Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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IL PAESE DI CUCCAGNA

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Serao, Matilde 9 occorrenze

Un'altra giovane ancora, ma dal pallido e seducente volto consumato, dai grandi occhi neri, un po' malinconici, un po' stravaganti, con le occhiaie livide, dalla grossa treccia nera disfatta sul collo, era salita sopra un macigno abbandonato in quel cortile, forse dai tempi in cui era stato costruito o restaurato il palazzo; e lì sopra, tutta magra nella sua veste ritinta di nero, che le faceva cento pieghe sullo scarno petto e sui fianchi, dondolando un piede in uno stivaletto rotto e scalcagnato, rialzandosi sulle spalle, ogni tanto, un gramo scialletto anche ritinto di nero, ella dominava la folla, guardandola coi suoi occhi abbattuti e tristi. La folla era fatta quasi tutta di gente povera: ciabattini che avevano chiuso il banchetto nello stambugio che abitavano, avevano arrotolato il grembiule di pelle intorno alla cintura, e in maniche di camicia, col berretto sugli occhi, rimuginavano nella mente i numeri giuocati, con un impercettibile movimento delle labbra; servitori a spasso, che invece di cercar padrone, consumavano le ultime lire del soprabito d'inverno impegnato, sognando il terno che di servitori li facesse diventar padroni, mentre una contrazione d'impazienza torceva loro il volto smorto, dove la barba, non più rasa, cresceva inegualmente; erano cocchieri da nolo che avevano lasciata la carrozza affidata al compare, al fratello al figliuolo, e attendevano, pazientemente, con le mani in tasca, con la flemma del cocchiere che è abituato ad aspettare delle ore il passeggiero; erano sensali di stanze mobiliate, sensali di serve, che, nell'estate, partiti i forestieri, partiti gli studenti, languivano seduti sulle loro sedie, sotto la loro tabella che è tutta la loro bottega, agli angoli dei vicoli San Sepolcro, Taverna Penta, Trinità degli Spagnuoli, e avendo giuocato qualche soldino, sottratto al cibo quotidiano, disoccupati, oziosi, venivano a udir l'estrazione del lotto; erano braccianti delle umili arti napoletane che, lasciato il fondaco, l'opificio, la bottega, abbandonato il duro e mal retribuito lavoro, stringendo nel taschino dello sdrucito panciotto la bolletta di cinque soldi, o il fascetto delle bollette di giuoco piccolo, rano venuti a palpitare innanzi a quel sogno, che poteva diventare una realtà; erano persone anche più infelici, cioè tutti quelli che a Napoli non vivono neppure alla giornata, ma ad ore, tentando mille lavori, buoni a tutto e incapaci, per mala fortuna, di trovare un lavoro sicuro e rimuneratore, infelici senza casa, senza ricovero, così vergognosamente laceri e sporchi, da fare schifo, avendo rinunziato al pane, per quella giornata, per giuocare un biglietto, sulla faccia dei quali si leggeva la doppia impronta del digiuno e dell'estremo avvilimento. Tra la folla, anche qualche donna si distingueva: donne sciatte, senza età, come senza bellezza; serve senza servizio, mogli di giuocatori accaniti, giuocatrici esse stesse, operaie licenziate, e, fra tutte, il volto pallido e attraente di Carmela, quella seduta sul macigno, volto sfiorito, dai grandi occhi stanchi e addolorati. Più tardi, come maggiormente si appressava l'ora dell'estrazione, e più il chiasso cresceva, fra le poche faccie smorte muliebri e i laceri vestiti di percalla scolorita a furia di troppe lavature, una assai diversa figura di donna apparve. Era una popolana alta e robusta, dal viso bruno fortemente colorito, dai capelli castani tirati su, pettinati con molta cura e la cui frangetta, sulla breve fronte, aveva anche un'ombra di cipria; i pesanti orecchini di perle scaramazze, rotondi, bianco-verdastri, le tiravano le orecchie, tanto che aveva dovuto assicurarli sopra l'orecchio, con un cordoncino di seta nera, temendo che dovessero spezzare il lobo; una collana d'oro, con un grosso medaglione d'oro, posava sul giubbetto di mussola bianca, tutto ricami e gaie di merletto; ella sollevava ogni tanto, sulle spalle, uno scialle trasparente di crespo di seta nero e allora mostrava le mani, ricche di grossi anelli d'oro sino alla metà della seconda falange. L'occhio era serio e tranquillo, con una lieve aria di quietissima audacia, la bocca composta a severità; ma nell'attraversare la folla, nell'andare a mettersi sul terzo gradino della scala, per vedere e per udire meglio, ella conservava quella inclinazione della testa, speciale delle popolane napoletane, un po' civettuola, un po' mistica; conservava quella ondulazione della persona così seducente sotto lo scialle, e che le borghesi napoletane perdono subito nel vestito alla moda francese. Pure, malgrado la simpatia naturale che ispirava quella figura femminile, al suo passaggio vi fu un mormorio quasi ostile e come un movimento di repulsione tra la folla. Ella ebbe un moto di disdegno, levando le spalle; e restò sola, ritta sul terzo scalino, tenendo alzato lo scialle sulle braccia, e le mani cariche di anelli incrociate sullo stomaco. Il mormorio, qua e là, continuò: ella guardò la folla, due o tre volte, serenamente, anzi non senza fierezza. Le voci tacquero: le palpebre della donna batterono, due o tre volte, come per orgoglio appagato. Ma, finalmente, su tutte le altre, su Carmela dal volto sfiorito e dai grandi occhi dolorosi, su donna Concetta dalle dita inanellate e dalla frangetta incipriata, Concetta, la bella, robusta e ricca usuraia, sorella di donna Caterina, sorella della tenitrice di gioco piccolo, opra la folla del cortile, dell'androne, della via, una figura di donna emergeva, attirava almeno uno sguardo della gente raccolta. Era la donna, al primo piano del palazzo dell'Impresa, seduta dietro la ringhiera di un balconcino: seduta di fianco, si vedeva il suo profilo chinarsi e sollevarsi, ogni tanto, sul lucido ingranaggio d'acciaio di una macchina da cucire Singer; mentre il piede, uscendo dalla modesta gonna di percalla azzurra a pisellini bianchi, batteva metodicamente sul pedale di ferro, che si abbassava e si alzava, con moto uniforme. Fra il brusio delle voci, e i dialoghi da un capo all'altro del cortile, e lo stropiccio dei piedi, si perdeva il trillo sordo della macchina da cucire: ma sul fondo scuriccio del balcone, la figura della cucitrice si disegnava tutta, di profilo, con le mani che portavano il pezzo di tela bianca sotto l'ago saliente e discendente della macchina, col piede che piegava il pedale, instancabilmente, con la testa che si alzava e si abbassava sul lavoro, senza vivacità, ma senza stanchezza, continuamente. Di profilo si vedeva una guancia delicata, delicatamente rosea, e una grossa treccia castana modestamente ravviata e stretta sulla nuca, si vedeva l'angolo di una bocca fine, e l'ombra che le lunghe ciglia abbassate gittavano sull'alto delle guancie. La giovane cucitrice, da un'ora che la folla si addensava nel cortile, non aveva guardato che un paio di volte giù, gittandovi una breve occhiata indifferente, e riabbassando subito la testa sull'ingranaggio lucido della macchina, trasportando lentamente con le mani il pezzo di tela, perché la cucitura venisse diritta, diritta. Nulla la distraeva dal suo lavoro, né le voci, né le vive esclamazioni, né il calpestìo crescente della folla; ella non aveva guardato mai sul terrazzino coperto, dove si sarebbe proclamata l'estrazione, fra poco. La gente la guardava, di basso, la delicata e infaticabile cucitrice di bianco, ma ella proseguiva quietamente nel suo lavoro, come se neppure un eco di quella gran passione, fra segreta e palese, arrivasse sino a lei; ella sembrava così lontana, così schiva, così assorta in un mondo assolutamente staccato, diverso, che la fantasia poteva supporla più una immagine che una realtà, più una figura ideale che una persona vivente. Ma, ad un tratto, un lungo grido di soddisfazione uscì dal petto della folla, variato in tutti i toni, saliente alle note più acute e scendente alle note più gravi: il grande balcone della terrazza si era schiuso. La gente che aspettava nella via cercò di penetrare nell'androne, quella che era nell'androne si accalcò nel cortile: vi fu come un serramento, mentre tutte le facce si levavano, prese da un'ardente curiosità, prese da un'angoscia ardente. Un grande silenzio. E guardando bene al moto delle labbra di certe donne, si vedeva che pregavano: mentre Carmela, la fanciulla dall'attraente volto consumato e dagli occhi neri infinitamente tristi, giocherellava con un cordoncino nero che le pendeva dal collo, e a cui erano attaccati una medaglina della Madonna Addolorata e un piccolo corno di corallo. Silenzio universale: di aspettazione, di stupore. Sul terrazzino, due uscieri del Regio Lotto avevano collocato un lungo e stretto tavolino coperto di un tappeto verde; e dietro il tavolino, tre seggioloni, perché vi sedessero le tre autorità: un consigliere di prefettura, il direttore del Lotto a Napoli, e un rappresentante del municipio. Sopra un altro piccolo tavolino fu collocata l'urna, per i novanta numeri. È grande, l'urna; tutta fatta di una rete metallica, trasparente, a forma di limone, con certe strisce di ottone che vanno da un capo all'altro, cingendola come i circoli del meridiano circondano la terra: sottili strisce luccicanti che ne assicurano la forza, senza impedirle la perfetta trasparenza. L'urna è sospesa, in aria, fra due piuoli di ottone, e presso un piuolo c'è un manubrio, anche metallico, che, voltato, fa rapidamente virare sul suo asse tutta l'urna. I due uscieri che aveano portato tutto questo materiale fuori il terrazzino erano vecchi, un po' curvi, come sonnacchiosi. Anche le tre autorità, in soprabito e cappello a cilindro, sembravano annoiate e sonnolente, sedendosi dietro il tavolino: così il consigliere di prefettura dai mustacchi tinti di un nero fortissimo, che pareva avessero stinto in bruno, sul bruno volto lucido e assonnato: così un consigliere comunale, che era un giovanotto dalla barbetta scura. Questa gente si muoveva lentamente, con una misura di movimenti, con una precisione di automi, tanto che un popolano, dalla folla, gridò: - Andiamo, andiamo! Di nuovo, silenzio, ma vi fu un grande ondeggiamento di emozione, quando comparve sulla terrazzina il fanciulletto che doveva estrarre dall'urna i numeri dell'estrazione. Era un fanciulletto vestito della bigia uniforme dell'Albergo dei Poveri, un povero fanciulletto del Serraglio, ome i napoletani chiamano l'ospizio di quelle creature abbandonate, un povero serragliuolo enza enzamadre e senza padre, o figliuolo di genitori che, per miseria o per crudeltà, avevano abbandonato la loro prole. Il fanciulletto, aiutato da uno degli uscieri, indossò, sull'uniforme da serragliuolo, na tunica di lana bianca: un berretto bianco, anche di lana, gli fu messo sulla testa, perché la leggenda del Lotto vuole che il piccolo innocente porti la veste bianca dell'innocenza. E lestamente salì sopra uno sgabello, per trovarsi all'altezza dell'urna. Di sotto, la folla tumultuava: - Bel figliuolo, bel figliuolo! - Che tu possa essere benedetto! - Mi raccomando a te e a San Giuseppe! - La Madonna ti benedica le mani! - Benedetto, benedetto! - Santo e vecchio, santo e vecchio! Tutti gli dicevano qualche cosa, un augurio, una benedizione, un desiderio, un'invocazione pietosa, una preghiera. Il bambino taceva, guardando, con la manina appoggiata sulla rete metallica dell'urna; e un po' discosto, appoggiato allo stipite del balcone, v'era un altro bambinetto del Serraglio, serio serio, malgrado le rosee guance e i biondi capelli tagliati sulla fronte: era il fanciulletto che doveva estrarre i numeri il sabato prossimo e che veniva là per imparare, per assuefarsi alla manovra dell'estrazione e ai gridi della folla. Ma di lui nessuno si curava: era quello vestito di bianco, quello di quel giorno, a cui si rivolgevano le mille esclamazioni della gente; era la piccola anima innocente biancovestita, che faceva sorridere di tenerezza, che faceva venire le lagrime agli occhi a quella folla di esseri tormentati, e speranzosi solo nella Fortuna. Alcune donne avevano sollevato nelle braccia i propri fanciullini e li tendevano verso il piccolo serragliuolo. le voci, tenere, appassionate, straziate, continuavano: - Pare un piccolo san Giovanni, pare! - Che tu possa trovare sempre grazia, se mi fai fare questa grazia! - Core di mamma, quanto è caro! Subito vi fu una diversione. Uno degli uscieri prendeva il numero da mettere nell'urna, lo mostrava spiegato al popolo, annunziandolo a voce chiara, lo passava alle tre autorità, che vi gettavano sopra un'occhiata distratta. Uno dei tre, il consigliere di prefettura, chiudeva il numero in una scatoletta rotonda, il secondo usciere lo passava al fanciulletto biancovestito che lo buttava subito nell'urna, dalla piccola bocca di metallo aperta. E a ogni numero che si annunziava, vi erano esclamazioni, strilli, sogghigni, risate. A ogni numero il popolo applicava la sua spiegazione, ricavata dal Libro dei sogni dalla Smorfia o da quella leggenda popolare che si propaga senza libri, senza figurine. Ed erano scoppii di risa, erano grassi scherzi erano interiezioni di paura o di speranza: il tutto accompagnato da un clamore sordo, come se fosse il coro in minore di quella tempesta. - Due! - …la bambina! - …la lettera! - … fammi arrivare questa lettera. Signore! - Cinque! - …la mano! - … in faccia a chi mi vuol male! - Otto! - …la Madonna la Madonna, la Madonna! Ma come ogni dieci numeri, chiusi nelle loro scatolette rotonde, bigie, erano stati buttati nell'urna dell'estrazione dal piccolo serragliuolo estito di lana candida, il secondo usciere chiudeva la bocca dell'urna, e, voltando il manubrio di metallo, le imprimeva un moto di giro sul suo asse, facendo rotolare, ballare, saltare i numeri. E di giù si gridava: - Gira, gira, vecchiarello! - Ancora un giro per me! - Dammi la giusta misura! I cabalisti, quelli non parlavano, non guardavano neppure i giri dell'urna: per essi non esisteva né il bimbo innocente, né il senso dei numeri, né il giro lento o vivace della grande urna metallica: per essi esisteva solo la Cabala, la Cabala oscura e pur limpidissima, la gran fatalità, dominante, imperante, che sa tutto, che può tutto e che tutto fa, senza che niun potere, umano divino, vi si possa opporre. Essi soli tacevano, pensosi, concentrati, anzi disdegnosi di quella forte gazzarra popolare, assorti in un mondo spirituale, mistico, aspettando con una profonda sicurezza. - Tredici! - …le candele! - …il candelotto, la torcia; smorziamola questa torcia! - … smorziamo, smorziamo! - rombava il coro. - Ventidue! - …il pazzo! - …il pazzarello! - …come te! - …come me! - …come chi giuoca alla bonafficiata Il popolo si sovreccitava. Lunghi fremiti correvano per la folla, che ondeggiava come se l'agitasse lo stesso bizzarro movimento del mare. Le donne, specialmente, erano diventate nervose, convulse, e stringevano nelle loro braccia i bimbi, così fortemente da farli impallidire e piangere. Carmela, seduta sull'alto macigno, aveva la mano raggricchiata intorno alla medaglina della Madonna e al piccolo corno di corallo: donna Concetta, la usuraia, dimenticava di rialzarsi lo sciallo di crespo nero che le cadeva sui fianchi poderosi, mentre le labbra avevano un breve moto convulso. Ed era affogato, il trillo sordo della macchina da cucire, sul balcone del primo piano: niuno più si curava della infaticabile cucitrice di biancheria. La febbre del popolo napoletano nella imminenza del sogno che stava per divenir realtà, si faceva sempre più acuta, dando un più vivo e più lungo sussulto quando veniva chiamato un numero popolare, un numero simpatico: - Trentatré! - … anni di Cristo! - … anni suoi! … questo esce. - …non esce! - …vedrete che esce! - Trentanove! - …l'impiccato! - … nella gola, nella gola! - …così debbo vedere chi dico io! - …stringi, stringi! Imperturbabili, sul terrazzino, le autorità, gli uscieri, il fanciulletto vestito di bianco, continuavano la loro opera, come se tutto quel tumulto di gente non arrivasse alle loro orecchie: solo l'altro bimbo, nuovo a quello stravagante spettacolo, guardava giù, dalla ringhiera, stupito, pallido, con le rosse labbrucce gonfie, come se volesse piangere: piccola anima inconscia e smarrita fra il turbine della profonda passione umana. L'operazione, sul terrazzino, procedeva con la massima calma: a ogni nuova diecina di numeri messi nell'urna, l'usciere la faceva girare più a lungo, facendo ballare e saltellare le pallottoline allegramente fra la trasparente rete di metallo. Non si scambiava una parola, lassù, non un sorriso: la febbre restava all'altezza delle persone, nel cortile, non saliva al primo piano. Giù, adesso, le persone più serie ridevano convulsamente, sottovoce, crollavano il capo, come se si fosse loro comunicato il morbo nella forma più chiassosa. L'operazione parve si affrettasse, verso la fine. Nuovi gridi accolsero il settantacinque che è il numero di Pulcinella e il settantasette che è quello del diavolo; ma un lungo, lunghissimo applauso salutò il novanta, l'ultimo numero, anzitutto perché era l'ultimo, poi perché il novanta è un numero estremamente simpatico: novanta fa la paura: ovanta fa il mare: ovanta fa il popolo: insieme ha altri cinque o sei significati, tutti popolari. Tutti applaudivano, nel cortile, uomini, donne, fanciulli, al gran novanta, che è l'omega del lotto. Poi, subito, come per incanto, un silenzio profondo si fece: una immobilità arrestò tutti quei corpi, tutte quelle facce, - la gran gente convulsa parve pietrificata nei sentimenti, nella parola, negli atti, nella espressione. Il primo usciere, quello che aveva dichiarato i novanta numeri, accostò alla balaustra una tabella di legno, lunga e stretta, a cinque caselle vuote, simile a quella dei bookmakers sui campi delle corse, mentre l'altro usciere dava gli ultimi giri all'urna riempita di tutti i novanta numeri. La tabella era voltata verso il popolo. Poi il consigliere scosse un campanello: il giro dell'urna si arrestò: il terzo usciere mise una benda sugli occhi del bimbo biancovestito; costui lestamente immerse la manina nell'urna aperta e cercò un momento, un momento solo, cavando subito una pallina col numero. Mentre questa pallina passava di mano in mano, giù, da quei petti pietrificati, da quelle bocche pietrificate, uscì un sospiro cupo, tetro, angoscioso. - Dieci, gridò l'usciere, dichiarando il numero estratto e mettendolo subito nella prima casella. Mormorio e agitazione fra il popolo: tutti coloro che avevano sperato nel primo estratto erano delusi. Nuova scossa di campanello: il bimbo immerse, per la seconda volta, la manina delicata nell'urna. - Due, gridò l'usciere, dichiarando il numero estratto e mettendolo nella seconda casella. Al crescente mormorio qualche bestemmia soffocata si aggiunse: tutti quelli che avevano giuocato il secondo estratto erano delusi: tutti quelli che avevano sperato di prendere quattro numeri erano delusi: tutti quelli che avevano giuocato un grosso temo secco cominciavano a temere fortemente la delusione. Tanto che, quando per la terza volta la manina del fanciulletto penetrò nell'urna, qualcuno gridò, angosciosamente: - Cerca bene, scegli bene, bambino! - Ottantaquattro, gridò l'usciere, dichiarando il numero e collocandolo nella terza casella. Qui scoppiò il grande urlo d'indignazione, fatto di bestemmie, di lamenti, di esclamazioni colleriche e dolorose. Questo terzo numero, cattivo, era decisivo, era decisivo per l'estrazione e per i giuocatori. Con l'ottantaquattro erano delusi già tutti quelli che avevano giuocato il primo, il secondo e il terzo estratto; erano delusi tutti quelli che avevano giuocato la quintina, la quaterna, il terno, il terno secco, speranza e amore del popolo napoletano, speranza e desiderio di tutti i giuocatori, da quelli accaniti a quelli che giuocano una volta sola, per caso: il terno che è la parola fondamentale di tutti quei desiderii, di tutti quei bisogni, di tutte quelle necessità, di tutte quelle miserie. Un coro di maledizioni si levava, di giù, contro la mala fortuna, contro la mala sorte, contro il Lotto e contro chi ci crede, contro il governo, contro quello sciagurato ragazzo che aveva la mano così disgraziata. Serragliuolo, serragliuolo! ridavano da basso, per insultarlo, mostrandogli il pugno. Dal terzo al quarto numero passarono due o tre minuti; ogni settimana accadeva così: il terzo numero era l'espressione paurosa della infinita delusione popolare. - Settantacinque, dichiarò con voce più fiacca l'usciere, mettendo il numero estratto nella quarta casella. Tra le voci irose che non si calmavano, qualche fischio risuonò, vendicativo. Le ingiurie piovevano sul capo del bimbo; ma le maggiori imprecazioni erano contro il Lotto dove non si può vincere mai, mai, dove tutto è combinato perché non si vinca mai, mai, specialmente per la povera gente. - Quarantatrè, - finì di proclamare l'usciere, collocando il quinto ed ultimo numero. E un ultimo soffio di collera, fra il popolo: niente altro. In un momento, dal terrazzino scomparve tutta la fredda macchina del lotto: sparvero i due bimbi, le tre autorità, l'urna con gli ottantacinque numeri e il suo piedistallo, sparvero tavolini, seggioloni, uscieri, si chiusero i cristalli e le imposte del grande balcone, in un momento. Sola, ritta, accosto alla balaustra, rimase la crudele tabella, coi suoi cinque numeri, quelli, quelli, la grande fatalità, la grande delusione. Con molta lentezza, a malincuore, la folla si diradava nel cortile. Sui più esaltati dalla passione del giuoco aveva soffiato il vento della desolazione e li aveva abbattuti, come se avessero le braccia e le gambe spezzate, la bocca amara di bile: quelli che avevano giuocato tutt'i loro denari, quella mattina, non sentendo più il bisogno di mangiare, di bere, di fumare, nutrendosi vividamente delle visioni di cuccagna nella fantasia, sognando per quella sera di sabato e per la domenica e per tutti i giorni successivi, tutta una spanciata di pranzi grassi e ricchi, divorati in immaginazione, tenevano mollemente le mani nelle tasche vuote, e negli occhi desolati si dipingeva il fisico, l'infantile dolore di chi sente i primi crampi della fame e non ha, sa di non poter avere il pane per chetare lo stomaco: altri, i più folli, caduti dall'altezza delle loro speranze in un momento, provavano quel lungo minuto di pazzia angosciosa, quando non si vuol credere, no, non si può credere alla sventura e gli occhi hanno quello sguardo smarrito che non vede più la forma delle cose e le labbra balbettano parole incoerenti - ed erano questi folli disperati che ancora figgevano gli occhi sulla tabella dei cinque numeri, come se non potessero ancora convincersi della verità, e macchinalmente confrontavano i cinque numeri, con la lunga lista bianca delle loro bollette da giuoco: - e i cabalisti, infine, non se ne andavano ancora, discutendo fra loro come tanti filosofi, come tanti loici, sempre concentrati nell'alta matematica del lotto, dove vivono le figure, e e cadenze, e triple, a ragione algebrica del quadrato maltese le immortali elucubrazioni di Rutilio Benincasa . Ma in quelli che se ne andavano, come in quelli che restavano lì, inchiodati dalla loro passione, in quelli che discutevano furiosamente, come in quelli che abbassavano la testa, smorti, perduti di coraggio, senza più forza di agire e di pensare, variava la forma della desolazione, ma la sostanza della desolazione era la stessa, profonda, intensa, faciente sanguinare le più intime fibre, intesa a distruggere le stesse sorgenti dell'esistenza. Il lustrino Michele, lo sciancato, sempre seduto per terra, con la sua cassetta nera fra le gambe contorte, aveva udito l'estrazione senza levarsi, nascosto dietro le persone che si accalcavano. Ora, mentre la folla sfilava pian piano, egli avea chinato il capo sul petto e la gialla tinta del suo volto di vecchio rachitico si era colorata di verde, come se tutta la bile gli fosse salita al cervello. - Niente? - domandò una voce sorda accanto a lui. Egli levò macchinalmente gli occhi bigi dalle palpebre rosse e vide Gaetano, il tagliatore di guanti, che mostrava nel volto scialbo l'accasciamento degli esaltati delusi. - Niente, - disse breve breve il lustrino, riabbassando gli occhi. - E niente pur io. Ci hai cinque o sei soldi, per combinazione, compare? Lunedì te li ridò. - Chi me li dà? Se ne hai dieci, facciamo cinque per ciascuno, - mormorò disperatamente il lustrino. - Addio, compare, - disse, con voce rude, il tagliatore di guanti. - Addio, compare, - rispose, nel medesimo tono, il lustrino sciancato. Ma mentre Gaetano si allontanava, sotto il portone, passò accanto a lui, seria, lenta, con gli occhi