Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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ARABELLA

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De Marchi, Emilio 5 occorrenze

Ogni giorno si faceva un onore e quasi un dovere di dividere cogli sposi il pranzo e un pezzetto di luna di miele: e fu atto d'uomo savio e avveduto per non lasciare Lorenzo abbandonato nei primi tempi alla forza delle abitudini. Dove il figliuolo per ignoranza o per materialità mancava di spirito e di delicatezza, suppliva il babbo con una continua e gelosa vigilanza, usando tutti i riguardi perché la sposina, mezza monaca e mezza bimba, non avesse a soffrire di nulla, si abituasse a capire, a compatire, a contentarsi del meno male, in attesa del bene e dell'ottimo. Lorenzo aveva veramente bisogno di grande compatimento. Cresciuto a caso, nella compagnia di giovani allegri, con un ingegno limitato, chiuso a tutte le sensazioni astratte e filosofiche, portava in casa insieme al puzzo del sigaro e del cognac le mosse del dilettante di cavalli, e le espressioni energiche, che rinforzano all'osteria le cattive partite di scopa. Eran vizi e modi esteriori, che lasciavan vedere, per dir così, come attraverso gli strappi di una camicia, una carnagione sana, un fondo non pervertito, un vecchio ragazzo male avvezzato, non privo di buone intenzioni e di sentimento, un bel matto allegro, se anche si vuole, che nella sua pecorile ignoranza spingeva l'ingenuità fino a lasciarsi corbellare credendo di corbellare. Capitato in mezzo a una compagnia di capi scarichi, tra cui Max Baratti e il marchesino di Brienne, fondatori del famoso Piccione club , si lasciò facilmente ubbriacare dalle adulazioni con cui quei bravi signori avariati nel credito cercarono d'interessarlo in una società per le corse di Senago, che non fece correre che cambiali. Lorenzo pagò per sé e per gli altri, fin che piacque a papà Tognino di pagare; poi ricorse al giuoco e al fido di suo zio Borrola; e infine si trovò immerso fino ai capelli nei debiti. Arabella gli ottenne il saldo: ma quantunque avesse rinunciato ai cavalli, alle donne e agli amici, peggiori delle donne e dei cavalli, il segretario del Piccione club non poteva di punto in bianco trasformarsi in un santo padre, per quanto Arabella e papà Tognino fossero egualmente interessati a salvare un'anima. Nelle prime settimane del suo matrimonio, quando si trovò nella piena balìa di quell'uomo giovane, robusto, impetuoso, Arabella provò la paura dell'agnellino caduto nelle zampe dell'orso. Man mano che imparava a conoscere suo marito e che scendeva a toccare la materialità di quella scorza vuota, un senso di compassione indefinita si mescolava ai suoi timori e fuggevolmente una voce del cuore domandava se essa avrebbe mai saputo compiere la santa opera di redenzione a cui Dio l'aveva chiamata. Nei momenti in cui era sicura di non esser vista, dal suo cuore umiliato e gonfio si sprigionavano delle lagrime, che ella sentiva affacciarsi alle palpebre non richieste, quasi non avvertite; ma poi un buon momento di Lorenzo (che non mancava di brio naturale) o le buone parole di suo suocero, che nutriva le stesse speranze, riconducevano giorni più sereni. Nelle sue fervide preghiere alla Madonna essa poté illudersi di amare suo marito, verso il quale slanciavasi qualche volta con impeti veramente generosi, che non trovavano che una sola corrispondenza... sempre quella, la più semplice, quella che l'avviliva di più. Ma verso la metà di novembre avvenne un caso che produsse nel suo cuore il miracolo. La luce dissipò il freddo e le tenebre, e la vita che prima conduceva a caso, a balzelloni, per un terreno rotto, seminato di sassi, si trovò aperta una bella strada maestra davanti. Il dottor Taruzzi assicurò che c'era un erede. Essa era madre! L'avvenimento produsse un vivo piacere anche a Lorenzo che da qualche tempo, dominato senza avvedersene dalla dolcezza di Arabella, sforzavasi di far l'uomo serio. Ma chi toccò il cielo col dito fu il nonnetto. Quel sentimento di paternità che l'aveva condotto alle Cascine a cercare una moglie per il figliuolo, provò una scossa elettrica alla notizia che sua nuora gli preparava un erede. I preti e gli avvocati non gli avevano ancora giocato dei tiri birboni, e gli affari da qualche tempo eran passati in seconda linea. Era per il vecchio affarista un momento di tregua, quasi di luna di miele, che preludiava serenamente ai giorni del suo riposo. A ragione gli amici del caffè Martini, dove passava verso sera a leggere i telegrammi di Borsa, vedendolo così alacre, così ringalluzzito e contento, gli domandavano se l'aveva presa lui la sposa. Quanto v'era in lui di meno vecchio, di meno logoro, di meno stanco e di meno ostinato, conveniva come a un banchetto a questa nuova festa della paternità, in cui insieme al sentimento naturale di famiglia, così vivo negli uomini sani, si confondevano, in un misterioso amplesso di indulgenza, il rispetto, la riverenza, la compassione, la tenerezza per le due tenere creature, che eran venute da poco tempo a popolare la sua casa. In attesa che una di queste si rivelasse, concentrava i suoi riguardi verso quella che ne aveva più bisogno. Siccome la gravidanza si presentava con qualche malinconia, come capita spesso alle creature un po' delicate, il nonno fu tutto occhi e tutto orecchi perché alla nuora non avesse a mancar nulla. Tolse in casa una cuoca, fece collocare una stufa americana in modo che nell'appartamento il caldo fosse diffuso uguale e mite in tutte le stanze; e al venire delle prime nebbie, quando Lorenzo usciva la sera a fumare una pipa (il vecchio non aveva mai fumato in vita sua), veniva a tener compagnia alla sposina, attizzava il fuoco sul caminetto; e mentre Arabella sedeva presso la lampada a lavorare all'uncinetto in una babbuccietta di lana rosa, il nonno dava un'occhiata al Corriere della Sera , si faceva contare i casi della giornata, contava egli i suoi, qualche volta pregava sua nuora di mettersi al piano... Una volta, prima dei quarant'anni, anche lui aveva frequentato la Scala con passione. Allora non era ancora inventata la musica difficile. Da orecchiante il suo Verdi lo gustava ancora. Arabella preferiva invece sonar della musica da collegio, del Mozart, del Beethoven, cosette graziose, in cui il vecchio abbonato della Scala sentiva un gusto nuovo, con in mezzo alle note quasi dei ragionamenti che lo facevano pensare. Stava a sentire in silenzio, poi andava a dormire col capo pieno di quella musica, che ragionava a lungo, con dolcezza, in mezzo ai sogni; e gli capitava di risvegliarsi di soprassalto, meravigliato egli stesso, come chi si desta a un tratto e vede la camera rischiarata dall'insolito chiarore di una festa che si celebra di fuori. Di interessi e di affari non parlava mai colla nuora. A che pro? gli affari son maschi e le donne son femmine. Arabella non sapeva nemmeno che ci fosse uno studio Maccagno nella casa: non ci avrebbe capito nulla lo stesso. Era contenta che il matrimonio avesse accomodate molte partite, ma sforzavasi a tenersi fuori dagli affari, anche per resistere alle insistenze della mamma, che faceva i conti sopra una figliuola maritata come sopra una miniera. In quanto al vecchio affarista sentiva istintivamente che una cosa sono gli affaracci della strada e un'altra cosa è l'affezione di famiglia: proponevasi di tener nettamente separate le due amministrazioni, se si può dire così, quella dei numeri e quella del cuore. Quando la cugina Ratta avesse chiusi gli occhi per sempre, era sua intenzione di realizzare il patrimonio, di dare un calcio a tutte le brighe che aveva in Milano, di semplificare la vita, di ritirarsi a sorvegliare i suoi fondi, e a fare il nonnetto di campagna, beato come un papa; e non immaginava che gli affari son come le donne brutte. Si attaccano di più quando temono d'essere abbandonate.

