, mastro Widdeak, sta bene attento! - gridò il tenente. - Il cetaceo apparirà vicino alla tua baleniera. - Lo riceveremo, come si deve! - rispose il mastro. - Eccolo! Eccolo! - gridarono ad un tratto alcuni marinai. Sulla tranquilla superficie del mare, a una sola gomena dalla prua della baleniera di Widdeak, era stato scorto il tremolio. Harwey, che era ansioso di lanciare la sua arma si alzò di colpo. Poco dopo il gigante apparve. Aveva il rampone ancora piantato nel fianco e manifestava il suo dolore con sordi brontolii e con un continuo eruttare di densi vapori dai due sfiatatoi. Mastro Widdeak diresse verso di lui la sua baleniera. Harwey alzò il rampone e lo lanciò con grande forza. Il cetaceo, nuovamente ferito, emise una formidabile nota che durò otto o dieci secondi. Si sarebbe detto che quella nota era prodotta da una impetuosissima corrente d'aria spinta dentro un largo tubo di bronzo. Subito dopo il mostro si mise a guizzare qua e là, ora avvicinandosi alle baleniere e ora allontanandosi come se avesse completamente perduto la testa. La sua possente coda e le sue grandi pinne pettorali battevano furiosamente l'acqua sollevando delle ondate. Sordi brontolii gli uscivano dalla gola e fischi acuti, dagli sfiatatoi i quali lanciavano senza posa bianchissime e molto dense nubi di vapore. - Avanti! Avanti! - gridò Koninson. Il tenente, punto curandosi dei colpi di mare e punto spaventato dai tremendi colpi di coda che il mostro avventava, fece avanzare la baleniera mentre mastro Widdeak girava al largo per non imbrogliare le due lenze. I cacciatori con pochi colpi di remo si trovarono a breve distanza dal cetaceo. Koninson che era diventato frenetico, appena lo vide alzare la coda gli lanciò il rampone dalla punta rotonda, colpendolo nelle ultime vertebre caudali. Dalla larga ferita uscì subito un grosso rivo di sangue, il quale arrossò per un largo tratto le acque. - Urrah! Urrah! - urlò il fiociniere balena è nostra! Infatti per il cetaceo era ormai finita. Colpito ai fianchi dai due ramponi e poi sotto la coda da quella larga palla tagliente che gli aveva recisi i tendini e l'arteria, non poteva più fuggire. Era questione di ore, forse di soli minuti, poichè le baleniere tornavano alla carica per gettare le lancie. In meno di quindici secondi altre ferite gli furono aperte sui fianchi dai due fiocinieri, e tutte mortali. Allora cominciò l'agonia, ma un'agonia terribile e pericolosissima, non solo per le baleniere, ma per il "Danebrog". Il gigante diventato pazzo per il dolore e anche cieco si precipitava in tutte le direzioni con impeto irresistibile. Usciva più di mezzo dall'acqua, si tuffava, tornava a galla, si rovesciava sui fianchi, ora filava colla rapidità di una freccia, ora si arrestava mandando suoni rauchi, metallici o note potenti, ora descriveva delle curve o dei bruschi angoli. Il "Danebrog" si era messo nuovamente alla vela per non venire investito e si teneva ad una grande distanza e le due baleniere avevano un gran da fare per non venire subissate dalle onde che il gigante sollevava, o sfasciate dalla coda. Ad un tratto però la balena si arrestò. Dai suoi sfiatatoi uscirono con sinistro rumore due getti di sangue che arrossarono una grande zona di mare, poi un fremito agitò l'intera massa. Mandò un'ultima e più acuta nota, indi sollevò la testa mostrando la sua immensa bocca, poi si rovesciò sul dorso e rimase immobile col ventre a fior d'acqua. Era morta!

Koninson e i marinai abbandonato il rampone e i remi si videro costretti a vuotare l'acqua imbarcata che minacciava di mandarli a picco, mentre il cetaceo, preso da un subitaneo accesso di collera, correva qua e là come fosse impazzito gettando sordi brontolii che somigliavano al tuono udito a grande distanza e lanciando ovunque colpi di mare. Pareva che cercasse i nemici per frantumarli a colpi di coda ma, male servito dai suoi occhietti che, sono debolissimi, non riusciva a scorgerli. Mastro Widdeak, che fino allora si era tenuto un po' indietro, spinse la baleniera contro di lui. In tre minuti giunse ad una distanza di sole venti braccia. - Coraggio, Harwey! - gridò Koninson. Il giovane fiociniere, quantunque pallidissimo e in preda ad un forte tremito che paralizzava in parte le sue forze, alzò il rampone cercando un buon punto per lanciarlo. - Getta! - urlò il mastro. Il rampone ondeggiò innanzi ed indietro e partì. Forò due onde, sfiorò una terza e si piantò nel fianco destro del capodolio in una parte carnosa e ricca di tendini. Subito la baleniera si mise a indietreggiare rapidamente lasciando scorrere la lenza. Il mostro, ferito forse pericolosamente fece un balzo innanzi gettando un urlo così acuto da poter essere udito a parecchi chilometri di distanza, indi si tuffò. Ma non rimase sott'acqua che brevissimi istanti e riapparve cento braccia più innanzi gettando un secondo e più forte urlo, battendo furiosamente la coda e rovesciandosi sul fianco ferito come se cercasse di strapparsi l'arma che lo tormentava. Mastro Widdeak diresse l'imbarcazione verso di lui, mentre Harwey afferrava una lancia munita all'estremità di una specie di palla tagliente, aspettando il momento che alzasse la coda per lanciargliela sotto le ultime vertebre caudali. Il tenente spinse pure innanzi la sua baleniera, ma il cetaceo, che senza dubbio non era stato ferito molto gravemente dopo aver descritto un semicerchio, si mise a filare con estrema rapidità verso nord-nord-est. In breve la lenza del rampone fu tutta consumata senza che il capodolio scemasse la sua velocità. Harwey attaccò una seconda la lenza, ma anche questa in pochissimo tempo fu tutta fuori. - Cerchiamo di affaticarlo! - disse mastro Widdeak. - Lega la lenza! - gridò Koninson, che era ancora lontano, quantunque i remiganti arrancassero disperatamente. Harwey legò la lenza e la baleniera fu trascinata dal cetaceo che continuava a nuotare verso nord-nord-est, senza tuffarsi e senza fermarsi un solo istante. Ma anche questo tentativo non riuscì a scemare la corsa del mostro, anzi si accrebbe tanto che c'era da temere che le onde invadessero la baleniera. Mastro Widdeak fece legare la "droga" alla lenza e lasciò andare il capodolio, certo di ritrovarlo ben presto senza vita. - A bordo! - disse egli. - Quel brigante si di stancherà di correre e allora lo troveremo. La scialuppa virò di bordo e si diresse verso il "Danebrog" che avanzava a tutte vele spiegate verso la baleniera del tenente, sulla quale bestemmiava su tutti i toni e in tutte le lingue della terra il fiociniere Koninson. Pochi minuti dopo i dodici cacciatori salivano sul "Danebrog". - Mille tuoni! - esclamò Koninson, mettendo piede sulla tolda. - Non mi aspettavo quest'oggi un tiro così birbone. Brigante d'un capodolio, sfuggire così al mio rampone! Ma se lo incontro ancora gli farò passare un gran brutto quarto d'ora. - Non pigliartela tanto a cuore, fiociniere! - disse il tenente. - Lo raggiungeremo e ben presto, è vero, capitano? - Lo spero - rispose Weimar. - Lo spero anch'io - disse Koninson. - Ma se il mio rampone l'avesse toccato! ... Quel briccone di Harwey ha sempre più fortuna di me. - Saresti geloso? - chiese il capitano, ridendo. - Io! Mai più! Ma se l'avessi ramponato io! ... Mille tuoni, non sarebbe corso tanto. - Ti ripeto che lo raggiungeremo. - Ma dove sarà fuggito? - Scommetterei una botte di "wisky" contro una tazza di "gin" che si è diretto verso lo stretto di Isanotzkoi. - Ci dirigeremo adunque verso quello stretto. - Subito, fiociniere A bordo le baleniere, giovanotti. Le due imbarcazioni in brevi istanti furono issate alle gru, dopo di che il "Danebrog" si rimise in marcia dirigendosi verso la penisola di Alaska che coll'isola di Uminak forma lo stretto accennato di Isanotzkoi L'equipaggio a cui premeva assai ritrovare il cetaceo per non perdere la famosa scommessa impegnata col norvegese, erasi già quasi tutto installato sulle coffe e sulle crocette, tenendo gli occhi fissi verso nord - nord - est. Il capitano aveva promesso una bottiglia di "wisky" al primo che lo scopriva, e quel premio era da tutti agognato. Ben presto però dovette rinunciare a quella guardia che stancava assai, tanto più che non scorgeva alcuna traccia del fuggitivo nè una macchia rossastra che indicasse del sangue, nè quelle materie grasse che si lasciano ordinariamente dietro i cetacei in genere. Per quattro lunghe ore il bravo veliero, spinto da un fresco vento di sud-ovest, filò con una velocità superiore al sette nodi senza deviare dalla sua rotta, poi piegò un po' verso nord-est colla speranza di ritrovare su quella nuova via le tracce. - Nulla! - esclamò il capitano che scrutava l'oceano con un cannocchiale. - Bisogna che sia ben forte per camminare tanto. - Io temo che non sia gravemente ferito, signore - disse il tenente che fumava pacificamente la sua pipa, seduto sulla murata di babordo. - Ha lanciato forse male il rampone Harwey? - Bene no di certo, capitano; nè del resto, lo poteva. Il capodolio aveva sconvolto il mare in siffatta guisa, che nelle baleniere non era possibile tenersi in piedi. - Diavolo! Che lo si perda? - Non lo credo. Camminerà molto, è cosa certa, forse fino allo stretto di Behring, ma poi si fermerà e morrà. - Ma lo ritroveremo noi? - E perchè no? C'è la "droga" attaccata alla lenza. - Lo so ma io so pure che vi sono dei balenieri che non si fanno scrupolo di impadronirsi dei cetacei ramponati dagli altri. E questi pirati di nuova specie non sono pochi. - Aggiungo qualche cosa d'altro, ora che ci penso - disse il tenente. - Che cosa, signor Hostrup? - Che se il nostro capodolio va a morire su qualche isola o su qualche costa per noi è perduto. Gli abitanti se lo prenderanno senza curarsi della "droga". - Non ci mancherebbe che questa disgrazia! Sapete, tenente, che noi siamo molto sfortunati? E proprio quest'anno che abbiamo impegnato la scommessa con quel briccone di norvegese. Fortunatamente ho un equipaggio forte e coraggioso e una nave che non teme i ghiacci del polo. - Siete risoluto a salire molto al nord? - Sì, signor Hostrup - rispose il capitano con voce grave. - Salirò fin oltre lo stretto di Behring, e andrò a visitare le coste della Giorgia. Se non troverò colà tante balene da completare il carico, salirò ancora più al nord verso la terra di Wrangel. - Siate prudente, capitano. - Avete paura dei ghiacci, voi? - Io! ... Quando ho una borsa di tabacco e una bottiglia di "gin" o di "brandy", vado dritto fino al polo. - Lo so, tenente, che voi non avete paura di nulla. Sta bene, saliremo fino a incontrare i grandi banchi di ghiaccio. Bisogna che i danesi vincano i norvegesi. Due ore dopo il "Danebrog" avvistava le isole Aleutine.