abbassati, donna Concetta, dalla catena d'oro che le ondeggiava sul petto e dalle mani inanellate. - Avete guadagnato nulla, Gaetano? - domandò ella, con un lieve sorriso. - Ho preso una saetta che mi colga! - gridò lui, esasperato dal trovarsi accanto l'usuraia, che gli ricordava tutta la sua miseria, esasperato dalla domanda in quel momento. - Va bene, va bene, - ribatté ella, freddamente. - Ci vediamo lunedì, non vi dimenticate. - Non me lo dimentico, no, vi tengo in cuore, come la Madonna, - le gridò appresso, lui, con voce fischiante. Ella crollò il capo, andandosene. Non veniva là per interessi suoi, perché ella non giuocava mai; e neppure per tormentare qualche suo debitore, come Gaetano; veniva per interesse di sua sorella, donna Caterina, la tenitrice di giuoco piccolo, he non osava presentarsi lì, in pubblico. Donna Caterina comunicava a sua sorella i numeri che più temeva, cioè quelli che più erano stati giuocati da lei e per cui avrebbe dovuto pagare più forti somme: se questi numeri temuti uscivano, allora donna Concetta spiccava un ragazzino a sua sorella, la quale era pronta a far fagotto, per non pagare nessuno. Già tre volte aveva fatto fallimento così, col denaro delle giuocate in tasca, donna Caterina: ed era fuggita una volta a Santa Maria di Capua, una volta a Gragnano, una volta a Nocera dei Pagani, restandovi un paio di mesi; ed aveva avuto il coraggio di ritornare, affrontando i giuocatori delusi, con alcuni servendosi dell'audacia, ad altri dando pochi soldi, ricominciando il giuoco, mentre i rubati, i truffati, i delusi, ritornavano a lei, incapaci di denunziarla, ripresi dalla febbre, o tenuti in rispetto da donna Concetta, a cui tutti dovevano del denaro; e la speculazione continuava, il denaro passava da una sorella all'altra, dalla tenitrice di banco che sapeva fallire a tempo, alla strozzina che osava affrontare i più malintenzionati fra i suoi debitori. Né questa fuga era considerata come un delitto, come un furto, da donna Caterina e dalla sua clientela; forse che, più in grande, non fa così anche il governo, che ha assegnato una dote di sei milioni per ogni estrazione e per ogni ruota elle otto, e quando, per una rarissima combinazione, le vincite sorpassano i sei milioni, non fallisce anche il governo, diminuendo l'entità delle vincite? Oh, ma quel giorno non vi era bisogno, per donna Caterina, di fallire, di fuggire; i numeri estratti erano così cattivi, che non aveva vinto nessuno dei suoi giuocatori, forse; e donna Concetta se ne risaliva pian piano, per via Santa Chiara, senz'affrettarsi, sapendo che quello era un sabato desolante per tutta Napoli che giuoca, e preparandosi alle sue battaglie di usuraia, del lunedì. Le passavano accanto, tutte quelle creature infelici, dalle speranze infrante: ed ella crollava il capo, saggiamente, su quelle aberrazioni umane, stringendo i lembi dello scialle di crespo nero, fra le mani inanellate. Una donna che veniva in giù, rapidamente, tirandosi dietro una bimba e un bimbo, portando una creaturina da latte sulle braccia, la sfiorò, la oltrepassò, entrò nel cortile dell'Impresa, dove ancora qualche persona si tratteneva. Era una donna poverissimamente vestita, con una veste di percalla così sfrangiata e fangosa, che faceva pietà e disgusto; con un lembo sfilacciato di scialletto di lana, al collo; e nella faccia così scarna, così consunta, coi denti così neri e coi capelli così radi, che i suoi figli, i suoi tre figli, non laceri, non sporchi, e bellini, pareva non le appartenessero. Il lattante, un po' gracile solamente, le abbassava il capo sulla spalla, per dormire: ma la poveretta era così agitata, che non gli badava più. E vedendo Carmela, sua sorella, seduta sempre sull'alto macigno, con le mani abbandonate in grembo, la testa abbassata sul petto, sola sola, come immobilizzata in un dolore senza parola, le andò vicino: - Oh, Carmela! - Buon giorno, Annarella, - disse Carmela, trasalendo, abbozzando un pallidissimo sorriso. - Stai qua anche tu? - chiese, con una intonazione di sorpresa dolorosa. - Eh… già, - rispose Carmela, con un cenno di rassegnazione. - Hai visto Gaetano, mio marito? - domandò ansiosamente Annarella, facendo scivolare dalla spalla sul braccio la testolina del suo lattante, perché potesse addormentarsi più comodamente. Carmela levò i suoi grandi occhi sul volto della povera sorella, ma la vide così disfatta, così brutta di miseria e di privazioni, così già vecchia, così sacra di già alla malattia e alla morte, così disperata in quella domanda, che non osò dirle la verità. Sì, aveva visto Gaetano, il tagliatore di guanti, suo cognato, lo aveva visto prima fremente e ansioso, poi pallido e accasciato; ma sua sorella, ma il gracile lattante addormentato, ma i due altri fanciulletti, che si guardavano curiosamente intorno, le facevano troppa pietà. Ella mentì. - Non l'ho visto per niente, - disse, chinando gli occhi. - Ci doveva essere, - mormorò Annarella, con la sua voce rauca e lenta. - Ti assicuro che non vi era affatto. - Non lo avrai visto, - ripetè Annarella, ostinata nella sua dolorosa incredulità. - Come poteva non venire? Qua viene ogni sabato sorella mia. Può essere che a casa sua, con queste sue creature, non ci sia; può essere che alla fabbrica dei guanti, dove si può guadagnare il pane, non vi sia; ma non può essere, che non sia qui il sabato, a sentire che numeri escono; qui sta la sua passione e la sua morte, sorella mia. - Gioca assai, non è vero? - disse Carmela, che si era fatta pallidissima e aveva le lagrime negli occhi. - Tutto quello che può e anche quello che non può. Potremmo vivere alla meglio, senza cercare nulla a nessuno; ma invece, per questa bonafficiata, iamo pieni di debiti e di mortificazioni, e mangiamo, ogni tanto, così, quando porto io un pezzo di pane a casa. Ah, queste creature, queste creature, queste povere creature! E la voce era così maternamente straziata, che Carmela lasciava scendere le sue lagrime lungo le guance, vinta da uno infinito struggimento di pietà. Adesso erano quasi sole, nel cortile. - E tu, perché ci vieni, a sentire questa bonafficiata? domandò a un tratto Annarella, presa da una collera contro tutti quelli che giuocavano. - Eh, che ci vuoi fare, sorella mia? - disse l'altra, con la sua armoniosa voce infranta; - che ci vuoi fare? Tu lo sai che vorrei vedervi tutti contenti, mamma nostra, te, Gaetano, le creature tue e Raffaele, l'innamorato mio e…un'altra persona; tu lo sai che la vostra croce è la mia croce, e che non ho un'ora di pace, pensando a quello che soffrite. Così, tutto quello che mi resta, di quello che guadagno, lo giuoco. Un giorno o l'altro, il Signore mi deve benedire, debbo prendere un terno…allora, allora, vi dò tutto a voi, tutto vi dò. - Oh, povera sorella mia! povera sorella! - disse Annarella, presa da una malinconica tenerezza. - Deve venire quel giorno, deve venire… - susurrò l'appassionata, come se parlasse a sé stessa, come se già vedesse quella giornata di benessere. - Possa passare un angiolo e dire amen mormorò Annarella, baciando la fronte del suo lattante. - Ma dove sarà Gaetano? - riprese, vinta dalla sua cura. - Di' la verità, Annarella, - chiese Carmela, scendendo dal macigno e avviandosi per andarsene, - non hai niente da dare, ai bambini, oggi? - Niente, - disse con quella voce fioca. - Prendi questa mezza lira, prendi, - disse l'altra, cavandola dalla tasca e dandogliela. - Iddio te lo renda, sorella mia. E si guardarono, con tanta mutua pietà che, solo per vergogna di chi passava nel vicolo dell'Impresa, non scoppiarono in singhiozzi. - Addio, Annarella. - Addio, Carmela. La fanciulla appassionata depose un lieve bacio sulla fronte del bimbo dormiente. Annarella, col suo passo molle di donna che ha fatto troppi figli e che ha troppo lavorato, se ne andò per il chiostro di Santa Chiara, tirandosi dietro gli altri due figlietti, il bimbo e la bimba. Carmela, stringendosi nel gramo e scolorito scialletto nero, trascinando le scarpe scalcagnate, scese verso il larghetto dei Banchi Nuovi. Fu là soltanto che un giovanotto pulitamente vestito, coi calzoni stretti al ginocchio e larghi come campane sul collo del piede, con la giacchetta attillata, e il cappelletto sull'orecchio, la fermò, guardandola coi suoi freddi occhi di un azzurro chiaro e stringendo sotto i piccoli baffi biondi le labbra vivide, come quelle di una fanciulla. Fermandosi, prima di parlargli, Carmela guardò il giovanotto, con tale intensità di passione e di tenerezza che parve lo volesse avvolgere in una atmosfera di amore. Egli non sembrò addarsene. - Ebbene? - chiese egli, con una vocetta fischiante, ironica. - Niente! - disse lei, aprendo le braccia con un gesto di desolazione; e per non piangere, teneva la testa china, si guardava la punta degli stivaletti che avevano perduto la vernice e mostravano, dalle scuciture, la fodera già sporca. - E che ti pare! - esclamò il giovanotto, irosamente. - La femmina sempre femmina è. - Che colpa ci ho io, se i numeri non sono usciti? - disse umilmente, dolorosamente la fanciulla appassionata. - Dovresti cercarli, i buoni; andare dal padre Illuminato che li sa, e li dice solo alle donne; andare da don Pasqualino, quello che lo assistono gli spiriti uoni, e saperli, i numeri. Figliuola mia, levatelo della testa che io possa sposare una straccioncella come te… - Lo so, lo so…- mormorò quella umilmente. - Non me lo dire più. - Pare che te lo dimentichi. Senza denari non si cantano messe. Salutiamo! - Non vieni stasera, dalla parte di casa mia? - osò chiedere, ella. - Ho da fare; debbo andare con un amico. A proposito, me le presti un paio di lire? - Ne ho una sola, una sola…- esclamò lei, tutta rossa, mortificata, cavando la lira timidamente dalla tasca. - Possa morire uccisa la miseria! - bestemmiò lui, masticando il suo mozzicone di sigaro napoletano. à qua. Cercherò di accomodare alla meglio le cose mie. - Non ci passi, per casa? - pregò lei con gli occhi, con la voce. - Se ci passo, passerò assai tardi. - Non importa, non importa, ti aspetto al balconcino, - disse lei, crollando il capo, ostinata, in quella umiliazione della sua anima e della sua persona. - E non mi posso fermare… - Ebbene, fischia; fa un fischio, io ti sento e mi addormento più quieta, Raffaele. Che ti fa, passando, di fischiare? - E va bene, - annuì lui, con indulgenza, - va bene. Addio, Carmela. - Addio, Raffaele. Si fermò a vederlo andar via, rapidamente, dalla parte della via Madonna dell'Aiuto; le scarpette verniciate scricchiolavano, il giovanotto camminava con quel passo di fierezza che è speciale ai popolani guappi. La Madonna lo possa benedire, per quanti passi dà, - mormorò la fanciulla, fra sé, teneramente, andandosene. Ma, camminando, si sentiva fiacca e scorata; tutte le amarezze di quella perfida giornata, le amarezze che ella soffriva per amore degli altri, le amarezze di sua madre che faceva la serva a sessant'anni, di sua sorella che non aveva pane per i suoi figli, di suo cognato che si faceva trascinare alla rovina, del suo fidanzato che avrebbe voluto veder felice e ricco come un signore e a cui mancava sempre la lira in tasca, tutte queste amarezze e altre, più profonde ancora, e la più grande, la più profonda ancora, la più desolante fra le amarezze, quella della propria impotenza, tutte le si versavano dall'anima nel sangue, le salivano alle labbra, agli occhi, al cervello. Oh non bastava che ella lavorasse, in quel nauseante mestiere, alla Fabbrica dei tabacchi, per sette giorni alla settimana: non bastava che non avesse né un vestito decente, né un paio di scarpe non rotte, tanto che alla Fabbrica non la vedevano bene; non bastava che ella digiunasse, quattro volte su sette, nella settimana, per dare la lira a sua madre, le due lire a Raffaele, la mezza lira a sua sorella Annarella e tutto il resto, quando ce n'era, al giuoco del lotto; era inutile, inutile, non avrebbe mai fatto niente, per quelli che amava; non valevano né la fatica, né la miseria, né la fame; nulla serviva a nulla. E mentre scendeva per i gradini di San Giovanni Maggiore, a Mezzocannone, approssimandosi alla sua più dolorosa tappa, ella si sarebbe uccisa, tanto si sentiva misera, impotente, inutile. Pure, andava: e fu in un larghetto remoto dei Mercanti, un larghetto che sembrava una corticella di servizio, che si fermò, appoggiandosi al muro come se non potesse andare più avanti. Il larghetto era sporco di acque sudicie, di cortecce di frutta, di un cappellaccio feminile, sfondato, buttato in un cantuccio; e delle finestre di un primo piano, tre avevano le gelosie verdi socchiuse, lascianti passare solo uno spiraglio di luce: piccole finestre meschine e gelosie stinte, su cui la polvere, l'acqua e il sole avevano lasciato le loro impronte; portoncino piccolo, dal gradino sbocconcellato e umido, dall'androne stretto e nero come un budello. Carmela vi guardava dentro, con gli occhi spalancati da un sentimento di curiosità e di paura. Una donna piuttosto vecchia, una serva, ne uscì, sollevando la gonna per non insudiciarsi nel rigagnolo. Carmela, certo, la conosceva, perché le si rivolse francamente: - Donna Rosa, volete chiamare Maddalena? Quella la squadrò, per riconoscerla: poi, senza rientrare in casa, dal larghetto chiamò, verso le finestre del primo piano: - Maddalena, Maddalena! - Chi è? - rispose una voce roca, dall'interno. - Tua sorella ti vuole; scendi. - Ora vengo - disse la voce, più piano. - Grazie, donna Rosa, - mormorò Carmela. - Poco a servirvi, - rispose l'altra, brevemente, allontanandosi. Maddalena si fece aspettare due o tre minuti; poi un rumore cadenzato di tacchi di legno si udì per l'androne ed ella comparve. Portava una gonnella di mussola bianca, con un'alta balza di ricamo anche bianco: un giubbetto di lana color crema, molto attillato, con nodi di nastro, di velluto nero, alle maniche, alla cintura, sui fianchi: e uno sciallino di ciniglia color di rosa, al collo, - la gonna lasciava vedere gli scarponcini di pelle lucida, dai tacchi molto alti, e le calzette di seta rossa. Ella rassomigliava, nel volto, tanto ad Annarella quanto a Carmela; ma i capelli bruni, rialzati, pettinati bene, fermati da forcelle bionde di scaglia, ma le guancie un po' smorte, coperte di rossetto, facevano dimenticare ogni rassomiglianza con Annarella e la rendevano assai più seducente di Carmela. Le due sorelle non si baciarono, non si toccarono la mano, ma si scambiarono uno sguardo così intenso che valse per ogni parola e per ogni cenno. - Come stai? - disse con voce tremula Carmela. - Sto bene, - fece Maddalena, crollando il capo, come se non fosse la salute quella che importasse. - E mamma come sta? - Come una vecchiarella… - Povera mamma, poveretta!… Annarella, come sta? - Oh quella sta piena di guai… - Miseria, eh? - Miseria. Sospirarono ambedue, profondamente. Quando si guardavano, era un rossore e un pallore che tramutava loro il viso. - Anche oggi, mala nova ti porto, Maddalena, - disse finalmente Carmela. - Niente, eh? - Niente. - È cattiva sorte la mia, - mormorò Maddalena, a bassa voce. - Ho fatto tanti voti alla Madonna, non già all'Immacolata, che non sono degna neppure di nominarla, ma all'Addolorata che capisce e compatisce la mia disgrazia… ma niente, niente ci ha potuto!… - La Madonna Addolorata ci farà questa grazia, - disse piano, Carmela, - speriamo quest'altro sabato. - Così speriamo, - rispose l'altra, umilmente. - Addio, Maddalena. - Addio, Carmela. Maddalena voltò le spalle e col suo passo, cui facevano da ritmo i tacchetti di legno, scomparve nell'androne: allora solo Carmela fece per slanciarsele dietro per richiamarla; ma quella era già in casa. La fanciulla se ne andò, correndo, stringendosi convulsamente nello scialle, mordendosi le labbra per non singhiozzare. Oh tutte le altre amarezze, tutte, anche quel sabato senza pane, non erano niente di fronte a quella che si lasciava dietro, ma che veniva anche con sé, eterna avvelenatrice, vergogna eterna del suo cuore. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Alle cinque e mezzo il cortile dell'Impresa era perfettamente vuoto e silenzioso; non vi entrava più nessuno, neanche per guardare quella solitaria tabella dei cinque numeri estratti; i cinque numeri erano già stati affissi a tutti i botteghini di lotto di Napoli e innanzi a ognuno, per tutta la città, vi era un gruppo di gente ferma. Niuno entrava più nel cortile dell'Impresa; la folla sarebbe ritornata solo fra sette giorni. Allora uno scalpiccìo si fece udire. Era un usciere del Lotto, che si menava per mano i due bambini dell'Albergo dei Poveri; quello che aveva estratto i numeri e quello che li doveva estrarre il sabato venturo; l'usciere li riportava all'Ospizio, dove avrebbe consegnato le venti lire di pagamento settimanale che fa il Regio Lotto al bimbo che estrae i numeri. I due fanciulletti sgambettavano dietro all'usciere, cinguettando allegramente; la cucitrice di bianco, che lavorava alla sua macchina, levò il capo e sorrise loro. Poi ricominciò a battere col piede sul pedale e a condurre il pezzo di tela, diritto, sotto l'ago; seguitò quietamente, instancabilmente, figura umile e pura del lavoro.

E vi è l'ambo, l'ambo del quattordici e settantanove, che ho avuto la disgrazia di abbandonare, a che è uscito tre settimane dopo che l'ho abbandonato. Son fatti questi, signori miei, fatti e non parole! - Sono le sessanta lire che gli date al mese, perché non faccia più il ciabattino e vi faccia la cabala! - interruppe vivamente il dottor Trifari. - Cifariello un'anima ignorante, innocente: egli mi ha dato il quattordici e settantanove, e io l'ho abbandonato! - Anche padre Illuminato mi ha dato quattordici e settantanove, - ribattè il dottor Trifari, - ma nella settimana buona. - E avete preso? Non avete detto niente agli amici? - domandò, concitato assai, il marchese Formosa. - Niente ho preso! Ho diviso i due numeri, in due biglietti diversi. Non ho capito la fortuna che mi dava padre Illuminato; quello solo li sa i numeri, signori miei, e nessun altro, nessun altro, perdio! Quello tiene in mano la nostra fortuna, il nostro avvenire. È una cosa forte: quando gli tasto il polso per vedere se ha la febbre, io mi sento tremare tutto… - Padre Illuminato è un egoista, - fischiò la voce sarcastica, tagliente del professor Colaneri. - Perché vi ha cacciato di casa sua, un giorno, che volevate a forza i numeri! Egli non dà numeri ai sacerdoti che hanno buttato via la tonaca: è un credente, padre Illuminato… - Io li vedo da me, i numeri! - strillò acutamente il Colaneri. - Mi basta non cenare, la sera, quando vado a letto: e meditare per un'ora, per due ore, prima di dormire: e poi li vedo, capite che li vedo? - Ma poi non escono, non escono! - urlò il marchese di Formosa. - Non escono perché ho la mente ottenebrata dagli interessi umani, perché non so staccarmi completamente dal desiderio di vincere, perché ad avere la visione lucida, bisogna avere l'anima pura, purissima, lasciare ogni torbidezza di passione, elevarsi nel dominio della fede. Ah io li vedo, ma spesso, ma quasi sempre uno spirito maligno ottenebra i miei occhi… - Sentite, sentite, - disse forte Ninetto Costa, l'elegante e ricco agente di cambio, - io ho fatto di più, io ho saputo che una giovane modista che abita al vico Baglivo Uries, aveva reputazione di dare i numeri buoni, i numeri veri: essa, non può giuocarli, come sapete, le è proibito sotto pena di non conoscere più i numeri. Ma li dà! Me le sono messo attorno, con la scusa di un amore improvviso, pazzo, le ho fatto dei regali, la vedo ogni sera e ogni mattina, sono giunto finanche a promettere di sposarla. - E vi ha dato niente? - chiese ansiosamente il marchese di Formosa. - Niente ancora! Evita il discorso, quando io gliene parlo, timidamente. Ma li darà, perdio, se li darà! Oh! come Bianca Maria avrebbe voluto che quel rosario recitato così distrattamente, quella sera, continuasse ancora, per non farle udire quei folli discorsi, di cui non perdeva una parola e che le turbinavano nel cervello, dandole la sensazione di un vortice in cui fosse travolta la sua anima. Come non avrebbe voluto udire gli impeti di quelle menti stralunate, assorbite nella idea fissa! Ora parlava il marchese di Formosa, vibratamente: - Sta bene l'ignoranza sapiente del ciabattino Cifariello, ta bene la santità di padre Illuminato, stanno bene le visioni lucide del nostro amico Colaneri, ma dove è il risultato? Che si vede? Che abbiamo ottenuto? Noi qui ci giuochiamo l'osso del collo, ogni settimana, cavando denari dalle pietre, ognuno di noi, e vincendo, ogni cento anni, la miseria di un piccolo ambo, o la più grande miseria di un numero per estratto. Qui ci vogliono mani più potenti! Qui ci vogliono forze più alte! Qui ci vogliono miracoli, signori miei! Si dovrebbe far decidere mia sorella monaca, Maria degli Angioli, a dare i numeri! Mia figlia dovrebbe farla decidere. Qui ci vorrebbe mia figlia stessa, che è un angelo di virtù, di purezza, di bontà, che chiedesse i numeri all'Ente Supremo! Un profondo silenzio seguì queste parole. Suonò il campanello della porta di entrata. Bianca Maria che, tremando tutta, si era trascinata sin dietro la tenda della sua porta, vide passare ed entrare nel salone un uomo miserabilmente vestito, dall'aspetto ignobile, con le guance smunte, livide, striate di rosso e la barbaccia nera di un convalescente che esce dall'ospedale, un'apparizione penosa e paurosa. All'entrata del bizzarro individuo nel salone, era subentrato il silenzio, come se improvvisamente si fossero placati tutti gli animi, come se una grande misteriosa tranquillità fosse apportata dallo sconosciuto. Bianca Maria, appoggiata allo stipite della sua porta, tendeva l'orecchio, ansimando. Forse i cabalisti erano ritornati al loro tavolino, portandosi seco loro quel nuovo arrivato. Durò a lungo il silenzio. Immobile, quasi rigida, essa si aggrappava al legno della porta, per non cadere: quello che aveva udito era troppo crudelmente doloroso, per non sentirsi spezzar l'anima. La teneva un'umiliazione, un'angoscia senza nome, come se tutta la sua sensibilità non fosse oramai che un dolore solo. Soffriva in tutto, nella fierezza natia, nel suo riserbo di fanciulla offesa dal suo nome buttato così, in una disputa di pazzi, da suo padre: soffriva nella sua tenerezza filiale, per sé e per suo padre, come avrebbe sofferto per ambedue, se egli l'avesse schiaffeggiata in pubblico: l'angoscia le saliva al cervello come se volesse abbruciarlo fra le sue strette roventi. Quanto tempo ella stette così, quanto tempo durò il silenzio, nuovamente, nel salone? Ella non lo avvertì. Solo, nel suo affanno, udì passare dietro la tenda della sua porta e uscire chetamente di casa, come tanti cospiratori, uno ad uno, tutti gli amici di suo padre. Allora, macchinalmente, uscì dalla sua stanza per cercare di lui. Ma il salone era scuro: era scura la piccola stanza da studio dove il marchese di Formosa entrava ogni tanto, a consultare qualche vecchio libro di cabala. Bianca Maria cercava suo padre affannosamente. Alla fine, una luce la guidò. Don Carlo Cavalcanti era entrato nella piccola cappella; aveva ravvivato la lampada innanzi alla Vergine Addolorata; aveva acceso la lampada spenta per suo ordine, innanzi all' Ecce Homo aveva acceso le due candele di cera nei candelabri dell'altare e li aveva trasportati innanzi a Gesù Cristo. Non contento di ciò, aveva anche portato nella piccola cappella il lume a petrolio del salone e in quella grande illuminazione si era prostrato, buttato giù, disperatamente, innanzi al Cristo, e trasalendo, sussultando, singhiozzando, pregando ad alta voce, diceva al Redentore: - Ecce Homo io, perdonatemi, sono un ingrato, sono uno sconoscente, sono un misero peccatore. Ecce Homo perdonatemi, perdonatemi, non mi fate scontare i miei peccati. Fatemi la grazia per quella figlia che languisce, per la mia famiglia che muore! Io sono indegno, ma beneditemi per quella creatura! O Vergine dei Dolori, voi che tutto avete sofferto, capitemi voi, soccorretemi voi! Mandatela voi una visione a suora Maria degli Angioli! O anima santa di Beatrice Cavalcanti, moglie mia benedetta, se io ti ho addolorata, perdonami, perdonami se ti ho abbreviata la vita, fallo per tua figlia, salva la tua famiglia, comparisci a tua figlia, che è innocente, digliele a lei le parole che ci debbono salvare…anima santa, anima santa… La fanciulla, che tutto aveva inteso, fu presa da tale invincibile paura che fuggì, tenendosi la testa fra le mani, con gli occhi chiusi; ma giunta nella sua camera, le parve udire come un profondo, triste sospiro dietro a sé, le parve che una lieve mano le si posasse sulla spalla; e folle di terrore, senza che un grido potesse uscire dal petto, crollò per tutta la sua altezza sul pavimento e giacque come morta.