Durante la lunga malattia di sua moglie, Lorenzo, abbandonato a se stesso, precipitò nelle vecchie abitudini, da cui non era uscito se non come un soldato ubriaco, che fa degli sforzi enormi per star diritto innanzi al caporale. Ogni cosa intorno a lui parlava di un uomo incapace di un pensiero d'ordine e di un'elevata aspirazione. Arabella si arrestò un minuto a contemplare quel gran disordine con un senso di scoraggiamento. La vista di un vecchio mazzo di carte, abbandonato sul camino, richiamò ciò che più volte si era presentato al suo pensiero, vale a dire la possibilità che Lorenzo fosse tornato al vizio di prima. Il giuoco è una passione terribile, che non perdona, secondo essa aveva udito dire: e forse la sua bella fornitura di vecchio corallo era andata a pagare un nuovo debito... La mente correva ancora dietro a questi presentimenti quando, in un cassettino a destra, la mano, frugando, cadde sull'astuccio. Fu un attimo di gioia; un attimo. L'astuccio era vuoto. Vuoto! - Questa parola rimbombò nella testa per un istante e rese ottusi i suoi sensi. La prima idea fu di parlarne a suo suocero, che rappresentava il giudice della casa; ma un secondo riflesso fece presente quel che la gente diceva e scriveva anche di lui. Qual giudice? Essa era in mano ai ladri... Questa volgarità di parola scattò, quasi con dispetto, dal fondo amareggiato della sua coscienza, l'avvilì, come se per la prima volta sentisse e vedesse la volgarità della sua casa insudiciare la dignità di una donna onesta. Era una casa di ladri! Come pretendere che questi ladri restituissero la roba sua? che cosa scrivere allo zio Demetrio, che a riscattare quel tesoro di famiglia aveva consacrato tutti i risparmi di una vita sobria e solitaria? E un vagabondo gliel'aveva carpito, approfittando d'un istante di delirio o di debolezza, forse penetrando di notte, come un ladro volgare, nella sua camera... C'era ben motivo di piangere; ma con suo stupore gli occhi non davan lagrime: qualche cosa di forte e di ribelle vi si opponeva. Dai cassettini uscirono dei vecchi ritratti di donne. Eran le antiche simpatie di suo marito, il suo genere, come soleva esprimersi egli stesso, parlando delle avventure galanti degli amici. Eran forse le memorie non distrutte di un passato allegro, forse non dimenticato, forse rimpianto... chi sa? forse ricercato. Anche quelle care creature dalle gonnelle corte, dalle pose arrischiate avevano preso col tempo una forte tinta di tabacco. Le buttò via con schifo. Essa non poteva essere gelosa di questo passato, per quanto ripugni a una donna onesta di vedere attraverso a quali viottoli suo marito è arrivato fino a lei. C'era anche un libro in quel tritume di carta che rappresentava gli affari del signor agente di cambio, un logoro romanzo tradotto, dalla copertina gialla, che portava scritto in un angolo un nome di donna. E dal libro uscì un ritratto, lucido e fresco, che pareva fatto ieri. Era una donna non molto giovine ma di una bellezza maestosa e teatrale. Mentre la moglie onesta sforzavasi di trovare dei sensi logici nella torbida violenza da cui fu assalita, il suono di un passo, e uno sbattere di usci nella stanza vicina, la strappò repentinamente al suo dolore. Richiuse i cassetti, dopo avere deposto il libro, ma nascose l'astuccio e il ritratto nell'ampia manica della vestaglia. Si sforzò di alzarsi, ma non poté, come se a un tratto le venisse meno la forza nelle gambe. Coi gomiti appoggiati alla scrivania, strinse nelle mani la testa che mandava vampe di fuoco, mentre un brivido le corse per tutto il corpo, le parve che tornasse la febbre terribile dei primi giorni. Lasciò passare una lunga visione di mali, come un ingenuo che giunto alla riva di un gran fiume si ferma ad aspettare che l'acqua passi tutta, prima di tentare il guado. Quando la prima tempesta fu alquanto sedata, trovò che in fondo al suo cuore non c'era soltanto del dolore... Non avrebbe osato sperare di trovarci tanto orgoglio! Ed era un orgoglio amaro ed aspro, che dava un vigore insolito alla sua natura, come certe medicine ripugnanti al palato che rinforzano la fibra. Se non le fosse sembrato un assurdo, avrebbe osato dire che dal mezzo di questo suo dolore scaturiva una vena di acre piacere, o, se piacere è dir troppo, di soddisfazione selvaggia, qualche cosa insomma di ancora indecifrabile, che si sarebbe potuto paragonare al sentimento che prova una schiava affranta dalle verghe quando vede il furore del suo padrone scagliarsi su un altro corpo ignudo. Quando aveva essa amato codesto suo padrone, perché dovesse fargli l'onore d'essere gelosa? E perché avrebbe odiata a morte la donna che, frammettendosi, qualche poco glielo contrastava? Era sorpresa di sentirsi così calma e così ragionevole davanti al testimonio della sua umiliazione; ma capì ben presto che da quell'uomo non poteva venire a lei nessuna umiliazione, che quella donna poteva aver nome anche liberazione. L'enorme mare di ribrezzo, che l'anima e il corpo avevano assaporato a goccia a goccia in quattro mesi di matrimonio, soverchiava già i limiti della sua pazienza e del suo dovere. Qualcuno finalmente gettava una fune alla vittima vicina ad affogare. Prese con sé il ritratto di Olimpia come un documento, e pensò di chiedere alla zia Sidonia, già così disposta a compatirla, delle spiegazioni che la buona zia era smaniosa di dare colla speranza di avere nella nipotina una forte alleata nella gran guerra che i parenti e gli offesi facevano ai Maccagno. Per alcuni giorni non si mostrò diversa in casa; anzi cercò di essere lieta e disinvolta. Guardandosi nello specchio si trovò per la prima volta meno pallida. Anche la voce, se doveva giudicare da ciò che ne sentiva, aveva acquistato un tono più vibrato e sicuro. Qualche cosa di forte e d'individuale nasceva in lei. Forse la monachella di Cremenno aveva finito di patire... Dio, la ragione, la giustizia, l'opinione pubblica erano con lei e per lei. Ecco perché, quando l'Augusta venne ad annunciare in ora così insolita che Ferruccio desiderava parlarle, corse in sala, col passo ardito di chi si muove al primo segnale della battaglia.

La zia Colomba nel suo dormire fitto e pesante aveva dimenticata interamente la povera creatura che era venuta a cercare ospitalità in casa sua e fu per trasalire di paura, quando vide un corpo mezzo abbandonato sul tavolino nella luce crepuscolare. Si accostò, posò la mano sulla testina fredda, e presa da quell'impeto di carità umana, che nel cuore della povera gente non è ancora guasto dalle definizioni, si abbassò su quel corpo irrigidito, strinse la testina nelle mani, vi accostò il viso per riscaldarla e seguendo i suggerimenti della buona madre natura, prese a dire sommessamente: "O la mia povera figliuola, o il mio caro angelo, che ho abbandonato qui solo a patire. O il mio povero faccino freddo, le mie povere manine... Il sonno ha tradito anche me..." A questa voce che la compassionava, come se in lei si spezzasse un edificio di ghiaccio che l'aveva sorretta nella sua rigida lotta contro gli uomini, nella debolezza in cui è sempre la coscienza mescolata alle ombre dei sogni, Arabella fu presa da un tal delirio di pianto, che una bambina schiacciata dalle ruote di un carro non avrebbe potuto gridare di più. Quel gran mucchio di mali, che da otto mesi era andato accumulandosi a fuscellini, divampava in una fiammata. Oh avete un bel dire che la donna è nata pel sacrificio, che può colla grazia e colla sua forza morale vincere e abbellire la tristezza d'ogni destino, assurgere al disopra del fango che la circonda, compiere anche in mezzo alle abbiezioni la sua missione d'amore e di pazienza! Avete un bel dire che a lei la fede è sostegno incrollabile: non è vero. La donna ha bisogno d'amare e d'essere amata, come il fiore ha bisogno d'aria e di luce. Quando la violenza delle cose, la debolezza dei giusti, la tirannia dei tristi costringono una debole creatura a respirare aria corrotta, e voi non date a una povera donna che amarezze, oltraggi e fango, null'altro che fango, lasciate almeno che essa gridi del male che le fate... Coi pugni dentro i capelli scarmigliati dalla veglia, Arabella Pianelli gridava veramente in un pianto lamentoso senza lagrime, dilaniata dalla coscienza del suo stato, avvilita dopo una notte di falsa e morbosa resistenza, assiderata dal freddo della febbre e della notte. "Non così, non così la mia creatura...." prese a dirle all'orecchio la Colomba, serrandola alla vita colle braccia e posando la sua testa grigia sui capelli morbidi e biondi della tribolata. "Non così, per amor di Dio. Ciò può far male anche a questo figliuolo malato. Crede che non ci sia un Signore anche per noi? Io capisco e compatisco, angeli custodi, ma non bisogna mai disperare della Provvidenza. Questo è un piangere che rompe il cuore e del nostro cuore dobbiamo rendere conto come di un vasetto d'oro che Dio ci ha dato in custodia. Ti hanno maltrattata, il mio angelo; ti hanno venduto, avvilito, insultato nel tuo sentimento di sposa e di madre, e so che certi mali fan perdere la testa. Tu non hai meritato questi castighi, è vero; ma sappiamo noi se non soffriamo per il bene di qualcuno? Nostro Signore aveva meritata la sua passione? E tante povere mamme che non han da dare da mangiare ai loro figliuoli, meritano di soffrir tanto? Noi non sappiamo nulla dei misteri del mondo, cara Arabella; ma dobbiamo tener dacconto il nostro cuore, perché gli è come il tabernacolo del Santissimo. Se non ci vorranno bene gli uomini, ci vorranno bene gli angeli, ma noi dobbiamo aver sempre pronto il cuore a ricevere il bene che ci vorranno dare o presto o tardi. Su dunque, alza la testa, mio caro angiolo, e vieni fuori con me, un momento. C'è qui la chiesa vicina: noi abbiamo bisogno di essere aiutate a patire..." La Colomba ricondusse la figliuola di nuovo nell'altra stanza. Le ravviò un poco le vesti; fece un po' di fuoco ancora e versò quel resto di caffè che era rimasto in fondo al bricco. La persuase a non mandare per ora la lettera allo zio Demetrio e a cercar invece di quella sua amica di collegio, l'Arundelli, a cui poteva confidare il suo segreto. Meglio di tutto poi sarebbe stato di andare alle Cascine in cerca della mamma. La mamma è il miglior dottore per certi mali...