Il "Danebrog", semi-rovesciato su un fianco, coperto d'acqua ad ogni istante, andava sempre attraverso le onde malgrado gli sforzi disperati del capitano che non aveva abbandonato la ribolla. Ad un tratto avvenne un urto formidabile sul tribordo, seguito da un crepitio sinistro. Il capitano, il tenente e i marinai furono violentemente rovesciati in coperta. Quando si risollevarono il "Danebrog" non correva più. Si era arenato a una sola gomena dall'isola, in mezzo ad un gruppo di scoglietti le cui punte nere uscivano dalle onde.

. - Indica la presenza di qualche tribù di indiani, o la vicinanza di qualche villaggio abbandonato? - Nè l'uno, nè l'altro - rispose il tenente. - Se non m'inganno, quella è una tomba. - Che non ci potrà certamente giovare. - Anzi, troveremo qualche cosa che farà per noi. Ammaina la vela e andiamo a vedere. Il fiociniere s'affrettò ad ubbidire e la slitta, trasportata dal proprio slancio, andò a fermarsi a poca distanza da quella strana tomba. Il tenente e il fiociniere vi si diressero e la esaminarono con curiosità. Consisteva in un vero canotto indiano di corteccia di betulla e armatura di salice, lungo circa otto piedi, solido e leggero ad un tempo. Era sospeso a circa due metri da terra con alcuni piuoli e sotto di esso la neve appariva smossa di recente e vi si vedeva un certo rigonfiamento come se nascondesse qualche cosa. - Il morto è nel canotto? - chiese Koninson. - No, giace sepolto sotto la neve. Il canotto conterrà invece le armi, le scarpe, le reti e le lenze appartenenti all'estinto. - E dei viveri? - Forse, ghiottone. Sali nel canotto e guarda dentro. Il fiociniere si alzò sui piuoli e salito nella leggera imbarcazione gettò giù due fiocine di corno di narvalo diligentemente aguzzate, un paio di scarpe assai malandate, alcune reti e una lenza di pelle di foca lunga una trentina di metri. - Non valeva la pena di venire fin qui - diss'egli di assai cattivo umore. - Ci avessero messo almeno qualche sacchetto di quell'eccellente "pemmican" che sanno fare gli indiani di questa regione! - Sanno bene che i morti non mangiano, ragazzo mio, - disse il tenente. - Ma perchè mettono sulle tombe le armi e le reti? - Perchè se ne servano nell'altra vita. - Ah! Credono che i morti risuscitino. - Tutti gli indiani ne sono convinti. Ora scendi e cerchiamo di procurarci la colazione. Tò! Ecco dei lupi che urlano nel bosco. La loro carne è pessima, ma chi non ha di meglio può accontentarsi. - Voi v'ingannate, signor Hostrup, poichè ho qualche cosa di più appetitoso da offrirvi. Guardate in alto. Il tenente alzò il capo e vide un grossissimo uccello il quale volava pesantemente come se facesse molta fatica a mantenersi in aria. Imbracciò rapidamente il fucile, mirò alcuni istanti con molta attenzione, poi premette lentamente il grilletto. Il grosso volatile colpito dall'infallibile palla del cacciatore, rotolò due volte su sè stesso mandando una nota che parve emessa da una tromba, poi piombò a terra con sordo rumore rimanendo immobile. - È un cigno - disse Koninson precipitandovisi sopra. - Trenta libbre di carne eccellente! - rispose il tenente. - Ma come mai questo uccello si trova qui? - In estate i cigni vengono a visitare questa regione. La presenza di questo uccello indica che lo sgelo dei fiumi non è molto lontano. - Brutta nuova per chi non ha che una slitta a vela. - Bah! Fra poco non avremo più bisogno di questo veicolo, poichè il Makenzie non deve essere molto lontano. Koninson si affrettò a spennare il volatile il cui peso, come aveva detto il tenente, superava le trenta libbre, poi ne mise un grosso pezzo al fuoco che in quel frattempo era stato acceso con legna morta raccolta nella vicina foresta. Calmata la fame, i due naufraghi tornarono a imbarcarsi, e la slitta, favorita ancora da un buon vento, ripartì costeggiando sempre la foresta. L'indomani, dopo una ventina di miglia, il terreno che fino allora si era mostrato molto favorevole cominciò a cambiare. La gran pianura era spesso interrotta da ondulazioni, da salite, da larghi crepacci e da ruscelletti, le cui rive assai più alte dei corsi d'acqua facevano trabalzare disordinatamente il veicolo, minacciando spesso di mandarlo in pezzi. Anche un largo fiume che il tenente suppose fosse il Peel, uno degli affluenti al Porcupine, e che sbocca a breve distanza dal Makenzie, venne ad interrompere la corsa. I due naufraghi furono costretti a calare la slitta dalla riva e attraversare il ghiaccio per poi issarla sulla sponda opposta. In quella traversata poco mancò che affondassero nel fiume poichè il ghiaccio, corroso dall'azione delle acque e dal sole, più volte crepitò e tremò sotto il peso della slitta. II 14 maggio il vento improvvisamente mancò e così pure per altri tre giorni durante i quali il sole, che rapidamente diventava caldo, sciolse gran parte dello strato di neve rendendo così la marcia della slitta assai penosa. Il 18 dovettero rinunciare a partire di giorno, quantunque il vento fosse propizio, anzi molto forte. La neve, eccessivamente rammollita, non permetteva più lo scivolamento. La gran pianura, percossa da una vera pioggia di raggi caldissimi, presentava un sublime spettacolo. Pareva che un immenso incendio la divorasse, estendosi fino agli estremi limiti dell'orizzonte. La neve, i massi di ghiaccio, gli "hummoks", si fondevano a vista d'occhio e fitte masse di vapori ondeggiavano in tutti i versi, sbattute dagli impetuosi soffi del vento meridionale. Di quando in quando, però, fasci di luce scaturivano da quelle masse, e così abbaglianti che gli occhi dei due balenieri non ci potevano resistere. Le acque pullulavano dappertutto correndo in tutte le direzioni, radunandosi nelle bassure, formando torrentelli e stagni, e producendo un ronzio che, di mano in mano che il sole si alzava sempre più splendido e sempre più caldo, diventava più forte. - Corpo di una balenottera! - esclamò Koninson che si era affrettato a tirarsi i capelli sugli occhi per non rimanere cieco. - Si direbbe che oggi messer Febo si è avvicinato alla terra di qualche milione di miriametri. - Se non ci affrettiamo, la nostra vela ci sarà affatto inutile. Fra un paio di giorni la pianura rimarrà scoperta - disse il tenente. - E quando partiremo? - Stasera farà ancora un pò di freddo e tutta quest'acqua e questa neve geleranno. Il tenente non si era ingannato. Verso le 11 di sera, quantunque il sole fosse ancora sull'orizzonte, la temperatura precipitò quasi improvvisamente di parecchi gradi, fino a toccare i tre sotto lo zero e la vasta pianura gelò. I balenieri spiegarono la vela e ripartirono con una velocità notevolissima, essendosi il vento mantenuto assai forte. Alle tre del mattino avevano già percorso trenta e più miglia, ora scendendo ed ora salendo. Ad un tratto l'orecchio di Koninson fu ferito da uno strano muggito che veniva da est. - Abbiamo qualche branco d'alci dinanzi a noi? - chiese egli prendendo il fucile. - Lo spero - rispose il tenente, prendendo la sua arma. Di mano in mano che la slitta procedeva il muggito cresceva sempre, ma sulla pianura non si vedeva alcun essere vivente, per quanto i balenieri aprissero gli occhi. Koninson, che cominciava a diventare inquieto, s'alzò in piedi e si issò sull'albero. Un grido gli sfuggì tosto: - Lasciate la scotta. Abbiamo un fiume dinanzi! - È il Makenzie! - esclamò il tenente. In un baleno, lasciò andare la fune, ma ormai era troppo tardi per arrestare la slitta che divorava la via con una celerità di quindici nodi all'ora. In men che lo si dica, giunse al fiume che correva incassato fra due alte muraglie, barellò un istante nel vuoto, poi precipitò giù inabissandosi nei gorghi del Makenzie.