. - Per carità, per carità, se mi volete bene, andate a chiamare il dottor Amati, - singultava l'inferma, col capo abbandonato, che ogni tanto si sollevava, sbattendo sul cuscino. - È pazza, è pazza, - gridava il vecchio frenetico. - Signore mio, andatevene fuori, ve ne prego, andatevene fuori, - supplicava Margherita, vedendo che la figliuola fissava i suoi occhi, ora carichi di un'intensa collera, ora di un intenso dolore, sul padre e che ciò lo rendeva anche più frenetico. - Me ne vado, me ne vado, ma essa non lo vedrà, il dottor Amati! - gridava, lui, uscendo fuori, sentendo di non regger più. Ma dal salone dove egli aveva portato il suo furore, egli udì un urlo alto, lungo, straziante, come se all'inferma le si attanagliasse la carne: e dopo, altre grida, più basse, ma strazianti ugualmente, tanto vibrava in esse un lamento di dolore insopportabile, e parole alte e basse, che gli arrivavano confusamente. La fanciulla era caduta in convulsioni: a un tratto il rumore si chetava ed allora, tremando ancora, di una complessa emozione d'ira, di pietà, di paura, egli si avvicinava alla stanza, ma non entrava, chiamando la cameriera sulla porta. - Come sta? - Peggio, peggio, - diceva ella, piangendo silenziosamente. - Ma che dice? - Vuole il dottor Amati. - Questo, mai. I brevi dialoghi, però, malgrado che la inferma fosse immersa, a intervalli, in un coma profondo, erano uditi da lei: e due volte, uscendo dal quel torpore, le alte grida erano scoppiate, di nuovo, nella convulsione di tutti i muscoli, specialmente nella spaventosa contrattura di quelli della nuca. Attraverso le grida, quel nome, quel nome che la povera creatura aveva adorato per tanto tempo in segreto, quel nome che era stato per lei il segno della salvazione, quel nome ricompariva, sempre, ostinatamente, in quel delirio, proclamato dall'anima che non conosceva più vincoli, pronunziato imperiosamente, dolcemente, disperatamente, con tale impeto di amore, che Margherita e Giovanni che accorrevano per frenare le braccia della convulsa, si sentivano schiantare il cuore. Di là, come l'inferma levava la voce, ora stridula, ora grave, a invocare il dottore Amati, il marchese Cavalcanti trasaliva, e fremeva di quell'odio ostinato e cieco dei vecchi, che non sanno perdonare. Invano, invano egli cercava di distrarsi, di non udire, di non sentire il dolore disperato di quella invocazione; invano egli chinava il capo, turandosi le orecchie, fuggito nell'ultima stanza dell'appartamento: gli giungeva sempre quel lamento clamoroso, fitto, che nulla arrivava a sopire. Era un incubo, oramai: e malgrado la distanza, malgrado le porte chiuse, egli udiva distintamente, precisamente, le parole di amore e di dolore con cui Bianca Maria invocava il dottor Amati; le parole gli si imprimevano nella mente, gli martellavano il cervello, come una persecuzione. Ciò continuava da un ora e mezzo ed ella non si chetava, non taceva, trovando nuova forza nervosa, per chiamare, per chiamare, come se la sua voce, come se la sua chiamata dovesse passare attraverso le mura, attraverso le strade, dovesse arrivare sino all'uomo che ella voleva, per salvarsi. Ah che incubo, che incubo, udire il delirio della sua figliuola, la quale lo scacciava dal suo tetto e disperatamente faceva appello a un altro uomo! Ogni tanto, come per far finire quella follia parlante, invocante, egli si appressava alla porta della stanzetta, e udiva la voce piana di Margherita che, tenendo abbracciata la sua padrona, cercava di calmarla, mentre costei seguitava, quasi che non avesse più orecchie per altre voci, quasi che ella dovesse chiamare il dottor Amati fino a che lo vedesse comparire nella sua stanza. E il vecchio padre si allontanava, furioso e disperato, tremando di collera e tremando di angoscia, non sapendo più che fare, ora avvilito, ora feroce, indomito sempre, conservando il suo odio, non sapendo placarsi, col sangue che gli bolliva nelle vene, e con un'ambascia che l'opprimeva. Ma a un certo punto, udì suonare il campanello ed entrare qualcuno nell'appartamento e poi nella stanza di Bianca Maria. Formosa restò immobile, stupefatto. Chi era entrato, dunque? Quando Margherita apparve nella stanza ove egli si era rifugiato e lo chiamò con un cenno, egli la seguì, docilmente. Presso il letto dell'ammalata, tenendole le braccia convulse e guardandola negli occhi, era il medico curante, il Morelli, che la povera cameriera aveva chiamato. Ma Bianca Maria, anche sotto le mani ferme del medico, anche sotto il suo sguardo scrutatore, continuava a tremare, convulsamente il capo le si sollevava dal guanciale, dal collo che si tendeva, irrigidendosi: e poi la testa ricadeva di nuovo, accasciata, con un continuo piccolo movimento di va e vieni, mentre instancabilmente ella continuava a dire, ora pian piano, ora acutamente: - Amati… Amati…Amati…voglio Amati… - Ma che ha? - domandò il vecchio padre, congiungendo le mani, con le lacrime negli occhi. - Ha dovuto avere un forte eccitamento, due o tre ore fa, non è vero? - Sì… - Per qualche spavento, per qualche rumore…? - No…non so… - Ma si è esaltata? Ha gridato? - Sì… - Perché l'avete lasciata esaltare? Perché non l'avete contentata in quel che voleva? Sapevate quale pericolo correva vostra figlia! - Io non so…, non so nulla.., che volete che io sappia? - gridò il vecchio, stendendo le mani, implorando come un fanciullo. - Il pericolo della meningite, - disse il medico, a denti stretti. Adesso l'inferma aveva socchiusi gli occhi; il medico le divaricò le pupille: l'occhio apparve vitreo, immobile, come si era immobilizzata tutta la persona. - Dottore, ma che, è morta? - urlò il vecchio, come pazzo. - Paralisi temporanea: è la meningite. - E che si fa? - Eh vedremo. Intanto, vi prego, fate chiamare il dottor Amati. Il vecchio lo guardò, sconvolto. - Che dite? - Mandate a chiamare Amati. Non vedete che ella lo vuole? - …è in delirio. - Sissignore: ma quando lo ha chiesto, doveva esser ragionevole: e anche in delirio, dovete ubbidire, marchese. - Ubbidire? - Vostra figlia è in istato grave, è meglio contentarla… - In istato grave? - Potete perderla, da un'ora all'altra: essa non ha forza, per resistere alla meningite. - Dottore, dottore, non dite questo!. - Oh caro marchese, volete che vi dica la verità? Tanto la povera paziente non può udirci. Voi vi siete negato di chiamare Amati, prima: poi, avete lasciato che la signorina arrivasse a questo stato di esasperazione… Non vorrete continuare in questa negazione, la ragazza muore. - Oh Dio sacrato!… - bestemmiò il marchese. - Andrò io, da Amati… -… non verrà. - Ma perché? Non era il medico curante? E un galantuomo, è un gran medico. -… non verrà. - E andateci voi, marchese. Ora, mentre Cavalcanti faceva un atto di disperazione, la malata si era riscossa, e di nuovo rapidamente, a denti stretti, si era messa a dire: - Amati…Amati… voglio Amati… - Sentite? - disse Morelli. - Ma io non posso, - gridò Cavalcanti, - ma io ho cacciato quell'uomo di casa, non ho voluto che mia figlia lo sposasse, non posso umiliarmi a lui. - Sta bene, ma la fanciulla muore… - disse il medico, trattenendo le mani battenti della fanciulla. - Andate a chiamare Amati, per carità, per amore di Dio, non mi abbandonate, chiamate Amati, - gemeva l'inferma. - Oh Dio! che castigo, che castigo! - esclamava il vecchio, con le mani nei capelli; - ma, dottore, fatele qualche cosa, non la lasciate morire!. - Amati… Amati… voglio Amati, - ella diceva, delirando, stravolgendo paurosamente gli occhi. E ricaduta, abbattuta sul letto, in una nuova paralisi, l'unica cosa viva di lei era la voce che voleva Amati, sempre l'unica idea della sua ragione smarrita era Amati, Amati, Amati. - Gli scriverò, - disse il vecchio, desolatamente, andando di là mentre il medico provava a mettere nuovo ghiaccio, sulla testa infiammata di Bianca Maria. Il marchese scriveva: ma era insopportabile lo sdegno di dover cedere, e le parole non uscivano dalla sua penna. Stracciò due foglietti. Infine ne uscì una breve lettera, con la quale pregava il dottor Amati di andare a casa sua, perché sua figlia era malata: niente altro. Quando dovette scrivere l'indirizzo, fu per ispezzare la penna. E senza guardare in volto Giovanni, gli disse di correre dal dottore… sì, dal dottore Amati. E il poveretto corse, mentre Morelli dava delle pillole di calomelano alla povera delirante che urlava, poiché il dolor di testa era divenuto insoffribile, atroce. Il padre, consumato il primo sacrificio, si sentiva impazzire, a quegli urli: e tremava, temeva di mettersi anche lui a urlare, a urlare, come lei, come se ella gli avesse comunicata la meningite. Adesso che aveva scritta la lettera, consumando un insopportabile sacrificio, adesso il marchese Cavalcanti si metteva a desiderare che il dottor Amati giungesse presto, almeno: gli era impossibile sopportare più quelle grida, quei lamenti, quei gemiti, in cui un solo nome continuava ad apparire, sempre, sempre. E oramai contava i minuti del ritorno di Giovanni, tendendo l'orecchio, se udisse qualche rumore di porta che si schiudeva: il tempo passava e l'ammalata, malgrado il ghiaccio, malgrado il calomelano, delirava, con gli occhi stravolti, in preda alla infiammazione che sembra arda il cervello. Ecco una porta si apriva, qualcheduno si avanzava verso la stanza, in cui il marchese di Formosa aveva ricoverata la sua disperazione. Era Giovanni, solo: e pareva così stanco, così vecchio, così triste, che il marchese tremò, chiedendogli: - Ebbene? - Non viene, il dottor Amati. - Non vi era? - Non vi era, l'ho aspettato sotto il portone: è poi venuto… - E dunque? - Ha letto la lettera… e ha detto che egli era troppo occupato, che la signorina aveva certo qualche altro buon medico… - Non lo hai… pregato? - L'ho pregato, Eccellenza: si è fatto aspro, è andato via mormorando certe parole, che non ho capite. - Dovevi salire… insistere… - Non ho avuto il coraggio… - Ma capisci che senza lui la signorina muore, non lo capisci? - Lo capisco, Eccellenza, ma il dottore mi ha maltrattato, sono un povero servo… - Egli ha ragione, - disse il vecchio lentamente, - io l'ho molto offeso… - Eccellenza, Eccellenza, andateci voi, a voi non dice di no… - Tu sei pazzo!… - Per la signorina, Eccellenza! - Dirà di no, m'insulterà… - Per la signorina… - No, no, è troppo… - Ma, Eccellenza, lo avete detto, la signorina muore. - Va via, - gridò brutalmente il marchese, cacciando il suo servitore. Restò solo. Il suo orgoglio si ribellava potentemente all'idea di umiliarsi innanzi all'uomo che egli aveva ingiuriato: soffriva atrocemente; la voce di sua figlia che ora borbottava in tono basso, ora strideva acutamente, nominando Amati, gli dava il senso di un dolore fisico, di un ferro rovente che bruciava la sua carne. Dentro di lui, però, come il tempo passava, come il pericolo della fanciulla aumentava, si compiva un lavoro di annichilimento, in cui tutte le ribellioni antiche e nuove della sua superbia andavano cadendo: e al posto dell'orgoglio si metteva una immensa pietà, una immensa tenerezza, un immenso dolore. Fuggiva l'ora, mentre egli passeggiava su e giù, rodendo il freno degli ultimi vincoli in cui si abbassava e radeva terra il suo cuore: e non cessava di là quell'eterna voce delirante, che non sapeva dire altro che il nome di Antonio Amati. Oramai egli non trasaliva più di collera, l'odio taceva e quando, di nuovo, si presentò il dottore Morelli, che era andato e che era ritornato, domandandogli, egli rispose: - Non è venuto: vado io. - Lo condurrete? - Lo condurrò. Era ben tardi, però, quando si mise in cammino, a piedi, per andare in via Santa Lucia, dove abitava adesso il dottor Amati: era quasi mezzanotte e la gente si era diradata per Toledo, nella dolcezza della sera di aprile. Malgrado la vecchiaia, il marchese correva per la strada, spinto da una forza nervosa, e quando fu nel grande portone del palazzo che abitava Amati, fece le scale rapidamente, senza neppur rispondere al portiere, che domandava dove andasse. - Dite ad Amati che vi è il marchese Cavalcanti, - disse alla governante che gli era venuta ad aprire. - Veramente… studia… - Diteglielo, ve ne prego, è una cosa urgentissima, - pregò il vecchio, il cui orgoglio era completamente sparito. Ella andò di là, ricomparve subito, facendo cenno al marchese di entrare. Egli attraversò due salotti e si trovò in uno studio, tutto in penombra, dove la luce della lampada si concentrava sopra un gran tavolone, sparso di carte e di libri. Ma il dottor Amati era in piedi, in mezzo alla stanza, aspettando. Quei due uomini, che si erano tanto odiati, si guardarono, con lo stesso dolore che li accomunava, e la pietà della infelice creatura morente troncò ogni astio. Si guardarono. - Che è? - dimandò, con voce fioca, Amati. - Muore, - disse Formosa, facendo un atto disperato. - Di che? - Di meningite. Un pallore terreo si diffuse nel volto del dottore e due pieghe gli si formarono alle labbra. E non osò fare rimproveri al marchese. Non aveva, egli stesso, abbandonata la povera creatura, a cui aveva promessa, giurata la salvazione? Non aveva, per superbia, lasciato il delicato fiore ammalato, in preda a tutti i mali fisici e morali? Ambedue erano colpevoli, ambedue. - Andiamo, - disse. Uscirono insieme, chiamarono una carrozza da nolo, fecero sollevare il soffietto, come se volessero nascondere il loro dolore. Non parlavano, durante il tragitto. Soltanto, mentre mordeva il suo sigaro spento, il dottor Amati, ogni tanto, faceva qualche interrogazione medica. - Da quanto tempo, la meningite? Primo giorno? - Sì: ma ebbe nove giorni di tifo. -Febbre alta? - Da quaranta a quarantuno. - Gran mal di testa? - Atroce. - Convulsioni? - Sì: ogni tanto. - Stravolge gli occhi? - Sì. - Ha contratti i muscoli della nuca? - Sì. -… vi fu qualche causa? - Sì, - disse umilmente il padre, quasi singhiozzando questo monosillabo. - Le hanno dato il calomelano? - Sì. - Non ha calmato? - No, niente. Spesso è paralizzata: ma per poco. - È proprio la meningite, - mormorò il medico, pensoso. La carrozza camminava, camminava alla meglio, con il mediocre cavallo notturno. Non arrivavano ancora e avevano già incitato il cocchiere ad affrettare. - Ha il delirio? - chiese nuovamente il medico. - Non so… Non capisco se è il delirio.., ma parla sempre, convulsamente… - E che dice? - Chiama voi… - Me? - Voi, sempre. Ah il cuore del medico si schiantò, udendo questo! Sottovoce il vecchio padre lo udì dire, come per preghiera sgomenta: - Mio Dio!… Non dissero altro. Trovarono la porta aperta, il povero vecchio Giovanni li aveva attesi sul pianerottolo, appoggiato alla ringhiera, guardando nel portone, ansioso di vederli arrivare, ma certo che il dottore sarebbe venuto. - Come sta? - chiese subito il padre che aveva un continuo bisogno di essere rassicurato. - Come deve stare?… - sospirò il vecchio servo, precedendoli, - sta come prima. - Sempre il delirio? - disse il dottore. - Sempre. Entrarono pian piano nella stanzetta. Il dottor Morelli era andato via da poco, lasciando una letterina pel dottor Amati. Ma costui andò diritto al letto della inferma. La voce di costei, oramai stanca, ma sempre appassionata, andava ancora ripetendo il nome di Amati, ma il capo era affondato nei cuscini e gli occhi socchiusi. Egli vide tutto immediatamente, e lo scompiglio del suo animo, dovette esser tale che non giunse a padroneggiare, egli il forte, egli l'invincibile, il suo volto. Ed esitò un minuto, prima di rispondere alla infelice delirante che seguitava a chiamarlo, temendo di produrre sui nervi di lei una impressione troppo forte: ma non potette resistere a quella fievole voce che gli penetrava sino al cuore e lo faceva struggere di tenerezza. Disse: - Bianca Maria.. Qual grido fu la risposta! Ella si levò, col volto improvvisamente acceso, con gli occhi diventati stragrandi, e gli buttò le braccia al collo, gli appoggiò il capo sul petto, gridando: - O amor mio, amor mio, quanto avete tardato! Non mi lasciate più, non mi abbandonate, è tanto tempo che vi chiamo non mi lasciate. - Non temete, non vi lascio… - mormorò lui, cercando di vincere la sua emozione, carezzandole i bei capelli confusi e arruffati. - Non ve ne andate mai, mai, - gridava ella appassionatamente, stringendogli le braccia al collo, - se mi abbandonate, io muoio… - Calmatevi, Bianca Maria, calmatevi, non dite queste cose. - Le voglio dire, - levò lei ancora la voce, irritandosi della contraddizione,- senza di voi, per me è la morte. Ma tu non mi lascerai morire, eh, non mi lascerai morire? - Creatura mia, taci, taci… - egli disse, incapace di frenarsi, volendo disciogliere la catena di braccia, che gli allacciava il collo. - Non mi levare di qui, non mi levare,- strillò lei, facendo degli atti disperati col capo. - Se mi levi, sento che la morte mi piglia. - Oh Bianca, taci, per carità, non mi uccidere, - le disse il forte uomo, diventando il più debole e il più misero fra gli uomini. - Mi piglia la morte, è qui dietro, la sento, tu solo puoi salvarmi… Non mi lasciar morire, non voglio morire, hai capito, non voglio morire! - Non morirai, zitto, cara, zitto, perché ti ammali assai peggio, io sto qui, non me ne vado, mai più, mai più, non ti lascio… -… e non voglio morire, - concluse lei, di nuovo, calmandosi un poco. Stettero così, qualche tempo. Il padre era ai piedi del letto, appoggiato alla spalliera, con gli occhi bassi, sentendo nel suo orgoglio schiacciato, nella sua anima trafitta, tutto il peso del castigo che il Signore gli faceva aggravare sul capo, in punizione del suo lungo peccato. Pian piano, visto che la fanciulla taceva, che gli occhi le si chiudevano, il dottor Amati tentò di rimetterle il capo sul guanciale: ma ella sentì l'atto, e mentre si abbassava, attirò a se anche lui ed egli dovette chinarsi, poiché quelle braccia non volevano sciogliersi. Restarono così, ella assopita, egli inclinato in una posizione dolorosa, così angosciato di quella malattia e della sua impotenza, che non gli arrivava la sensazione di quel tormento fisico: il dolore assumeva in lui tale una violenza che si sentiva scoppiare, non potendo né piangere, né gridare, né parlare. Ora la infelice fanciulla pareva assopita, ma ogni tanto sussultava, e una espressione di fastidiosa pena le si dipingeva sullo scarno viso. Pareva che le passasse una idea per la mente, o che udisse un rumore che gli altri non udivano, o che vedesse qualche penosa visione, poiché le palpebre le battevano e le labbra si striavano sulle pallide gengive. Poi, ella schiuse gli occhi, come se avesse fissato quel rumore, quella visione, quella impressione fastidiosa e con un soffio di voce, che solo il medico intese, chiamò: - Amore! - Che vuoi? - Mandalo via. - Chi? - Mio padre. Il medico impallidì e non rispose. Dette una obliqua occhiata al vecchio, che era sempre fermo ai piedi del letto, con gli occhi bassi, dolorosamente concentrato. - Ti prego, mandalo via, - ricominciò lei, parlandogli nell'orecchio. - Ma perché? - Così: non voglio vederlo. Mandalo via. Che se ne vada. - Bianca Maria, ma è tuo padre! - Ascolta, ascolta, - diss'ella, attirandolo maggiormente a sé, perché gli potesse parlare più piano. - È mio padre, - mormorò poi con una paura soffocata, con un rimpianto immenso, - ma mi ha uccisa. - Non parlare così, - rispose, lui, volgendo il capo dall'altra parte per non lasciare scorgere le sue impressioni. - Ti dico che muoio per lui. Non ho il delirio, sai, io ragiono, - soggiunse ella, stralunando gli occhi, con quel moto infantile dei fanciulli moribondi, che fa impazzire di dolore le madri. Egli crollò il capo, come se non sapesse più che cosa fare, che cosa dire. - Mandalo via, - diss'ella, insistendo, arrabbiandosi, con le fatali irrompenti furie della meningite. - Io non posso, Bianca Maria… - Se non lo mandi via, tu, tu, io mi levo e gli grido di andarsene, di non comparirmi mai più innanzi, mai più, hai capito? - Aspetta, - egli disse, decidendosi, rassegnandosi. E la lasciò, staccandosi da lei, rimettendole le scarne braccia sulla coltre. Ella lo seguì con lo sguardo, senza mai levargli gli occhi di dosso, come se con lo sguardo udisse quello che molto sottovoce il dottore Amati diceva a suo padre. Il dottor Amati, con molta delicatezza e con un fremito di dolore che faceva tremare invincibilmente la sua voce, gli spiegava che la meningite è una terribile malattia che abbrucia il cervello, che sconquassa i nervi, e che fa delirare per giorni e giorni i poveri infermi che ne sono attaccati, che li induce a continua collera e persino al furore: che la povera Bianca Maria era in preda a questo delirio, che non poteva soffrir nessuno nella sua stanza, e che se egli amava sua figlia, se non voleva udirla dare in escandescenze, facesse la carità di andarsene in un'altra stanza… - Mia figlia vi ha detto questo? - chiese il vecchio, smorto, con le sopracciglia aggrottate. - Sì. - Non vuole nessuno nella sua stanza? -… Nessuno. - Ma voi, sì? - Me, sì. - Mi caccia, mia figlia? - gridò il vecchio. - Per carità, marchese, non v'irritate, abbiate pietà della fanciulla, di voi, di me… - Non me ne andrò, se non me lo dice lei, capite? Bianca Maria? - chiamò il marchese, avanzandosi presso il letto. Ella guardò il padre con tanta intensità, come se gli rispondesse. - Bianca Maria, - gridò l'esasperato vecchio, - è vero che non mi vuoi, nella tua stanza? Dillo tu, se è vero, io non credo a quest'uomo, lo devi dire tu! - È vero, - ella proclamò, a voce chiarissima, guardando suo padre. Egli chinò gli occhi, dove comparvero le ultime lacrime della vecchiezza, chinò il capo sul petto, vinto dall'inflessibile castigo che gli veniva dalla delirante, dalla morente sua vittima. Uscì, senza voltarsi. E cadente come se avesse cento anni, solo, taciturno, si ritirò in quella che era stata la sua stanza da studio, dove restavan solo un tavolino vecchio e una vecchia sedia. Lì, prono, con la testa fra le mani, senza più nozione né di tempo, né di cose, il vecchio peccatore s'immerse nella incommensurabile amarezza della punizione. Ogni tanto, fiocamente, o vivacemente gli arrivava la voce di Bianca Maria che diceva ad Amati, sempre, sempre: - Non voglio morire, non voglio morire, salvami, salvami, ho venti anni, non voglio morire… Quella voce, quelle parole disperate, pronunziate nel delirio, ma che pure parevano un lamento e una maledizione, gli facevano un effetto crudele. Non aveva più la forza di levarsi, per uscire, per andarsene di casa, solo, a morire come un cane sopra gli scalini di una chiesa, non pianto, non rimpianto. Non si levava, per andare presso l'agonizzante, poiché sua figlia lo aveva cacciato, tenendo presso sé l'unica persona che l'aveva amata. - Non voglio morire, amore, non voglio morire, - parlava la demente. - Hai ragione, hai ragione, - pensava il padre, trasalendo. E mentre le ore passavano, egli sentiva di là l'andirivieni del medico che tentava il salvamento della fanciulla, gli ordini frettolosi, l'uscire di Giovanni, di un assistente accorso. Egli non aveva più diritto di presentarsi, di sapere: e difatti lo dimenticavano lì, come se fosse morto da anni e anni, come se giammai un marchese Carlo Cavalcanti fosse esistito. Non sarebbe stato meglio per lui se fosse morto, poiché tutti lo avevano abbandonato? - E giusto, è giusto, - pensava fra sé. Egli tendeva l'orecchio, ogni tanto, come se i rumori che arrivavano, dovessero dirgli che la fanciulla migliorava, che il medico le amministrava i rimedii energici, capitali. Ma oltre all'affaccendarsi dei servi, dell'assistente, del dottore, egli non udiva altro che il grido straziante, continuo: - Non voglio morire, non voglio morire, amore, salvami! Egli si assopì, coll'antico capo appoggiato alle braccia, verso l'alba, sentendo anche nel lieve e breve torpore quel lamento, quell'angoscioso grido. Fu Giovanni che lo svegliò, a giorno chiaro, portandogli una tazza di caffè. Il padre scacciato dalla camera di sua figlia, interrogò con gli occhi il servo: - Sempre lo stesso, sempre! - mormorò Giovanni, crollando il capo vacillante. - Ma neppure Amati la salva? Neppure lui? - Cerca: ma è disperato. Il marchese Carlo Cavalcanti passò tre giorni e tre notti in quella stanza, solo, senza veder letto, senza quasi toccar il poco cibo che gli portavano: i tre giorni e le tre notti che durò l'agonia di sua figlia, Bianca Maria Cavalcanti. Il volto del vecchio, sempre sanguignamente colorito malgrado l'età, era chiazzato di violetto; i capelli bianchi erano tragicamente arruffati. Oramai, quando Giovanni e Margherita gli apparivano innanzi, solo a vedere il loro abbattimento, egli non domandava più nulla loro. Non sentiva egli forse che ella delirava sempre, gridando che a quell'età non voleva morire, non voleva, aggiungendo le esclamazioni e le preghiere più trambasciate? I due servi non gli dicevano nulla: l'udito gli si era affinato e non una parola del delirio gli sfuggiva. Pure, quella stessa vitalità di forza nervosa, quella voce forte lo illudevano, come una forma di salute e quasi quasi, nei piccoli intervalli di silenzio, egli si augurava che quel delirio ricominciasse. Ma il terzo giorno, alla mattina, una nuova dolorosa impressione lo trasse da quello stupore. La delirante, con voce strozzata, chiamava sua madre, sua madre, addolcendo il tono, pregando la mamma che non la facesse morire. Ogni tanto, taceva: egli si guardava intorno, atterrato da quegli improvvisi silenzi che si prolungavano, trabalzando quando, di nuovo, Bianca Maria si metteva a gridare. - Mamma, non voglio morire, non voglio, non voglio, mamma cara! Verso le due dopo mezzanotte, del terzo giorno, sempre seduto presso quel tavolino, lo colse il sopore, mentre ancora gli risuonava nell'orecchio quel delirio. Quanto tempo dormì? Quando si svegliò, il silenzio era così profondo, che egli si sgomentò. Aspettò, per udire quella voce che chiedeva di non morire ancora. Niente. Calcolò il tempo, dalla consumazione della candela: dovevano esser passate due ore. Una paura orribile lo assalse. Non osava muoversi. Guardò sotto l'arco della porta, vide la faccia bianca di Margherita che lo guardava. Intese. Pure, macchinalmente, domandò: - Come sta la marchesina? - Sta bene, - disse fievolmente la vecchia. - Quando… è stato? - Un'ora fa. - Non ha… non ha domandato di me? - No, Eccellenza. Egli provò a levarsi. Non poteva. Pensò che la morte lo avrebbe preso lì, su quella seggiola, subito, poiché i giovani di venti anni morivano prima dei vecchi di sessanta. Ora, era sopraggiunto anche il dottor Amati. Era irriconoscibile: un accasciamento mortale ne aveva distrutta tutta la energia fisica e morale. Come a un fanciullo, grosse lagrime silenziose gli si disfacevano sulle guance. Tacquero, un poco. - Ha sofferto assai? - chiese quel padre. - Immensamente.. - Non è stato possibile…? - No, non è stato possibile, - disse il dottore, il vinto, aprendo le braccia, confessando la più atroce fra le sue disfatte. Il vecchio, dalla faccia oramai immobilizzata in quella tragica espressione, non piangeva. E come un fanciullo inconsolabile, il dottor Amati lo prese per mano, lo sollevò, gli disse teneramente: - Venite a vederla. Andarono. La marchesina di Formosa, Bianca Maria Cavalcanti, giaceva sul suo bianco piccolo letto, col capo un po' abbassato sulla spalla, con le ceree mani dalle dita livide, congiunte per mezzo di un rosario. Le avevano messo un vestito bianco, molle, sullo scarno corpo. La bocca violetta era socchiusa; le palpebre terree erano abbassate. Pareva assai più piccola, come una fanciulletta adolescente. Non aveva sul volto che l'augusta impronta della morte che tutto placa, che a tutto indulge: non la serenità, ma la pace. Dalla soglia i due uomini guardavano il piccolo cadavere, dalle lunghe trecce nere fluenti lungo la persona: non entrarono. Immobili, ambedue tenevano gli occhi su quella piccola salma; e il dottore, teneramente, ripeteva, come fra sé, come un fanciullo che nulla potrà consolare: - Ci vogliono dei fiori, dei fiori… Il vecchio non lo udiva. Guardava sua figlia morta, e senza parlare, senza trarre un sospiro, piegò il suo gran corpo, e s'inginocchiò sulla soglia, tendendo le braccia, chiedendo perdono, come il vecchio Lear innanzi al cadavere della dolce Cordelia.