Arabella mormorò qualche parolina dolente e mosse leggermente la mano sul libro aperto abbandonato sul letto. Il vecchio si scosse da' suoi pensieri, come se quelle voci rispondessero in qualche modo a ragionamenti che egli faceva dentro di sé e sentì che, se gli bastava il cuore di sfidare mezzo mondo, pure di fronte a sua nuora avrebbe avuto tutte le paure. E come se istintivamente si mettesse sulle difese, socchiuse un poco una imposta e si tirò meglio nell'angolo oscuro. La stanza s'immerse ancor di più nella penombra, il fascio di luce che entrava dalla finestra socchiusa andava a stento fino a rischiarare il guanciale e una parte del letto, dove Arabella, di sogno in sogno, di imagine in imagine, percorreva la storia della sua vita. Nei sogni le impressioni tornano spesso sfigurate, sconnesse, più grandi o più piccole della verità; ma non perdono mai il significato che le fa nascere. Avviene non di rado che nell'ingrandimento grottesco ed esagerato o nella riduzione che sopportano, si manifesti a chi sogna, analizzato o riassunto, il significato che inutilmente aveva cercato ad occhi aperti. Il senso è più libero a percepire ciò che la ragione o non osa o non sa, o non vuole intendere: e dai sogni qualche volta s'intende la vita come dal commento il poema. Arabella, ritornando sulle sue memorie, ritornava a soffrire e a godere più vivamente d'impressioni non bene afferrate la prima volta, come se in sogno germogliassero i piccoli semi caduti nei luoghi più oscuri dello spirito. Di cosa in cosa le parve di tornare ai primi giorni del suo matrimonio e precisamente al suo primo entrare nella casa nuova. Suo suocero aveva fatto degli inviti. La casa era come quella sera piena di gente nuova e sconosciuta che la salutavano, si congratulavano, la soffocavano di parole e di baci non chiesti e non desiderati. Una specie di nausea dallo stomaco saliva al capo, effetto forse d'un forte vin "brulé", che alcuni servitori in guanti bianchi portavano intorno sui vassoi. Parevale che tutta quella gente fosse lì per saziarsi in qualche maniera di lei, coi baci, cogli occhi, coi commenti, come fanno i bimbi, che trovato un pezzo di zucchero in un cantuccio, se lo succiano un po' per uno. La zia Sidonia, in un vestito di raso rosso color brace, scollata in una foggia indecente, se la stringeva sul seno morbido e caldo, chiamandola il suo bell'angiolino, mentre lo zio Mauro, seduto al pianoforte, tempestava sopra una canzonetta veneziana di sua invenzione, che faceva ridere tutte le bocche. Sì, ridevano tutte quelle faccie sconosciute di parenti, di mezzi parenti, di agenti di cambio, di amici di suo marito, di cui sentiva ripetere i nomi senza afferrarli in mezzo al frastuono. Solamente papà Paolino colla schiena appoggiata allo stipite dell'uscio guardava in su per non farsi vedere a piangere. C'era la mamma, la più bella donna in mezzo a molte signore brutte, magre, dal tipo volgare, che ripetevano il colore terreo e le mandibole pronunciate della famiglia, che seguitavano a guardarla come se dicessero in cuor loro: "Povera diavola, dove sei capitata!" E stava in mezzo alla folla coll'animo addolorato, quando vide entrare con un passo lesto senza suono, in abito nero anche lui, rigido e smorto come tutti i morti che camminano, il suo povero papà. Come fosse vivo, come venisse alla festa, che cosa le dicesse sottovoce non riusciva a capire. La rimproverava d'essere venuta meno al suo voto? era malcontento anche lui di vederla in questa casa? L'immagine dell'infelice rimasta impressa negli anni in cui la memoria è più viva, mantenuta viva e presente per tutti gli anni successivi da un generoso desiderio di riparazione morale, era troppo famigliare ai pensieri della figliuola perché essa si sgomentasse di rivederla in mezzo a gente viva; anzi se lo strinse sul cuore, forte, teneramente, e cominciò a parlargli con calore per dimostrargli che tutto era proceduto secondo la volontà di Dio, che l'aveva fatto per amore e per compassione della sua mamma; e nell'abbracciarlo sentiva una così profonda compassione, che cominciò a singhiozzare davvero... Il vecchio Maccagno, a sentire la malata singhiozzare, uscì dal buio e dalla tempesta de' suoi pensieri, si accostò al letto. Arabella, agitata da un piccolo fremito, corrugava la fronte collo sforzo di chi mira a liberarsi da una dolorosa oppressione. Egli allora, quasi per liberarla dall'incubo, le prese dolcemente la mano e se la tirò a sé, dolcemente, chinandosi sopra di lei per dimandarle che cosa si sentisse: e in quella Arabella aprì gli occhi pieni di lagrime, li fissò, come chi stenta a orientarsi, in faccia al suo premuroso infermiere. Lo sforzo che essa fece di sorridere al di sotto del velo di lagrime che le copriva gli occhi e l'abbandono inerte della sua persona non abbastanza ridesta suscitarono nel vecchio uomo una violenza di affetti, di tenerezza, di sgomento e di selvaggi rancori, una tremenda paura di sé, una così oscura oppressione, che per un istante non vide innanzi a sé che un gran bianco, un gran bianco... "Perché piange?" "Non so, un brutto sogno." "Non si sente mica più male?" "Non mi pare." "Devo aprire le imposte?" "Sì: ho dormito un pezzo?" "Forse un'ora." "Lorenzo, dov'è?" "È stato qui: ha visto che dormiva..." "Povero papà!" uscì a dire Arabella, non ancora ben uscita dalla sua dolorosa visione, continuando, per un meccanismo nervoso, il discorso accalorato, che stava facendo in sogno al suo papà morto. Il suocero attribuì a sé la tenera espressione di un nome così affettuoso, che egli non aveva mai osato chiedere per sé e che sua nuora non era mai stata animata a concedere. Colto in un momento di debolezza, s'intenerì ancor di più, e mettendosi con moti frequenti a carezzare i capelli della malata, si abbandonò anche lui, per la prima volta, a darle del tu: "Guarisci, guarisci presto, e andremo in campagna. Vedrai che bel sito! Non sei mai stata in Tremezzina? In primavera è il paese delle rose. Rose dappertutto... Anch'io ho bisogno d'andar fuori dei piedi della gente, sono un poco stanco e malato anch'io e non vedo l'ora di collocarmi in campagna a coltivare le rape e le verze..." E cercò di ridere per combattere la molle malinconia che l'assaliva da tutte le parti. Questa malinconia montava come un'acqua che scaturisce improvvisamente da una vena sconosciuta al rompersi di una roccia. Da dove derivano queste acque fredde e limpide che il passeggero incontra sulla sua strada polverosa in mezzo a un paese brullo, riarso dal sole? La natura ha i suoi misteriosi serbatoi che mandano rigagnoli ai più lontani strati e non di rado spiccia l'acqua pura anche al disotto del fango. Sentendo che insieme all'onda refrigerante saliva qualche cosa di amaro, messo in paura o in sospetto d'una mestizia che lo conduceva a cantare delle arie di gioventù col falsetto del vecchio, spaventato all'idea che egli potesse dire una sciocchezza od una meschinità, accomodò con una certa furia distratta le pieghe del letto e soggiunse, mutando tono: "Ho trovato un vin vecchio sincero che le farà bene: lei ne deve bere un bicchierino. Il dottore raccomanda il vin vecchio. Lo assaggi. Questo è sangue." Versò il vino nel calice e si accostò di nuovo, tenendo il bicchiere colle due mani, per resistere a un tremito convulso che faceva vibrare tutto il corpo. Arabella si sollevò un poco, colla sinistra mandò indietro i capelli folti che scendevano scomposti, e coll'altra mano aggradì il calice, in cui brillava un vino secco color dell'ambra. "Beva, questo è sangue..." ripeté il suocero con un tono monotono d'uomo distratto, socchiudendo gli occhi.