- Le ho bene assicurate e vedete che anche il fucile non l'ho abbandonato. - Ora pensiamo a guadagnare la riva. - Ma questi dannati ghiacci ci stritoleranno se abbandoniamo la slitta, e poi le mie vesti sono diventate così pesanti che non sarò capace di nuotare per dieci metri. - Si tratta di spingere la slitta verso la riva. Attenzione, Koninson! Una gran lastra di ghiaccio, un vero "stream" lungo una cinquantina di metri, muoveva dritto sulla slitta frantumando con mille scricchiolìi tutti i ghiacci minori. - Ci schiaccerà! - disse Koninson, battendo i denti per il freddo. - Prima romperà la slitta! - rispose il tenente. - Non perderti d'animo, amico mio, e tieni fermo finchè raggiungiamo la riva. - Vi confesso che non ne posso più. Queste acque sono diabolicamente fredde e sento che a poco a poco i miei muscoli si irrigidiscono. - Attenzione, Koninson. Il lastrone non era che a pochi passi. Frantumò con un potente urto due piccoli ghiacci, poi si precipitò come un ariete sulla slitta. Si udì un lungo scricchiolìo, le traverse si spezzarono, le corde si ruppero, lasciando cadere i pochi oggetti che i naufraghi avevano salvato dalle rapaci mani dei Tanana, quindi tutto l'apparecchio si disciolse andandosene alla deriva. Il tenente e Koninson furono travolti dalla corrente, ma ben presto, lottando con disperata energia, riuscirono ad aggrapparsi ad un banco di ghiaccio issandovisi sopra. - Ah, mio tenente! - mormorò il povero fiociniere che non si reggeva più. - Mi pare che il mio cuore sia diventato un blocco di ghiaccio. - Coraggio, amico. La corrente ci spinge verso la riva destra e fra pochi istanti toccheremo terra. Koninson non rispose. Quasi completamente assiderato si era raggomitolato su sè stesso, ormai incapace di fare il più piccolo movimento. Fortunatamente il banco urtò contro i ghiacci della riva e si incastrò fortemente dentro un largo crepaccio. Il tenente, a cui quel bagno prolungato in quelle acque così gelate non aveva completamente tolte le forze, si caricò del compagno e raggiunse la sponda arrestandosi a pochi passi da un boschetto di betulle. Senza occuparsi di sè stesso, in pochi istanti spogliò il fiociniere, poi raccolse un pò di neve e si mise a strofinarlo vigorosamente per rimettergli in circolazione il sangue. Dopo alcuni minuti lo vide muoversi e infine riaprire gli occhi. - Vedo che hai la pelle dura e sono contento! - gli disse, sorridendo. - Orsù, ragazzo mio, spicca quattro salti finchè io corro al boschetto a procurare della legna. - Grazie, signor Hostrup, ma se tardate a spogliarvi delle vesti, gelerete. - Bah! La mia pelle sfida quella degli orsi bianchi; d'altronde non impiegherò che pochi minuti ad accendere un buon fuoco. Impugnò la scure che aveva avuto tempo di salvare nel momento che la slitta capitombolava nel fiume, e si allontanò correndo, raccogliendo qua e là i rami morti e quelli che tagliava. Fatta un'ampia provvista ritornò presso Koninson, il quale stava facendo una ginnastica indiavolata per non tornare a gelare. L'esca e l'acciarino, conservati dentro un astuccio impermeabile, procurarono un bel fuoco attorno al quale i due balenieri si assisero, riscaldandosi le membra ed asciugandosi le vesti. - Ditemi, signor Hostrup, - disse il fiociniere che aveva ricuperato le forze e la favella - dove supponete che noi siamo? - Sulle rive del Makenzie, ma in quale punto preciso non te lo saprei dire. - Siamo molto lontani dal forte che cercate? - Te lo dirò quando avremo raggiunto la riviera del Grand'Orso, che si scarica in questo fiume. - A sud o a nord da noi? - A nord no di certo, poichè ci siamo costantemente tenuti a nord del Porcupine e questo fiume sbocca nel Makenzie quasi di fronte alla riviera del Grand'Orso. - Allora marceremo verso sud seguendo il fiume. - È necessario, e quando avremo raggiunto la riviera piegheremo ad est finchè troveremo il forte Speranza, il quale, se la memoria non mi tradisce, deve trovarsi a circa mezza via fra il Makenzie e il lago del Grand'Orso o del Musquàsa-ky-e-gum, come lo chiamano gli indiani. - Auff! Mi ci vorrà una settimana a pronunciare siffatto nome. Questo sforzo di lingua lo lascio a voi ed agli indiani. Ma ditemi, signor Hostrup, a cosa servono i forti piantati fra quelle deserte regioni? - A scopo di commercio. - E con chi commerciano? - Cogli indiani, i quali si recano di quando in quando ai forti a vendere le pelli degli orsi, di foche, di martore, di volpi, di linci, di lupi, di castori, di ratti muschiati e di lontre, contro, armi, liquori, reti, ecc. Anzi, ti dirò che tanto la Compagnia Russa che quella della Baia di Hudson, proprietarie dei forti, fanno ottimi affari. - Ma dove sono questi indiani, che non ne abbiamo veduto che trenta o quaranta? - Sono disseminati qua e là, ma tutti sanno dove si trovano i forti. - Ne troveremo degli altri, dunque? - Sì, poichè il territorio su cui ci troviamo, e che appartiene alla Compagnia della Baia di Hudson, è più popolato di quello appartenente alla Russia. Nei pressi del Makenzie e del lago del Grand'Orso si trovano numerose tribù di Jannoit della famiglia degli Eschimesi, di indiani Loschi, così chiamati perchè sono realmente loschi, di Fianchi di Cane o Liu-tcan che sono tutti balbuzienti, di Denè, di Diendije, di Fine e di Chippewyans, i quali poi per lungo tempo furono creduti forniti di coda a causa delle loro vesti che di dietro terminano in una lunga punta. - Speriamo di trovare anche abbondante selvaggina, poichè non abbiamo un solo pezzetto di carne da porre sotto i denti. - Ne troveremo, Koninson, anzi mi metterò oggi stesso in cerca di qualche capo di selvaggina. Puoi reggerti? - No, tenente, ho le gambe che si rifiutano di star ritte. - Andrò io solo a battere il paese, e se incontro un orso puoi star certo che stasera faremo un lauto pranzo. Indossò le vesti che si erano asciugate dinanzi a quella grande fiammata, rinnovò la carica del fucile con polvere asciutta, poi, dopo aver raccomandato al fiociniere di fare altrettanto col secondo fucile, per tenersi pronto a qualunque evento, s'allontanò lentamente inoltrandosi, nel paese, un pò verso sud. Camminava da due ore costeggiando un bosco di betulle e di pini che pareva seguisse la riva del Makenzie, quando si trovò sul limite di una palude il cui fango era tenacissimo. Dopo aver errato un pò a destra e un pò a sinistra, s'avventurò su una lingua di terra che si addentrava in quella palude, fiancheggiata da altissimi abeti neri e da folti boschetti di salici, nella speranza di incontrare qualcuna di quelle stupende lontre la cui pelliccia si paga quasi a peso d'oro. Ad un tratto i suoi orecchi furono colpiti da una specie di grugnito, che veniva dal mezzo d'un gruppo di piante. - In guardia! - mormorò, armando il fucile. - Qui ci sono delle bistecche. Si gettò a terra per non farsi scoprire e si trascinò carponi e senza produrre rumore, verso il luogo d'onde venivano i grugniti. Quando giunse in mezzo ai salici vide dinanzi a sè, a circa duecento metri, un orso di statura piuttosto piccola, somigliante agli orsi bruni d'Europa, che si avvoltolava nel fango assieme ad un orsacchiotto grosso quanto un cane di statura media. - Oh! - esclamò egli sorpreso. - Che razza di animale è mai questo? Non può essere che un orso detto delle Terre Nude, accennato da John Richardson, il compagno dell'infelice Franklin. Stiamo in guardia, poichè si dice che sia ferocissimo. L'orsa, poichè doveva essere una femmina, d'improvviso si alzò guardando verso il gruppo di piante. Senza dubbio aveva fiutato la presenza del cacciatore e si mostrava inquieta se non per sè stessa, certamente per l'orsacchiotto che non era in grado di difendersi. Il tenente, che non voleva perdere una sì bella occasione, si alzò pure in piedi e puntato rapidamente i fucile fece fuoco attraverso il fogliame. L'orsa mandò un urlo terribile, poi si diede a fuggire attraverso la palude cacciando dinanzi a sè l'orsacchiotto, che mandava lamentevoli grugniti. Il tenente saltò nella palude risoluto a inseguirli, ma fatti pochi passi fu costretto a fermarsi poichè tanta era la tenacità di quel fango da non lasciargli alzare i piedi. Anzi s'accorse che minacciava di sprofondare. Scaricò una seconda volta il fucile, ma con nessun frutto, poichè l'orsa che forse aveva trovato del terreno più solido, continuò a fuggire scomparendo in mezzo alle piante, sempre accompagnata dal piccino. Uscì dalla palude dopo aver ricaricata l'arma e si slanciò sotto il bosco dirigendosi verso sud, colla speranza di raggiungere la belva che forse era stata gravemente colpita. Percorse tre o quattro chilometri quasi sempre correndo, ma quando si fermò s'accorse di essersi allontanato assai dalla palude. Stava per tornare sui propri passi e riguadagnare l'accampamento, quando gli pervenne un lontano muggito che pareva prodotto dal rompersi d'un grosso