E il lunedì egualmente, davano da mangiare a un bambino abbandonato, di dieci anni, di cui tutto il vicolo Rosariello di Portamedina, si occupava, procurandogli da mangiare, mentre le sorelle Esposito lo aiutavano in quel giorno fisso, a suffragio delle anime purganti, cui appartiene il lunedì. Era, in qualunque giorno, difficile che un povero battesse a quella porta, senza aver qualche cosa. - Fatelo per san Giuseppe, di cui ricorre la giornata! - Sia lodata la Trinità, oggi è domenica, fate elemosina. Roba da mangiare, un bicchiere di vino, qualche straccio, i pezzenti lo portavano via, sempre: denari, mai. Le sorelle Esposito avevano troppo grande rispetto per il soldo, ome esse dicevano, per farne carità; e spiegavano che era miglior carità dar da pranzo, che incitare al vizio, coi denari. I pezzenti restavano sul pianerottolo: le sorelle Esposito non li lasciavano entrare, temendo sempre pei valori che avevano in casa; portavano fuori il piatto di maccheroni, o di legumi, o di verdura; talvolta il pezzente lo mangiava sulla scala, seduto sullo scalino, borbottando delle benedizioni. Adesso avevano mangiato il formaggio affumicato col pane, lentamente, con quel movimento un po' caprigno delle mascelle, e strappando le successive spoglie dei sedani, le rosicchiavano con gran rumore, come frutta, per levarsi dalla bocca il sapore dell'olio. Quando ebbero finito, rimasero un po' immobili, guardando le chiazze azzurre della tovaglia, con le mani prosciolte in grembo, nel silenzio della digestione e dei loro lunghi calcoli mentali di donne d'affari. La fanticella, Peppina, aveva portato via tutto in un baleno e dall'attigua cucina si sentiva lo strascico delle sue ciabatte, ella andava e veniva, per lavare i pochi piatti, fermandosi ogni tanto a voltare nel tegame i suoi maccheroni che ella aveva messo a soffriggere di nuovo, visto che erano freddi. Ora le due sorelle si erano alzate e dopo avere scosso le gonne dalle molliche, erano andate a riprendere il loro posto, al telaio, curvando il capo, sollevando metodicamente la mano destra carica di anelli, tenendo la mano sinistra sotto il telaio, per trapuntare. Un tintinnìo del campanello si udì: le due sorelle scambiarono una rapida occhiata e ripresero il lavoro: esso, oltre quello che ci guadagnavano, serviva da loro paravento morale e materiale. Due ragazze, due sartine, entrarono, spingendosi a vicenda. La prima, più coraggiosa, era la bionda Antonietta, che lavorava da una sarta a strada Santa Chiara e andava a comperare la colazione per sé e per la sua compagna Nannina, dall'oste rimpetto al palazzo dell'Impresa del Lotto; ma tutte e due erano vestite miseramente, con certe grame gonnelluccie di lanetta, una giacchetta vistosa ma povera di altro colore e uno scialletto nero che volentieri esse lasciavano cadere sulle braccia, per mostrare il busto e un fiocchetto di nastro rosa, al collo. Nannina, la più piccola, era parente delle due sorelle Esposito, ma aveva un sacro terrore delle sue zie, piene di denaro, di gioielli, che la ricevevano sempre con una meditabonda e meditata freddezza. Pure si lasciarono baciar la mano dalla nipote: le due ragazze rimasero in piedi, presso il telaio, guardando quell'alacre lavoro, come mortificate. - Non sei andata al lavoro, oggi? - domandò donna Caterina a Nannina. - Ci sono andata. - rispose subito, volubilmente, la fanciulla, spinta dalle gomitate di Antonietta - ma la maestra ci ha mandato a fare certe spese, qui vicino, e siccome questa compagna mia voleva cercare un favore, a voi, così siamo venute… - Da chi lo voleva, il favore? - disse donna Concetta, levando il capo dalla coltre. - Da voi, proprio, zia… - balbettò la nipote. - Neh! - esclamò quella, con una profonda intonazione ironica, sorridendo e crollando il capo. Le ragazze tacquero, guardandosi: la cosa si metteva male, dal principio. La tenitrice di gioco piccolo, subitamente disinteressata dalla questione, con un paio di forbicette tagliava l'impuntura della coltre, dove era stata già trapuntata, e la sua baschina di lanetta marrone si copriva di piccoli fili bianchi. - Beh! avete perduta la lingua? Di che si tratta? - chiese, ridendo, donna Concetta. - Ecco, donna Concettina, ora ve lo dico io - riprese la biondina Antonietta, mordendosi le labbra per farle diventare rosse. - Mi vorrei fare un vestito nuovo per Pasqua, e un paio di stivaletti, e comperarmi la mussola per farmi tre o quattro camicie. A stringere, a stringere cucendo io tutto, quando ho finito la giornata dalla sarta, mi servono quaranta lire. Io non le ho, quaranta lire, e per metterle da parte, mi ci vorrebbe un anno. Siccome ho saputo che siete tanto buona e fate tanti favori alla povera gente, così ho fatto un pensiero, che voi mi avreste prestato queste quaranta lire. - Hai fatto un malo pensiero, - disse glacialmente l'usuraia. - E perché? Io posso scontare questo debito a un tanto la settimana; guadagno venticinque soldi al giorno; non debbo dare un soldo a nessuno; domandate a Nannina vostra nepote, che mi garantisce… - Nannina dovrebbe trovare qualcuno che garantisse lei… - borbottò donna Concetta. - Ma a che ti serve questo vestito? Quello che hai addosso, non ti basta? Quando non ci sono soldi, non si fanno vestiti! Quando mia sorella ed io non avevamo soldi, non ci facevamo vestiti! Siete tutte matte, voi altre ragazze di adesso.. - Zia, zia, fateglielo questo piacere. Ci ha l'innamorato, e si vergogna di far cattiva figura, - pregò la nipote, per l'amica. - Anch'io ci ho avuto l'innamorato, - replicò donna Concetta - e non se ne vergognava, quando io era mal vestita. - Gli uomini di adesso sono un'altra cosa… - mormorò la bionda Antonietta. - Sicché me lo fate questo favore? - Ragazza mia, io non ti conosco… - Io lavoro da Cristina Gagliardi, a Santa Chiara, numero 18, primo piano: abito a Strettola di Porto, numero 3, vi potete informare… Seguì un silenzio in cui, di nuovo, le ragazze scambiavano un'occhiata allarmata. - Al più, al più, - disse levando il capo, donna Concetta - io posso darti a credito della lanetta per farti un vestito e della mussolina per queste camicie…pregherò un mercante che mi conosce… un buon uomo… ma pagherai la roba di più. - Non importa, non importa, - interruppe subito Antonietta - fate voi… - Di che colore deve essere, questa lanetta? -chiese maternamente donna Concetta. - O blù marino, o verde bottiglia… blù marino mi piace di più… - Ti sta meglio: blù marino, fai una gran figura, - soggiunse Nannina, con aria d'importanza. - E non si scolorisce tanto facilmente, - finì di dire donna Concetta. - Quanti metri te ne servono? La ragazza contava fra sé, agitando le dita come se misurasse, guardandosi la persona, contando e ricontando. - Dieci metri, sì, dieci metri basteranno… - Cinque canne? Gesù! Già, te lo vorrai fare alla moda? - Donna Concettì, compatite… - rispose sorridendo Antonietta. - Va bene, va bene. Per ogni camicia ci vogliono quattro metri di mussola, sarebbero in tutto sedici metri… - E le scarpe? - chiese la ragazza, esitando. - Io non conosco calzolai, figlia mia. - Mi darete il resto delle quaranta lire in danari, - s'avventurò a dire la sartina. - Senti, figlia mia, - disse donna Concetta, - io vengo domani, che è sabato, dalla sarta a informarmi se veramente ti dànno venticinque soldi al giorno e se hai preso danaro anticipato. Là combino con la sarta che invece di darti la paga intiera della settimana, ogni sabato si ritenga due lire per me, per l'interesse delle quaranta lire. - Due lire?! - esclamò la ragazza, sgomentata da tutto quel discorso. - Già. Ne dovrei esigere quattro, un soldo a lira per settimana, ma tu sei una povera giovane e ti voglio aiutare veramente. La sarta mi dà le due lire, per l'interesse: tu poi, dal resto, sconti quello che vuoi del tuo debito, cinque lire, tre, due, come ti fa comodo. Hai capito? - Sì, sì… - esclamava, terrorizzata, la ragazza. - Più presto paghi, meglio per te. Io non desidero di meglio. Però ti avverto che se ti dovessi far pagare prima dalla sarta, o andartene via, o fare qualche altra simile birbonata, io ti arrivo, gioia mia, e ti faccio vedere chi è Concetta Esposito. Io me ne rido di andare in galera, per il sangue mio…mi sono spiegata? - Sissignora, sissignora, - balbettava Antonietta con le lacrime agli occhi. - Però sei sempre a tempo di non farne niente, - conchiuse donna Concetta, gelidamente, riabbassando il capo, per trapuntare la coltre. - No, no, - strillò la ragazza, - tutto quello che volete voi. Promettetemi che venite domani, a Santa Chiara, numero diciotto? - Ci vediamo domani, - disse licenziandola, donna Concetta. - E portate la roba? Portate i danari? - A questo ci debbo pensar io. - Addio, zia, - mormorò Nannina, più pallida e più spaventata della sua amica. - La Madonna vi accompagni, - dissero in coro le due sorelle Esposito, ricominciando a lavorare. Le ragazze se ne andarono silenziose, a capo chino, non trovando più forza né di parlare, né di sorridere. Una donna che saliva, in fretta, le urtò, borbottò uno scusate rettoloso, e andò a bussare alla porticina delle sorelle Esposito. Era Carmela, la sigaraia dagli occhi grandi e pieni di dolorosi pensieri, dal volto consunto: prima di entrare in casa, sospirò profondamente e un rapido rossore le coprì le guancie smunte. - È permesso? - disse, dalla saletta, con voce debole. - Entrate, - si rispose da dentro. - O sei tu, buona cristiana? - disse, riconoscendola, Concetta. - Di' la verità, sei venuta a restituirmi quei denari? La coscienza ti ha rimproverato alla fine, eh? Dà qua. - Voi avete voglia di scherzare, donna Concetta mia, - disse la misera, abbozzando un pallido sorriso. -Se avessi trentaquattro lire, vorrei fare trentaquattro salti. - Sono trentasette lire e mezzo, con l'interesse della passata settimana, - rettificò freddamente l'usuraia. - Come volete voi: chi vi nega niente? Voi dite trentasette e mezzo e io pure dico così. - Hai portato l'interesse, almeno? - Niente niente, - disse disperatamente la ragazza, chinando la testa. - La miseria mi rosica. Sono arrivata a guadagnare una lira e cinquanta al giorno, potrei stare come una signora, ma che! - E tu perché ti fai mangiare i denari? - domandò donna Concetta, cedendo al suo bisogno di far predica di saggezza alle sue debitrici. - Sei una bestia, ecco quello che sei. - Ma come, donna Concè? - gridò desolatamente Carmela; non ho da dare un tozzo di pane a mia madre vecchia? Quando mia sorella crepa di miseria con tre figli, che gliene sta morendo uno, che è una pietà, io le ho da negare la mezza lira? Quando mio cognato Gaetano, con tutti i suoi vizi, non ha da fumare, gli ho da negare i cinque o sei soldi! Con che core, donna Concetta mia? - È Raffaele che ti spolpa, è Raffaele! - canticchiò l'usuraia, infilando un'agucchiata di cotone rosso. - E che ci volete fare? - esclamò la ragazza, aprendo le braccia - quello era nato per fare il signore. Intanto io, se non pago lunedì il padron di casa, quello mi dà lo sfratto. Gli ho da dare trenta lire: ma gliene potessi dare almeno dieci! Ah se mi faceste questa carità, voi! - Tu sei pazza, figlia mia. - Donna Concetta, donna Concetta, che vi fanno a voi, dieci lire? E io ve le restituisco, lo sapete, io non ho mai preso un centesimo a nessuno. Non mi fate buttare sulla strada, donna Concetta, fatelo per chi vi è andato in paradiso! - No, no, no, - canterellò la copertaia. - Sentite, sentite, - soggiunse l'altra, affannosamente, - questi orecchini che porto, furono pagati diciassette lire, quattro ducati, dalla mia comare: io ve li dò, non ho altro, e voi me li restituirete, quando vi avrò restituito le dieci lire. - Io non impegno, - rispose donna Concetta, dopo aver sogguardato gli orecchini. - Ma non è pegno: è un piacere che mi fate. Se dovessi impegnare, mi darebbero cinque o sei lire: si terrebbero l'interesse anticipato e col denaro della cartella, dello scatolino e la mezzanìa, mi resterebbero tre o quattro lire. Fatelo solo per questa volta, donna Concetta, la Madonna vi guarda dal cielo! E convulsamente si levò gli orecchinetti di oro, un po' vecchi, li strofinò con un lembo del grembiule e li posò delicatamente sulla coperta: li guardava ancora, intensamente, licenziandosi da loro. Donna Concetta li prese con una smorfia di disgusto: con sua sorella che aveva levato il capo, scambiarono uno sguardo: la tenitrice di gioco piccolo parve le dicesse di sì, col battere delle palpebre. Muta rigida, donna Concetta si levò, portando via gli orecchinelli, entrando nell'altra stanza del quartiné, dove dormivano le due sorelle: si udirono stridere chiavi nelle serrature, aprirsi e chiudere dei cassetti, con intervalli di silenzio. Poi, donna Concetta ricomparve. Portava nella mano due rotoletti di carta giallastra. - Sono soldi: contali, - disse brevemente, posandoli innanzi a Carmela. - Non importa, non importa, rispose la poveretta, tremando di emozione. - Il Padre Eterno ve lo deve rendere in tanta salute, quello che fate a me. - Va bene, va bene. - conchiuse donna Concetta, rimettendosi al lavoro. - Ma ti avverto che io vendo gli orecchini, se non paghi. - Non dubitate, - mormorò Carmela, andandosene. Per un poco, le due sorelle rimasero sole, trapuntando. - Gli orecchini valgono dodici lire di oro - disse Caterina, che aveva l'occhio acuto. - Già, - disse donna Concetta. - Ma Carmela pagherà, è una buona figliuola. Di nuovo, si udì tinnire il campanello. - Pare il campanello della levatrice, osservò Caterina. Un passo strascicato si udì, col rumore come di una cassa che fosse posata per terra, in un angolo della saletta: e innanzi alle due sorelle comparve tutto storto, gobbo col fianco sollevato come se ancora tenesse la cassetta da lustrare, Michele, il lustrino. Salutò dicendo spagnolescamente: la vostra buona grazia, entre le mille rughe del suo volto di fanciullo rachitico invecchiato, parea emanassero malizia. Le sorelle lo guardavano, pazientemente, aspettando che egli parlasse. - Qui mi manda Gaetano Galiero, il tagliatore di guanti… - Bel galantuomo! - esclamò donna Concetta, mettendo una striscetta di carta nel suo anello da cucire, che le andava largo. - E se non fate parlare la gente, non ci capiremo mai! - soggiunse il gobbo, filosoficamente. - Gaetano ha grandi obblighi con voi, ma voi siete una bella femmina che non vi manca giudizio e gli perdonerete le sue mancanze. Beh! quello che non accade in un anno, accade in un giorno e quando meno ve lo aspettate, Gaetano è qui, coi denari. - Sì, sì… - dissero sogghignando le due sorelle. - E poi lo vedrete. Ma io sono venuto per parlarvi di un affare mio. Io faccio, ringraziamo Iddio, un'arte igliore di quella che fa Gaetano: sto vicino al caffè De Angelis, lla Carità, e non faccio per dire, ma pulisco le scarpe alla miglior nobiltà di Napoli. Quello che voglio guadagnare, guadagno. Io me ne rido della malannata. Quando piove, mi metto sotto l'arco della porta, nel caffè: e più fango si fa nella strada, più scarpe pulisco. Oh belle femmine mie, se avessi la testa buona, a quest'ora sarei un signore! Mah! Ora, per combinare un affare grosso assai, che mi può far mettere la carrozza, io ho bisogno di certi soldi: e poiché voi fate di questi piaceri alla gente, sono venuto a proporvi l'affare. Mi servono quaranta lire, da scontare a tre lire la settimana. Questo, sino a quando non ho fatto la combinazione rossa, perché allora vi restituisco capitale, interesse e vi fo pure un bellissimo regalo. - Non v'incomodate, - disse ironicamente donna Concetta. - Se non li prestate a me, questi soldi, a chi li volete prestare? - rispose audacemente lo sciancato. - Se sto una giornata innanzi al caffè, io mi guadagno due lire, lo sapete? Neanche un giovane i barbiere può dire questo! D'altronde quel posto la mia fortuna, è la mia bottega: se me ne vado di là, non guadagno un soldo, non vi posso scappare, dunque! Domandate al caffettiere, chi è Michele. I denari vostri nelle mie mani stanno sicuri. Il caffettiere vi dirà tutto. - Se il caffettiere garantisce per voi, io vi do i denari, - disse subito donna Concetta. - E allora me li darebbe lui, - obbiettò lo sciancato. - No, no, Michele non ha bisogno di garanzia. Venite domani che è sabato, alle nove, dal caffettiere: e sentirete il suo discorso: e vedrete che mi date non quaranta, ma sessanta lire. Sono galantuomo, sto in faccia a un pubblico, femmine mie. - Bè, ci vediamo domani. Sapete l'interesse? - disse donna Concetta. - Quello che voi volete, - replicò galantemente lo sciancato. - Anche una tazza di caffè, con una pagnottina dentro: al caffè sono padrone io! Avete comandi? - Preghiere sempre, - mormorarono le due donne, mentre egli se ne andava. Dopo una pausa di lavoro, Caterina osservò: - Gli hai detto di sì troppo presto. - Farò fare la garanzia al caffettiere. Eppoi è gobbo: porta fortuna, - soggiunse donna Concetta. - Se ci portasse fortuna, dovrebbe finire per noi questa vita così dura a scorticare, - riprese Caterina, che volentieri si lamentava della sua fortuna. - Eh! - disse l'altra sospirando. - Non abbiamo un uomo che ci dia mano forte, mai; perciò la giustizia ce la dobbiamo fare da noi, sempre. Ciccillo e Alfonso sono due scemi, è inutile… - Che ci vuoi fare! - sospirò l'altra. E le due sorelle, lasciando di lavorare, con le mani abbandonate sulla coperta rossa, si misero al loro segreto cruccio, a quella pena tormentosa che non confessavano a nessuno, a quei due fidanzati loro, due buoni operai dell'arsenale, i due fratelli Jannaccone, che le amavano, ma che non volevano sposarle, nessuno dei due, per il mestiere che esse facevano. Da tre anni esse combattevano quella lotta fra l'amore e il denaro, ma Ciccillo e Alfonso Jannaccone non volevano saperne: lo sposare una tenitrice di gioco piccolo una imprestatrice di denaro a usura, li avrebbe fatti vergognare innanzi a tutto l'arsenale. Erano due operai buoni, semplici, molto taciturni, che non spendevano la loro giornata, avevano qualche soldo da parte e venivano a passare la serata presso le due sorelle. Ostinati in quell'idea, una delle poche che avevano nel loro ingenuo cervello, nessuno slancio di amore e nessuna cupidigia di denaro arrivava a vincerne la cocciutaggine. Varie volte, le due sorelle, accanite al guadagno, offese aspramente da quel rifiuto, avevano litigato coi due fidanzati, li avevano cacciati di casa, ma per breve intervallo: la pace veniva fatta così, naturalmente. Caterina e Concetta promettevano di smettere. Ne dovevano avere del denaro e molto, da parte, le due donne, ma non ne parlavano mai: ed esse stesse, malgrado l'amore per Alfonso e Ciccillo Jannaccone, ritardavano ancora il matrimonio, per guadagnare ancora delle lire, non sapendo spezzare quel giro di affari usurarii, non volendo rinunziare ai vecchi crediti, non resistendo a crearne dei nuovi, e non intendendo la vergogna dei due innamorati, dolendosene come di una ingiustizia. Ah, pareva loro di fare atto di umanità, alle due sorelle, prestando il denaro a usura, facendo giuocare dei biglietti del lotto a un soldo e a due soldi, pareva loro atto di carità: poiché la povera buona gente napoletana, scorticata, strozzata, che prendeva il denaro da Concetta per darlo al Governo e a Caterina, le ringraziava, piangendo, benedicendole! Quando eran ben sole, nei momenti di espansione, le due sorelle si lagnavano del loro destino: altri che non fossero i due fratelli Jannaccone sarebbero stati assai felici di avere delle future spose così industriose, laboriose, con una dote: ma i due operai si ostinavano, invincibili, insistendo che non le avrebbero sposate mai, mai, se non lasciavano quel modo di guadagnar denari. Specialmente Ciccillo, il fidanzato di Caterina, la tenitrice di gioco piccolo, ra duro come una pietra; anzi, ogni tanto, le diceva: - Caterina, un giorno o l'altro tu vai in carcere. - Pago per aver la libertà provvisoria ed esco! Poi, l'avvocato mi fa assolvere, - diceva lei, che conosceva la legge e gl'intrighi della legge. - Se vai in carcere, non vedi più la mia faccia, - ribatteva Ciccillo, accendendo un mozzicone. Sì, quando erano sole, sole, le due sorelle si disperavano. Ma l'amore dei quattrini era così forte, che faceva loro prorogare sempre l'epoca del doppio matrimonio. Pazientemente, i due operai aspettavano, comperando coi loro risparmi, lentamente, i mobili per mettere su casa, insieme, poiché non si erano mai divisi. - A Pasqua, - dicevano le due sorelle, pensando di finirla con tutti i loro impegni, per quell'epoca. - A Pasqua, - annuivano i due fratelli. - A settembre, - dicevano esse, nell'aprile, essendosi invescate più che mai in quella rete di sordidi affari. E sempre, quando erano sole, le due sorelle si lagnavano di essere maltrattate dal destino, di essere misconosciute dagli uomini che amavano e concludevano: - Ciccillo e Alfonso sono due scemi. Ma anche in quel giorno non rimasero a lungo sole. Il triste mestiere continuò sino a sera. Venne un pittore di santi, pittore nel senso che dipingeva il volto, le mani e i piedi dei santi di legno e stucco delle mille chiese di Napoli e di provincia: un pittore malaticcio, che chiedeva denaro e a cui fu concesso solo sulla promessa che avrebbe portato, l'indomani, una statuetta della Immacolata Concezione in abito azzurro cosparso di stelle, protettrice di Concetta, l'usuraia. Venne, disperatamente, Annarella, la sorella di Carmela, a chiedere in prestito, proprio per atto di carità, due lire per quel giorno, voleva fare un po' di brodo al suo bimbo malato: e lì una scena orribile avvenne, le due donne non credevano alle parole di Annarella, le voleva ancora burlare, ancora una volta, poiché ella e Gaetano suo marito avevano un grosso debito e non si vergognavano di prendersi il sangue della povera gente e di non restituirlo: Annarella strillava, piangeva, gridava che sarebbe andata a prendere il suo bambino, bruciante di febbre, per farlo vedere alle due sorelle; avrebbe fatto pietà ai sassi; e singhiozzando, gridava che anche loro avevano ragione, che tutti avevano ragione, ma che si movessero a pietà di quella creaturina che non ne aveva colpa, ora che era svezzata ella avrebbe trovato un altro mezzo servizio, se la Madonna l'aiutava: e infine, per fastidio, per non udire quei gridi, quei pianti, Concetta le diede quelle due lire, giurando e sacramentando che erano le ultime, per quanto era vero quel venerdì di marzo, in cui, forse, era morto Nostro Signore, - poiché non si sa in quale venerdì di marzo sia morto Gesù! Altra gente, fra imbarazzata, rabbiosa e dolente, venne per pagare vecchie rate d'interessi per offrire roba in pegno, per chiedere nuovo denaro; e i dibattiti passavano dalla umiltà all'asprezza, dalla minaccia alla preghiera, dalle promesse solenni alle transazioni vigliacche. Discutendo, litigando, minacciando, Concetta continuava a lavorare, dirimpetto a sua sorella, mentre veniva la sera: e non si stancava, con la parola sempre pronta ed efficace, con la frase sempre lucida, con la intuizione immediata del buono o del cattivo pagatore. Solo per un visitatore discreto, vestito pulitamente, con la faccia rasa dei servitori di buona casa, ella si levò e andò con lui, nella stanza attigua; dove parlottarono a bassa voce, qualche tempo. Si udì il solito rumore di chiavi che stridevano nelle serrature, di cassetti aperti e richiusi; il servitore uscì, con la sua aria riservata, seguito da Concetta. - È il maestro di casa del marchese Cavalcanti? - domandò Caterina quando egli fu partito. - Sì, - disse senz'altro Concetta. Cadeva quella dura e faticosa giornata di venerdì. Le due sorelle, ora che annottava, avevano lasciato di trapuntare la coperta: e Caterina, per la gran giornata del sabato che era la sua, preparava certi grossi registri, scritti a caratteri informi, tutti cifre, in cui ella si raccapezzava benissimo. Sotto il lume a petrolio, chinata sovra il registro, pensando, muoveva le labbra: e Concetta, vedendola immersa nel suo grave lavoro settimanale, taceva, rispettando quella sagace preparazione, sentendo che da essa, l'indomani, sarebbero sgorgati denari, denari, denari.