Gli sembrò d'essere abbandonato da tutti, e che il tuono, il lampo, la pioggia congiurassero con tutti gli uomini per fargli la guerra. Riprendendo il filo delle supposizioni, provò di nuovo a immaginare che Arabella avesse veramente sorpresi gli amanti o in un caffè, o in un teatro, o per via, che fosse nata una scena, che Lorenzo l'avesse maltrattata, cacciata via, che le fosse venuto male - era così debole ancora! - che la gente si fosse impadronita di lei, per buttarla domani in bocca alla cronaca delle gazzette. "Ah se l'ha maltrattata! guai se l'ha toccata!" e tutto contorto nei muscoli, coi pugni stretti, fino a conficcar l'unghie nelle carni, colse se stesso in un atteggiamento quasi feroce, in atto di scagliarsi contro qualcuno... Contro suo figlio! Il rumore d'una carrozza, che risalendo dal Carrobbio venne per tutta la via Torino ad arrestarsi sotto la casa, lo strappò all'aspra battaglia ch'egli combatteva colle ombre e con se stesso. Forse era lei; o forse l'Augusta tornava con qualche notizia. Andò incontro alla donna fino sulla scale. L'Augusta e il portinaio venivan su cicalando, ed egli cercò d'indovinare dal tono delle loro voci se portavano qualche buona notizia. A un certo punto provò un tal senso di paura, che si nascose nel vestibolo dell'uscio. "Dalla siora Arundelli non c'è" disse l'Augusta con voce rotta da una mesta compassione "e non c'è nemmeno dai siori Borrola." "Con chi hai parlato?" "Ho parlato con la signora Sidonia che venne ad aprir la porta. Non l'ha vista né oggi né ieri. Rimase incantata anche lei a sentire che non la si trovava più. Non fidandomi del tutto, ho fatto chiamare in portineria la Carmela che non ha segreti per me. Siamo dello stesso paese. E anche la cameriera mi ha giurato che non s'è mai vista. In quanto alla signora Arundelli è cascata dalle nuvole. E intanto la vien che Dio la manda." L'Augusta non seppe trattenere due piccole lagrime, che fece scomparire coll'angolo del grembialetto bianco. Essa voleva bene alla sua siora e vedeva troppo da vicino come la facevano soffrire. Ma non era più un mistero per lei che gli omeni sono tutti traditori, che non si contentano di una, ma le voglion tutte. In qualche altra maniera era passata anche lei attraverso a questi tradimenti, e non le mancava il cor de compatir e de maledir . Il vecchio Maccagno si ritirò nelle sue stanze, vi si chiuse dentro, ma non si spogliò, non toccò il letto. Una tremenda inquietudine, una convulsa irritazione di tutti i nervi, un dolore nuovo e acuto che gli forava il cuore, un avvilimento di tutte forze che lo trascinava verso la disperazione, non che permettergli di dormire, non gli lasciarono nemmeno la quiete e la facoltà di esaminare e di ragionare sugli avvenimenti. Cento pensieri, cozzando tra loro, finiscono col rompere il filo del raziocinio. Stanco e come fiaccato nella testa e nelle gambe, cadde sopra una sedia, e rimase tutta la notte, così appoggiato, coll'occhio aperto e fermo nel buio, in agguato se mai sentisse venir su un passo. Essa non tornò più. Non tornò nemmeno lui, nemmeno lui, l'assassino. I tristi avevano avvelenata l'unica fonte non amara della sua vita. I tristi… Arabella li aveva giudicati tutti. E cogli occhi spalancati nel buio, quanto fu lunga quell'eterna notte, il vecchio affarista, mezzo febbricitante, percorse a galoppo la storia della sua vita, parlando affrettato con se stesso, come chi vuole persuadere un ostinato o ingannare un diffidente, attonito, intimorito davanti a una coscienza nuova, che sorgeva a rimproverarlo e ch'egli cercava di spaventare come si caccia via un uccellaccio notturno. E finalmente il giorno, colla sua luce chiara e, se si può dir così, ragionevole, venne a por fine a un tormento inutile. Si mosse più risoluto, e, uscito sul pianerottolo, trovò l'uscio ancora aperto, l'appartamento vuoto, silenzioso, morto. La lampada del salotto mandava gli ultimi guizzi contro i raggi d'oro del sole che battevano sulla finestra. Il temporale della notte lasciava dietro una giornata splendida. Si mosse per le stanze deserte, spinse le portine della stanza da letto, vi entrò, come se sperasse di ritrovarla a una più diligente ricerca. Il letto nella sua fresca copertura di drappo era intatto. Egli vi posò una mano e coll'altra si fregò fortemente gli occhi per rimuoverne la nebbia della notte e ne portò via un umor pungente. Non sapeva piangere e se ne sentiva un acre bisogno. Si ricordò che fanciulletto di cinque o sei anni si era buttato sul cadavere di una sorellina a piangere e a strillare perché non gliela portassero via. Se avesse potuto far lo stesso! Arabella nel correr dietro a suo marito non aveva che un'idea, raccogliere una prova di più, vedere, toccare con mano fin dove era tradita e avvilita, di questo documento farsene una forza per uscire con diritto, giustificata e compatita, da un'abbietta schiavitù legale; romperla insomma con una gente a cui l'ignoranza e l'egoismo incosciente de' suoi l'avevano venduta e che faceva scontare al suo corpo e all'anima sua le conseguenze di colpe e d'abitudini irrimediabili. Aveva bisogno di vedere e d'essere veduta per poter dire domani: basta! qui comincia la mia dignità... S'illudeva della sua stessa forza come tutte le anime semplici, che non ne hanno che una, quella del dolore. Riguardo a suo marito inutilmente esso aveva eccitate le più scapigliate furie che la gelosia manda fuori e mette nel cuore delle povere donne tradite e ingannate: il cuore non le diceva nulla contro di lui. Il cuore, anche lui, non cercava che un documento di più per la sua liberazione. Gli avvenimenti si erano inseguiti e incalzati con tanta rapidità, che essa non ebbe quasi il tempo di riflettere sulle conseguenze del suo passo. Sentiva in un modo duro e violento che in qualunque maniera l'opera sua in quella casa era finita, che non avrebbe potuto più mangiarne il pane senza rimorso e senza nausea; che il bene non può in nessuna maniera derivare dal male, come la luce non può derivare dalle tenebre. A codesta gente essa aveva ormai sacrificato più di quel che avesse ricevuto o potuto ricevere. I denari si possono trovare e restituire, ma nessuno ti renderà mai la fede che t'ha rubata e messa sotto i piedi. Dio solo onniveggente e misericordioso avrebbe potuto dire a qual prezzo essa aveva pagata la beneficenza fatta da questa gente alla sua famiglia; la coppa della pazienza era esaurita o non dava che fiele. Uscì dunque non tanto per respirare l'oltraggio, quanto per sentire fin dove una donna può essere oltraggiata, come il malato desidera che gli portino uno specchio per la curiosità di vedersi livido e consumato dal suo male. Era la prima volta che usciva sola di sera: e al primo trovarsi in mezzo alla gente, sotto le luci vive delle botteghe, si sentì come travolta da un vortice pauroso. Nell'esaltazione del suo sentimento essa non capiva se avesse ceduto all'impeto d'una passione o all'insidia di una tentazione. Due volte una voce interna le comandò di tornare indietro e di provvedere in altro modo alla sua difesa; ma una folla di oscure smanie, di cieche furie, di non so quali forze maligne seguitava a incalzarla in una direzione, ed essa vi cedeva come a un istinto. Voleva vedere, solamente vedere... Dopo sarebbe tornata a casa più convinta e più rassegnata: non osava dire più soddisfatta, ma il cuore sperava anche questo. Anche il cuore ha il suo egoismo. Per quanto ci possa recare dolore e disgusto sorprendere chi ci ruba, con la roba rubata in mano, l'orgoglio vuol la sua parte, e gode quando il ladro colto in flagrante è un nostro acerbo creditore, un nostro persecutore e nemico. Ecco