fiume. - Che sia il Makenzie? - si chiese. - Ciò non può essere, poichè il fragore viene da sud, mentre il fiume deve scorrere alla mia destra. Il sole è ancora alto e Koninson non diventerà inquieto se tardo a ritornare. Proseguì il cammino verso sud, inoltrandosi in un nuovo bosco di salici, di abeti e di betulle, e dopo una mezz'ora di trovava sulla riva di un largo corso d'acqua che veniva da est. - È il Makenzie, o la riviera del Grand'Orso? - si chiese egli, salendo su di un'alta rupe dalla quale poteva dominare un gran tratto di paese. - Sarà senza dubbio il Makenzie; poichè la riviera deve trovarsi molto più a sud. Ad ogni modo mi accerterò seguendone le rive. Stava per mettersi in cammino quando, girando gli occhi ai piedi della rupe, scorse sulla sponda una tenda semi-atterrata e presso questa quattro lunghi oggetti che potevano fino ad un certo punto sembrare uomini giganteschi avvolti in pelliccie. - Cosa saranno quegli oggetti là? - si domandò. - Andiamo un pò a vedere. Scese verso la riva seguendo un sentieruzzo appena praticabile e si avvicinò a quegli strani oggetti che subito riconobbe. Erano quattro canotti eschimesi, di quelli che si chiamavano "kajacks", leggerissimi assai, essendo costruiti con pelli di foca ricucite sopra uno scheletro di ossa di balena o di legno molto sottile, lunghi tre metri, larghi non più di settanta centimetri, un pò rialzati a prua e bassi a poppa e con un'apertura nella quale si caccia il battelliere. Osservandoli attentamente li trovò in ottimo stato e dentro rinvenne alcune pagaie a doppia pala. - Scoperta magnifica! - disse il tenente. - Se gli eschimesi, con questi canotti, ardiscono sfidare le tempeste e i ghiacci dell'Oceano artico o dei grandi laghi, noi potremo senza tema sfidare la corrente del Makenzie. Se Dio continua a proteggerci fra poche settimane potrò riposare le mie stanche membra al forte Speranza. Si avvicinò alla tenda sollevando un lembo, ma tosto si ritrasse facendo un gesto di orrore. Colà uno scheletro, perfettamente denudato dalle sue carni, giaceva in mezzo a pochi pezzi di pelliccia che un tempo dovevano averlo ricoperto. - Il disgraziato sarà morto di fame e i lupi avranno banchettato colle sue carni - disse il tenente. - E quanti ne muoiono in questa regione dei grandi freddi! Orsù, ritorniamo che Koninson sarà inquieto. Risalì la rupe e si rimise in cammino costeggiando il fiume che accennava a volgersi verso nord. Dopo due buone ore si convinse che percorreva la riva sinistra del Makenzie e non già del Grand'Orso, poichè il fiume, dopo un brusco gomito, si dirigeva verso nord. Si riposò pochi minuti su di un rialzo di terreno, indi proseguì la via a lenti passi volgendo sguardi a destra e a sinistra, sperando di scoprire qualche capo di selvaggina. Già cominciava a distinguere il fumo che si alzava dall'accampamento, quando nello sbucare da un gruppo di pini si trovò improvvisamente dinanzi all'orsa e al suo orsacchiotto che stavano uscendo dalla palude. Imbracciò rapidamente il fucile e fece fuoco. L'orsacchiotto, che stava dinanzi di pochi passi, colpito nella testa, rotolò due volte su di sè stesso, poi rimase immobile. Là madre, furente, si alzò sulle zampe posteriori, cacciò un urlo di rabbia e di dolore, e si slanciò verso il cacciatore il quale, non avendo tempo di ricaricare l'arma e non osando venire ad un combattimento a corpo a corpo, si slanciò verso l'accampamento gridando: - A me, Koninson! ... A me! ... Il fiociniere, messo in guardia dalla detonazione, si era già alzato col fucile in mano. Vedendo l'orsa inseguire il tenente, si slanciò innanzi e fece fuoco. La belva, ferita dalla palla, si arrestò di botto, poi tornò sui propri passi zoppicando; si fermò un momento presso il cadavere dell'orsacchiotto come per assicurarsi se era morto, e finalmente si cacciò nella palude scomparendo in mezzo alle macchie di salici.

La povera madre non si era più fatta vedere e pareva che ormai avesse abbandonato ogni progetto di vendetta; sicchè, dopo il pasto, poterono discorrere tranquillamente sul nuovo viaggio che stavano per intraprendere sul Makenzie e che molto probabilmente doveva essere l'ultimo, essendo lontani solamente poche giornate dal forte Speranza. - Se tutto procede bene e non facciamo cattivi incontri, fra una settimana potremo riposare su di un buon letto - diceva il tenente, dopo aver narrato la fortunata scoperta dei "kajacks". - Io conto di essere ormai fra le mura del forte - disse Koninson. - Sul fiume non troveremo ostacoli di certo. - Non bisogna correre troppo, ragazzo mio. Ci troviamo in un certo paese che può giuocarci ancora dei brutti tiri. Gli indiani o gli eschimesi, gli orsi e la fame possono metterci in gravi imbarazzi. - Io ho fiducia nella nostra buona stella che, dalle sponde dellArtico, ci condusse fin qui, signor Hostrup. - Piuttosto quando saremo giunti al forte, cosa faremo? - S'incaricherà quel comandante di farci condurre negli stabilimenti dell'est. Nella buona stagione le comunicazioni sono frequenti tra forte e forte e, quando saremo giunti nel Canada, daremo un addio all'America e torneremo in patria. - Come desidero di rivedere la mia Danimarca, signor Hostrup! - disse Koninson sospirando. - I nostri parenti ci crederanno a quest'ora morti fra i ghiacci del polo. - La cosa è certa. - E di tanti che erano con noi, non ritornano che due! Povero capitano e poveri compagni! - Lascia le cose tristi, mio buon Koninson, - disse il tenente che pure era diventato commosso. - Non è il momento di evocare la dolorosa storia del naufragio. Orsù, pensiamo a riposare, che domani dobbiamo partire per tempo. - E non correremo alcun pericolo? L'orsa non si è più fatta vedere, ma potrebbe ritornare e approfittare del nostro sonno per divorarci il cranio. - Hai ragione, quantunque le belve non osino avvicinarsi egli accampamenti difesi da un fuoco. Coricati; il primo quarto li guardia lo farò io. Il fiociniere, che si sentiva ancora spossato, non se lo fece dire due volte e si sdraiò coi piedi volti verso il fuoco, mentre il tenente si sedeva pochi passi più lontano col fucile fra le ginocchia. Il primo quarto passò senza incidenti, ma durante il secondo l'orsa si mostrò sull'orlo della palude e si spinse fino a poche centinaia di passi dall'accampamento mandando urla disperate. Il fuoco però, che veniva continuamente alimentato, la tenne lontana e verso le prime ore del mattino la povera madre ritornava in mezzo ai salici allontanandosi verso est. Alle 7 i due balenieri, caricatisi delle loro armi e della carne dell'orsacchiotto, si misero in cammino seguendo la riva del Makenzie e tre ore dopo giungevano dinanzi alla tenda scoperta il giorno precedente. Il tenente visitò accuratamente i "kajacks" e, trovatili in ottimo stato, ne gettò due sul fiume. - In barca, - comandò poi - e facciamo molta attenzione ai ghiacci, poichè basta un solo urto per sfondare le costole di questi leggerissimi canotti. Si cacciarono dentro, presero le pagaie a doppia pala e si spinsero al largo evitando con somma cura le lastre di ghiaccio che la corrente ancora trascinava, e in quantità rilevante. Da principio le loro mosse furono faticose, ma ben presto le loro braccia ritrovarono l'antico vigore e i due leggieri canotti, spinti energicamente innanzi, risalirono il fiume con notevole velocità, rimbalzando agilmente sulla corrente. Le due rive offrivano di quando in quando delle pittoresche vedute, ma erano affatto deserte. Quella di sinistra, alta assai, in taluni punti tagliata quasi a picco, era selvaggia, con rupi gigantesche dai cui crepacci saltavano nel fiume torrentelli spumeggianti, con gole profonde e affatto spoglie d'ogni vegetazione, con piccoli ghiacciai, che lasciavano scivolare grandi ammassi di ghiaccio, i quali s'inabissavano con cupo fragore rimontando poscia a galla; quella di destra invece scendeva dolcemente mostrando boschi di pini altissimi e di abeti e di betulle e macchie di salici nani in mezzo alle quali si vedevano saltellare numerosi topi campagnuoli dal mantello giallastro o bruno. Qualche lupo si mostrava qua e là, ma fuggiva ratto, e anche qualche lince si spingeva fin sulle rive a guardare con gli occhi sanguigni i due piccoli canotti che filavano in mezzo ai ghiacci galleggianti. I due naufraghi avevano già percorso una dozzina di miglia, quando improvvisamente giunse ai loro orecchi una specie di nitrito molto acuto che pareva emesso da un mulo. Si fermarono entrambi, guardandosi in faccia con inquietudine. - Se non m'inganno questo è il grido dell'orso bianco - disse Koninson. - Non ti sei ingannato, ragazzo mio, - rispose il tenente. - Fortunatamente abbiamo i canotti. - Se all'orso saltasse il brutto ticchio di darci la caccia, i nostri canotti a nulla gioverebbero. Sono nuotatori formidabili, quei carnivori dal bianco mantello, e non perdono contro un