Tutti avevano aperte le porte di casa, tutti erano alle finestre: ma il racconto confuso e tremante che facevano Francesco e Giovanni, aveva tanto comunicativo spavento, che nessuno osava penetrare nella casa aperta del marchese Cavalcanti e nella cucina dove il cadavere giaceva, abbandonato. Nel salone, le due donne si tenevano sempre strette, tremando, mentre Margherita cercava di vincersi per amore della sua padrona, il cui corpo, nelle sue braccia, ella sentiva a volte ammollirsi come per mancanza di spiriti vitali, a volte irrigidirsi, come in un impulso di convulsione nervosa. Ma il gran susurro del palazzo, dal portone era giunto anche in casa del dottore, che aveva il cuore sempre fremente nell'aspettativa di una catastrofe: messo il capo alla finestra, vide gente dovunque e confusamente arrivò, anche a lui, la vociferazione che s'era trovato un morto, ucciso, nel pozzo del palazzo Rossi e che il morto era nella cucina di casa Cavalcanti. Giusto, Giovanni, ripensando alle due donne lasciate sole, pentito di quel gran chiasso, intendendo che tutto quello scandalo sarebbe ricaduto sulla famiglia Cavalcanti, risaliva le scale: - Veramente, ci è un morto? - gli chiese Amati, non arrivando a nascondere, malgrado la propria forza, il turbamento che lo aveva colpito. - Veramente, Eccellenza, - disse il cameriere, con la disperazione negli occhi e nella voce. - Chi lo ha visto? - Tutti, Eccellenza. - Chi, tutti? Anche la signorina? - Anche la signorina. Il dottore gli gettò una occhiata terribile ed entrò nella casa fatale, dove un fiato tragico aveva sempre soffiato dal primo momento che vi aveva posto il piede, dove tutte le lugubri bizzarrie parevano possibili. Girò per le stanze, come un pazzo, in cerca della fanciulla e la trovò seduta in un seggiolone del salone, così pallida, così stravolta e così muta che Margherita, sgomenta, le si era inginocchiata dinanzi, tenendole le mani, pregandola che le dicesse una parola, solo una parola. Bianca Maria diè un'occhiata ad Amati e parve non lo riconoscesse, tanto rimase fredda e inerte, fissa nella sua espressione di spavento. - Bianca! - disse il medico, con voce dolce. Ella seguitò a tacere. - Bianca! - replicò lui, più forte. E le prese la mano: a quel lieve contatto ella fremette, diè in un grido, ritornando in sé stessa. - Amor mio, amor mio, parla, piangi, - suggerì lui, guardandola magneticamente, cercando di trasfonderle la sua volontà, la sua forza, il suo coraggio. E a un tratto, come se quella volontà e quella forza le avessero dissuggellate le labbra, ella si mise a gridare: - Il morto, portatelo via, il morto! - Ora, ora, non temere, lo portiamo via, sta calma, - le disse il medico. - Il morto, il morto! - gridava lei, con la faccia fra le mani, convulsamente. - Per carità, portatelo via, questo morto, o mi porterà via! Non mi fare portar via, te ne supplico, amor mio, se mi vuoi bene! Con uno sguardo il dottore raccomandò la fanciulla a Margherita e, seguito da Giovanni, andò in cucina: in anticamera vi erano già due o tre persone che parlavano di chiamare il delegato, il portiere, la portiera, le serve di casa Fragalà e di casa Parascandolo, Francesco il facchino, ma nessuno di essi, pure seguendo il dottore, osò entrare nella cucina: lo lasciarono andar solo, aspettando nell'anticucina, in silenzio, vinti, di nuovo, da una gran paura. Il medico, pur avvezzo ai cadaveri, scosso da quella catastrofe che lo feriva intimamente, demoralizzato dal pensiero delle sue conseguenze, entrò in cucina, in preda al più profondo dei turbamenti, che la vista di quella fronte sanguinante, di quelli occhi piangenti, di quelle mani legate e sanguinanti, di quel torso livido, ferito e sanguinante, fecero crescere a dismisura. Ma il sangue freddo dello scienziato, avvezzo alla morte, riprese il sopravvento e accostandosi, egli vide che quel capo aveva la corona di spine: e in una stupefazione immensa, egli comprese tutto. Era l'Ecce Homo. a mezza statua di legno, che rappresentava alla sua naturale grandezza il Divin Redentore legato alla colonna, scolpita e dipinta magistralmente, avea tutto l'orribile aspetto del cadavere sanguinante: e l'acqua del pozzo in cui era stata immersa, ne aveva stinto il color di carne e il vermiglio del sangue, facendolo colare, nella duplice magica apparenza dell'assassinio e del l'annegamento. Pure, il dottor Amati si era sentito stringere il cuore, allo scoprire quella lugubre farsa, quella miscela di crudeltà e di grottesco: e dominata totalmente la stupefazione, l'uomo forte intendeva soltanto l'immensa amarezza di Bianca Maria inferma, addolorata, ferita forse a morte, per una tetra, mistica e puerile follia, in cui vaneggiava il marchese Cavalcanti. Adesso urgeva soccorrerla. - È l'Ecce Homo, - disse brevemente, uscendo fuori, alla gente raccolta nell'anticucina. - Voi che dite, Eccellenza! - gridò Giovanni provando lo stesso senso di stupefazione, aumentato dal dolore di quel sacrilegio. - È l'Ecce Homo, - egli ripetè, guardando tutti coloro freddamente, con quella sua aria imperiosa che non ammetteva replica. - Andate in cucina, asciugatelo e riportatelo nella cappella. Coloro si guardarono, consultandosi, sanati dal terrore del morto, presi dall'orrore di quell'oltraggio alla Divinità. - Dopo farete venire il prete, a benedire, - egli disse, conoscendo il cuore del popolo napoletano. Andò di là, nel salone. La fanciulla era ancora distesa sul seggiolone, con gli occhi coperti dalle mani, mormorando sempre, fra sé: - Il morto, il morto, amore caro, fate portare via il morto... - Non vi era nessun morto, cara, - egli le disse, con quella dolcezza che gli veniva dalla infinita pietà. - Oh sì, sì, vi era.. . - mormorò ella, melanconicamente, crollando il capo, quasi che nulla valesse a persuaderla del contrario. - Non vi era nessun morto, - replicò lui, seriamente, sentendo il bisogno di domare quel vagabondaggio della ragione. E cercò di toglierle le mani dagli occhi: ma esse s'irrigidirono e una espressione di spasimo stirò la fisonomia della ragazza. - Guardatemi un poco, Bianca Maria, - le mormorò lui con voce insinuante. - Non posso, non posso, - disse lei, con voce triste e misteriosa. - E perché? - Perché potrei vedere il morto, amore, amore mio, - ella disse, sempre con quel profondo senso di mestizia che faceva venire le lagrime agli occhi del dottore. - Cara, vi giuro che non vi è nessun morto, - replicò ancora lui, con la dolce insistenza che si fa a un fanciullo malato. E intanto cercava di prenderle il polso, per sentirne le pulsazioni, per sentire la temperatura della pelle. Strano a dirsi, mentre la fanciulla pareva quasi in delirio, la mano era gelida e le vibrazioni del polso erano lente, fievoli. Egli ebbe una stretta al cuore, come se la mancanza di vita e di forza della poveretta, gli desse la prova di una decadenza continua, invincibile. Avrebbe voluto raccapezzarsi in quel morbo singolare, in cui tutto il sangue pareva diventato debolissimo e in cui tutti i nervi fremevano in una acutissima sensibilità; ma troppo il suo cuore amava Bianca Maria, perché la sua scienza conservasse la sua lucidità. Non trovava più, non trovava il segreto di quel sangue impoverito e di quella nervatura frizzante: intendeva soltanto, così, confusamente, che quell'organismo si consumava di debolezza e di sensibilità: non pensava né alle medicine, né ai rimedii eccezionali: pensava solo, confusamente, così, che egli doveva salvare l'amor suo, niente altro. Ah, sì, egli doveva strappar subito dagli artigli di quel pazzo, la povera creatura innocente a cui s'infliggevano le quotidiane paure di una follia che non si guariva; egli doveva torre via da quella miseria crescente dell'anima e del corpo, da quella fatale discesa verso l'onta e verso la morte, la purissima creatura, che sapeva solamente soffrire, e soffriva senza ribellarsi, senza lamentarsi. Egli lo doveva, subito: era un uomo, era un cristiano, doveva salvare la infelice, come altre volte, tante volte, aveva salvato gli ammalati d'idrofobia dalla morte per la rabbia, come aveva salvato, una volta, un disperato colpito dall'implacabile tetano. Subito, subito, doveva salvarla, o non si era più a tempo. Dove era il marchese, dunque, dove era il crudele, il folle che col denaro giuocava il suo nome, il suo onore e la sua figliuola? - Eccellenza, è fatto, - disse Giovanni, facendo capolino nel salone. Il vecchio servitore era pallidissimo: dopo l'impressione orrenda di quello che aveva creduto un cadavere, la grave offesa fatta dal suo padrone alla Divinità, ne aveva sconvolto l'umile coscienza religiosa. Quella figura del Redentore, con la fune al collo, sospeso giù nel pozzo, come la salma gemente sangue di un ucciso, quella immagine del pietoso Gesù, così vilipesa, gli sembrava che avesse dato il crollo alla ragione del marchese, gli sembrava che dovesse portare la maledizione della casa. E chiamò fuori Margherita, per dirle quello che era accaduto, mentre nelle case dei vicini, nelle scale, nei portone, nelle botteghe, si andava dicendo che l' Ecce Homo i casa Cavalcanti aveva fatto un miracolo, salvando un ucciso, mettendosi al posto dell'ucciso: e dovunque, in mille forme, si cavavano i numeri dal singolarissimo avvenimento. - Il morto, il povero morto... - vaneggiava la fanciulla, con la voce che le usciva come un soffio dalle labbra. - Non dite più questo, Bianca Maria, credetemi, credetemi, - soggiunse il dottore, con una dolce fermezza. Non vi era il morto: era la statua dell' Ecce Homo. Che era? - gridò ella, levandosi in piedi, guardando il dottore, con certi occhi stravolti. Egli si scosse: ma credette che questa fosse la crisi di quel lungo vaneggiamento e le ripetette, cercando domarla con lo sguardo: - Era la statua dell' Ecce Homo: ostro padre l'aveva sospesa nel pozzo, con una fune al collo. - Dio! - urlò lei, con voce potentissima, levando le braccia al cielo. - Dio, perdonateci! E cadde ginocchioni, si prostese, toccando la terra con le labbra, piangendo, pregando, singhiozzando, continuando a supplicare il Signore, di perdonare a lei e a suo padre. Nulla valse a calmarla, a farla levare di terra, dove, ogni tanto, si abbandonava, in una crisi di lunghissimo pianto: invano il dottore volle usare la dolcezza, la bontà, la forza, la violenza, non vi riescì: l'emozione di Bianca Maria cresceva; cresceva, con qualche intervallo di stupefazione, per ricominciare più forte. Ogni tanto, mentre parea che si chetasse, un rapidissimo pensiero le attraversava il cervello ed ella si abbatteva al suolo, gridando: - Ecce Homo, Ecce Homo, perdonateci voi! Il dottore assisteva, fremendo, col capo chino sul petto, sentendo l'impotenza della sua volontà, sentendo l'impotenza della sua scienza. Che fare? Aveva chiamato Giovanni e scritte due righe sopra una carta, un'ordinazione di morfina, l'aveva mandato alla farmacia: ma la stessa morfina lo sgomentava, Bianca Maria era già troppo debole per sopportarla. Ella, desolata, con una vitalità nervosa, bizzarra, si batteva il petto, mormorando confusamente le parole latine del Miserere, iangendo sempre, come se inesauribile fosse in lei la sorgente delle lacrime. Fu dopo un'ora che il marchese, silenziosamente, entrò nel salone. Era come più vecchio, più stanco, più rotto dal peso della vita. - Che ha Bianca Maria? - domandò timidamente al dottore. - Che le hanno fatto? - Voi la uccidete, - disse gelidamente il medico. - Hai ragione, hai ragione, figlia mia, sono un assassino, - strillò il vecchio. Quell'uomo sessantenne si buttò ai piedi di sua figlia, tremante di vergogna e di umiliazione, tutto sussultante di un singulto senza pianto. E sotto gli occhi del dottore la compassionevole scena si svolse: quel padre canuto, dal gran corpo cadente, pieno di raccapriccio e di dolore, piangendo le rare e brucianti lacrime dei vecchi, sentendo tutto l'orrore della sua colpa, si piegava innanzi alla giovane figliuola, chiedendole perdono, con un balbettìo infantile, proprio come il fanciullo, che sfoga nel pianto tutto il puerile pentimento del suo errore: e la figliuola fremeva ancora, per la gran ferita che le aveva aperta nell'anima la inconscia crudeltà, per la ferita che frizzava sotto l'insulto del fiele che quella crudeltà seguitava a versarvi, per la ferita frizzante sanguinante che questa umiliazione di suo padre faceva gemere ancora, più dolorosamente: e ambedue, al forte uomo la cui vita era stata sempre una onesta e nobile lotta, una continua via verso i più alti ideali, apparivano così deboli, così miseri, così infinitamente infelici, uno come carnefice, l'altra come vittima, che egli, ancora una volta, rimpianse quel tempo, in cui questa tragica famiglia Cavalcanti non aveva preso nel suo stritolante ingranaggio, il suo cuore: ma era tardi, quella miseria, quella debolezza, quella infelicità adesso lo colpivano così direttamente che lui, il forte uomo, soffriva per tutti quegli spasimi e non poteva più domare il purissimo istinto di salvazione, che era il segreto della sua nobiltà d'animo. - Perdona, figlia mia, perdona al tuo vecchio padre; calpestami, me lo merito, ma perdonami, - andava ripetendo il marchese di Formosa, in preda a un furore di umiliazione. - Non dite questo, non lo dite, io sono una misera peccatrice: cercate perdono all' Ecce Homo he avete offeso, o la nostra casa è maledetta, o noi moriamo tutti e ci danniamo...ci danniamo...per la salute eterna, padre mio, cercate perdono all' Ecce Homo. Quello che tu vuoi, figliuola mia, quello che tu m'imponi, così sia, - egli replicò, umiliandosi ancora, tendendo le braccia in atto di supplicazione, - ma l'Ecce Homo i aveva abbandonato, Bianca Maria, egli mi aveva tradito, ancora una volta, capisci? - finì di dire, lui, di nuovo in preda alla collera che lo aveva indotto all'atto sacrilego, sciagurato e grottesco. - Voi mi fate spavento, - gridò lei, indietreggiando e stendendo le braccia per non farsi toccare da lui, - voi, uomo, avete voluto punire la Divinità di Gesù!... cercate perdono, cercate perdono, se non volete che moriamo tutti dannati... - Hai ragione, - mormorò lui, sgomento, umiliato di nuovo. - Fa di me quel che vuoi, farò penitenza, ti ubbidirò come se tu fossi mia madre, sono un assassino, sono un infame! Il marchese si era buttato sopra un seggiolone, accasciato, col petto ansimante, col capo chino, con lo sguardo vitreo fisso al suolo: e la sua figliuola ritta in piedi, nel bianco accappatoio che castamente la copriva dal collo ai piedi, coi neri capelli disciolti sulle spalle, aveva l'aria trasognata e dolorosa delle sonnambule, svegliate dalle loro errabonde e soavi visioni. Il medico intervenne: - Bianca Maria, - egli disse. - Che vuoi? - ella rispose, fievolmente, mentre il padre era immerso in un profondo abbattimento. - Tuo padre è assai turbato, tu soffri: bisogna che ambedue dimentichiate questa dolorosa scena. Vuoi ascoltare un mio consiglio, umano, buono? - Tu sei la bontà e la umanità, - sussurrò ella, levando gli occhi al cielo. - Parla, ti obbedirò. - Quest'ora è stata assai triste, Bianca, ma forse essa potrà aver frutto di bene. Avete pianto, insieme, tu e tuo padre: le lacrime lavano. Per le comuni sofferenze, per il bene che vi volete, tu devi chiedere a tuo padre, non già che egli si umilii fino a chiederti perdono, ma che ti prometta, in nome di tutto quello che hai sofferto, di fare quello che tu gli domanderai, più tardi, quando sarete calmi: diglielo così, Bianca. La mobilissima faccia della fanciulla, alla parola imperiosa, calma e benevola del medico, a quella voce che aveva il magico potere di ridarle la quiete e la fede nella vita, la faccia sino allora contratta e spasimante, si andava rasserenando. L'anima sua, sconquassata e stanca, si posava. - Così sia, - ella mormorò, come se compisse ad alta voce una preghiera interiore. E avvicinandosi al seggiolone, dove giaceva disfatto suo padre, si piegò verso lui e con una tenerissima voce, gli disse: - Mio padre, voi mi volete bene, non è vero? - Sì, - disse lui. - Voi mi volete fare una grazia? - Tutto, tutto, Bianca Maria! - Una grazia sola, per il mio bene, per la salute e la felicità del mio avvenire, promettete di farla? - Tutto quello che vuoi, figliuola, sono il tuo servo... - ... È una grazia singolare, ve la dirò più tardi quando saremo ritornati in grazia di Dio, quando saremo più tranquilli.., ho la vostra parola, mio padre, voi non avete mai mancato... - Hai la mia parola, - egli disse, affannato, come se non reggesse a quel dialogo. Ella intese. Si piegò e con quel suo consueto atto di sommissione filiale, gli sfiorò la mano con le labbra: egli le toccò la fronte, lievemente, in segno di benedizione. Ella si appressò al dottore, gli tese la mano e lo guardò con tale intensità di amore, che egli impallidì, e per nascondere la sua emozione, si abbassò a baciarle la mano. Lentamente, trascinando la persona sottile di cui le forze mancavano, ella si allontanò, uscì dal salone, lasciando i due, soli. Il vecchio pareva concentrato in profonde e tristi riflessioni, poiché ogni tanto levava la faccia al cielo in atto di angoscia e la riabbassava, crollando il capo, quasi scorato. Ma il medico vedeva che l'ora era giunta. - Potete ascoltarmi? - gli domandò, freddissimamente. - Preferirei… preferirei un altro giorno..., - gli rispose, con voce fioca, il marchese. - Meglio oggi, - insistette Amati, con la stessa freddezza dominatrice. - Sono assai turbato… assai… - Forse in quello che vi dirò, avrete modo di placarvi. Voi sapete se vi sono devoto… - Sì, sì..., - rispose l'altro, vagamente. - Io non so dire molte parole, per dimostrare la mia devozione. Cerco, quando posso, di agire devotamente. Vi sono sinceramente, sinceramente affezionato... affezionato a entrambi... - Lo sappiamo: il nostro debito di gratitudine è grande… - Non parlate di ciò. È da tempo che volevo dirvi una mia speranza e non osavo. Sapete meglio di me, che nessun interesse materiale può guidarmi. Vedete, marchese… Non vorrei richiamarvi alla memoria il passato, è troppo doloroso, ma è necessario il farlo. Voi e questa fanciulla, da anni, siete in dolorose condizioni… oh! non per colpa della fanciulla, certo! Le vostre intenzioni sono affettuose, sono sante, hanno uno scopo alto che tutti gli uomini onesti debbono approvare, la rifazione della vostra casa e della vostra fortuna, la felicità offerta a vostra figlia, sante intenzioni, non lo nego: io stesso vi ammiro in questo desiderio così nobile… Il marchese aveva levato la testa e ogni tanto sogguardava il dottore, approvando con un battito di palpebre tutto quanto egli andava dicendo, cautamente, delicatamente, per non offendere, per non abbattere di più quel vecchio, la cui umiliazione tanto lo aveva fatto soffrire. - Ma i mezzi, certo, - riprese il dottore, continuando, con la stessa cautela, - erano rischiosi, azzardati, pericolosissimi e l'ardore con cui desideravate la fortuna, vi ha fatto trascendere, vi ha fatto dimenticare tutte le sofferenze, che inconsciamente seminavate intorno. Non vedete, marchese? Avete intorno la malattia, la miseria, l'avete intorno e in voi: la passione vi ha portato via, e nel precipizio cade con voi la più pura, la più bella, la più cara fra le donne, vostra figlia! - Povera figliuola, povera figliuola, - mormorò pietosamente il marchese. - Voi amate vostra figlia, non è vero? - chiese il dottore Amati, volendo far risuonare tutte le corde del sentimento. - Io non amo che lei sopra tutte le cose, - disse subito il vecchio marchese Cavalcanti, con le lagrime agli occhi, nuovamente. - Ebbene, marchese, vi è un mezzo, per porre quella giovine esistenza innocente al coperto di tutte le angosce fisiche e morali che la consumano; vi è un mezzo, per toglierla dall'ambiente di malattia, di tristezza, di decente ma penosa miseria, in cui ella soffre per tutte le sue fibre; vi è un mezzo, per assicurarle un avvenire di salute, di agiatezza, di pace, di serenità come merita quell'anima purissima; vi è un mezzo, per cui ella può rivivere e questo mezzo è nelle vostre mani... - Ho tentato, lo sapete, - disse desolatamente il marchese Cavalcanti, fraintendendo, - ma non sono riescito. - Voi non m'intendete, - riprese il medico, frenando a stento la sua impazienza, poiché vedeva sempre acciecato il marchese. - Non vi parlo del lotto che è stato il gran disastro della vostra famiglia, che è il cruccio di vostra figlia, che è il tormento di tutti coloro che vi amano. Come potete supporre, che io vi parli del lotto?... - Eppure, è il solo mezzo per far denari, molti denari: solo con esso, io posso salvare Bianca Maria. - V'ingannate, - replicò sempre più freddamente il dottore. - Vi parlo di altro: si può trovare altrove la quiete e la fortuna. - Non è possibile: le fortune che si possono guadagnare al lotto, non hanno limite... - Marchese, qui si parla seriamente. Queste follie cabalistiche mi lasciano freddo, anzi mi esasperano, quando penso ai dolori che cagionano: posso ammetterle come intenzioni nobili, ma esse rappresentano una passione imperdonabile, non ne parlate giammai con me, giammai! Cavalcanti aveva levato la testa e la fisonomia, fino allora molle e disfatta, si era fatta glaciale e dura. Quel giammai, ronunciato con fermezza da Antonio Amati, gli aveva fatto aggrottare un po' le sopracciglia. - Di che mezzo parlavate voi? - egli domandò con una voce strana, dove Amati udì nuovamente l'ostilità. - Forse oggi siamo troppo alterati... tralasciamo, - mormorò il dottor Amati, che si vedeva in procinto di perdere una grave partita. - Domani. - Non ritardiamo, - insistette con fredda cortesia, il marchese Cavalcanti, - giacché si tratta di Bianca Maria, sono pronto. - Datemi vostra figlia in moglie, disse rapidamente ed energicamente il dottor Amati. Il marchese Cavalcanti chiuse gli occhi; un momento, quasi che una vivida luce lo abbagliasse, come se volesse nascondere il suo sguardo lampeggiante: non rispose. - Credo di poter offrire a vostra figlia una posizione degna del suo nome, - riprese subito il medico, deciso ad andare in fondo, - poiché il mio lavoro mi ha dato denaro e reputazione, è inutile esser modesto: lavorerò ancora, molto di più, perché ella sia ricca, ricchissima, felice, inattaccabile, protetta dal mio amore e dalla mia forza... - Voi amate Bianca Maria? - disse il marchese, senza guardare in viso il suo interlocutore. - Io l'adoro, - disse l'altro, con semplicità. - Ed ella vi ama? - Sì. - Voi mentite, signore, - rispose con voce profonda, il marchese Cavalcanti. - Perché insultarmi? - chiese il medico, deciso a sopportar tutto. - Un insulto non è una risposta. - Vi dico che mentite e che nulla vi autorizza a credervi amato. - Vostra figlia mi ha detto d'amarmi. - Bugia! - Me lo ha scritto. - Bugia! Dove sono le lettere? - Ve le porterò. - Sono false. Tutte bugie! - Domandate a lei. - Non lo domanderò. Mia figlia non può amare,senz'averlo detto a suo padre. - Domandateglielo. - Non si è confidata con me: voi mentite. - Domandate a lei. - Mi avrebbe già parlato: mia figlia è obbediente, mi dice tutto. - Non pare che vi dica tutto. - Sono suo padre, perdio! - Voi lo avete spesso dimenticato: essa, qualche volta, lo avrà dimenticato. - Dottore, non vogliate insistere, - fece il marchese, con la sua fredda, ironica cortesia. - Insisto, perché è il mio diritto. Non ho mentito. Del resto, io ho parlato chiaro. Mi offro a vostra figlia che è ammalata, povera, triste, come marito, come protettore, come amico, per guarirle l'anima e il corpo, per amarla e per servirla, come ella merita. Volete darmi vostra figlia? A questo dovete rispondere. - Non ve la voglio dare. - Perché? - Non ho dovere di spiegarvi le mie ragioni. - Siccome il rifiuto mi offende, ho diritto di chiederle. Forse perché non sono nobile? - Non è per questo. - Non mi trovate giovane? - Neppure per questo. - Avete una particolare disistima di me? - No. - E perché, allora? - Ripeto, non debbo dirvi le ragioni. Non posso rispondervi che questo: no. - Neppure aspettando? - Neppure. - Senza nessuna speranza? - Nessuna. - Per nessuna circostanza? - Giammai, - conchiuse il marchese Cavalcanti. Tacquero. Ambedue, diversamente straziati, erano straziati. - Voi volete veder morta la vostra figliuola, - disse il medico, dopo aver pensato. - Non temete, non morrà; vi è una forza che la sostiene. - Domani, essa sarà all'elemosina, una Cavalcanti! - Io la farò ricca a milioni, signore; ma io soltanto ho il dovere di arricchirla. - Vi ho detto che l'amo. - Nulla può agguagliare la mia tenerezza. - Ma il destino delle donne, delle fanciulle è l'amore, è il matrimonio, sono i figli! - Delle donne comuni, volgari, non di Bianca Maria Cavalcanti. Ella ha un'altissima missione, la compirà. - Marchese, voi perderete quella fanciulla. - Io la salvo: e le assicuro una fama immortale e una vita immortale. - Marchese. io ve ne prego, vedete come ve ne prego, io che non ho mai pregato nessuno: non dite di no, così, ostinatamente, senz'aver neanche interrogata Bianca. Voi le preparate un nuovo grandissimo dolore: voi togliete, a me la possibilità di vivere per lei e offendete un galantuomo, così, senza una ragione. Ve ne prego, pensateci, non vi decidete in questo momento. - O domani, o poi, è lo stesso. È un no, sempre un no, niente altro che un no. Non avrete la marchesina Bianca Maria Cavalcanti, - e sghignazzò diabolicamente. - Ripensateci ancora, marchese. Se mi dite ancora di no, io dovrò allontanarmi, per sempre. Non recidete così bruscamente i nostri legami. - Siete libero di allontanarvi, non ci vedremo più; forse, era meglio che non ci fossimo mai visti. - È vero. Me ne andrò. - Andate pure. Addio, signore. - Prima di andarmene, però, io voglio interrogare la vostra figliuola, qui, voi presente. Non siamo più nel Medio Evo: anche la volontà della fanciulla, conta. - Non conta. - V'ingannate. Io la interrogherò. Andrò via, quando essa mi dirà di andare. Chiamatela, se siete uomo leale, se siete gentiluomo. Il vecchio signore, interpellato in nome della lealtà, si rizzò e suonò il campanello, dicendo a Giovanni di far venire la figliuola. I due nemici stettero in silenzio, fino a quando ella comparve. Con la facilità dei temperamenti estremamente nervosi, ella aveva riacquistata tutta la sua calma: ma un'occhiata rivolta alle due persone che amava, sconvolse il suo spirito, immediatamente. - Lascio a voi la parola, - disse con gentilezza il medico, inchinandosi al marchese. - Bianca Maria, - cominciò con voce grave il padre, - il dottor Antonio Amati dice di amarvi: lo sapete voi? - Sì, mio padre. - Ve lo ha detto? - Sì, mio padre. - Avete tollerato che ve lo dicesse? - Sì, mio padre. - Voi avete commesso un grave errore, Bianca Maria. - Tutti erriamo, - ella mormorò, guardando Antonio Amati, per prender coraggio. - Ma vi è qualche cosa di molto peggio. Egli dice che voi lo amate. Io, in volto, gli ho ripetuto che egli mentiva, che voi non potevate amarlo. - Perché lo avete chiamato mentitore? - È mai possibile che tu abbia smarrito ogni pudore, amando costui e dicendoglielo? - Anche mia madre vi amava, e ve lo ha detto, ed era una donna pudica! - Non divergere, non chiamare testimonianze, rispondi a me, a tuo padre: tu ami questo dottore? - Sì, - ella disse, aprendo le braccia. - Io non ti perdonerò mai questa parola, Bianca Maria. - Che Dio sia più misericordioso di voi, mio padre. - Dio castiga i figliuoli disobbedienti. Il dottore Antonio Amati mi ha cercato te in isposa. Gli ho risposto di no, di no, per adesso, di no, per domani, di no, per sempre. - Voi non volete che io sposi il dottor Amati? - No, non voglio. È vero che neppure tu lo vuoi? Ella non rispose: due grosse lacrime le rigarono le guance. - Rispondete, signorina, - disse il medico, con tale angoscia nella voce, che la poveretta fremette di dolore. - Non ho nulla da dire. - Ma non avete detto che mi amate? - Sì: l'ho detto: lo ripeto. Vi amerò sempre. - E mi rifiutate? - Non vi rifiuto: è mio padre che vi rifiuta. - Ma voi siete libera, non siete una schiava; ma le fanciulle hanno diritto di scelta; ma io sono un galantuomo. - Voi siete l'uomo più buono e più onesto che io abbia mai conosciuto, - diss'ella, congiungendo le mani gracili, in atto di preghiera. - Ma mio padre rifiuta, io debbo ubbidire. - Voi sapete, che mi date il più grande dolore della mia vita? - Lo so: ma debbo ubbidire. - Voi sapete che spezzate la mia esistenza? - Lo so: non posso fare altrimenti, mia madre mi maledirebbe dal cielo, mio padre mi maledirebbe sulla terra. So tutto: debbo ubbidire. - Rinunziate alla salute, alla felicità, all'amore? - Rinunzio, per obbedienza. - E tal sia! - gridò lui, con un atto energico, quasi buttasse via tutta la sua debolezza. - Non diciamo più che una parola: addio. - Voi ve ne andate? - disse ella, tremando come un albero scosso dalla tempesta. - Debbo andare: addio. - Partite? - Sì: addio. - Non tornerete più? - Mai più. Ella guardò suo padre: egli era impassibile. Ma tanta disperazione ella sentiva in sé, ella sentiva nel cuore di Antonio Amati, che tentò ancora: - Poc'anzi, mio padre, mi prometteste in un momento di pentimento e di confusione, che avreste fatto tutto quello che voglio io, e io vi chiesi di fare una sola cosa, una sola. È questa. La parola di un gentiluomo, di un Cavalcanti, è cosa sacra. Manchereste? - Ho le mie ragioni: Dio le vede, - disse misteriosamente il marchese. - Negate? - Sempre. - Nulla può indurvi? Né le nostre preghiere, né il bene che mi volete, né il nome di mia madre, nulla v'induce? - Nulla. - Egli dice di no, amore mio, - mormorò ella, guardandosi intorno, con l'occhio smarrito. Ma Antonio Amati era troppo mortalmente ferito, per provare più compassione delle sofferenze altrui. Adesso non lo teneva che un solo desiderio, quello delle persone forti che, chiusa nell'anima la gran catastrofe di tutta la loro vita, non pensano che a fuggire, a fuggire nella solitudine, sdegnose di sterile conforto. Aveva bisogno dell'ombra, del silenzio, dove nascondersi per piangere, per urlare di dolore. La fanciulla innanzi a lui era l'immagine della desolazione, ma egli non vedeva più, non sentiva più: ogni compassione era sparita dal suo cuore, egli provava tutto l'implacabile egoismo delle immense sofferenze. - Amore mio, amore mio, - ripetette ancora lei, cercando di dar forma alla passione che l'angosciava. - Non pronunziate queste parole, Bianca Maria, - egli disse con l'amaro sogghigno dei delusi, - non servono, non ve le chiedo. Abbiamo parlato anche troppo. Lasciatemi andare. - Restate ancora un minuto, - diss'ella, come se si trattasse di arrestare, per un momento, la morte. - No, no, subito. Addio, Bianca Maria. Egli s'inchinò davanti al marchese, profondamente: il feroce e impassibile vecchio che niente aveva potuto scuotere, i cui occhi non vedevano più altro che le sue pazze visioni, gli rese il saluto. Quando il medico passò innanzi alla fanciulla, per uscire dal salone, costei gli tese la mano, umilmente: ma il dottor Amati non prese quella mano. Ella fece un atto di rassegnazione e guardò il medico con tanta infinita passione, quanta ne può mettere, nello sguardo, l'esiliato che abbandona per sempre la patria. Ma non era più tempo di parole e di saluti, fra loro: violentemente divisi, si lasciavano per sempre, le parole e i saluti erano inutili. Egli si allontanò, seguito dallo stesso magnetico sguardo di Bianca Maria, senza voltarsi indietro, andandosene solo, al suo amaro destino. Ella tese l'orecchio per ascoltare quel passo adorato, che non avrebbe più udito, mai più: udì anche la porta di entrata che si richiudeva, discretamente, come la porta di un carcere misterioso. Tutto era finito, dunque. Il padre suo era seduto nel seggiolone, pensoso, ma calmo, appoggiando la fronte a una mano. Quietamente, ella venne a inginocchiarsi presso suo padre e chinando il capo, gli disse: - Beneditemi. - Dio ti benedica, come io ti benedico, Bianca Maria, - disse piamente il marchese Cavalcanti. - La vostra figliuola è morta, - ella mormorò, e aprendo le braccia, cadde indietro, riversa, livida, fredda, immobile.