perché voleva vedere. Oh! non avrebbe fatto scene... no, no: né tragedie, né commedie. Le bastava d'aver tanto in mano per poter dire a' suoi padroni: il conto è pagato: me ne vado: non abbiamo più nulla in comune tra noi: datemi la mia libertà e io vi lascio la vostra responsabilità innanzi a Dio e innanzi agli uomini. I vostri peccati vi hanno tradito: i vostri peccati vi puniranno. Vi perdono il male e la nausea che mi avete fatto. Camminando colla fretta di chi vuol sfuggire agli occhi dei curiosi, sotto la sferza di questi pensieri, raggiunse in pochi minuti Lorenzo, poco più in là di San Giorgio, mentre egli stava per entrare a comperar delle sigarette in una bottega. Sempre cedendo a quella forza d'istinto che la guidava, essa traversò tutta la strada per non mettersi sopra i suoi passi e si fermò in attesa, davanti alla vetrina di un piccolo orefice, la quale servì di specchio. Dietro i gioielli e gli orologi disseminati nella bacheca, la via grande e popolosa coi lumi e colle botteghe aperte disegnavasi nello sfondo, come un'altra città, non mai vista, dove andava vagando una signora coperta d'un dolman bigio con in testa un tòcco d'astrakan, una signora pallida e smarrita... Quando Lorenzo uscì dalla bottega coll'elegante astuccio delle sigarette, la signora dal dolman bigio stette un poco a osservare i suoi passi. Egli traversò il crocicchio del Carrobbio e scomparve precisamente nella porta indicata. Il cuore di Arabella dette tre colpi duri e dolorosi. Aveva visto abbastanza. Poteva tornar indietro... Era una casa maledetta, dove il suo povero papà aveva cercata la morte. C'è una mano cattiva che conduce e rimescola le cose. In quella casa, suo marito, dopo aver cicalato una mezz'ora in una poltrona, accanto a sua moglie, nell'obesità della digestione, veniva a distrarsi con un'altra donna. Voltò per tornare indietro, con un velo di lagrime steso sugli occhi, nell'umiliazione; ma poi le parve che al suo interesse non bastasse il vedere, bisognava essere veduta, e carpire una prova di più contro i sofismi della bugia. Sciocca e indegna del nome di creatura umana, se non osava rivendicare i diritti della sua dignità di donna onesta! La natura, la legge, l'opinione pubblica, la religione erano dalla sua parte. Dove manca uno scopo al martirio, non può essere santo il prosternarsi nel fango e il permettere che altri ti passi coi piedi sul corpo... Di questi concetti non rilevava che le ombre gettate rapidamente sul fondo dell'anima, come le immagini sfigurate d'una lanterna magica, in mano a un ragazzo inquieto, balzano sul muro. I piedi obbedirono all'istinto e la portarono alla casa. Entrò, e, prima che avesse tempo di pentirsene, si trovò nel bugigattolo del portinaio. Il Berretta non c'era. Il signor Tognino gli aveva trovato un altro posto. Sul tavolo fumigava in mezzo ai frastagli alle pezze e alle filaccie una meschina lampadina a petrolio, che riempiva del suo puzzo e della sua luce rossastra il piccolo covo disabitato. La fiamma non bastava a rischiarare che una porzione del portico e i primi gradini della scala. Nel resto il buio fitto involgeva la corte e gli anditi segreti di quella vecchia casa, dove Lorenzo veniva a cercare un compenso all'ineffabile noia della sua casa fresca, pulita, illuminata e impregnata d'una soverchia quantità di virtù casalinghe. Arabella, aspirando con fremito nervoso l'odore acuto del petrolio, non sentì paura di trovarsi sola, in quell'ora, in quel luogo, in quell'avventura, come se le tenebre e il triste silenzio della tana suscitassero in lei delle seduzioni meno buone, delle vertigini dall'alto in giù; ma la voce di Lorenzo e il suo passo pesante che tornava indietro l'invasero di un subito spavento. Non potendo fuggire, si ritirò dietro un pezzo di paravento logoro, che nascondeva la cucina del portinaio. Lorenzo scese di corsa, soffiando. Chiamò due o tre volte: "Carlino!" Ma non vedendo uscir nessuno, andò nella strada brontolando. "C'è 'sta carrozza?" domandò dal mezzo della scala una bella voce di contralto, che fece scattare Arabella dallo sgabello su cui s'era accovacciata.

La morte dell'amore

663208
De Roberto, Federico 2 occorrenze

Conosco un abbandonato il quale, struggendosi nel suo dolore, cominciò a sorridere e a sentirsi molto meglio quando vide la antica sua amante a braccio di un altro uomo, in un luogo oscuro, pendere dalle sue labbra e stringersi tutta a lui… Ha ella notato come lo spettacolo di due amanti e anche di due sposi ecciti spesso il sorriso beffardo? E perché mai la vista dell’amore felice, invece di disporre alla gioia dispone alle beffe?… Io credo che si possano assegnare due cause di questo fatto, cioè una sola causa che agisce in due modi differenti. Essa risiede in quelle leggi che dell’amore, d’una cosa cioè molto e fin troppo naturale, hanno fatto una cosa misteriosa, difficile e quasi vietata. Di questa prepotente passione non si deve quasi parlare nel civile consorzio; mentre di tutti gli altri bisogni noi vediamo quotidianamente lo sfoggio, questo qui dobbiamo piuttosto indovinarlo attraverso le ipocrite convenienze. Tutte le volte adunque che esso si rivela o traspare, come quando un corteggio nuziale attraversa le vie d’una città o quando una coppia di amanti erra nelle ombre propizie di qualche deserto bastione, allora l’improvvisa rivelazione d’una troppo celata e contrastata realtà dispone al sorriso. Aggiungo ancora che lo spettatore dell’amore vorrebbe anch’egli, ma non può, per le medesime leggi severe, prendersi sotto il braccio una persona con la quale poter fare ciò che fanno i due attori; e l’invidia umanamente le spiegherà il suo schermo. Chiudiamo questa parentesi e torniamo alla persona di mia conoscenza: costui, vedendo tubare le due tortorelle, una delle quali era il rivale, l’altra la donna che fino a pochi giorni innanzi giurava d’amar lui, sentì tanto più acutamente l’umorismo dello spettacolo e, ridendo, si sollevò. Un altro amante abbandonato guarì in modo che è alla portata d’ognuno; perché non sempre il caso ci è tanto propizio da farci spettatori dei nuovi idillii delle nostre antiche fiamme. Ecco il modo: l’abbandonato, spasimando alle memorie del perduto amore, tremava di paura al pensiero di vederne i materiali ricordi. Come contemplare senza entrare in agonia i ritratti dell’amata, i fiori, i nastri, le cose che ella gli aveva donate? Come rileggere senza morire le lettere sue?… Ed un giorno vide i ritratti ed i fiori, e il suo dolore crebbe veramente oltre misura: ma quando egli cominciò a leggere le lettere, le lettere piene di queste espressioni: "L’amor mio per te sarà senza fine… tu solo m’hai rivelato l’amore… fuori di te non c’è, non potrà esserci mai piacere e felicità… non solo l’amor mio è eterno, ma più eterna sarà la gratitudine… io voglio morire per provarti che non posso amare nessun altro fuori di te… tu potrai lasciarmi, tradirmi, scacciarmi, io ti sarò fedele da lontano, eternamente…", leggendo queste parole delle quali avevo avuto paura perché prevedeva che il dolore di non poterne ricevere più mai di simiglianti lo avrebbe soffocato, egli sentì improvvisamente il suo petto sollevarsi e il riso fiorirgli sulle labbra, perché la donna che aveva scritto queste cose, ella stessa in carne ed ossa, le scriveva in quel punto ad un altro… Tuttavia questi rimedi quantunque giovino spesso, spesso anche restano inefficaci. Se è vero – e come negarlo? – che l’amor proprio è massimamente offeso nel tradimento e nell’abbandono, bisogna, per guarire radicalmente, che l’amor proprio ottenga la sua rivincita. Chiodo scaccia chiodo, dice il proverbio; e se a noi parve finito