canotto. - Infatti sovente ho veduto qualcuno di questi mostri nuotare ad una trentina di miglia dalle coste. Mi sorprende però di trovarli qui, su questo fiume. - E perchè, Koninson? - Mi hanno detto che gli orsi bianchi non si allontanano molto dalle rive dell'Oceano. - È vero, ma talvolta si addentrano nelle terre seguendo il corso dei fiumi e non di rado se ne uccisero ad una distanza di centosessanta e anche duecento miglia dalle coste marine. II nitrito si fece udire più vicino. Koninson e il tenente guardarono verso la riva sinistra e videro scendere, attraverso la spaccatura di una roccia, un grosso orso bianco, il quale si arrestò sedendosi sulle zampe posteriori. - Mi pare che non abbia delle buone intenzioni - disse Koninson. - Il birbante deve essere affamato e conta di satollarsi colle nostre carni. Eh, mio caro, sono troppo coriacee per il tuo ventricolo. - Stiamo in guardia, poichè mi ha l'aria di non lasciarci passare. Appoggiamo verso la riva destra. - Se si potesse piantargli due palle nel cranio? - È impossibile avere il polso fermo in questi canotti. Orsù, prendiamo il largo. L'orso non assaliva. Si accontentava di seguirli con due occhi che manifestavano un'ardente bramosia, agitando il capo da destra a sinistra, con quel moto che è particolare a tutti gli orsi, a qualunque razza appartengano. I due canotti erano già giunti presso la riva che in quel luogo disgraziatamente non offriva approdi essendo tagliata quasi a picco, quando l'orso si decise a muoversi. Fece alcuni passi innanzi e indietro, come se cercasse un buon punto, poi si gettò nel fiume con un sordo tonfo, sollevando una colonna d'acqua. - Presto, fuggiamo o siamo perduti! - gridò il tenente. - Attento ai ghiacci, Koninson, poichè se il tuo canotto si spezza l'orso non ti risparmierà. Fecero forza di remi e risalirono la corrente sperando di giungere in qualche punto della sponda che permettesse di approdare e di affrontare sul terreno solido il nemico che nel liquido elemento aveva dalla sua tutti i vantaggi possibili. Ma ben presto s'accorsero con vivo terrore, che quella gara con quell'abile nuotatore era impossibile. Infatti il feroce animale, che forse una gran fame animava, veniva innanzi con una velocità incredibile battendo furiosamente le sue larghe zampe e mostrando una larga bocca che, di quando in quando, richiudeva con colpi secchi da mettere i brividi. Certi momenti si slanciava quasi interamente fuori dell'acqua spiccando dei lunghi salti, come se trovasse un terreno solido, guadagnando in un colpo solo tre o quattro metri. La buona stella però, che fino allora aveva protetto i naufraghi, anche questa volta non li abbandonò. Infatti ad una svolta del fiume scorsero alcun isolotti che potevano offrire un rifugio o almeno un luogo propizio per affrontare l'animale. - Presto, Koninson! - disse il tenente che remava disperatamente. - Dirigiamoci laggiù e prendiamo subito terra. Con un ultimo sforzo si avvicinarono agli isolotti e si arenarono dinanzi al primo. Abbandonati precipitosamente i canotti, si slanciarono a terra portando con loro i fucili e la scure. L'orso non era lontano che trenta passi e raddoppiava gli sforzi temendo che l'agognata preda fosse per sfuggirgli. Vedendo i due uomini prendere terra e puntare i fucili, armi che senza dubbio non gli erano nuove, subito si tuffò. - Fugge forse? - chiese Koninson, che contava di regalarsi uno zampone d'orso per pranzo. - Non lo credo - rispose il tenente, tenendo il fucile sempre puntato. - Simili animali non abbandonano così facilmente una preda, quando sono affamati. Cercherà di avvicinarsi tenendosi sott'acqua per poi gettarsi contro di noi all'improvviso. - Bah! Avrà l'accoglienza che si merita. - Eccolo, Koninson! Mira giusto! Infatti l'orso era repentinamente riapparso a pochi passi dall'isolotto. Con un solo balzo si slanciò sulla riva tentando di risalirla. - Fuoco! - gridò il tenente. Le due detonazioni dei fucili si fusero in una sola. La belva, ferita, mandò un lungo nitrito che parve anzi un vero urlo e tornò a sommergersi, lasciando alla superficie un cerchio di sangue che rapidamente si allargava. - È morto! - gridò Koninson slanciandosi innanzi. - Non ti fidare! - disse il tenente. - Sta in guardia! L'avvertimento giungeva troppo tardi. Koninson si era già immerso nella corrente fino alle ginocchia, quando si sentì violentemente atterrare. L'orso, che spiava il nemico tenendosi sott'acqua, repentinamente si rialzò e urtò violentemente il fiociniere che non resse al colpo. - Aiuto, signor Hostrup! - gridò il disgraziato, tentando, ma invano, di rimettersi in gambe. - Non temere, ragazzo! - tuonò il tenente. L'orso, con una agilità che si sarebbe creduta impossibile in quel corpo tutt'altro che ben formato, stava per gettarsi sul fiociniere per dilaniarlo coi potenti artigli, ma il tenente gli si gettò coraggiosamente dinanzi. S'udì un colpo secco, seguito da un sordo grugnito. La belva, colpita mortalmente alla testa, si rovesciò nel fiume perdendo un torrente di sangue misto a brani di cervella, e sparve in mezzo ai gorghi. - Grazie, mio tenente! - disse Koninson con voce commossa. - Non dimenticherò mai questo colpo maestro. - Mi ringrazierai a pericolo finito! - rispose Hostrup, raccogliendo prontamente il fucile e disponendosi a caricarlo. - Come? Non è morto dunque? - Non è lui che ci darà ancora da fare, ma i suoi compagni. Guarda, mio povero amico, guarda sulla riva che ci sta di fronte. Koninson guardò nella direzione indicata e non potè trattenere un gesto di spavento. Da una collinetta che scendeva dolcemente nel fiume, tre forme biancastre scivolavano rapidamente sulla neve mandando dei grugniti punto rassicuranti. Erano tre altri orsi bianchi i quali, forse attirati dalle urla del compagno e dalle detonazioni, accorrevano a prendere parte alla lotta. - Corpo d'una balena! - esclamò il fiociniere impallidendo. - Ma questo è il paese degli orsi! Ci assaliranno? - Se son affamati come quello che abbiamo ucciso, non si accontenteranno di guardarci - rispose il tenente che cominciava a diventare inquieto. - Si potrebbe tentare la fuga? - Se la loro intenzione è quella di assalirci, l'acqua non li arresterà. Qui si tratta di mirare giusto e di picchiare sodo. Carica il tuo fucile e stiamo attenti. I tre orsi erano allora giunti sulla riva del fiume, ma non parevano avere molta fretta. Andavano innanzi e indietro lentamente, guardando i due uomini più con curiosità che con ferocia, senza decidersi a entrare nel fiume. Finalmente uno, il più grosso, s'immerse e nuotò in direzione degli isolotti, ma procedendo cautamente. Koninson e il tenente lo mirarono e gli scaricarono contro i fucili. La lezione parve sufficiente, poichè il carnivoro s'arrestò un momento, poi raggiunse i compagni zoppicando e perdendo sangue. Si fermarono ancora alcuni minuti sulla riva, indi s'allontanarono per la stessa via di prima, scomparendo dietro le rocce. - Buon viaggio! - gridò il fiociniere. - E tarda guarigione all'ammalato! - aggiunse il tenente. - Che il diavolo si porti questi affamati abitanti delle regioni artiche! - Fortunatamente che non erano di cattivo umore, quei signori dalla bianca pelliccia. E quello che abbiamo ucciso, dove è andato a finire? - La corrente l'ha portato chi sa mai dove, Koninson. - Che disgrazia che tanta carne sia andata perduta! - Bah! Ne troveremo dell'altra. - Ma le munizioni scarseggiano, signor Hostrup. Non ho più di quaranta colpi. - Ti basteranno per giungere al forte. Orsù, imbarchiamoci e proseguiamo il viaggio. Rimisero a galla i canotti, vi si cacciarono dentro e abbandonarono il gruppo d'isolette colla maggior sollecitudine, temendo di vedere ritornare gli orsi bianchi che forse si tenevano celati dietro le rocce. Fortunatamente i tre carnivori non si fecero vedere, sicchè poterono proseguire tranquillamente il loro viaggio costeggiando la sponda opposta che si manteneva così dirupata da non permettere la discesa ad alcun animale per quanto fosse fornito di solidi artigli. A mezzogiorno fecero una breve sosta dentro un profondo "fiord" che li teneva riparati dai ghiacci che la corrente continuava a trascinare, mangiarono alla meglio un pezzo d'orsacchiotto, poi ripartirono. Il viaggio fu però di breve durata, poichè ben presto si alzò sul fiume un nebbione così denso da non permettere più di discernere i ghiacci anche a pochi passi di distanza. Le due rive in breve scomparvero ai loro occhi. - Approdiamo - disse il tenente, che temeva pei fragili canotti. - Vedo dinanzi a noi un isolotto boscoso che ci offrirà un buon fuoco e un riparo contro il freddo della notte. - Non faremo cattivi incontri, spero. - No, ma veglieremo per turno. Hai veduto come nuotano gli orsi bianchi? Se qualcuno si aggira sulle rive e si accorge della nostra presenza, non ci penserà su due volte a farci una visita