L'usuraio, freddo, continuava a fumare le sue sigarette, mentre l' assistito tremato di forze, aveva abbandonato la testa sulla spalliera della sedia. Quella casa che era stata il carcere di un mese, aveva adesso anche l'orrido aspetto della sordidezza, e quella luce artificiale di lampada, in pieno giorno, stringeva il cuore, simile a fiamma di cerei intorno a una bara. In realtà, don Pasqualino pareva un morto. - E vi siete messi in tanti, contro uno? - domandò lo strozzino, senza rivolgersi direttamente a nessuno. - Perché non ha dato prima i numeri? - strillò Colaneri, raggiustandosi il colletto con un moto pretino. Nessuno gli avrebbe fatto niente. - Queste sono cosa da galera, capite? - disse l'usuraio, assai freddamente. - Non parlate di galera, voi! - fischiò la voce dell'ex-prete, - voi ci dovreste andare venti volte. L'altro si strinse nelle spalle e: - Don Pasqualino, avete la forza di levarvi? - chiese all' assistito. - Vi voglio portar via. I quattro si guardarono, subitamente pallidi. Era naturale che, scoperta la cosa, l' assistito e ne andasse: ma l'idea che egli venisse tratto all'aria aperta, in libertà, potendo andare e venire, raccontando quello che gli era accaduto, sfuggendo alle loro vessazioni, li gettava in un profondo sgomento. - Non ho la forza di muovermi, cavaliere, - disse don Pasqualino, lamentandosi. - Se mi volevano uccidere, non potevano trovare un miglior modo.., eh, Dio glielo renderà, a tutti - e sospirò profondamente. Bussarono, due volte, alla porta. E le altre due coppie entrarono, Ninetto Costa e l'avvocato Marzano, Gaetano il tagliatore di guanti e Michele il lustrino. Non contenti di venire ogni giorno, ogni due ore, per turno, a domandare i numeri all' assistito, on la insistenza monotona del trappista che dice all'altro trappista, bisogna morire, l venerdì vi era sempre riunione plenaria: era la tortura in massa, la tortura di coloro che sono caduti in fondo all'abisso e ancora vogliono sollevarsi: la tortura di tutti coloro in cui imperversa una passione e che più non vedono lume. Anzi, la loro ostinazione feroce era cresciuta in ragione della mala azione che avevano consumata e che consumavano contro don Pasqualino: invece di sentir rimorso, provavano una collera profonda, che neanche questa loro violenza fosse riescita a nulla, poiché non uno dei numeri, dati simbolicamente o dati proprio come cifra dall' dall'assistito urante la sua cattività, era venuto fuori. La prima doccia fredda, sulla loro aberrazione, fu la presenza di don Gennaro Parascandolo: fu allora solamente che videro la tristezza e la sudiceria del carcere dove avevano tenuto chiuso quell'uomo, e la crudeltà dipinta nella faccia del carceriere dottor Trifari, e le sofferenze dipinte nella faccia e nella persona di quel disgraziato sequestrato: allora solo intesero che tutti loro potevano esser processati per tale delitto e che erano alla mercè di don Pasqualino de Feo e di don Gennaro Parascandolo. Muti, freddi, attoniti, con gli occhi bassi, non chiedevano neppure come fosse stato scoperto quel carcere. Sentivano adesso quel grave peso sul cuore che è il castigo primo, morale, intimo della colpa. Più di tutti era avvilito il marchese Cavalcanti, egli si rammentava di aver condotto colà l' assistito, edeva già il suo nome trascinato dalla questura alle carceri, dalle carceri al tribunale. Adesso i cabalisti volgevano delle occhiate supplichevoli ai due arbitri del loro destino. Don Gennaro, flemmaticamente, fumava la sua sigaretta. - Anzi tutto, dottore, - egli disse, buttando in aria il fumo, - smorzate questo lume e aprite le finestre. - Io non accetto ordini! - gridò Trifari, che era il solo indomito ed era furioso di vedersi sfuggire la preda. - Volete proprio andare a San Francesco? - domandò quietamente l'usuraio, accennando alla maggior prigione napoletana. - Dovrebbero metterci voi! - urlò lo sfegatato cabalista, che era diventato mezzo pazzo, a furia di sorvegliare don Pasqualino. - Aspetto prima che mi paghiate quelle molte lire che mi dovete, - osservò lo strozzino. - State fresco, - mormorò Trifari, sfacciatamente. - Eh, qualcuno pagherà, vostro padre, vostra madre, di fronte alla querela per truffa… - soggiunse lo strozzino, senza turbarsi. Tutti si guardarono, gelidi. Ognuno di loro doveva dei denari allo strozzino: finanche don Crescenzo. I soli due esenti erano Gaetano il tagliatore di guanti e Michele il lustrino, ambedue torturati dalla usura egualmente spietata di donna Concetta. Lo stesso Trifari tacque: l'idea del disonore, nel suo paesello, a quei vecchi contadini di cui già egli era il segreto tormento, lo faceva dolorare come una bestia ferita. Macchinalmente andò ad aprire le finestre e spense il lume che fumicò, mandando un orribile puzzo di lucignolo carbonizzato. Le palpebre degli astanti batterono, a quella viva luce del giorno: tutte le facce erano pallidissime; e l'aspetto del miserabile assistito pparve simile a quello di un morente. L'usuraio gli dette ancora un sorso di cognac, he questi bevve a goccia a goccia, non potendo resistervi. - Ora faccio venire una carrozza, - disse don Gennaro. - Come, lo porti via? - osò chiedere disperatamente Ninetto Costa. - Vuoi che lo lasci qui, perché lo portiate via cadavere? - Che esagerazione, - mormorò l'altro, vagamente. - Don Pasqualino è abituato a star chiuso. . . e tu ci rovini, Gennarino… - Pensa agli altri guai tuoi, - disse seriamente lo strozzino. L'altro, colpito, tacque. Tutti quanti tremarono, vedendo che l' assistito entava di alzarsi, lentamente, appoggiandosi al tavolino e che a furia di sforzi, pigliando fiato ogni minuto, aprendo quella sua bocca livida, dai denti corrosi e neri, vi riesciva. L'incanto era spezzato, totalmente. Adesso l' assistito fuggiva loro, per sempre: sarebbe andato a denunziarli per sequestro di persona, per sevizie, per maltrattamenti, ma in fondo questo finiva per parer loro meno grave della libertà dell' assistito, he per vendicarsi non avrebbe loro dato mai più un numero, mai più. Ah fosse pure venuto il carcere, ma prima i numeri, col denaro della vincita avrebbero corrotta la giustizia, sarebbero scappati via! Il sogno era fuggito: la sorgente delle ricchezze fuggiva via, s'involava. Niente, niente più avrebbe indotto l' assistito fornir loro i numeri certi, nfallibili. Ogni passo che egli, sulle sue gambe magre e vacillanti, tentava di fare, era uno strappo al cuore che essi provavano. - Se non vi fate coraggio, don Pasqualino, restiamo qua fino a stasera, - osservò don Gennaro, che aveva premura di andar via. Certo, la sua posizione fra quei cabalisti non era rassicurante: tutti gli dovevano del denaro e se avevano già avuta l'audacia di consumare un sequestro, potevano bene consumarne un altro, più utile, più proficuo. Don Gennaro, è vero, li dominava con la sua freddezza e con la sua forza; ma non erano dei disperati, costoro? E anche essi provavano quella spezzatura di forze fisiche e morali, quella debolezza che sopravviene anche nei più raffinati malfattori, quando hanno compiuta la loro opera malvagia e vi hanno buttato tutta la loro potenza, vera e fittizia. A ogni modo, era meglio uscire. - Signori miei, vi saluto, - egli disse, prendendo il cappello e la mazzetta, vedendo che l' assistito trisciava con le scarne mani sui vestiti, tentando di pulirli. - Vorrei dire una parola a ognuno di questi signori, - chiese l' assistito. i fu un mormorio, tutti si affollarono attorno a colui che parlava con gli spiriti, mentre Parascandolo era già nell'anticameretta e aveva aperta la porta di uscita, per precauzione. - A uno alla volta, - disse l' assistito. - È una specie di testamento che fo: voglio lasciare un ricordo a tutti. E si appartarono, uno alla volta, con lui, nel vano della finestra. Egli li guardava in faccia, toccava loro la mano, con le dita deboli e fredde. Il primo fu Ninetto Costa: - Senti, Ninetto, non ti disperare: rammentati che alla fin dei fini, vi è sempre una rivoltella. - È vero, - mormorò quello pensando, cercando i numeri di quella parola. Il secondo fu Colaneri, l'ex-prete- Per te ci sta il Vangelo, esso ti apre le braccia, - sussurrò l' assistito. Grazie, - rispose l'altro con una espressione fra lieta e dolorosa, intendendo nella sua duplice forma il consiglio. Il terzo fu Gaetano, il tagliatore di guanti. - Perché sei ammogliato? Ti avrei consigliato di sposare donna Concetta, quella che ha tanti denari. - Tanti, ne ha? - Oh, moltissimi! - Avete ragione: sorte infame! Il quarto fu Michele il lustrino, lo sciancato gobbo. - Se tu non fossi così storto e vecchio, ti consiglierei di sposare donna Caterina, quella che fa il gioco piccolo. - Ma sono storto. . . - disse desolatamente il lustrino. - Eh, industriati. Il quinto fu il vecchio avvocato Marzano, dalla testa crollante, ma ancora arso dalla passione. - Sapete che di carta bollata se ne vendono centinaia e migliaia di fogli, in Napoli. Perché non cercate una privativa? Il vecchio a cui queste parole erano state susurrate più che dette, guardò con meraviglia e diffidenza l' l'assistito si allontanò, chinando il capo. Il sesto che si avvicinò, fu il dottor Trifari: era esitante, aveva troppo maltrattato l' assistito, n quei giorni di carcere. Pure, costui lo trattò con molta soavità: - Per liberarvi dalle noie, perché non vendete tutto al paese, facendo venire qui i vostri genitori? - Non vi ho mai pensato: vi penserò. Il settimo fu don Crescenzo, il tenitore del Banco lotto al vicolo del Nunzio, con cui don Pasqualino aveva antica relazione di amicizia. Si parlarono sottovoce, nessuno potette udire nulla. - Quanto è stupido il governo! - disse l' assistito, ardeggiando uno sguardo suggestivo a don Crescenzo. - Che dici? - chiese costui, sgomento. - Dico: quanto è stupido il governo! - Non ti capisco... - Mi capisci perfettamente. L'ottavo ad accostarsi, fu il marchese Cavalcanti, anche costui un po' timido, sentendosi in maggior colpa verso don Pasqualino. - Lo spirito mi ha parlato ancora, marchese. - E che vi ha detto? - Mi ha detto che la marchesina Bianca Maria è un anima perfetta, lucida, veggente: ma che, come vi ho già detto, il contatto con l'uomo la deturperebbe, la renderebbe ottusa e infelice, incapace di aver più qualunque visione. - La marchesina Bianca Maria morirà vergine, ditelo allo spirito, - rispose fieramente il folle vecchio. - Ebbene, don Pasqualino, vogliamo restare qui sino a stasera? - disse lo strozzino, rientrando. - Avete finito, con questi signori? - Sì, sì, ho finito, - rispose l'altro, con voce più forte, come se stranamente avesse ripreso le forze. Mentre l' assistito i cercava nelle tasche per vedere se avesse un lacero fazzoletto e certe carte sudicie che portava sempre addosso, e poi si metteva l'ignobile cappellaccio, i cabalisti si erano riuniti in un gruppo, ma non parlavano fra loro. Ciò che egli aveva detto loro, nel suo senso vero e in quello simbolico, come insinuazione, come consiglio, li aveva profondamente turbati. - Signori miei, Iddio vi perdoni, - esclamò con un bizzarro accento e con un lieve sorriso l' assistito, ndandosene. Fu appena appena se lo salutarono, dandogli un'occhiata di rimpianto; nessuno di loro osò scusarsi, per il male che gli avevano fatto: ognuno di loro sentiva nell'anima ribadirsi il chiodo che l' assistito i aveva messo. I due scendevano pian piano la scaletta, poiché l' assistito inacciava sempre di cadere. Fino a dargli braccio l'usuraio non vi era giunto, poiché l' assistito ra troppo, troppo sporco. Quando costui apparve sulla soglia del portone e si guardò intorno, assorbendo l'aria libera, gli vennero le lagrime agli occhi. - Credevo che non sarei più uscito, - disse, salendo nella carrozza. - Dove volete andare? - chiese Parascandolo. - Alla questura, - disse l'altro, nuovamente, con voce fioca, sdraiato nella carrozza come un infermo grave. Don Gennaro aggrottò lievemente le sopracciglia, e per non darsi in spettacolo alla gente, fece sollevare il soffietto della carrozza: si avviarono a via Concezione. - Volete denunziarli? - domandò freddamente. - Voi non sapete che torture mi hanno inflitto… - mormorò l'altro, battendo col capo contro il mantice, a ogni scossa della carrozza, come se non reggesse il capo sul collo. - Dunque, li denunziate? - Per trenta giorni, un infelice, ammalato, chiuso, senz'aria, con un lume a petrolio puzzolente: mentre anche quelli che hanno commesso dei delitti, escono a passeggiare! - Ma perché non avete loro dato i numeri? - Per questo, - disse l'altro, enigmaticamente. - Don Pasqualì, voi i numeri non li sapete! - disse don Gennaro, ridendo. - E a voi, che ve ne importa? - Proprio niente. Ma con me dovete parlar franco. - Sissignore, sissignore, - disse l' assistito milmente, - ma essi perché mi hanno buttato alla morte? Che avevo fatto di male, io, povero innocente? - Don Pasqualì, voi vi siete mangiato varie migliaia di lire, di quei signori, - continuò, sullo stesso tono, ridendo, l'usuraio. - Elemosine, cavaliere mio, elemosine! - Proprio tutte elemosine, proprio? - ghignò satanicamente don Gennaro. - Qualche piccola cosa, per me… - sospirò don Pasqualino, con un lampo di acquiescente malizia negli occhi. - Allora è inutile salire alla questura... - Andiamoci, don Gennaro, andiamoci lo stesso, che sarete contento di me. Scesero innanzi al gran portone, nella via Concezione, dove andavano e venivano le guardie di Pubblica Sicurezza: una fatica enorme fu salire le scale: all' assistito li mancava il fiato a ogni scalino. - Un poco di forza, eh! - ripeteva l'usuraio. - Non mi lasciate, non mi abbandonate, - sospirava l' assistito. lla fine giunsero al primo piano, dove don Gennaro, salutato rispettosamente dagli uscieri, chiese se vi era il questore. Non vi era: vi era il suo capo di gabinetto, che li fece entrare subito, che si sprofondò in cerimonie. - Vi è qui il signor Pasqualino de Feo che vuoi fare una dichiarazione, - disse l'usuraio mettendosi a fumare una sigaretta, dopo averne offerta una al capo di gabinetto, guardando negli occhi l' assistito. Volevo conoscere, - disse costui, flebilmente, - se qualcuno è venuto a dichiarare la mia sparizione… L'ispettore prese un grosso registro e lo sfogliò fumando. - Sissignore, - disse, - è venuta Chiara Stella de Feo, abitante alle Centograde, moglie di Pasqualino de Feo, a dichiarare l'inesplicabile assenza di suo marito, temendo un sequestro o una disgrazia... - Ma che sequestro, che disgrazia! - esclamò l' assistito, orridendo ironicamente. - Le donne fantasticano sempre... - Ha detto che foste sequestrato, altre volte, senza volere o saper precisare le circostanze… - E perché mi avrebbero sequestrato? - Per strapparvi i numeri del lotto. - Mia moglie ha detto che io so i numeri del lotto? - disse, con un lieve riso, l' assistito. Non gli credete, ispettore, sono frottole, - soggiunse Parascandolo, ridendo. - Volevo dichiarare, a scanso di equivoci, che trovandomi a Palma Campania, qui, in villa del cavalier Gennaro Parascandolo, mi ero così ammalato da dovervi restare un mese, senza aver modo di poter scrivere a mia moglie. Poi… contavo di tornare ogni giorno… - Voi testimoniate che è la verità, cavaliere? - disse sbadatamente, senza darvi importanza, l'ispettore. - Sissignore. - Allora, tutto va bene. Vi avrà dato i numeri, eh cavaliere, in questo mese di malattia? - chiese, sempre ridendo, l'ufficiale di polizia. - Sicuro! - affermò Parascandolo in pieno buon umore. - Ma a voi, che servono! Non dico di noi, poveri mpiegati… mpiegati…- Don Pasqualì, se avete la forza, date i numeri all'ispettore. - Voi mi volete burlare, - mormorò l' assistito. i licenziarono, mentre l'ispettore raccomandava a De Feo di andar subito da sua moglie, che doveva stare in pensiero. - Avete visto se vi ho servito bene, cavaliere? Ho perdonato a quelli che mi hanno offeso… - e scendevano le scale. - Siete troppo buono, - rispose l'altro, con una velatura d'ironia. - Non voglio farmi un merito, che non ho: non avrei mai denunziato quei signori… - Ah! - disse l'altro, fermandosi. - E perché? - Non mi conveniva - Capisco. Allora perché siamo venuti? - La dichiarazione era necessaria, la questura mi cercava. - Così ingenua è vostra moglie? - Mia moglie? Quella mi vuol tanto bene, che trema sempre per me e dice sempre che ci dobbiamo ritirare dalla professione - E che professione fa? - Non lo sapete? è la famosa fattucchiara elle Centograde, Chiara Stella… - Ah… sì, sì, mi ricordo… e le sue fatture sono come i vostri numeri? - Le sue fatture sono vere, - disse pensosamente, sinceramente, don Pasqualino. - E lei ci crede alla vostra assistenza? Sì, ci crede, - disse l'altro, chinando il capo, - mia moglie ha per me una grande passione. - Per voi? - Per me. - Siete curiosi, voi altri, - disse lo strozzino, filosoficamente. - Intanto li avete salvati, quegli otto furfanti… - Che… salvati, salvati! Avete inteso i consigli che ho dato, a tutti loro? - No, - rispose don Gennaro, sorpreso dal tono perverso di quel discorso. - Ho lasciato loro un ricordo, a ognuno - continuò lo spiritista, la cui voce si era fatta stridula. - E vi obbediranno, credete? - Come è certa la morte, - disse l' assistito, ugubremente. ugubremente.Salutò don Gennaro e, quasi rinvigorito, si avviò prestamente verso piazza Municipio. Quello, lo guardò andar via: e per la prima volta sentì il ribrezzo che dà la glaciale malvagità.

Domenico Mayer, funzionario dello Stato, ma le guardie lo avevano abbandonato, dicendo che era carnevale e che non provocasse, con quella tuba: il misantropico segretario dell'Intendenza di Finanza, pieno di amarezza, si era ritirato nel vico San Liborio, per salvarsi. A una signora dal cappello a larghe falde, che era rimasta inchiodata a un punto del marciapiede, verso San Giacomo, dal terzo piano, un bimbo buttava quietamente, perennemente, un filetto inesauribile di coriandoli, ed ella ne udiva la pioggia continua sul feltro e sulle piume, senza potersi muovere, senza poter levare il capo, per non ricevere i coriandoli sulla faccia. Alle due in punto si udì, lontano, lontano, il rimbombo di una cannonata, e vi fu, da un capo all'altro di Toledo, nella via, sui marciapiedi, sui balconi, come un lunghissimo sospiro di sollievo: vi fu, da un capo all'altro di Toledo, nella via, sui marciapiedi, sui balconi, fino agli ultimi piani, come un amplissimo e lunghissimo movimento di fluttuazione. I quattro balconi del palazzo Rossi, primo piano a destra, su Toledo, erano addobbati di teletta azzurra e bianca, fermata da larghe camelie rosse: e Luisella Fragalà e le sue invitate avevano pensato di farsi dei domino di teletta bianca e azzurra, con certi alti e sbuffanti cappucci, con una grossa coccarda rossa: e tutte le Naddeo, tutte le Durante, tutte le Antonacci, grasse o magre, giovani o vecchie, s'eran fatte da sé in casa il domino che doveva riparare i vestiti dalla polvere dei coriandoli e dare, secondo loro, un aspetto elegante alla balconata. Alcune avevano l'aria di grossi fagotti, altre di lunghi spettri, ma la gran pazzia carnevalesca aveva vinto le donne del mondo borghese: e d'altronde tutti i commerci fiorivano in quei giorni, tanta roba si vendeva e gli uomini ritornavano a casa di così buon umore, mentre tutto l'inverno era stato un pianto, e l'economia si era fatta più rigida, più dura! Come erano felici, tutte quelle donnine placide e laboriose, di questo periodo di carnevale popolare, a cui poteano prender parte, e del loro travestimento azzurro, bianco, con la coccarda rossa che Luisella Fragalà aveva ideato e che quella diavola di Carmela Naddeo aveva subito adottato e fatto adottare! Erano tutte lì, col mestolo alla mano, parlando già fantasticamente dei carri che dovevano comparire, amplificando, contraddicendosi, strillando, ridendo, rovesciandosi sulla ringhiera, per vedere se dal Museo spuntasse qualche carro. Solo, ogni tanto, una nube velava il volto nobile di Luisella Fragalà, i cui occhi bruni erravano dietro un cattivo pensiero: forse la tormentava il pensiero che le si sarebbero sciupate le tende dei balconi, per i coriandoli: forse avrebbe voluto tener aperta la bottega, anche in quel proficuo giovedì di carnevale, tanto l'amore della vendita l'aveva vinta, istintivamente, quasi che soltanto lì prevedesse la salvazione da un probabile pericolo: o forse si doleva internamente dell'assenza di Cesare Fragalà, il marito, che era spesso assente, in questi ultimi tempi e anche quel giovedì era scomparso, dalla mattina. Ma queste nuvole erano passeggiere. Luisella Fragalà andava e veniva, da un balcone all'altro, col cappuccio abbassato, cercando invano un posticino per la famiglia Mayer che si era presentata senza essere invitata, e che tutte respingevano silenziosamente, per non lasciar prendere il proprio posto, dicendo fra loro che la madre e la ragazza non avevano il domino e che stonavano, ul balcone. Si posero in terza linea, la madre sempre reumatizzata e imbottita di flanella sino alla punta delle dita, la ragazza co' suoi grossi occhi sempre opacamente malinconici e le tumide labbra che si gonfiavano di una continua, repressa tristezza, il fratello sempre prodigiosamente affamato. - Non avremo neanche una bomboniera, - mormoravano volta a volta, per turno, borbottando nella loro perenne rabbia contro l'umanità. Ma la gran fluttuazione carnevalesca, il cui chiasso aumentava sempre, ravvolse anche questa misantropia; ora il vocìo si faceva immenso fra le carrozze da cui era cominciata la battaglia dei coriandoli, fra i piccoli carri, addobbati alla meglio, adorni di mortella, e pieni di mascherotti femminili e maschili, vestiti di teletta colorata. La casa Parascandolo, all'altro lato del palazzo Rossi, aveva tenuto chiusi i suoi balconi, la signora si considerava in lutto: ma don Gennaro Parascandolo in spolverina di tela russa, in berretto di tela e con la borsa delle bomboniere a tracollo, dopo aver fatto una passeggiata a piedi, per Toledo, chiamato da cento balconi, dove erano i suoi clienti passati, presenti e futuri, era salito al suo circolo, a Santa Brigida e di là, fra un gruppo di giovanotti buontemponi e di buontemponi attempati, faceva la vita, nche lui: si diceva così allora. Attorno a lui, scherzando, gli domandavano per quanti carri aveva prestato denaro e se era vero, che per quel carnevale, la sua collezione di cambiali si era aumentata di preziosi autografi principeschi. Ninetto Costa, l'elegante e fortunato agente di cambio, che aveva delle ragioni per carezzarlo, gli diceva, in forma di adulazione, che non un pugno di coriandoli si gettava in quel giorno, di cui egli non avesse interesse nella provenienza o nella dispersione: e don Gennaro Parascandolo rideva paternamente, non negando, rispondendo a quelli che gli chiedevano quattrini, per burla: - Mi son fatto prestare mille lire, per far carnevale, da un mio amico… Gli altri, intorno, urlavano, fischiavano, ma sempre adulandolo: non si sa mai, gli si poteva capitar nelle mani: e lui emergeva fra tutti, con la sua alta statura e il picciol berretto assai bizzarramente piantato sulla grossa testa, dando forti mestolate di coriandoli contro le carrozze e contro i piccoli carri. Sciatta, col suo vestito nero, la cui tinta era adesso diventata verdastra e lo scialletto la cui frangia si era tutta sfilacciata, Carmela, la sigaraia, si era appostata all'angolo del vicolo D'Afflitto, guardando le carrozzelle e i carri che passavano, coi suoi occhioni bistrati, con una mossa impaziente della bella bocca fresca, l'unico lineamento, ancora giovanilmente fresco nel volto consumato. Dai balconi, dalla via volavano le mestolate, le manate di coriandoli, che spesso la colpivano nella persona o nella faccia, ma ella faceva solo un picciol moto per pararsi, sorrideva al fastidio, e si ripuliva la faccia con un angolo dello scialle. Aspettava, lì, a veder passare il suo eterno fidanzato Raffaele detto Farfariello, he era in carrozza, con quattro altri compagni, con vestiti e cappelli eguali, ché anzi, per aver questo vestito, ella aveva dovuto rivendere certe casseruole di rame, un cassettone e due rami lunghi di fiori artificiali sotto campana, roba tutta che ella conservava per il suo matrimonio. Come le si era straziata l'anima a vendere quella roba, comperata pezzo a pezzo, a furia di stenti! Ma Raffaele le aveva volute, a forza, quaranta lire - sangue di una lumaca! - perché si disperava di far cattiva figura con i compagni ed ella, che impallidiva quando lo udiva bestemmiare, aveva venduto quegli oggetti, all'impazzata, contenta in fondo, quando gli aveva consegnata la somma, poiché egli aveva sorriso e le aveva promesso di portarla al Campo, lei e sua madre, l'ultima domenica di carnevale, in una osteria, se pigliava un ambo asciutto il sabato: ella, tutta gloriosa di questa fantastica promessa, aveva rinchiuso nel core la sua amarezza ed era andata, in quel giorno di festa carnevalesca, sciattata come una poveraccia, col treccione nero che si disfaceva sul collo, senza un soldo in tasca, a veder passare il suo bell'innamorato, altieramente in carrozza, fumando un napoletano, ol vestito e col cappelletto nuovo sull'orecchio, con l'aria di superba indifferenza che è la caratteristica del guappo, dell'aspirante guappo. azientemente ella aspettava, non pensando che a lui, senza curarsi della sua giornata, poiché alla fabbrica del tabacco avevano fatto vacanza: pazientemente ella sopportava tutto l'urto di quel pomeriggio carnevalesco, a cui non prendeva parte, poiché ella era assorta nella buddistica aspettazione dell'amor suo. Ma la gente, a piedi, in carrozza, passava, passava attraverso il gran velo dei coriandoli, delle bomboniere, dei fiori che volavano, attraverso la pioggia di mille cartine colorate, piovute dai terzi e dai quarti piani, che, esclusi dalla battaglia dei coriandoli, si divertivano così, solitariamente: e il vocìo diventato clamore ondeggiava sonoramente, saliva al cielo di quella dolce giornata sciroccale. Carmela, stordita dal rumore e dalla fantasmagoria di quel pomeriggio, in cui l'allegrezza napoletana prendeva proporzioni epiche, aguzzava gli occhi, per non perdere di vista le carrozze a due cavalli, che procedevano al passo, tutte bianche di gesso. Ogni tanto, uno dei grandi carri appariva: era la Sirena Partenopea, na immensa donna rosea, dalla criniera bionda, dalle gigantesche forme di cartone colorato, il cui corpo finiva nelle onde azzurre, una Sirena che si trascinava dietro un carro pieno di uomini travestiti da aragoste, da ostriche, da carpioni, da cefali: era un carro che figurava una gran Tartana ercantile, una nave con la sua attrezzatura e i suoi marinai vestiti di teletta a righe bianche e rosse, a righe azzurre e bianche, col berretto rosso, lungo: era un carro che figurava, intorno a un gran ceppo di fiori, otto o dieci Boîtes-à-surprise donde scattavano dei gentiluomini vestiti di raso; era un carro dove s'eran raccolte tutte le maschere napoletane, il Pulcinella, il Tartaglia, il don Nicola, Columbrina, il buffo Barilotto, il Guappo, la Vecchia, e finanche la più moderna maschera dei giovanotto lezioso e pretenzioso, il don Felice Sciosciammoca. Quando questi carri passavano, lentissimamente, quasi traballando sulle ruote, facendo piover coriandoli, confetti, bomboniere, scoppiavano gli applausi: la Sirena uscitava scherzi e facezie un po' salate, la Tartana areva pittoresca, le Boîtes-à-surprise avevano un successo di lusso e di eleganza, le maschere napoletane suscitavano dei gridi di riconoscimento, dei dialoghi rapidi, volanti, in dialetto, delle esclamazioni da tutti i balconi, a cui quelle maschere rispondevano vivacemente: e da un capo all'altro di Toledo era un movimento solo, di ondeggiamento sui balconi, di fluttuazione nella folla della strada, intorno ai carri e alle carrozze. Carmela guardava, guardava. Vide passare in una carrozza dai cavalli tutti infiorati e scintillanti di ottone nei finimenti, le due sorelle, donna Concetta, quella che imprestava denari con l'interesse e a cui ella stessa doveva trentaquattro lire, da tanto tempo, arrivando ogni tanto a darle un paio di lire, solo per l'interesse, e donna Caterina, la tenitrice di gioco piccolo, resso cui ella aveva giocati tanti biglietti a un soldo, o a due soldi, quando non aveva denari per giuocare al Lotto del Governo, o quando solo quei due soldi le erano restati. Le due sorelle erano in gran gaia, pettinate con un trofeo di capelli, sul culmine della testa, piene di catene d'oro, di collane pesanti, di orecchini di perle, di grossi anelli, e conservavano il loro aspetto guardingo e severo, con certe occhiate oblique, e l'atto un po' sdegnoso delle labbra chiuse e tumide. Due uomini le accompagnavano, in perfetta tenuta di operai indomenicati, zazzera lucida, cappelletto sull'orecchio, giacchetta nera e sigaro spento all'angolo della bocca: e i quattro personaggi, muti, gravi, si guardavano ogni tanto, con l'aria seriamente compiaciuta di persone soddisfatte, crollando il capo, ogni tanto, per far cadere i coriandoli dai