tutto il nostro merito perché la persona che prima ci amava ora non ci ama più, basterà che, perduto quell’amore, noi ne otteniamo un altro perché il merito nostro torni a rifulgere. Eppure neanche questo rimedio è infallibile! Noi abbiamo ottenuto un altro amore e non ce ne contentiamo, perché non ne volevamo un altro, uno qualunque, ma precisamente quello che non potevamo avere: tale il bambino bizzoso grida e strepita e non si cheta se, offrendogli voi le cose più belle o le chicche più dolci, gli negate quel balocco o quella confettura che per l’appunto egli si è fitto in capo di avere! La guarigione infallibile e radicale non avviene pertanto se non quando il nostro amor proprio, offeso perché ci fu sottratto un amore, è soddisfatto all’idea di poterlo riottenere. C’è anche allora un’ironia, ed è la più sottile di tutte, perché noi ridiamo – di noi stessi… Eccole a questo proposito un curioso documento che mi fu mandato una volta: sopprimo l’esordio e le comunico la parte più degna della sua attenzione. "Questo amore era stato tutto ciò che di meglio avevo tenuto al mondo, il sogno della mia giovinezza, la felicità della mia vita, e nulla era valso a compensarne la perdita. Avevo, sì, tentato di affezionarmi ad altre creature; ma l’imagine di quella donna mi restava sempre dinanzi, impediva quasi materialmente che io scorgessi le altre, e se pure le scorgevo, toglieva loro ogni incanto e sembrava quasi ammonire: "No, mai più troverai dolcezze così grandi come quelle che io ti diedi!". E dalle sterili prove uscivo sempre più assetato di lei. Sentivo dire, a proposito di grandi dolori, di perdite irreparabili, che il tempo è un sovrano rimedio, che nulla resiste alla sua azione lenta e continua; quest’azione pacificatrice, questo rimedio infallibile, io l’avevo provato altre volte; ora ogni giorno che passava accresceva la pena mia. Il lavoro paziente ed assiduo non era anch’esso un diversivo sicuro? Ma non poter più lavorare, nessun’idea ormai spuntava più nella mia mente tutta invasa dai ricordi, oppressa dai rimpianti; e quando pure avessi potuto ridarmi all’arte mia, l’avrei ora sdegnata. Tutto ciò che avevo fatto non l’avevo fatto per lei, affinché ella fosse contenta di me, affinché le apparissi meno indegno di quel che mi sentivo? Le sole lodi ambite ed apprezzate non erano state le sue? Come tutto mi pareva ora inutile, vuoto ed oscuro! Nulla m’interessava più, nulla riusciva a strapparmi dal letargo nel quale ero caduto: contavo i giorni, contavo le ore. Esse scorrevano con lentezza mortale: come affrettarne la caduta? Pensavo: "Se potessi chiudere gli occhi e riaprirli di qui a due anni, a tre anni?…". E poi? Perché? Che cosa aspettavo? Che cosa avrei ottenuto? Sì, forse tra qualche anno quel cocente ricordo sarebbesi spento; ma, a quest’idea, al pensiero di perdere la stessa memoria di un amore che era stato tutto il mio bene, il cuore mi si stringeva talmente che io trovavo nelle torture presenti una specie di felicità e come l’illusione che tutto non fosse ancor morto… Così, invece d’insistere nei miei tentativi di stordimento e d’oblio, cominciai ad attizzare il mio dolore rappresentandomi tutte le gioie conseguite in quel dolce legame, dando un valore perfino alle cose futili, perfino alle cose delle quali mi ero stancato. Perché, infatti, mi ero stancato di certe esigenze che avevo giudicate irragionevoli, di certe sue superstizioni che avevo giudicate puerili. Ora vedevo in esse altrettante inestimabili prove d’amore, altrettante fortune impagabili: per ottenerne ancora una sola che cosa non avrei dato?… Ella aveva sempre voluto che io le scrivessi ogni giorno, anche un rigo soltanto; ed io che negli ultimi tempi non l’avevo più obbedita, pensavo adesso, ahimè troppo tardi, che scriverle continuamente, che aprirle ogni ora l’animo mio era ciò che avrei dovuto far sempre. Anch’ella mi aveva scritto tante volte; e rivedere le sue lettere, aspirare soltanto il profumo del quale erano impregnate, mi turbava fino alle lacrime. Altre volte io avevo restituite le lettere d’amore quando l’amore era finito; ma come paragonare questa passione alle antiche? Ed io non mi separavo da quelle carte, che non osavo rileggere per pietà di me stesso, ma dove era pure la prova che non avevo sognato la svanita gioia… Com’ero dunque stato folle nel lasciarmi sfuggire quel bene! Come incolpavo me stesso della morte d’un amore che invece ella stessa aveva ucciso!… Allora, ripensando alla premeditata freddezza di quella creatura che senza darsi la pena neppure di mendicare un pretesto m’aveva scacciato; ripensando alla crudeltà della quale aveva dato prova nel restar sorda alle mie preghiere, al mio pianto, alla mia disperazione; per un poco il mio dolore si mutava in un sordo rancore, in un odio secreto; ma io riconoscevo ben tosto, nel finale abbattimento di tutto l’essere mio, che questa sua freddezza, che questa sua crudeltà, che l’inflessibile rifiuto opposto a tutte le mie insistenze, erano l’origine della mia disperazione. L’idea di non averla potuta piegare, il sentimento della mia incapacità a ridestare una passione della quale ero andato superbo, mi prostravano, mi umiliavano, mi attaccavano a lei sempre più. E come se tanta miseria non bastasse, la gelosia, una gelosia terribile che non poteva fermarsi sopra una determinata persona, ma che comprendeva tutti gli uomini, mordeva il mio cuore. Perché dunque m’aveva lasciato, colei, se non per darsi ad un altro? Perché era stata così dura verso di me se non per riacquistare la libertà, per correre a nuove avventure? Un altro aveva preso il mio posto; e quest’altro poteva essere uno dei miei più intimi amici come il primo sconosciuto che mi passava accanto per la via! La credevo capace di tutto; e la disistima, invece di guarirmi, accresceva il mio male! Avevo pensato di partire, riserbandomi di porre ad effetto questo proposito quando null’altro mi sarebbe rimasto da tentare, come i medici riserbano per i casi disperati certi pericolosi rimedii che, se non affrettano la morte, riescono ad eccitare una crisi salutare nelle fibre vicine a distruggersi. I viaggi m’avevano sempre procurato la più gradita delle distrazioni. Dentro un treno che corre con la velocità di sessanta chilometri all’ora lasciandosi dietro monti, valli, fiumi e città; sopra un piroscafo che fende maestosamente il mare mobile e largo, avevo sempre respirato a pieni polmoni, m’ero sempre liberato da ogni oppressione. Ora non mi decidevo ad andar via. Quantunque la ragione mi dimostrasse fino all’evidenza che non c’era più nulla da fare, io aspettavo non sapevo bene che cosa. L’orgoglio mio era stato crudelmente ferito, nondimeno l’idea di tornar da lei a pregarla, ad umiliarmi, mi tentava certe volte ancora. Io mi ribellavo contro me stesso, m’accusavo di viltà, non facevo nulla – ma restavo. La divorante e mortale curiosità di sapere che cosa sarebbe accaduto di lei, se veramente un altro avrebbe ottenuto i suoi favori, mi tratteneva. E mi umiliavo altrimenti, spiandola da lontano, studiando il modo di far parlare di lei la gente che la conosceva. Alle volte mi sentivo sollevare da tale sdegno contro me stesso per l’incapacità di strapparmi quella donna dal cuore, che la risoluzione di partire era presa, irrevocabilmente. Ma il terrore di portar meco quel ricordo come un vampiro attaccato alla mia carne, intento a succhiare il mio vivo sangue, fiaccava il mio coraggio. E speravo ancora, accoglievo ancora qualche lusinga! Pensavo che ella avrebbe potuto pentirsi del male che m’aveva fatto e cercare un giorno o l’altro di me. E con l’istinto della salute che fa aggrappare anche ad un