durante il nostro sonno. Presero terra all'estremità dell'isolotto che non aveva una estensione maggiore di trenta metri, tirarono a secco i canotti e si accamparono fra due alti pini. Koninson, dopo aver acceso il fuoco, fece una corsa attraverso quel brano di terra per assicurarsi che nessun animale fosse celato fra le piante, poi allestì la cena. Alle 10 di sera, quando il nebbione era più fitto, il tenente sì coricò accanto al fuoco sotto la guardia del compagno, cui spettava il primo quarto. Nessun incidente venne a interrompere il suo sonno. Alle due del mattino surrogò Koninson che cadeva dalla stanchezza. Nessun rumore fino allora era stato avvertito, all'infuori del gorgoglio della corrente che si rompeva contro l'isolotto e gli urti dei ghiacci. Ma verso le quattro, quando il nebbione cominciava ad alzarsi, il tenente, che si teneva seduto accanto al fuoco col fucile in mano, avvertì dei vaghi rumori che venivano dalla riva destra. Si alzò rapidamente e s'avvicinò al fiume curvandosi verso la corrente. Ben presto udì in mezzo al nebbione un lungo fischio che si ripetè parecchie volte. - Che animale è mai questo? - si chiese egli. - Un orso no di certo. Stette in ascolto e gli parve di udire degli scoppi di risa che era si avvicinavano ed ora si allontanavano. - Se non mi trovassi sul Makenzie, direi che sulla riva ci sono delle jene, ma le terre della Baia d'Hudson non hanno mai ospitato questi animali dei climi caldi. - Signor Hostrup! - disse in quell'istante il fiociniere che si era svegliato. - C'è della gente allegra, a quanto pare. Chi ride in questo brutto paese? - È ciò che io sto chiedendomi - rispose il tenente. - Sono persone o animali? - Persone senza dubbio. - Forse siamo giunti al forte senza accorgercene? - Io credo che sia ancora molto lontano. - Provate a chiamare. - Olà, chi ride? - gridò il tenente. Una specie di grugnito vi rispose, seguito tosto da risa sgangherate e un vociare di persone. - Senza dubbio ci sono degli Indiani - disse il fiociniere raggiungendo il tenente. - Ci saranno amici o nemici? - In questo paese non si può dire mai nulla, poichè le tribù indiane oggi rispettano i bianchi e domani sono capaci di assassinarli a tradimento. - Provatevi a interrogarli. Che lingua parlano gli abitanti di questa regione? - Una lingua che ben pochi conoscono, ma avendo essi frequenti comunicazioni coi forti della Compagnia comprenderanno l'inglese o almeno il russo. - Proviamoci. - Olà, chi siete e da dove venite? - chiese egli in inglese. - Co-yuconi, - rispose una voce forte e distinta. - Corpo d'un vascello sventrato! - esclamò Koninson, facendo un salto. - Io conosco questa voce! - È quella ... - Del capo Tanana che ci ha derubati. - Se è proprio lui che ha parlato, gli farò pagar caro il tradimento. Arma il fucile e teniamoci pronti a tutto.

Il sole dopo essersi mostrato per qualche giorno ancora sul fosco orizzonte, sempre più smorto e sempre più freddo, ha definitivamente abbandonato quei paraggi e sugli immensi campi di ghiaccio, riuniti dalle correnti prima e dal freddo poi, si è stesa un'oscurità quasi perfetta che ben di rado la luna riesce a rompere. Nebbioni pesanti, che i venti più furiosi non riescono a disperdere, si succedono gli uni agli altri accompagnati da spaventevoli tempeste, i cui ruggiti formidabili gelano l'anima dei più intrepidi marinai e orribili nevicate. I banchi di ghiaccio, pochi giorni innanzi popolati di foche, di trichechi, di volpi e di qualche orso bianco, sono diventati deserti e così pure hanno disertato in massa gli uccelli che si sono affrettati a raggiungere climi meno rigidi. È già molto se qualche procellaria o qualche ardito gabbiano solca il nebbione e viene a volteggiare attorno alla nave. L'equipaggio, vinto dal freddo che talvolta scende fino ai 40o sotto lo zero, da molto tempo non osa più affrontare l'aria esterna e vive costantemente sotto la tolda ove circola ancora un po' di calore, in preda ad una viva inquietudine che prende proporzioni angosciose ad ogni tremito della nave, ad ogni crollo di un "iceberg", ad ogni fischio più acuto del vento polare. Non è più il baldo equipaggio di prima. I marinai più audaci hanno perduto il loro coraggio; i più forti la loro vigoria; i più allegri il loro buon umore. Lo stesso sig. Hostrup è diventato pensieroso e di umore nero; perfino il capitano Weimar, che pur ha dato tante prove di ardire e di grande fiducia, è abbattuto. I loro sforzi per mantenere vivo lo spirito dell'equipaggio, non riescono più. Le cacce sono finite perchè nessun cacciatore osa abbandonare la stufa; le danze ed i concerti sui quali tanto avevano contato, sono pure cessati, perchè nessuno ha più buon umore; i lavori più o meno faticosi che mantenevano vive le forze sono pure finiti, poichè nessuno più obbedisce nè si sente in grado di intraprendere il minimo sforzo. Più nulla vale a strapparli da quell'abbattimento, da quello snervamento, da quello scoraggiamento che ogni giorno guadagnano maggior campo, minacciando di produrre effetti disastrosi, incalcolabili. Eccoli tutti là, stretti accanto alla stufa che funziona senza posa e che non abbandonano se non spinti da un motivo imperioso e dopo molte preghiere e anche minaccie dei loro superiori. Hanno i visi pallidi, gli occhi infossati, le barbe ispide e coperte sempre di ghiacciuli; i loro movimenti sono incerti, le loro parole sono mozzate da un incessante tremolio delle labbra, la loro volontà è paralizzata, i loro pensieri sono tardi. Il freddo li ha piombati tutti in una specie di torpore che invano cercano di vincere. L'acquavite che bevono già è gelata formando un blocco color del topazio, la carne e il pane che mangiano più non si spezzano che a colpi di accetta, poichè hanno acquistato la durezza del ferro; la legna che bruciano è diventata così resistente dal non potersi quasi rompere, le ferramenta, le armi, gli attrezzi di metallo di cui si servono sono diventati, per l'eccessivo freddo, così roventi che posandovi sopra la mano nuda la pelle vi rimane aderente e la carne riporta dolorosissime bruciature; i bicchieri sono diventati pure tali, e a segno che per servirsene bisogna vuotare il liquido in gola onde le labbra non li tocchino; persino le pipe non funzionavano più, poichè a poco a poco la bocca di chi le fuma si riempie di ghiaccio; persino l'aria che respirano cagiona dolorose sensazioni alla gola e ai polmoni e, strano fenomeno, l'alito si trasforma in piccoli aghi di ghiaccio che cadendo ricordano il rumore che produce un pezzo di velluto che si laceri! Ma è giunto Natale. Dopo una notte burrascosa il gelido vento del nord ha cessato di soffiare e il nebbione si è alzato lasciando liberi i campi di ghiaccio. Una luce biancastra prodotta dall'"ice-blink" e dal luccichio degli astri che ormai sono visibili anche a mezzodì essendo il sole scomparso per parecchi mesi, si è diffusa ovunque e permette di vedere ad una non piccola distanza. Per di più il termometro da 40o sotto lo zero è disceso con un brusco salto a soli 14o. L'equipaggio, strappato al suo torpore da quel raddolcimento di temperatura, si è scosso e ha cominciato a lasciare la camera comune ove la stufa divora continuamente carbone e legna e interi barili di grasso e d'olio di balena. Il tenente ha ripreso il suo buon umore e fa tuonare ovunque la sua voce. - Animo, scuotetevi, poltroni; svegliatevi, dormiglioni. Natale ci porta una buona giornata e vi prometto di farvi passare la malinconia con un lauto banchetto. Non è vero, capitano? - Sì, sì! - risponde Weimar, che ha ripreso la sua fiducia. - Solennizzeremo il Natale con un banchetto. - E pianteremo anche l'albero. - Con dei regali per tutti. - Sì, con dei regali. In breve tempo la camera comune è diventata vuota. Tutti sono saliti in coperta per vedere come stanno le cose al di fuori, sperando forse che quel cambiamento di tempo abbia portato anche una variazione alla situazione pericolosa in cui si trova il "Danebrog". Il campo di ghiaccio, durante quegli interminabili giorni di intensissimo freddo, ha subito delle modificazioni, ma non in meglio per i disgraziati prigionieri. La sua estensione, già prima considerevolissima, si è reduplicata per il continuo avanzarsi dei ghiacci trascinati dalla corrente polare verso la costa americana. Fin dove giunge lo sguardo non si vedono altro che altissimi "iceberg" di tutte le forme possibili ed immaginabili: alcuni ritti, tutti d'un pezzo e terminanti in una punta aguzza che scintilla stranamente fra quella semi-oscurità; altri pericolosamente inclinati e che parevano lì lì per piombare sul campo di ghiaccio, qua e là fessi o traforati come se vi fosse penetrato un immenso cuneo; poi più oltre strane cupole, alcune intere ed altre in parte diroccate dalla potente pressione dei ghiacci, e poi svelte colonne mantenentisi ritte per un prodigio di equilibrio; coni