capelli o dalle falde dei cappelli, sorridendo a coloro che li avevano buttati, guardando a destra e a sinistra, con una certa fierezza di popolani arricchiti. Carmela si morsicò le labbra, vedendo passare le due serene e feroci accumulatrici del denaro altrui, ma subito dopo, la sua solita parola le salì dal cuore alle labbra: - Non importa, non importa… Ma un carro assai originale discendeva dall'alto di Toledo, suscitando una gran risata colossale, a destra e a sinistra, giù e su: era un gran letto borghese, con la coltre imbottita di bambagina, e foderata di cotonina rosso-vivocome si usa a Napoli: un letto con un baldacchino aperto, dove, sulla parete, erano attaccate le immaginette della Madonna e i santarelli protettori: nel letto, dalle lenzuola bianche rimboccate, stavano coricate due persone, con due enormi teste di cartone, raffiguranti un vecchione col berretto da notte e una vecchiona con la cuffia, due vecchioni leziosi, smorfiosi, che faceano mille cenni con le grosse teste, che tiravano a sé la coltre con quel moto egoistico e freddoloso dei vecchi, che si offrivano del tabacco, facendosi dei saluti col capo, starnutando, dimenandosi, salutando la gente dei balconi, ringraziando alle fitte mestolate di coriandoli che ricevevano, scuotendo le coltri, restando incogniti sotto il mistero del cartone, mettendo in pubblico quella caricatura familiare, quell'angolo di stanza da letto, senza che nessuno trovasse la cosa troppo arrischiata, tanto l'idea di dormire all'aria aperta è naturale ai meridionali, e tanto la vita intima è vita pubblica, nel caldo e bonario paese. Che! tutti ridevano. Rideva finanche la gente nella bottega di don Crescenzo, dopo la piazza della Carità, all'angolo del vico del Nunzio. La bottega di don Crescenzo era veramente il Banco lotto numero 117: una bottega chiusa ordinariamente dal pomeriggio del sabato sino al martedì, e in cui la ressa cominciava dal giovedì, sino all'una pomeridiana del sabato. Don Crescenzo, il tenitore del Banco lotto, un bell'uomo con la barba castana, vi lavorava con due giovani uoi, che viceversa erano: un vecchietto settantenne, curvo, mezzo cieco, sempre col naso sul registro delle giuocate, che si faceva ripetere tre volte i numeri, per non sbagliare e li scriveva lentamente, lentamente: e uno scialbo tipo di nessuna età, con una faccia dalle linee indecise, una barba dal colore indefinito, uno di quei bizzarri esseri che si trovano a fare da testimoni agli uscieri, da mezzani al Monte di Pietà, da dispensatori di foglietti volanti e da sensali di stanze mobiliate. Don Crescenzo troneggiava sui due giovani. a in quel giovedì egli aveva trasformato la sua bottega, elevandovi una tribuna, drappeggiandola di panno bianco e cremisi e invitandovi la sua miglior clientela. Sì, erano tutti là, quelli che ogni settimana venivano a deporre il miglior frutto della loro vita, un denaro guadagnato a stento, o strappato alla economia domestica, o trovato a furia di espedienti, prima maliziosi, poi audaci e finalmente vergognosi. Tutti lì, nel Banco lotto, trasformato in tribuna carnevalesca: il marchese di Formosa, don Carlo Cavalcanti, con la sua aria di gran signore: e il dottor Trifari, rosso di capelli, di faccia, di barba, turgido come se scoppiasse e con lo sguardo infido dei suoi occhi di un azzurro falso; e il professore Colaneri che, in quel giorno, più che mai, manifestava l'indelebile carattere del sacerdote che non ha voluto più saperne della chiesa; e Ninetto Costa che aveva lasciato il Circolo, e don Gennaro Parascandolo, attirato da un desiderio prepotente, invincibile, e altri otto o dieci, un giudice del tribunale, un maggiordomo di casa principesca, un pittore di santi, malaticcio, il barbiere Cozzolino, gran cabalista: perfino, in un cantuccio della bottega, per terra, il lustrino Michele, sciancato, zoppo, gobbo, con le mille rughe della fisonomia di vecchio, pieno di una passione irrefrenabile, e, accanto a lui, Gaetano, il tagliatore di guanti, più smunto, più pallido, con gli occhi ardenti e la scontentezza, l'inquietudine che gli traspariva dal volto, a ogni moto. I clienti di don Crescenzo, nella bottega cara alla loro passione, celebravano il carnevale anch'essi ed essendosi quotati per comperare dei sacchi di coriandoli, ne lanciavano anche loro ai carri, alle carrozze e più ai passanti, dove ogni tanto salutavano una conoscenza. Nessuno si meravigliava di veder gente tanto diversa, un marchese, un agente di cambio, un giudice del tribunale, un medico, un professore e finanche un operaio riuniti lì. Carnevale, carnevale! La dolce follìa popolare aveva assalito tutti i cervelli, e la tiepida ora, e gli smaglianti colori, e la fantasia dei cento, dei mille veicoli passanti, e il clamore delle centomila persone avevan domato anche quelli che bruciavano di un'altra febbre, un'altra febbre respinta per quell'ora in un cantuccio dell'anima. Quando passò, a piedi, ridendo e gridando, Cesare Fragalà, in spolverina di tela di Russia, in berretto da viaggio, con due grosse sacche di coriandoli ai fianchi, che vuotava contro i balconi di sua conoscenza e andava riempiendo ad ogni angolo di via, dai venditori ambulanti, scherzando con tutti, grasso, forte, gioviale, con un bisogno di spandere la sua giovialità: quando Cesare passò innanzi alla bottega di don Crescenzo, fu un tumulto di saluti. Già sotto il palazzo Rossi, innanzi ai balconi della sua casa, egli aveva fatto, da basso, mezz'ora di combattimento coriandolesco, con sua moglie e con tutte le amiche di sua moglie: Luisella Fragalà, e Carmela Naddeo, e le Durante, e le Antonacci avevano trovata così originale l'idea di Cesare e così simpatico lui, con quel suo fare, che lo avevano accoppato, a furia di coriandoli: egli aveva dovuto fuggir via, ridendo, abbassando il capo, calcandosi il berretto sulle orecchie. Tumulto di saluti dunque, dalla bottega di don Crescenzo e chiamate, perché andasse là anche lui: non era forse anche un cliente, lui, sempre nella speranza di avere le ottantamila lire, in contanti, per aprire bottega a San Ferdinando? Ma Cesare era troppo contento di andare in giro, solo solo, ridendo e strillando con tutti, schiaffeggiato dai coriandoli, rosso, ansante di salute e di allegrezza. Andava, fra i carri, fra le carrozze, portato dalla folla: andava fra un parossismo, che l'ora rendeva più acuto. Oramai i più tranquilli commettevano delle follie e coloro che stavano sui carri, sulle prime semplicemente allegri, adesso parevano tanti indemoniati. In una carrozza era passato Raffaele, detto Farfariello, 'eterno fidanzato dell'appassionata Carmela: egli e i compagni suoi, per farsi veder meglio, avevano pensato di sedersi sul soffietto della carrozza, e salutavano la folla, agitando dei fazzoletti di seta bianca, in punta alle mazze, come bandiere. Ahimè, egli non la vide, la ragazza che lo aspettava da tante ore, all'angolo del vico D'Afflitto, ed ella che aveva gridato, agitato le braccia, agitato una pezzuola bianca, restò stordita, mormorando fra sé, per consolarsi: - Non importa, non importa… Ma ancora restò lì, inchiodata, in quel crescendo di frenesia carnevalesca. Sotto il balcone dove era la bella donnina vestita da giapponese, una folla più fitta si assiepava: e allora costei, eccitata, aveva cominciato a far cadere una pioggia di confetti, a manate, a scatole, quasi ne avesse un deposito in casa, prendendoli dalle mani della cameriera che glieli porgeva. Un urlìo di monelli, di popolani entusiasmati saliva al cielo, mentre ella da sopra, seria, seria, ma con una fiamma rossa sui pomelli, buttava giù, disperatamente, confetti, dolci, piccole bomboniere. Sul suo balcone parato di velluto azzurro con la rete di argento, il figlio dell'altissimo personaggio aveva combinato lo scherzo di attaccare una bottiglia di champagne, un pasticcio di caccia o una grossa bomboniera a una lunga canna e di abbassarli a livello delle mani tese dalla folla, sollevandoli, facendoli danzare, fra gli urli di desiderio della gente di sotto, e le mani alte, e le bocche aperte, fino a che un grande schiamazzo di trionfo, annunziava che un fortunato aveva strappata la bottiglia o la bomboniera o il pasticcio della nova cuccagna: la canna era ritirata e i giovanotti, che prendevano un gusto matto a quello scherzo, vi attaccavano qualche altra cosa da mangiare o da bere, una bottiglia di vino rosso, una forma di cacio ravvolta in una carta d'argento, un sacchetto di confetti, e il giuoco ricominciava, fra un tumulto inaudito, con la circolazione sospesa. Quelli dei carri, oramai, rifornite le provvisioni, mentre la sera si avvicinava, col passo sempre più rallentato, ballavano e cantavano e buttavano roba, dimenandosi come anime dannate. Fu in questo punto acutissimo della giornata che un nuovo carro sbucò da un vicolo di Toledo, fantastico, bizzarro, giunto in ritardo e trascinato dai cavalli a rilento. Rappresentava l'officina chimico-filosofica, dove lo sconfortato vecchio Faust bestemmia malinconicamente e gelidamente su tutte le cose umane: una camera bruna, con due scansie di libracci, con un fornello e una storta da alchimista, con un Alcoranus Mahumedis aperto sopra un leggìo di legno scolpito: sullo strano carro un vecchio curvo, con un zimarra di velluto nero e una lunga barba bianco-giallastra, camminava tremolando e gittando alla folla dei balconi e della strada delle bomboniere a foggia di libri, di storte, di alambicchi, di fornelli, dove qua e là si vedeva l'immagine di Mephisto, ma che erano riempite di buonissimi confetti. Allora una punta di fantastico si mescolò alla frenesia del carnevale e il carro del mago parve un'apparizione più sovrannaturale che reale. Il vecchio che le donne dai balconi, ridendo, chiamavano il diavolo, crollava il capo canuto coperto da una berretta nera e lanciava giù roba, magicamente cavandola dal sottosuolo del carro. E ogni tanto, fra il clamore del popolo, una voce sopracuta dirigendosi al decrepito mago, gridava: - I numeri, i numeri, i numeri! E quando, giunto a San Ferdinando, il carro di Faust voltò per rifare la strada fatta, sin sopra Toledo, fu vista una cosa curiosissima, indescrivibile. Cavandoli da un alambicco di rame, insieme alle bomboniere, il vecchio mago buttava alla folla e ai balconi, dei fogliolini lunghi e stretti, di carta gialla, su cui la gente cominciò a buttarsi furiosamente: e un grido precedeva, accompagnava, seguiva il carro di Faust: - Gli storni, gli storni, gli storni! Per realizzare una generosità nova, fastosa, bizzarra, e cara al popolo, il vecchio buttava dei polizzini di lotto da due e tre numeri, già giuocati, per il prossimo sabato, giuocati a due soldi l'uno: un biglietto che è detto storno di cui egli magnificamente gittava al popolo delle centinaia, ridendo nella sua folta barba bianca, scordandosi che era vecchio, per rizzare il capo con una gaiezza feroce. Oh che lungo grido, dovunque, nella via, per le finestre, per le logge, per i balconi, sino al cielo che si facea bianco nel tramonto: che lunghissimo grido di desiderio e di entusiasmo, di tutta una popolazione, che alzava le mani e le braccia, come se dovesse abbracciare la terra promessa, che si gittava a terra, si calpestava, per strappare furiosamente un polizzino del lotto, dove era una ipotetica promessa di dieci lire o di duecento lire di vincita! Oh che furore giocondo di uomini, di donne, di fanciulli, poveri e ricchi, bisognosi e agiati, che impeto invincibile che rispettava, per una sacra paura, il carro del mago, ma che gli faceva un trionfo, una gloria di acclamazioni, da un capo all'altro della via Toledo, quando egli aveva buttato alla folla diecimila polizzini, quando già egli era scomparso, senza che niuno sapesse dire come e dove. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Antonio Amati incontrò per le scale la cameriera Margherita che rientrava anch'essa, un po' stracca. E bruscamente, mentre forse non avrebbe voluto parlarle, le domandò: - Come sta la vostra signora? - Meglio, - disse a bassa voce la vecchia domestica, - perché Vostra Eccellenza non è più venuta a vederla? - Io ho molto da fare, - borbottò il dottore, senza suonare però alla sua porta. - È vero: ma Vostra Eccellenza è così buona. - Poi, non vi era bisogno di me… - soggiunse lui, esitando. - Eh, chi sa! - ribattè anche più sottovoce, e in tono misterioso Margherita. - Perché non entra adesso Vostra Eccellenza? - Verrò, -. disse lui, chinando il capo, come se cedesse a una volontà superiore. Ella introdusse una chiave nella serratura e aprì, precedendo, nel silenzio della casa, sino al salone, il dottore: ed egli, che pure era avvezzo a dominare immediatamente le proprie impressioni, sentì il freddo il silenzio, il vuoto di quel camerone. E si trovò innanzi la fanciulla, vestita di nero, che gli sorrideva vagamente, tendendogli la mano. Una manina lunga e fredda, che egli trattenne un minuto fra le sue, con la confidenza più del medico che dell'amico. - Siete guarita? - parlò lui, a bassa voce, subendo l'intimidazione dell'ambiente. - Non completamente, - diss'ella, con la sua voce pura e stanca. - Ebbi ancora un deliquio, una notte. Ma breve assai: credo, almeno. - Non vi soccorsero? - disse lui, con un rammarico profondo. - No, non se ne accorse nessuno: era notte, in camera mia… Non importa, - soggiunse poi, con un lieve sorriso. - Perché non siete andata in campagna? - Mio padre odia la campagna… - mormorò ella - e io non lo lascerei qui, solo. - Ma perché non siete uscita: oggi è carnevale, perché non siete andata a vedere? Volete morire di malinconia? - Mi avevano invitata, giù, dalla signora Fragalà: ma la conosco appena. Credo che bisognasse mascherarsi: mio padre non ama queste cose, ha ragione… Parlava con la sua bella voce dolce che una stanchezza spezzava, e Amati che era stato tutto il giorno a lavorare, all'ospedale e al letto degli ammalati, mentre tutti godevano il carnevale, riposava nell'armonia di quella voce e nella quiete stanca e languente di quella delicata giovinezza. Erano soli, seduti uno di fronte all'altro, in un gran silenzio, intorno: si guardavano appena, ma si parlavano come due anime che lungamente avessero vissuto insieme, nella gioia e nel dolore. - Dove eravate, poc'anzi? - domandò Antonio Amati, bruscamente. - Nella cappella, - rispose Bianca Maria, senza offendersi della domanda. - Pregate molto? - Non abbastanza, - disse ella, levando gli occhi al cielo. - Perché pregate molto? - Bisogna… - Voi non fate peccati… - mormorò il miscredente, tentando di scherzare. - Non si sa - disse lei, gravemente. - E bisogna pregare per tutti quelli che non pregano. E così dicendo, lo guardò fuggevolmente. Egli chinò il capo. - Passate troppe ore al freddo, in chiesa. Ciò vi nuocerà, signorina. - Non credo: e poi, che importa? - Non dite questo, - interruppe lui, subito. - Poche cose mi possono far male, - soggiunse lei, con una intonazione che egli intese e che non volle approfondire. - Andiamo, andiamo a vedere il carnevale dalla signora Fragalà, al primo piano, che ha invitato anche me, - e si levò, con un atto energico, a portarla via. - Restiamo qui, - ribattè Bianca dolcemente - qui vi è pace almeno. Non vi pare che sia buona anche questa calma, questo silenzio? - È vero, è vero, - confessò Amati, sedendosi di nuovo, soggiogato. - Mio padre è uscito coi suoi amici, - continuò lei, quietamente - per vedere il carnevale. Nel palazzo tutti sono fuori ai balconi, che dànno a Toledo, o fuori di casa: e qui, lo vedete, non giunge alcun rumore. Si guardarono così, puramente. Quella strana ora di deliquio in cui egli l'aveva salvata e in cui ella aveva inteso di esser salvata da lui, aveva stabilito fra loro come una vita anteriore. Quello che ella sentiva era un umile bisogno di protezione, di assistenza, di consiglio: quello che lui sentiva, era un tenerissimo sentimento di pietà. E non potette frenare una domanda che gli ronzava nell'anima. - E vero che volete farvi monaca? - egli chiese, con voce un po' soffocata. - Vorrei, - diss'ella, semplicemente. - Perché? - Per questo, - soggiunse, con la gran risposta dei cuori femminili. - Perché dovreste farvi monaca? Nessuna si fa più monaca. Perché dovreste voi farvi? - Perché se vi è una sola persona al mondo che dovrebbe entrare in convento, io son quella; perché io non ho né desiderii, né speranze, né nulla innanzi a me; e perché quando si è così, vedete, attraverso questo vuoto, questo deserto, questa desolazione, prima della morte, bisogna mettere almeno la preghiera. - Non dite questo, - supplicò lui, come se per la prima volta il soffio della fatalità avesse alitato sulla sua energia, distruggendola.

Allora Amati vide il giovanotto in tutta la sua sagoma guappesca, ai calzoni a campana al cappelletto dalle falde strette, dalla catenina di argento col corno di corallo, agli stivaletti verniciati e scricchiolanti, a tutta l'aria furbesca e sfacciata del giovanotto ventenne che ha abbandonato il coltello, la tradizionale sfarziglia ei suoi genitori in camorrismo, per la rivoltella moderna. - Questo è l'innamorato mio, Eccellenza, - diss'ella umilmente e gloriosamente, mentre Raffaele guardava in aria come se non fosse affar suo. E coprì il giovinotto di uno sguardo così intenso, così pieno di tenerezza e di passione, che il medico represse un moto d'impazienza. - È ammalato? - domandò. - Nossignore, nossignore, sta benissimo, che Dio lo benedica! Ma ha, cioè abbiamo un'altra disgrazia addosso, o veramente la disgrazia è proprio la mia, che lo debbo perdere. Se lo vogliono prendere alla leva, - disse lei, con la voce tremula e gli occhi pieni di lagrime. - È naturale - rispose il dottore, sorridendo. - Ah, signore mio, come potete dire questo? È una infamità el governo, prendersi un bel figliuolo di mamma, che si deve pure sposare! Signore mio, se non mi aiutate voi, come faccio? - E che ti posso fare, io? Raffaele, intanto, continuava a posare la mano sul fianco, tenendo il cappelletto sospeso a due dita: ogni tanto, distrattamente e altieramente, guardava Carmela, d'alto in basso, come se tollerasse per mera bontà che ella si occupasse dei fatti suoi: ogni tanto gettava uno sguardo obliquo, ma dignitoso, sul dottore. - Vostra Eccellenza è un'anima santa, - mormoro Carmela. - Io voglio che diate a Raffaele una medicina che lo faccia ammalare, e lo faccia scartare dalla leva. - Figliuola mia, non è possibile. - E perché? - Perché non ve ne sono, di quelle medicine miracolose. - Ah, signore mio, dite che non me la volete fare, questa carità! - esclamò lei disperata. - Pensate che se lo pigliano per tre anni! Per tre anni! Come faccio, tre anni, senza lui? E poi lui, poi, non ci vuol andare, signore mio! Se sapeste che dice… - Le ho detto - interruppe enfaticamente Raffaele, tirandosi giù il panciotto, con un moto familiare ai guappi, che se mi vogliono prendere per forza, facciamo un piccolo sparatorio, i capita il ferito, mi portano in carcere, e al più, che succede? un anno di carcere? Tanto a San Francesco un giorno o l'altro vi ho da andare… - Non parlare così, non dire questo… - gridò lei fra il terrore e l'ammirazione. - Prega il professore che ti dia la medicina. - Voi dovete sposarvi presto? - chiese il dottore che non si meravigliava più di nulla, nel suo continuo contatto col pubblico. - Subito, - rispose solo Carmela, mentre Raffaele guardava in aria. - Quando? - Quando pigliamo il terno, - ribattè lei tranquilla e sicura. - Allora fra qualche tempo… - soggiunse il dottore, ridendo. - No, no, Eccellenza, don Pasqualino de Feo, l' assistito, i ha promesso i numeri certi. Ci sposiamo subito. Ma voi dovete fare scartare Raffaele. - Non vi è bisogno di me: Raffaele lo scartano, perché ha il petto stretto, - concluse il dottore, dopo aver sogguardato il guappetto. Veramente, dite? - Veramente. - Che siate benedetto, signore mio! Se dovevo avere anche questo dolore, io moriva, moriva. Tanti guai, tanti guai… - mormorò lei, rialzandosi il gramo scialletto sulla spalle… - sono la mamma dei guai, io - e sorrideva dolorosamente. - Buongiorno a Vostra Eccellenza - disse Raffaele. - Quando venite a quartiere Mercato o Pendino, cercate Raffaele che mi chiamano Farfariello, lasciatevi servire in tutto quello che vi serve. - Grazie, grazie, - rispose il medico, licenziandoli. I due ripetettero ancora i saluti, spingendosi per uscire, ella portando un sorriso sulla faccia dolente, egli conservando il suo contegno di uomo che disprezza la donna. Altri clienti si successero nella stanza, chiedendo l'opera del medico, sino alle dodici, ora in cui egli dichiarò finita la visita attinale. Bianca Maria non era comparsa. Era, dunque, ammalata. In fretta e in furia egli fece colazione, dando ordine al suo cocchiere di preparare la carrozza: all'una doveva andare all'ospedale. La giornata si faceva sempre più sciroccale, con un alito fetido di umidità. Egli uscì presto, spinto dall'ora, e fu nella scala, fra la penombra, che incontrò Bianca Maria con la cameriera Margherita, che scendevano anch'esse. - Dunque non è ammalata - pensò il dottore. Ma con l'occhio acuto dell'osservatore a cui il più fugace sintomo dice la verità, egli vide che l'andatura della fanciulla era assai incerta: il volto che ella levò verso di lui, salutando, era così intensamente pallido che, di nuovo, la fibra medica vibrò in lui, con un desiderio immediato di salvare quella creatura sofferente. Era lì lì per parlare, per chiederle bruscamente dove si sentisse male; ma gli occhi dolci e fieri si erano abbassati, nella loro errabonda espressione di pensiero; e la bocca aveva quella linea severa di taciturnità che chiede, impone l'altrui silenzio. E la fanciulla sparve, senza che egli avesse detto nulla. Il dottor Antonio Amati si strinse energicamente nelle spalle, salendo in carrozza, immergendosi nella lettura di un giornale medico; così faceva ogni giorno, per occupare utilmente anche il po' di tempo del tragitto. La carrozza rotolava senza rumore sul selciato, che l'umidità copriva di un sottile strato di fanghiglia: l'umidità aveva steso una lievissima ombra sui cristalli della carrozza, e il medico sentiva nell'aria e in sé il fastidio di quella triste giornata sciroccale. Né l'ospedale poteva consolare la malinconia tutta fisica del dottore; per distrarsi egli s'immerse più profondamente nel lavoro pratico della visita medica e in quello scientifico della spiegazione agli scolari. Andava e veniva, da un letto all'altro, seguìto da una turba di giovanotti, più alto di tutti loro, con la breve fronte dell'uomo ostinato, che due rughe segnavano, dall'alto in basso, per il continuo aggrottamento delle sopracciglia, le rughe della volontà, della concentrazione: e dalla bruna spazzola dei neri capelli, piantati rudemente sulla fronte, dove già qualche ciuffo bianco si mostrava, tanta era l'attività del suo pensiero, della sua parola, della sua azione sempre pronta, che pareva che dovesse uscire il fumo dei vulcani in eruzione. Gli ordini ai coadiutori, agli assistenti, alle monache erano dati con durezza: tutti obbedivano in silenzio, subito, provando, malgrado la brutalità di quegli ordini, una simpatia per quella volontà ferrea, una ammirazione per colui che tutti chiamavano il grande salvatore. anche la sala a lui affidata, in quel giorno, aveva l'aspetto più triste, più lugubre; la oscurità dell'aria rattristava quei malati, l'umidità pesante e male odorante faceva loro sentire più acutamente i mali: e un lamentìo sommesso, come un lungo respiro affannoso, si udiva da un capo all'altro della sala e i pallori degli infermi diventavano gialli in quella scialba luce, le mani scarne distese sulle coperte parevano di cera. E malgrado che cercasse di stordirsi nel lavoro, nella parola, il dottor Antonio Amati sentiva più forte, più acuto, il fastidio della professione… e attraverso quella sala lunga e stretta, piena di letti allineati e di smorti volti stanchi di soffrire, piena di un costante odore di acido fenico, attraverso quello scurore e quella umidità sciroccale, in cui anche i rosei volti delle monache parevano esangui, egli ebbe un sogno, una visione sparente di una campagna soleggiata, verde e calda, chiara e odorosa, ebbe al cuore la strettura di un idillio apparso un minuto, scomparso per sempre. - Addio, signori, - disse Amati bruscamente agli studenti, licenziandosi. Essi sapevano che, quando li salutava così, non desiderava di essere accompagnato: sapevano, avevano inteso che il professore era in una delle sue cattive ore: lo lasciarono andare. Uno degli infermieri gli consegnò due o tre lettere, giunte mentre faceva la visita e la lezione: erano chiamate, biglietti pressanti per ammalati che lo invocavano: un padre cui la malattia di suo figlio facea perder la testa, delle donne disperate. Egli, leggendo crollava il capo, come sfiduciato, quasi che tutti i malanni della umanità lo trovassero scoraggiato della loro salvazione. Andava, sì, andava, ma lo teneva una stanchezza profonda, che gli doveva nascere dall'anima, perché aveva lavorato assai meno degli altri giorni: andava, taciturno, concentrato, quando un'ombra surse innanzi a lui, per le scale dell'ospedale. Era una povera donna, senza età, scarna, coi capelli radi e bigiastri, coi denti neri, coi pomelli sporgenti; una povera donna con una vestaccia lacera e sporca, mentre il bimbo che portava assopito fra le braccia, era poveramente coperto, ma pulito. - Eccellenza, Eccellenza… - mormorò costei, con voce di pianto, vedendo che il medico passava avanti, borbottando, senza curarsi di lei. - Che vuoi? Chi sei? - disse ruvidamente il dottore, senza guardarla. - Sono Annarella, la sorella di Carmela, quella che voi avete scampata dalla morte… - disse l'altra, - la misera moglie di Gaetano, il tagliatore di guanti. - Stamattina tua sorella, oggi tu! - esclamò il medico, impaziente. - Ah non per me, signore, non per me, - mormorò la moglie del giuocatore - io posso morire, non me ne importa niente, tanto che ci fo a questo mondo? Non trovo neppur modo di dar pane ai figli… - Sbrigati, sbrigati… - È per questa creaturina, per questo figliuolino malato, signore mio, - e si chinò a baciare la fronte calda del piccolo assopito. - Io non so che ha, ma ogni giorno va giù, va giù, e io non so che dargli a questo cuore mio… sanatemelo voi, signore mio… Il medico si chinò sul piccolo infermo, dal bel volto gracile e pallido, dalle palpebre violacee, dal respiro impercettibile, che appena schiudeva le labbrucce; gli toccò la fronte e le mani, poi guardò la madre. - Gli dài latte? - domandò brevemente. - Sissignore - diss'ella, con un lievissimo sorriso di soddisfazione materna. - Quanti mesi ha? - Diciotto. - E ancora dài latte? Tutte eguali, voi altre napoletane! Levagli il latte. - Oh, signore mio! - esclamò ella, spaventata. - Levagli il latte, - replicò lui. - E che gli dò? - diss'ella, quasi singhiozzando. - Il pane mi manca spesso, per me e per gli altri due: ma il latte no… deve morire di fame, anche quest'altra anima di Dio? - Tuo marito non lavora, eh? - chiese il medico, pensando. - Nossignore: lavora - diss'ella, crollando il capo. - Ha qualche altra donna? - Nossignore. - E che fa allora? - Giuoca alla bonafficiata, disse lei, chinando il capo. - Ah! ho inteso. Leva il latte al ragazzo. Ha la febbre. È il tuo latte che lo avvelena. Ella, dopo aver guardato il dottore e suo figlio, disse, sottovoce, soltanto: Gesù! E un singhiozzo le spezzò il petto materno. Amati aveva scritto una ricetta, col lapis, sul foglio di un suo taccuino. E scendeva le scale seguìto da Annarella, le cui lacrime cadevano sul volto del ragazzo e il cui singulto seguitava, cupo, come un lamento. - Questa è la ricetta e queste sono cinque lire per spedirla, - disse il medico, rapidamente, facendo un cenno, per impedire che Annarella lo ringraziasse. Ella lo guardava, con gli occhi imbambolati, mentre lui attraversava il grande e freddo cortile dell'ospedale per andare a mettersi in carrozza: sola, chinando gli occhi sul suo bimbo, ricominciò a piangere, e la ricetta nella sua mano tremava, tanto le era insopportabilmente amara, l'idea di aver avvelenato il suo figliuolo, col suo latte. - È stata la collera, è stata la collera - diceva fra sé, poiché fra il popolo napoletano il dolore i chiama spesso la collera. l dottor Amati aveva ancora crollato il capo, con un atto energico, come se avesse la più assoluta sfiducia nella guarigione della umanità. Mentre apriva lo sportello della carrozza, per salirvi, una donna che sino allora aveva chiacchierato col portiere dell'ospedale gli si accostò, per parlargli. Era una donna vestita di un nero vestito, di un nero scialle claustrale, con un fazzoletto di seta nera che le nascondeva il capo ed era legato sotto il mento, con un volto pallido e gli occhi neri di un colore opaco di carbone, gli occhi di chi vive nella penombra e nel silenzio. Ella parlava piano. - Vostra Eccellenza vorrebbe venire con me, per una carità urgente? - Ho da fare, - borbottò il medico, facendo atto di salire in