filo d’erba chi precipita in un abisso, m’afferravo a queste lusinghe, lavoravo a dar loro qualche apparenza di fondata speranza… Fu un giorno del settembre che ricorreva l’indimenticabile anniversario. Lo avevo aspettato con un’ansia ineffabile: i miei ricordi, i miei pentimenti, i miei rimpianti, le mie speranze, tutti i moti dell’animo mio s’erano esasperati talmente che non credevo possibile resistere di più a simile travaglio. Tanti disegni m’erano passati per il cervello, uno più pazzo dell’altro, che non sapevo veramente che cosa imaginare. Spuntò quel giorno, ed io non feci nulla di nulla. Ma se le fossi stato vicino, se l’avessi sentita tutta stretta a me, non sarei stato così pieno di lei come in quelle ore di agonia, occupate a ricordare le altre, le antiche, le divine, le prime e le sole che contassero nella mia vita. Che cosa faceva ella in quei momenti? Era possibile che non ricordasse anch’ella? Nonostante la lunga separazione, nonostante la lontananza, in quel momento le nostre anime non dovevano confondersi come s’eran confuse altra volta? E se così pensava anch’ella, se era pentita, se era libera, non toccava a lei di scrivermi una riga, una parola, perché tutto fosse detto?… Quando arrivò la posta cercai con mano tremante in mezzo al fascio dei giornali e delle lettere. Non c’era nulla. Ebbi veramente un sorriso di profonda commiserazione per la mia sciocchezza. Calò la sera, e mai tenebre più paurose chiusero il mio cuore. Improvvisamente udii squillare il campanello. Il servo mi venne incontro con un dispaccio in mano. Poiché il cuore non mi si ruppe in quel punto, la fibra dev’esserne molto resistente. Apersi in quel foglio: era un mio creditore che mi mandava un vaglia telegrafico. Il giorno dopo partii. In verità l’esistenza più salda, più tenace, non è già quella delle cose o degli esseri, ma quella delle idee e dei sentimenti. Voi potete spezzare un oggetto materiale, calpestarlo, incenerirlo, darne al vento le ceneri, voi potete uccidere una persona, distruggere quel prodigio che è un corpo vivente: ma dinanzi a questa cosa semplicissima che si chiama un pensiero, così tenue, così alato, fuggevole tanto che un soffio parrebbe doverlo abolire, voi siete inermi. La volontà è l’unico mezzo del quale potreste disporre; ma tutti gli sforzi della vostra volontà per sradicarlo servono invece a configgerlo più profondamente nel vostro cervello. Non voler pensare a una cosa importa rammentarsela continuamente; contro l’invasamento spirituale non vi sono esorcismi… Sì, io partii, con l’anima abbeverata di fiele, con le labbra contorte da un sardonico riso; ma il fischio del treno che si metteva in moto mi parve l’urlo della mia disperazione, e quasi tentai rompermi la fronte contro la gabbia che mi serrava, tentai precipitarmi dallo sportello per finirla una buona volta… E quando fui lontano, quando mi vidi in un paese straniero, fra gente sconosciuta, quando udii risonarmi d’intorno una lingua ignorata, un immenso stupore mi vinse e sedò per un istante il mio cordoglio. Io domandai a me stesso: "Perché sono qui? Che cosa sono venuto a fare? E potrò respirare soltanto?…". Mi mancava l’aria, mi sentivo morire. In mezzo al vasto tumulto di quella metropoli, dinanzi allo spettacolo di migliaia e migliaia d’uomini correnti dietro agli affari, ai piaceri, agli amori, io sentivo di me stesso la pietà che certi poveri fanciulli smarriti tra la calca in un giorno di festa m’avevano talvolta ispirata. Provai d’annegare il mio dolore negli stordimenti dell’orgia; ma come un legno che noi spingiamo sottacqua risale rapido a galla appena abbandonato a sé stesso, così il mio dolore risorgeva ogni volta, più acuto. E senza più ritegno, senza più vergogna, mi abbandonai ad esso, interamente. Avevo portato con me le sue lettere, i suoi ritratti. Una sera mi chiusi in camera e li rividi. Terribile! Terribile! Era dunque lei? la sua fronte? le sue guance? le sue labbra che avevo tanto baciate? Era il suo sguardo che si fissava ancora su di me, pieno della mia visione? Tutte quelle lettere, quelle parole d’amore, quei giuramenti, quelle promesse erano stati ispirati da me? Ed io non avrei più riveduto quella figura reale come ora ne rivedevo la mera effigie? Non avrei più ricevuto nessuna di quelle lettere, mai? Era dunque come morta?… Allora, nella nuova e più dura crisi d’ambascia scatenata nell’anima mia, io pensai di fare ciò che prima non avevo voluto: restituirle quelle carte per poterle scrivere ancora. Rapidamente quest’idea mi soggiogò. Io le avrei scritto per mostrarle l’esulcerata mia piaga, per farle intendere che l’amavo ancora tanto da perdonarla, da accusare anzi me stesso, da implorare il suo perdono per me. Fra giorni ricorreva il suo natalizio: ella non aveva parenti, nessuno dei suoi conoscenti sapeva la data che io solo avevo festeggiata, altre volte. Volevo anche ora mandarle una buona parola per questa festa che è sempre un po’ triste… Nella notte alta, nel silenzio profondo, alla luce d’una candela che si struggeva con fiamma tremula e lunga, io mi misi a scriverle. Scrivevo tre righe e ne cancellavo due. Volevo mettere sopra un foglio di carta tutto ciò che avevo in cuore; ma le parole mancavano, ed anche temevo di contenermi troppo o di troppo lasciarmi trascinare. Ma ero deciso a non levarmi dalla scrivania se non dopo aver finito. Quando finii rilessi la lettera; ne rammento ogni parola, diceva così: "Lasciata l’Italia per un tempo non breve, compio il dovere di rimandarvi alcune carte che non posso esporre al rischio di cadere in mani indiscrete e che per altro mi dorrebbe troppo distruggere. Già io ho sempre pensato che le carte di questa natura si debbano restituire quando restano a testimoniare qualcosa che più non esiste, un passato perduto: serbarle è permesso soltanto quando sono le prove d’una realtà che ricomincia continuamente. Eccole adunque: distruggetele voi stessa, o voi stessa serbatele, secondo stimerete opportuno. Come passa rapido il tempo! Ecco tornare il vostro giorno natalizio che lo scorso anno noi passammo insieme. Mi permetterete di presentarvi ancora i miei augurii, fervidi come quelli d’un tempo? Ora e sempre, possiate voi ottenere tutto quel bene che il vostro cuore desidera…". Mi parve di non aver detto niente e d’aver detto fin troppo. Niente, perché quelle poche righe non mostravano la mia lunga passione; troppo, perché il rammarico e l’implorazione vi si leggevano, nonostante, in mezzo. Esausto della lunga veglia, andai a letto. Quando mi destai erano le undici; mancavano due ore alla partenza del corriere d’Italia. Senza più pensare a nulla, ricopiai la lettera, feci un pacco di quelle carte, lo suggellai e andai alla posta. Mi movevo come in sogno; non avevo coscienza dei miei atti. Consegnai dapprima il pacco all’ufficio di raccomandazione, poi mi avviai alla buca delle lettere. Quando vi fui vicino, quando cercai in tasca la lettera mia, parvemi che qualcuno m’afferrasse per tirarmi indietro. Il pacco non poteva partir solo? La restituzione di quelle carte aveva forse bisogno di commenti? Nella mia lettera io mi davo vinto, dicevo a quella donna che l’amavo ancora, imploravo ancora da lei il ricambio dell’amor mio – ed ella forse l’avrebbe letta fra le braccia d’un altro. Ella avrebbe riso di me, m’avrebbe risposto due righe di ricevuta – forse non m’avrebbe risposto neppure! Era stata così malvagia, m’aveva fatto tanto soffrire; ed io le davo ancora quest’altra soddisfazione!