strani e piramidi elevate quanto quelle d'Egitto e poi archi, e finalmente massi enormi accatastati confusamente che parevano le rovine di grandiosi edifici diroccati da un tremendo cataclisma. Del mare nessuna traccia. Forse al di là di quella grande barriera di ghiacci ancora si frangeva sollevato dagli ultimi uragani, ma la distanza era tale che sarebbe stata una vera follia il volersi spingere fino laggiù attraverso a tutte quelle pericolanti guglie. - Siamo proprio accerchiati, e come! - esclamò il tenente. - Ci vorrebbero cento tonnellate di dinamite per aprirci una via. - Fortunatamente la nave resiste sempre! - disse il capitano. - Infatti non mi sembra che abbia sofferto; non ha fatto altro che sollevarsi un pò. - Speriamo che continui, se i ghiacci tornano a restringersi attorno a noi. - E i nostri magazzini avranno sofferto? - interrogò Koninson, guardando a babordo. - Non mi sembra - disse il capitano. - La neve li ha coperti ma non vedo alcuna fessura attorno ad essi. Domani, se il tempo ci permetterà, li visiteremo. - Sì, domani! - affermò il tenente. - Oggi non ci occuperemo che di festeggiare Natale. - E voi vi incaricherete del pranzo, signor Hostrup. - Grazie, capitano, cercherò di farmi onore. Ohè, ragazzi, mandate al diavolo i ghiacci e occupatevi di allestire in coperta una tavola che possa servire a tutti. - Mi metterò io alla loro testa! - disse il fiociniere. - Ehi, mastro Widdeak, al lavoro! I marinai, che altro non desideravano se non di dimenticare i loro lunghi patimenti, non si fecero pregare dai loro capi e tutti di buona voglia si misero alacremente al lavoro, mentre il tenente assumeva l'alta direzione della cucina. Alle 4 pomeridiane il ponte del "Danebrog" offriva uno spettacolo senza dubbio mai più visto in quell'alta latitudine. Koninson e Widdeak, aiutati dai marinai, avevano preparato una lunga tavola che si piegava sotto il peso dei tondi e delle bottiglie di rhum, che il degno tenente conservava da anni per qualche grande occasione. Tutto all'intorno, bandiere di segnali e bandiere di parecchie nazioni s'intrecciavano artisticamente, mentre verso poppa un piccolo pennone, che voleva essere l'albero di Natale, adorno di variopinte fasce, reggeva a grande stento bottiglie, pipe, pacchi di tabacco, coltelli e focaccie. - A tavola! - s'udì tuonare sotto coperta l'allegra voce del tenente. Il capitano, i fiocinieri, i timonieri, i gabbieri, che non aspettavano che quel segnale, si assisero ai loro posti e poco dopo appariva il tenente seguito da alcuni marinai che portavano fumanti pentoloni e casseruole da cui uscivano appetitosi profumi. - Evviva al sig. Hostrup! - urlò l'equipaggio. - Ragazzi miei, lasciate gli evviva in fondo alle vostre gole, - disse il tenente - e invece preparate i vostri denti e il vostro stomaco. I marinai, ai quali era tornato l'appetito, fecero grandissimo onore al pasto e soprattutto alle bottiglie che sparivano rapidamente. Una pazza allegria regnava fra tutti quei lupi di mare che in quel momento dimenticavano di trovarsi imprigionati quasi all'estremità del mondo abitabile e forse alla vigilia di qualche spaventevole catastrofe. Verso le 9 di sera, il tenente, che sembrava il più allegro di tutti, diede la stura alle sue due famose bottiglie ed empiendo fino all'orlo il suo bicchiere si alzò. - Capitano, un brindisi - gridò. - A chi? - domandarono i marinai. - Al nostro valoroso "Danebrog"! Amici, capitano, evviva al "Danebrog"! Il tenente vuotò tutto d'uno colpo la sua tazza, ma nè il capitano, nè i marinai lo imitarono. Si erano tutti, come un solo uomo, alzati guardandosi in viso con una viva ansietà e più di uno era impallidito. - Cosa succede? - chiese il tenente che nulla aveva avvertito. - La nave si è mossa! - disse il capitano, che curvo verso il tribordo, pareva ascoltare i rumori esterni. - Ed io ho udito un sordo boato - aggiunse Koninson. - Forse le pressioni? - chiesero i marinai. Uno scricchiolìo forte, seguito da una scossa che fece oscillare il liquido contenuto nei bicchieri e le lampade sospese al tetto della sala, li rese avvertiti che qualcosa di straordinario accadeva sul grande campo di ghiaccio. - Sono le pressioni! - esclamò il tenente vibrando un formidabile pugno sulla tavola. - E proprio oggi vengono a disturbarci, sul più bello del banchetto. Al diavolo i ghiacci! - Zitti tutti! - comandò il capitano. - Udite! Udite! Ognuno prestò orecchio. In lontananza si udivano strani muggiti che pareva provenissero da un immenso esercito di buoi, e sordi boati che parevano prodotti da esplosioni sotterranee. D'un tratto la nave si alzò bruscamente verso poppa e si udirono i corbetti gemere come se fossero stati potentemente stretti da un'immane tenaglia. - Fuori, fuori tutti! - disse il capitano. I marinai si slanciarono confusamente all'aperto senza badare al freddo che era bruscamente aumentato d'una buona diecina di gradi e si curvarono sulla murata di poppa spingendo ansiosamente i loro sguardi sul campo di ghiaccio. Nulla pareva che fosse accaduto attorno alla nave. Gli "iceberg", le piramidi, i coni e gli obelischi, occupavano le stesse posizioni e conservavano le loro inclinazioni; però al di là di quell'accatastamento di ghiacci si udivano delle sorde esplosioni e degli strani muggiti accompagnati da lunghi scricchiolii i quali, attraversando il campo, venivano a morire sotto la chiglia della nave che subiva delle forti vibrazioni. Senza dubbio all'estremità del banco succedeva una battaglia tremenda fra i ghiacci che la corrente polare trascinava verso sud e che cercavano di aprirsi la via furiosamente sospinti dagli "iceberg" che venivano dietro di loro. - Corriamo qualche pericolo? - chiesero i marinai al capitano la cui fronte si era rabbuiata. - Chi può dirlo? - rispose Weimar. - Temo però che passeremo una brutta notte. - Cosa dobbiamo fare? - chiese Koninson. - Nulla per ora; ognuno però porti il proprio sacco in coperta. - Perchè mai? - chiesero alcuni. - Perchè potrebbe darsi che la nave ... . Non finì. Un'esplosione formidabile che poteva paragonarsi allo scoppio simultaneo di mille pezzi d'artiglieria era avvenuta al di là della linea dei ghiacci, e il banco, malgrado la sua immensa estensione e il suo enorme spessore, erasi spaccato a metà lanciando in aria giganteschi spruzzi d'acqua ed ingoiando alcuni "icebergs". L'equipaggio, atterrito, diede indietro mandando un grido di terrore, - Presto, presto, - gridò il capitano - portate i vostri sacchi in coperta e tenetevi pronti a guadagnare i magazzini e le scialuppe. I marinai si precipitarono nella sala comune, raccolsero alla oscillante luce delle lampade i loro effetti e le loro armi e riguadagnarono la coperta. Una scena spaventevole accadeva allora sul campo di ghiaccio. Fra mille detonazioni, fra mille muggiti, fra mille fischi e mille crepitii, "icebergs", "hummocks", piramidi, cupole, coni e colonne s'inclinavano, si rialzavano, si cozzavano e si frantumavano lanciando ovunque i loro pezzi. Il campo, scosso in tutti i sensi, stretto da ogni parte dalla potente pressione dei ghiacci alla quale nessun corpo resiste, si sollevava or qua e or là fendendosi e vomitando l'acqua del mare. Si sarebbe detto che quella massa enorme, poco prima solida tanto da sostenere una intera città, si fosse tutta d'un tratto convertita in una massa d'acqua agitata da un furioso uragano. La nave, ora rialzata a poppa ed ora rialzata a prua, oscillava spaventosamente, come si fosse trovata in piena tempesta. I suoi fianchi scricchiolavano e minacciavano di cedere, i puntelli s'incurvavano, il ponte si piegava, la chiglia si spezzava urtata e stretta dall'avanzarsi dei ghiacci. L'equipaggio, spaventato, coll'angoscia al cuore, impotente a far fronte a quel nuovo genere di assalto, che nessuna forza umana poteva respingere, si teneva aggruppato a poppa, mentre i suoi capi, che anche in quel terribile frangente si studiavano di apparire calmi, curvi sulle murate seguivano ansiosamente l'alzarsi e lo spezzarsi dei ghiacci sotto i fianchi del legno. Per una mezz'ora, che parve lunga quanto mezzo secolo, il campo fu in piena confusione, poi successe una breve calma interrotta solo dai muggiti che acquistavano maggiore intensità; quindi, quando l'equipaggio cominciava già a sperare, si udì un altro spaventevole rombo seguito da mille scricchiolii, dal rovinare di "icebergs" e di "hummocks" e da una nuova e più formidabile convulsione del campo che parve si piegasse sotto il poderoso sforzo che veniva esercitato sui suoi confini. Il "Danebrog", che a poco a poco aveva ripresa la sua primiera posizione, si risollevò a poppa, indi cadde pesantemente nel suo cavo la cui crosta, sotto l'urto, s'infranse. S'udì tosto un crepitìo di legnami infranti e pochi istanti dopo, in mezzo al crollare dei ghiacci, ai rombi, ai muggiti e ai fischi, una voce gridare: - Si