… Tutto ciò fu pensato nel tempo che la mia mano andò dalla tasca alla buca – perché vi andò, e vi lasciò scorrer dentro la lettera. Prima che potessi avere risposta dovevano passare cinque giorni. Impiegai questo tempo a imaginare la risposta. Poteva essere arida e fredda come avevo temuto, ma il pentimento era inutile, ormai. Se invece… se invece… Ed io dicevo a me stesso che, infatti, nel rivedersi dinanzi le sue lettere, le prove dell’amore che m’aveva portato, nel ritrovarmi supplice ancora dopo i torti che m’avea fatti, nel sapermi tanto lontano, ma nel sentirmi pure così vicino a lei, il suo cuore avrebbe dovuto palpitare più forte e, se non l’amore, almeno la pietà, la simpatia, la compiacenza dettarle una buona parola, indurla a consolarmi… Allora, sostenuto ed infiammato dalla divina speranza, io pensavo all’altra lettera che le avrei subito scritta: "Ebbene, non occorre più ch’io ve lo dica, voi già lo sapete: nonostante tutto, voi siete ancora l’amor mio, l’amor mio forte e grande, il mio unico amore, l’amore che non posso più scordare, che porterò eternamente con me… Se mi volete ancora, dite una parola e sarò ai vostri piedi. Se volete che aspetti, aspetterò quanto vorrete. Sempre, in tutto, la vostra volontà sarà la mia…". Ma una lettera avrebbe messo troppo tempo a dirle queste cose: io mi sarei piuttosto servito del telegrafo, le avrei mandato il mio pensiero con la velocità del lampo. E cercavo le parole del telegramma!… Al quinto giorno ebbi la sua risposta. L’ebbi alla posta, la lessi per via, tra le spinte della gente, lo strepito delle vetture, gli squilli delle cornette dei tram. Diceva così: "Grazie! Nessuna attenzione commuove, quanto quella che meno si prevede perché meno si sente di meritare. I vostri augurii d’oggi sono graditi come quelli di un tempo, anche perché come quelli di un tempo sono stati i soli che ho ricevuti in questa ricorrenza. Mi sono pervenute e non ho distrutto le carte che con rara delicatezza avete creduto di dovermi restituire: c’è un passato che si custodisce gelosamente, come il più reale dei beni, disperderne le tracce sarebbe delitto. Se voi vorrete ancora ricordarvi di questa vostra povera amica, sarà sempre una festa per lei". Orbene; quando io ebbi finito di leggere questa lettera me ne andai al caffè, perché avevo fame. Fu la prima volta, dopo tanto tempo, che mangiai con gusto. Tutto il giorno fui in giro al Museo, che non avevo ancora visto. Prima di desinare visitai una bella signora che avevo conosciuto di fresco. La sera andai al teatro con amici, dopo cenammo allegramente. Tornai a casa alle tre della notte e dormii d’un fiato sino alle due del domani. Svegliandomi, mi rammentai della lettera ricevuta la vigilia, e la rilessi. Non c’era bisogno di molta penetrazione psicologica per comprenderne l’intimo significato: "Un’attenzione che si sa di non meritare… i soli augurii, graditi come quelli d’un tempo… non ho distrutto le carte che avete creduto di dovermi restituire… un passato custodito gelosamente, come il più reale dei beni… se vorrete ricordarvi ancora di questa vostra povera amica…". Il suo rammarico, il suo pentimento, la sua solitudine: ella diceva apertamente tutto ciò; non diceva. "Tornate!", ma questa parola era come scritta su tutte le altre, io quasi la leggevo attraverso la grana della carta. Nel mio farneticamento dei giorni scorsi avevo mai sperato tanto? Non dovevo fremere di gioia, risponderle subito, aprirle il mio cuore?… Per una settimana non trovai il tempo di scriverle. Quando finalmente mi posi a tavolino le scrissi così: "Ho ricevuto la vostra lettera e vi ringrazio della buona memoria che serbate di me. Siate certa della devozione che vi porto, e lasciatemi sperare di potervene dare qualche giorno la prova. Io sono qui per fare qualche studio e per vedere un po’ di mondo. Se potessi giovarvi in qualche cosa, disponete pure liberamente di me: mi farete sempre un regalo…".

La donna che voi amate non è morta, non v’ha abbandonato, è sempre vicina a voi; ma sapete che avviene? Ella non è più la stessa che conosceste un giorno. L’assiduità con la quale l’avete contemplata, esaminata, studiata, ha finito per alterare le linee del suo viso, della sua persona; per farvi scoprire in lei degli aspetti, delle attitudini, delle espressioni, che prima non avevate visti. Voi vi sforzate di ritrovarla come al tempo in cui nacque l’amore; per questo, la rimettete nella stessa luce in cui prima v’apparve, ed esumate tutti i vostri ricordi, e vi riportate continuamente col pensiero al passato. Ogni sforzo è inutile: no, non è più lei… Le sue carezze d’ora non sanno più come le prime, le sue parole d’ora non hanno il suono delle antiche. Voi comprendete che uno stesso fenomeno accade in lei, ma nessuno di voi ha il coraggio di dirlo. Ella vi domanda di ripeterle le parole innamorate che le prodigaste; voi le ripetete, e un’ironia amara vi torce le labbra. Lontano da lei, vi proponete di dirle tutto, sinceramente, di non rappresentare più oltre una commedia; trovate le parole, cominciate una lettera, ma non avete la forza di compiere il vostro proposito. Se qualche momento di tenerezza ritorna, dovreste esultare, non è vero? Invece, il vostro scontento s’accresce; vi accusate di fiacchezza, di imbecillità; avreste voglia di percuotervi, di insultarvi… – L’ultima luce agonizzava, un chiarore verdastro si diffondeva sotto le nuvole pesanti, illividiva i volti dei tre uomini al cui sguardo la desolata campagna e il mare flagellato formavano come un paesaggio appartenente a un altro mondo, più vuoto, più freddo, più lugubre. – Chi non ha conosciuto questo – riprendeva Ludwig –, non sa nulla delle agonie sentimentali, della vanità degli affidamenti, dei giuramenti umani. Per sempre!… Non è una potenza ineluttabile, non è una volontà estranea alla vostra che distrugge questa promessa; è il vostro stesso cuore; siete voi che ridete di voi! La fine più brusca, la rottura più repentina non hanno nulla di tanto lacrimevole quanto questa agonia. La pietà si mescola allo sdegno ed al sarcasmo; in certi momenti, dimenticate il vostro scontento, pensando al dolore che si rovescerà su voi due quando le parole irrevocabili saranno pronunziate… E prolungate l’inganno, e soffrite, e fate soffrire; finché, un giorno, quando meno ve l’aspettate, a proposito di nulla, tutto finisce… Sapete allora quello che accade? – Nessuno rispose. L’oscurità invadeva la stanza; nessuno pensava a fare accendere un lume. – Accade, al morale, qualcosa di simile a quel che avviene al fisico, quando una parte del vostro corpo, mortificata, distrutta, è portata via dal ferro del chirurgo. Sapete quel che si legge nei libri: l’infermo, spasimante, s’acqueta sotto l’azione torpente dell’etere. Dapprima, un senso di liberazione, un’aura esilarante gli rinfrescano il cervello. Egli ride, si sente diventato più leggiero, quasi trasportato su per l’etere, per quell’altro etere, l’imponderabile. Poi s’accascia, s’addorme, non sente più nulla. Quando riapre gli occhi alla luce, tutto è finito; il suo piede sfracellato, il suo braccio incancrenito non sono più attaccati al suo corpo. Egli guarda il posto vuoto; ma che cosa è il nuovo portento che adesso si compie? Egli sente che il suo piede, che il suo braccio portati via aderiscono ancora a lui; le sue sensazioni vi si localizzano ancora; egli avverte come un formicolìo, crede di poterli muovere, adoperare… Così accade nell’anima. Quando la passione mortificata ne è stata staccata, quando il ragionamento vi dice che non potrà più tornare, il vostro sentimento si proietta ancora in essa e, più di ogni altro modo reale, di ogni altro affetto presente, l’anima avverte la presenza dell’amore perduto… – La notte era fonda e la voce moriva.

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