salvi chi può! I ghiacci hanno sfondato il "Danebrog"! Nell'udire quelle grida che annunciavano l'irreparabile perdita della valorosa nave, fiocinieri, timonieri e gabbieri, perduta completamente la testa, si gettarono confusamente verso le murate onde guadagnare i magazzini sotto i quali stavano le scialuppe. Il capitano e il tenente fortunatamente non avevano perduto il loro sangue freddo. Prevedendo a quale pericolo si esponevano i loro compagni su quel banco ancora in piena convulsione, che qua e là si apriva minacciando d'ingoiare chi si fosse arrischiato di attraversarlo, si slanciarono verso le murate gridando: - Indietro, fermi tutti! Il banco si apre! Infatti, a tribordo della nave, dal lato dei magazzini, proprio nel momento in cui i marinai stavano per slanciarsi giù, si era aperta una larga fenditura in fondo alla quale si vedeva spumeggiare furiosamente il mare. - Indietro - ripetè il capitano, respingendo violentemente i più vicini. - Volete farvi stritolare dai ghiacci? - Ma la nave affonda! - disse un gabbiere. - Non ancora! - gridò il tenente. - Tutti a poppa! Mastro Widdeak e Koninson spinsero i loro camerati verso poppa. - Signor Hostrup, - gridò il capitano, cercando di dominare colla voce lo sfracellarsi dei ghiacci - scendete nella stiva. Forse, coll'aiuto di Dio, potremo resistere fino a domani. Il tenente sparve nel ventre del legno seguito dall'inseparabile Koninson e poco dopo riappariva sul ponte. - Ebbene? - chiesero i marinai correndo verso di lui. - È finita per il "Danebrog"? - Non ancora! - rispose egli. - Non affondiamo? - No, almeno per ora. - Cos'è che ha ceduto? - chiese il capitano. - I fianchi del nostro povero legno sono stati sfondati dai ghiacci che ora si riuniscono attraverso la stiva. Il capitano lanciò un'imprecazione, ma riacquistando tosto la sua calma disse, volgendosi verso l'equipaggio che lo circondava. - Non scoraggiamoci, amici. La costa americana non è lontana e noi sapremo guadagnarla a dispetto dei ghiacci. Che ognuno rechi in coperta più viveri e più coperte che può, e si tenga pronto a lasciare la nave. Tenente, credete che potremo resistere sino a domani? - Si, se i ghiacci non cedono sotto il peso della nave. - L'acqua entra? - L'ho udita precipitare nella sentina. - Speriamo in Dio. Ditemi, tenente, vi sentireste capace di guadagnare i magazzini? - Lo tenterò, capitano, se è necessario. - È indispensabile, tenente. Là abbiamo le nostre scialuppe, le quali possono venire ingoiate da un momento all'altro. - Allora andrò ai magazzini, dovessi perdere ambo le gambe. Tu, Koninson, mi accompagnerai, se non hai paura. - Sono ai vostri ordini, sig. Hostrup! - rispose il coraggioso fiociniere. - Ma vi faccio osservare che fra la nave e i magazzini si è aperta una larga fenditura. - La attraverseremo, Koninson. - Affrettatevi dunque, signor Hostrup! - disse il capitano. - Un ritardo di pochi minuti potrebbe esserci fatale. - Vieni, Koninson - disse il tenente. Si diresse verso l'albero di maestra armato di una scure e con ma vigorosi colpi staccò la boma che poi, aiutato dal fiociniere, gettò sul campo di ghiaccio. - Ci servirà per passare il crepaccio! - disse al capitano che lo guardava senza comprendere. - Arrivederci ai magazzini, signor Weimar. - Dio vi guardi, signor Hostrup! - rispose il capitano con voce commossa. Poi gli si slanciò contro e gli strinse energicamente la destra. - Non so, - disse con un tono di voce in cui risuonava un triste accento - io mi sento in questo momento profondamente commosso. Che vi succeda qualche disgrazia? - Non lo credo - rispose il tenente sforzandosi, ma senza riuscirvi, di sorridere. - Addio, capitano, addio! Anche lui, senza sapere il perchè, era profondamente commosso. - Si direbbe che una disgrazia mi minaccia - mormorò, guardando con inquietudine i ghiacci che continuavano a oscillare e a rovesciarsi fra mille fragori. Si gettò ad armacollo il fucile, raccolse il sacco contenente le sue vesti e scavalcata la murata discese sul banco dove già lo attendeva Koninson, completamente equipaggiato. - Affrettiamoci tenente! - disse il fiociniere. - Qui corriamo il pericolo di essere ingoiati. Sento che il ghiaccio si spezza attorno alla nave. Si caricarono della boma e, camminando con precauzione e guardandosi ben bene d'attorno, si diressero verso la fenditura che non distava più di venti metri. Il gran banco sotto i loro piedi vibrava fortemente e si alzava e si abbassava come se sotto di esso il mare fosse diventato tempestoso. Di quando in quando dei lunghi segni bianchi, che annunciavano prossime spaccature, correvano da una estremità all'altra del banco con sinistri crepitii seguiti da sordi boati e tutto d'un tratto s'innalzavano delle colonne di ghiaccio in cerchi concentrici che tosto strapiombavano con indescrivibile fracasso. Dopo aver corso dieci volte il pericolo di venire sfracellati o ingoiati, i due intrepidi balenieri giunsero sull'orlo della frana attraverso alla quale gettarono l'albero. Il tenente vi si avventurò sopra, tenendosi solidamente aggrappato e raggiunse in breve l'opposta riva. Il fiociniere lo seguì e ben presto si trovarono dinanzi ai magazzini che erano coperti da un ammasso di neve indurita. - Mi sembra che non abbiano sofferto - disse il tenente dopo una rapida occhiata. - È vero - confermò il fiociniere. - Mano alla scure e non perdiamo tempo, amico Koninson. Sento dei fremiti correre sotto il ghiaccio, e ciò indica che può aprirsi un abisso sotto i nostri piedi. Dotati entrambi di una forza poco comune, in breve aprirono nella massa nevosa una specie di galleria, entro la quale arditamente si cacciarono finchè giunsero alla parete del magazzino che con due o tre colpi di scure sfondarono. - Le scialuppe? - chiese il fiociniere al tenente che lo aveva preceduto. - Eccole lì! - rispose l'interpellato, che si era cacciato in mezzo alle casse e ai barili che ingombravano il magazzino. - Saremo capaci di spingerle fuori? - Lo spero, Koninson, poichè poggiano sopra i curli. In quell'istante udirono sotto i piedi crepitare fortemente il ghiaccio e al di fuori raddoppiare le urla e le detonazioni. Alcune grida umane, che partivano senza dubbio dal "Danebrog", giunsero pure ai loro orecchi. - Presto, presto, Koninson! - gridò il tenente. - Forse la nave sta per affondare. - Eccomi, signore! - rispose il fiociniere, che era diventato pallido, pensando al grave pericolo che correvano il capitano Weimar e tutti gli altri. Afferrarono i bordi della grande baleniera e si misero a spingerla con disperata energia, mentre le detonazioni si succedevano con spaventevole frequenza facendo oscillare le pareti del magazzino. Dapprima non riuscirono a muoverla essendosi i curli saldati al ghiaccio, ma poi, dopo alcune vigorose scosse, la spinsero attraverso il magazzino cercando di dirigerla all'imboccatura della galleria. Il tenente, in preda ad una forte inquietudine che non riusciva a vincere, faceva sforzi sovrumani ed eccitava il suo compagno che non ne aveva proprio bisogno, poichè anche lui spingeva con una specie di rabbia, invaso da una vaga paura che ad ogni istante cresceva. Avevano già spinto la grande baleniera nella galleria, quando in mezzo all'orribile baccano prodotto dai ghiacci che le pressioni spaccavano e rovesciavano, s'udirono delle urla disperate venire dal luogo ove si trovava la nave. - Koninson! - esclamò il tenente con voce soffocata dall'emozione. - Tenente! - rispose il fiociniere che era diventato pallido come un cadavere. - Aiuto! Si salvi chi può! - s'udì urlare al di fuori. Il tenente e il fiociniere, atterriti, cogli occhi stravolti, si precipitarono fuori della galleria le cui pareti cadevano a larghi pezzi. Un grido sfuggì dai loro petti. Il "Danebrog", schiacciato dalle pressioni, andava rapidamente a picco. Già la sua prua era scomparsa e l'acqua del mare, alzatasi sopra il banco, saliva spumeggiando l'inclinato ponte del vascello, strappando tutto ciò che incontrava sul suo passaggio. I marinai, pazzi di terrore, dopo essersi rifugiati a poppa stavano saltando sul campo di ghiaccio dirigendosi a tutte gambe verso il crepaccio. - Capitano! Capitano! - gridò il tenente. - Accorriamo! Accorriamo! - esclamò Koninson, Stavano per slanciarsi verso il crepaccio, quando una scossa formidabile seguita da uno scoppio inaudito, paragonabile solo all'esplosione di una immensa polveriera, fece traballare il gran campo di ghiaccio che dapprima si curvò in alto e che poi si spaccò aprendo qua e là dei profondi baratri dai quali irruppe furioso il mare. Il tenente e il fiociniere, violentemente scossi, stramazzarono in mezzo alla neve. Quando si alzarono, il "Danebrog" e il suo valoroso equipaggio erano scomparsi! Il banco di ghiaccio, prima apertosi e poi richiusosi, li aveva per sempre inghiottiti!

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