carrozza. - È una persona che sta male, molto male, - insistette la donna, ma senza levare la voce. - Tutte le persone che debbo vedere, stanno male… - È qui vicino, Eccellenza, nel monastero delle Sacramentiste. Mi hanno mandata all'ospedale, per trovare un medico, non posso tornare senza medico… la persona sta assai male. - Sopra vi è ancora il dottor Caramanna, cercate lui, - ribattè Amati. - Sta male una monaca? - soggiunse, poi. - Nossignore, le Sacramentiste sono di clausura: non possono chiamare gli uomini in convento, - disse la servente, con un movimento delle labbra. - È una persona che si è sentita male nel parlatorio delle monache… è fuori clausura. - Vengo io - disse subito Amati. E spinse la servente nella sua carrozza, entrandovi e chiudendo lo sportello. La carrozza rotolò nuovamente per la via dell'Anticaglia così bruna, e sporca di fango, e triste di vecchiaia la servente e il medico non scambiarono neppure una parola, durante il breve tragitto. La carrozza si fermò innanzi alla porta del convento chiusa: la servente, invece di tirare la catenella di ferro che corrispondeva alla campanella dell'interno, mise una chiave nella toppa e schiuse il portone. Essa e il dottore attraversarono prima un gelido cortile dove sporgevano una quantità di finestre dalle gelosie verdi, poi un corridoio terreno, a colonne, lungo il cortile: dappertutto una completa solitudine e un perfetto silenzio. Entrarono in una vasta stanza anche terrena, con due porte-finestre sul corridoio. Lungo le muraglie della stanza, semplicemente biancheggiate di calce, vi erano delle sedie di paglia, niente altro: un grande tavolone, nel fondo, con una sedia dove sedeva la servente portiera. A una parete, un crocifisso. Lungo un'altra parete due grate fitte e, in mezzo, la ruota: di là si parlava e si passava qualche oggetto alle monache. Presso questa parete era distesa, su tre sedie, una forma femminile presso cui un'altra era inginocchiata, piegandosi sul volto di quella. Prima che il medico arrivasse alla giacente, la servente si accostò alla grata e parlò: - Sia lodato il Santissimo Sacramento. - Oggi e sempre! - rispose una fievolissima voce, all'interno, come se uscisse da una cava profonda. - Vi è il medico? - Sì, suor Maria. - Bene, - e un sospiro si udì, fievole e lungo. Intanto il dottor Antonio Amati si era accostato alla fanciulla svenuta, a cui Margherita bagnava la fronte con un fazzoletto molle di aceto, mormorando sottovoce: - Figlia mia, figlia mia. Il dottore che aveva posato il cappello in terra, s'inginocchiò anche lui, a esaminare più da presso il volto bianco della fanciulla svenuta. Le toccò il polso: delicatamente le sollevò una palpebra, l'occhio era vitreo. - Da quanto tempo sta così? - domandò a voce bassa, mentre le strofinava le mani gelide. - Da mezz'ora, - rispose la vecchia. - Che le avete fatto? - Solo l'aceto: me l'hanno dato dalla ruota: qui non vi è niente: è un monastero di clausura… - Ne soffre? - chiese lui, insistendo in altra forma. - Stanotte… stanotte ebbe un altro svenimento… l'ho trovata per terra, nella sua stanza… ho chiamato il padrone. - È rinvenuta da sé, stanotte? - Sì. - Ha avuto paura? - Non so… non credo… - disse quella esitando sempre. Parlavano a voce bassissima, mentre la servente si teneva ritta presso la grata, quasi a custodia. - Sta meglio? - chiese la fievolissima voce di dentro. - Lo stesso - rispose monotonamente la servente. - Oh Dio! - esclamò la voce, angosciata. Intanto il medico si era inclinato, per udire meglio il respiro. Pareva pensoso e preoccupato, mentre Margherita lo guardava con la disperazione negli occhi. - Ha avuto paura, mezz'ora fa, qui dentro? - ricominciò ad interrogare lui, mentre aveva delicatamente sollevata la testa di Bianca Maria e l'aveva appoggiata sul suo petto. - No… certamente, no… - susurrò Margherita. - Io era in chiesa, non ho udito quello che dicevano; mi hanno chiamata. - Chi è quella monaca? - chiese lui, accennando alla grata. - È suor Maria degli Angioli: la zia. Allora egli si levò e si accostò alla grata, mentre la servente faceva quel movimento delle labbra per indicare la clausura, quasi volesse opporsi alla conversazione del medico con la monaca. - Suor Maria, - disse lui, pian piano. - Oggi e sempre… - disse la voce tenue, precipitosamente, udendo la voce maschile. - Vostra nipote ha avuto qualche spavento? Silenzio dall'altra parte. - Qualche cattiva nuova? Sempre silenzio profondo. - Vi ha detto ella qualche cosa di spiacevole che le sia accaduto? - Sì, sì, - soffiò, tremando, la voce. - Potete dirmi di che si tratta? - No, no… - riprese subito, tremando sempre, quella di là. - Qualche cosa di assai doloroso…non posso dirlo. - Bene: grazie, - mormorò lui, rialzandosi. - E come sta? Non le date niente? - chiese la voce della suora. - La portiamo a casa: qui non si può farle niente. - Siamo povere monache… - mormorò la suora. - Come la portate? - In carrozza, - disse lui brevemente. Poi, accostandosi a Margherita, egli riprese, con voce bassa ed energica: - Ora vengo col mio cocchiere: qui essa non può restare, non posso darle nessun aiuto. La trasporteremo nella carrozza, qui fuori, e andremo a casa. - In questo stato? - chiese ella, incerta. - Volete farla morire qui? - interruppe lui, bruscamente. - Per carità… professore, scusate. Egli era già uscito, senza cappello, senza pastrano, attraversando il corridoio e la gelida corte. Ritornò dopo un minuto, col suo cocchiere, a cui aveva evidentemente date le sue istruzioni. Il dottore, delicatamente, sollevò il corpo della fanciulla svenuta, da sotto le braccia, facendole appoggiare la testa sul suo petto, mentre il cocchiere la sollevava dai piedi: era quasi rigida e pesante. Il cocchiere aveva il volto spaurito, gli pareva forse di trasportare una fanciulla morta, vestita di nero, attraverso quel nudo parlatorio, quel corridoio deserto, quel deserto e gelido cortile: e malgrado che, stando al servizio di un celebre medico, non fosse nuovo allo spettacolo del dolore fisico, quell'idea di trasportare un freddo corpo di fanciulla, un cadavere forse, gli dava tale ribrezzo, da voltare altrove lo sguardo. Dietro veniva la vecchia Margherita, il cui viso, nel chiarore del cortile, apparve più giallo, più incartapecorito, pieno di mille rughe dolorose: e il corteo silenzioso nella gran solitudine, nel gran silenzio, attraverso quel chiostro muto come una tomba, il corteo fatto dal dottore pensoso e turbato, dal servo sgomento, da quel corpo rigido ammantato tristamente di nero e dall'antica serva, curva dolorosamente sotto una nova angoscia ignota, il corteo, invero, era funebre. Delicatamente, con la precauzione che si usa a non risvegliare dal lieve sonno un bimbo dormiente, i due uomini posarono la povera creatura esanime nella carrozza, appoggiandole la testa sulla spalliera e i piedi sul sedile dirimpetto. Ella non aveva dato segno di vita, durante il trasporto: le due rughe si approfondivano fra le sopracciglia del dottore Antonio Amati, rughe di volontà e di concentrazione, caricandone la fronte di preoccupazione. Pure, gentilmente, cercò di riappuntare le trecce nere della fanciulla che si erano disciolte e le erano cadute sul petto: ma non ci arrivava. Con le scarne mani tremanti, Margherita che era anche salita nell'ampio landau raccolse lei carezzevolmente le trecce della padrona: e il dottore udiva che ella mormorava: - Figlia mia… figlia mia… Le tendine azzurre della carrozza erano state abbassate dal medico, contro gli occhi indiscreti: la carrozza andava al passo; e in quell'ombra, azzurrastra, acquitrinosa, con quel passo lento, il carattere di convoglio funebre si conservava, risaltava più forte. Anzi, a un certo punto, la carrozza si fermò; dopo un poco il cocchiere aprì lo sportello senza neppur guardare il corpo della fanciulla, e consegnò al dottore una boccettina chiusa ermeticamente, che costui fece odorare alla svenuta. Subito un acuto odore di etere si diffuse nella carrozza che continuava ad andare pian piano. Bianca Maria non si riscosse: dopo un poco, per solo segno di sensibilità, le palpebre chiuse le si arrossirono e grosse lacrime le sgorgarono fra le ciglia, rotolarono sulle guance, si disfecero sul collo. Il medico non distoglieva un momento il suo sguardo da quel viso, mentre teneva fra le sue la mano di Bianca Maria. Piangeva, ella, sempre immersa nello svenimento, senza dare altro segno di vita: come se nella mancanza di sensibilità, ancora la sensibilità del dolore le rimanesse, come se nella perdita di ogni memoria sopravvivesse ancora un ricordo angoscioso, un solo, quello. non rinveniva. Quando giunsero nel cortile del palazzo Rossi, appena aperto lo sportello, un mormorìo, un rumorìo nacque, crebbe, crebbe, impossibile a dominarsi. Vicino allo sportello la portinaia esclamava e strillava, quasi che la fanciulla fosse morta; tutte le finestre che davano sul cortile, tutte le porte che davano sul pianerottolo, si erano schiuse, e al vedere estrarre dalla carrozza la povera creatura esanime, bianca bianca, vestita di nero, con le trecce pendenti, strascicanti, accompagnata dal medico che invano cercava d'imporre silenzio, il gridìo di sorpresa, di compassione cresceva, cresceva, salendo per l'aria grave. Sul pianerottolo del primo piano era uscita Gelsomina, la nutrice di Agnesina Fragalà, tenendo nelle braccia la bella creaturina già florida: e dietro era apparsa anche la madre felice, Luisella Fragalà, vestita da uscire, col cappellino in testa. Ma appoggiata alla ringhiera di ferro, sorridendo vagamente alla sua bambina, ella s'indugiava, guardando con pietà quello strano trasporto; e una stanchezza preoccupata teneva la persona giovanile della bella borghese che, da poco tempo, ubbidendo a un istinto, a un presentimento, superando una certa fierezza, discendeva ogni giorno al magazzino di piazza Spirito Santo, legando i sacchetti dei dolci e i cartocci delle paste, con le sue mani bianche, sempre ricche di anelli. - Poveretta, poveretta… - mormorava Luisella Fragalà, con una compassione che aveva un senso più acuto, più profondo. Sollevando la tenda pesante di broccato giallo, dietro il doppio cristallo della sua finestra, anche al primo piano, era comparsa la scialba faccia della signora Parascandolo, la moglie del ricchissimo usuraio che aveva perduto tutti i suoi figli. Ella usciva raramente, chiusa nel suo magnifico appartamento che era pieno zeppo di ricchi mobili, tristi ed inutili, poiché ella non riceveva nessuno, da che le erano morti i figliuoli: solo ella compariva ogni tanto, dietro i cristalli, appoggiandovi la faccia scolorita, guardandosi intorno, con l'aria di dolente ebetismo che le era divenuta naturale. Per vedere Bianca Maria, portata in su in quel modo, la povera donna cui nulla più arrivava a scuotere, aveva aperto i cristalli, e la sua voce si univa al crescente mormorio, esclamando come una invocazione e una preghiera: - Gesù, Gesù, Gesù... Sul pianerottolo del terzo piano, lasciando le tre stanze del misero quartierino che sporgeva dirimpetto al teatro Rossini, era uscita tutta la famiglia misantropica dell'impiegato Domenico Mayer: il padre sempre con la faccia lunga e arcigna, con un par di maniche di lustrino sul soprabito, togliendosi a un lavoro di copiatura che compiva a casa tornando dall'Intendenza di Finanza; la madre, donna Cristina, guarita dal mal di denti, ma afflitta dal torcicollo: la figliuola Amalia, dai grossi occhi sporgenti, dalle grosse labbra, dal grosso naso, che aveva sempre il suo aspetto ingrugnato di fanciulla che ancora non trova marito: e Fofò, il figliuolo, sempre contristato da una fame che i suoi parenti dichiaravano una misteriosa malattia. Tutta la famiglia, si buttava giù, quasi, dalla ringhiera, per la curiosità, ed esclamava in coro, gridando, strillando: - Povera figlia, povera figlia, povera figlia!… Erano alla finestra la donna con la cuffia di batista e l'uomo in grembiale azzurro da spazzare, finanche la governante e il servitore del dottor Antonio Amati: né il vedere salire il loro padrone li distolse dal guardare, tanto l'eccitamento di tutto il palazzo Rossi, nelle sue finestre, nel cortile e sui suoi pianerottoli, era diventato invincibile. Quel trasporto per le scale, fra la compassione chiassosa di tutta quella gente diversa, fra quegli strilli metà di spavento, metà di pietà, che avevano una duplice nota esagerata, parve eterno al dottor Amati; in quanto alla vecchia Margherita, ella tremava di dispiacere e di vergogna, come se quel rumore, quella pubblicità offendessero la sua padrona. Quando la porta dell'appartamento si richiuse dietro a loro, ella disse a Giovanni, sgomento: - La marchesina sta male: non vi è Sua Eccellenza? - No, - disse quello, facendo largo a coloro che portavano la svenuta. Margherita crollò il capo, disperatamente, e accompagnò il dottore e il servo nella stanza di Bianca Maria: la fanciulla fu deposta sul suo letto. Il servo disparve. Ancora, il medico tentò di farla rinvenire con l'etere: niente. Egli si mordeva le labbra: due o tre volte disse: impossibile. ncora una volta sollevò le palpebre violacee, guardando l'occhio. Viveva, ma non rinveniva. - Il padre, dov'è? - chiese, senza voltarsi. - Non lo so, - mormorò la vecchia. - Avrà qualche posto dove va, ogni giorno: mandatelo a cercare, sbrigatevi. - Manderò… per ubbidire… - disse lei, sempre esitando, ma uscendo. Egli si era seduto presso il letto: aveva posato la boccetta dell'etere, oramai convinto della sua inefficacia. Quella piccola stanza, nuda, gelida, con un aspetto di purità nivale infantile, aveva un po' calmato la sua collera di scienziato che non giunge né a vincere il male, né a darsi ragione del male. Aveva visto, cento altre volte, dei lunghi e bizzarri deliqui: ma erano il portato di malattie nervose, o di temperamenti anormali, disordinati dal loro principio: ed erano stati vinti con mezzi ordinarii. La pallida fanciulla pareva che riposasse profondamente: e che ancora per molte ore, per molto tempo dovesse stare così, immersa nel buio regno della insensibilità. Egli si armava di pazienza, sfogliando mentalmente i volumi medici dove si parlava di questi deliqui. Due o tre volte Margherita era rientrata nella stanza, interrogandolo con lo sguardo, angosciosamente: egli le aveva detto di no, ol capo. Poi le aveva chiesto del cognac; lla era stata incerta: in casa non ve n'era; e Amati le aveva bruscamente ordinato di andarlo a cercare in casa sua, alla porta accanto. Con un cucchiarino, un misero cucchiarino che aveva perduto tutta la falsa argentatura, egli aveva aperto le labbra della fanciulla e, attraverso la chiostra serrata dei denti, aveva versato il liquore energico: senza risultato. Di nuovo, a Margherita che si agitava confusamente, egli aveva chiesto che mettesse a riscaldare dei panni di flanella; ma vedendola ancora impacciata, le aveva di nuovo ingiunto di andare a casa sua, a chiederne alla sua governante. Mentre ella era assente, rientrò Giovanni, trafelato: parlava ansando, al dottore. - Non l'ho trovato in nessun luogo, il marchese: né al posto i lotto di don Crescenzo, né alla Congregazione di Santo Spirito, né a casa di don Pasqualino l' assistito, ove si riuniscono ogni giorno. - Chi si riunisce? - chiese distrattamente il medico, udendo appena appena il discorso. Gli amici di Sua Eccellenza… ma ho lasciato detto, dovunque, che egli ritornasse a casa, perché la marchesina sta male. - Va bene: spedite questa ricetta, - disse il medico che l'aveva scritta, come al solito, col lapis, sopra un foglietto del suo taccuino. La faccia del vecchio servitore si decompose nel pallore. Il medico, sempre intorno alla svenuta, non aveva visto. - Andate, - disse, sentendolo ancora di là. - Gli è che… - balbettò il pover'uomo. Allora il medico, come aveva fatto per Annarella, la povera moglie del tagliatore di guanti, cavò dieci lire dal portamonete e gliele dette. - … non essendoci il padrone e non potendo dirlo alla padrona, - mormorò Giovanni, volendo giustificare la mancanza di denaro. - Va bene, va bene, - disse il dottore, tornando alla svenuta. Ma una forte scampanellata risuonò per tutto l'appartamento. Un passo vibrato si udì e il marchese di Formosa entrò. Parve non vedesse che la figliuola distesa sul letto e cominciò a baciarle la mano, la fronte, parlando forte, angosciandosi: - Figlia mia, figlia mia, buona figlia mia, che è, che ti senti, rispondi a tuo padre?! Bianca, Bianca, Bianca, rispondi! Dove hai il male, come ti è venuto, creatura mia, viscere mie, corona della mia testa, rispondi, rispondi! È tuo padre che ti chiama, sentimi, sentimi, dimmi che hai, io ti guarisco, buona figlia mia! E continuava a esclamare, a gridare, a singultare con parole confuse, volta a volta pallido e rosso nella faccia, mettendosi le mani nei capelli bianchi, piegando il corpo ancora robusto ed elegante, mentre il dottore, smorto, lo guardava acutamente. In un intervallo di silenzio, il marchese si accorse della presenza di Amati e lo riconobbe per il suo celebre vicino. - Oh dottore! - esclamò - datele qualche cosa, non ho che questa figliuola! - Vado provando, - disse il medico lentamente, a bassa voce, come se rodesse il freno della propria impotenza scientifica: - ma è un deliquio ostinato. - Le è venuto da molto tempo? - Da circa due ore; nel parlatorio delle Sacramentiste… - Ah! - esclamò il padre, impallidendo. Il dottore lo guardò. Tacquero. Il segreto sorgeva fra loro, avvolto nei veli più fitti e più profondi. - Datele qualche cosa… - balbettò don Carlo Cavalcanti, con la voce tremante. Ma vennero a chiamarlo. Giovanni gli parlò sottovoce: il marchese ebbe un momento di incertezza. - Ritorno subito… - disse, andandosene. Il dottore aveva raccolti i piedini della inferma nei panni caldi di flanella; ora voleva ravvolgerle le mani. Ma ad un tratto sentì una lieve pressione sulla sua mano. Bianca Maria, con gli occhi aperti, lo guardava, quietamente. La fronte del medico si corrugò per un minuto di meraviglia, fugacemente. - Come vi sentite? - chiese, chinandosi sulla inferma. Ella ebbe un piccolissimo sorriso stanco e agitò la mano, come per esprimere che aspettasse, che non poteva ancora parlare. - Va bene, va bene, - disse il medico, affettuosamente. - Non parlate. E impose anche silenzio a Margherita che rientrava. I poveri occhi stanchi della serva scintillarono di gioia, quando vide Bianca Maria sorridente. - State meglio? Fatemi un cenno, - chiese il medico affettuosamente. Ella fece uno sforzo e pian piano, invece del cenno, pronunziò la parola: - Meglio. Piccola, ma tranquilla la voce. Con la familiarità del medico, egli le aveva preso una mano e la teneva fra le sue: mano che si riscaldava. - Grazie, - diss'ella, dopo un intervallo. - Di che? - disse lui, interdetto. - Di tutto, - soggiunse lei, con un nuovo sorriso. Ora pareva che avesse riacquistato completamente la forza di parlare. Parlava, ma restava immobile, vivendo solo intensamente negli occhi e nel sorriso. - Di tutto, che? - domandò lui, punto da un'acuta curiosità. - Io ho inteso, - disse lei, con un'occhiata profonda. - Inteso? Tutto avete inteso? - Tutto: non potevo né muovermi, né parlare: ma ho inteso. - Ah! - mormorò lui, pensoso. E mandò Margherita ad avvertire il marchese di Formosa, che la signorina era rinvenuta. - Soffrivate? - Sì: molto, per non poter vincere il mio svenimento. Ho pianto. Avevo uno strazio, dentro il cuore. - Sì, sì,- disse lui, sempre più pensoso. - Non parlate più, riposatevi. Al marchese che entrava, il dottore fece cenno di tacere. Formosa si chinò sul letto della figliuola e le toccò la fronte con la mano, come se la benedicesse. Ella ebbe un battimento di palpebre e sorrise. - Vostra figlia ha avuto un deliquio lucido, na delle forme più rare di deliquio… - disse il dottore, a bassa voce. - Lucido? - chiese il marchese con una strana voce. - Sì: vedeva ed udiva tutto. È una sensibilità portata alla sua massima raffinatezza… Ora, dalla bottiglia versava ancora del cognac el cucchiaino, per farlo bere a Bianca Maria. Don Carlo Cavalcanti, la cui faccia si era stravolta, si chinò sul letto e domandò: - Che hai visto? Dimmi che hai visto? La figliuola non rispose, ma guardò il padre con una sorpresa così dolorosa che il medico, tornando, se ne accorse e aggrottò le sopracciglia. Non aveva udito che cosa avesse chiesto il padre alla figliuola, ma intese di nuovo sorgere il gran segreto della famiglia, vedendo la tenera e dolente occhiata di Bianca Maria. - Non le domandate nulla, - disse bruscamente il dottore a don Carlo Cavalcanti. Il vecchio patrizio represse un moto di sdegno. Covava la fronte della sua figliuola con lo sguardo, come se ne volesse strappare magneticamente un segreto. Ella aveva abbassato le palpebre: ma il viso rivelava sofferenza. Poi guardò il medico, quasi gli cercasse aiuto. - Volete qualche cosa? - domandò lui. - Vi è un uomo presso la mia porta; fatelo andar via, - pronunziò ella, sottovoce, paurosamente. Il dottore trasalì: trasalì don Carlo Cavalcanti. Infatti, fuori la porta, in quella sua eterna, miserevole attitudine di attesa, sporco, lacero, con la barba incolta e le guance smunte, malamente tinte di un sangue morboso, a strie, vi era Pasqualino De Feo, l' assistito. l marchese lo aveva lasciato nel salone; ma egli era scivolato sino alla soglia della stanza di Bianca Maria, con quel suo passo timido e silenzioso di straccione che teme di essere scacciato da tutti i posti. - Chi è quell'uomo? - disse il dottore con quel suo tono rude, accostandosi alla porta, come per scacciarlo. - È un amico… - rispose il marchese, con un vago gesto d'imbarazzo, affrettandosi ad accorrere. - Mandatelo via, - disse il medico, duramente. Fuori la porta, il marchese e don Pasqualino parlottarono, vivamente, sottovoce. Bianca Maria aveva un'aria d'attenzione, come se potesse udire quello che suo padre diceva di fuori: poi, a un tratto, crollò il capo. Il dottore che la guardava negli occhi, intuì il suo desiderio. - Volete che mandi via dalla casa quell'uomo? - Lasciatelo, - diss'ella, debolmente. - Farebbe dispiacere a mio padre. Ah egli non sapeva nulla di nulla, il dottore; e già, nel ritorno alla rude realtà, si rimproverava quel romanzo oscuro e doloroso che entrava nella sua vita: ma lo avvinghiava un sentimento imperioso, che egli credeva la forte curiosità scientifica. Le ore erano passate, scendeva la sera: egli non aveva fatto nessuna delle sue visite e rimaneva in quella gelida stanza di fanciulla, nobile, povera e inferma, quasi non potesse più staccarsene. - Debbo andare…- disse come fra sé. - Ma ritornerete? - chiese ella, sottovoce. - Sì…- rispose lui, risoluto a vincersi, a non tornare più. - Ritornate, - e la voce umile pregava, pregava. - Sono qui, accanto: se soffrite mandatemi a chiamare. - Sì, sì, - soggiunse, tranquillandosi all'idea della protezione. - Addio, signorina. - A dio, - fece ella, marcatamente, staccando le due parole. Margherita lo accompagnava, ringraziandolo pian piano di aver salvato la sua padrona; ma egli era ridiventato l'energico e frettoloso uomo di sempre, nemico delle parole. - Dove è il marchese? - volle sapere, senz'altro. - Nel salone, professore. E ve lo accompagnò. Giusto, don Carlo Cavalcanti e Pasqualino De Feo passeggiavano su e giù, taciturni. Era quasi notte: pure il dottore covrì l' assistito i una occhiata scrutatrice e diffidente. - Come sta Bianca? - chiese Formosa, uscendo da un sogno. - Meglio, ora, - soggiunse con voce breve e fredda, il dottore. - Ma è una fanciulla colpita prematuramente, nel morale e nel fisico, da uno squilibrio crescente: se non le date sole, moto, aria, quiete e giocondità, vi può morire, da un giorno all'altro. - Non dite così, dottore! - gridò il padre, sdegnato e addolorato. - Debbo dirlo, perché così è. La causa del suo male, di quello di oggi, mi è ignota… non voglio saperla. Ma ella è ammalata, capite, ammalata! Ci vuole sole e pace, pace e sole. Se volete un medico, io sono sempre pronto, è il mio mestiere. Ma la ricetta l'ho fatta. Mandate la fanciulla in campagna. Se rimane un altro anno in questa casa, vedendo solo voi e andando sempre al monastero, muore, ve lo affermo io. E insisteva, freddamente, come se questa verità dovesse essere proclamata in tutta la sua forza, come se volesse convincerne anche la ribelle anima sua. - Dottore, dottore! - si lamentò Formosa, cercando pietà. - È ammalata, muore. In campagna, in campagna! Buona sera, marchese. E se ne andò, quasi fuggendo. Il marchese e l' assistito he non aveva detto verbo, ripresero la loro passeggiata taciturna. Ogni tanto, Formosa sospirava profondamente. - Lo spirito che mi assiste…- soffiò l' assistito. Eh? - esclamò l'altro, trasaltando. -…mi avverte che donna Bianca Maria ha avuto una visione celeste…e che ve la comunicherà… sotto simbolo… - Voi che dite? È possibile? Questa grazia mi avrebbe concessa l'Ente Supremo? È possibile? - Lo spirito non inganna, - sentenziò l' assistito. È vero, è vero, - mormorò Formosa, con voce profonda, guardando nell'ombra con gli occhi stravolti.

Questi sono i suoi amici: i gentiluomini del suo ceto, i suoi parenti, lo hanno abbandonato. Forse… cercò loro denaro; ne ebbe forse senza restituirlo: o forse è l'alito istesso della sciagura che li ha fatti fuggire. Questi cabalisti, questi uomini che vedono e rabbrividì, guardandosi intorno - gli levano il suo denaro, lo eccitano al giuoco. E il giorno si approssima in cui mancherà di tutto, e non potrà giuocare, e in quel giorno, Dio mio, Dio mio, illuminatelo voi, se non volete farci tutti perire, col nostro nome e con la nostra casa! - Bianca, Bianca, vi scongiuro di calmarvi, - disse lui, allarmato da quell'eccitamento, seguendone le variazioni con la mente del medico e col cuore dell'uomo. - Non posso! - esclamò ella. - Non vi ho detto tutto. Ascoltate, io sono una povera creatura debole; il sangue è povero e lento, nelle mie vene, voi lo sapete, voi me lo avete detto; ho vissuto fra questa triste casa e il convento di mia zia, cioè in compagnia di mio padre, sempre in preda alle sue fantasie, e in compagnia di mia zia, a cui la fede dà visioni quasi profetiche; in questa casa è morta mia madre: e come la passione del giuoco è diventata allucinazione nella mente di mio padre, l'allucinazione si è infiltrata in me contro la mia volontà. Mio padre mi parla di ombre, di fantasime, di spiriti, in tutte le ore, massime in quelle della sera e della notte, e io ci credo: intendete, voi, che vi è di orribile, in ciò? La luce del sole, la vista delle persone cancellano questi terrori: ma quando scende la sera, ma quando questa mia casa si empie di tenebre, ma quando mio padre mi parla dello spirito, l mio sangue si gela, il cuore arresta o precipita i suoi movimenti: io mi sento morire dallo spavento. Misteriosi rumori mi ronzano nelle orecchie, passi leggieri, voci sommesse; veggo dinanzi agli occhi della mia fantasia passare spettri ammantati di bianco, e guardarmi, e lagrimare, guardandomi; mi pare che mani evanescenti mi carezzino i capelli; mi pare di sentire aliti gelidi sulle guancie, e le mie notti, oramai, non sono che una lunga veglia affannosa, o un sonno lieve turbato da visioni! - Questi spiriti on esistono, Bianca, - disse lui, con voce ferma e dolce. - Ah io sono così debole, così inetta a difendermi, contro le allucinazioni! Quando ho riconquistato un poco di tranquillità, ecco, mio padre, per fantasia propria, o per bieco suggerimento di quell' assistito viene a tormentarmi. Vuole che io veda e senza curarsi della mia debolezza, della mia paura, senza capire la tortura che mi dà, mi parla dello spirito, vuole che io lo evochi, io che sono una fanciulla, io che sono innocente! Invano io tento di resistere, invano io mi dibatto, invano io chiedo a mio padre di risparmiarmi, di non farmi bere questo calice amaro, egli è ostinato, egli è acciecato, egli vuole che io veda lo spirito, e che gli chieda i numeri da giuocare. Ed è così forte l'influenza che mio padre esercita su me, è così terribile il modo con cui egli mi comunica la sua follia, che io finirò per essere come lui, una povera allucinata, consumantesi fra le visioni delle sue notti, e le ardenti delusioni delle sue giornate! Ella si nascose il volto fra le mani, convulsa. Il dottore la guardava esterrefatto, non osando più dirle niente. - E ancora non sapete tutto, - riprese ella convulsamente. - Un giorno, voi mi avete scritto una lettera, una buona lettera confortante, proponendomi di partire, di andare da vostra madre. Che conforto è stato quello! Ah avrei finalmente fuggito questa casa, di cui ogni vano nero di porta, alla sera, mi fa paura, di cui ogni mobile assume forme spettrali: sarei andata dove vi è luce, sole, calore, e gioia. Ebbene, in quella notte, preso da un accesso di stravaganza, mio padre è venuto nella mia stanza. In quell'ora, al chiaror vago di una lampada, svegliandomi dal sonno, buttandomi in un sogno con le sue parole, non curando le mie preghiere, non sentendo che mi faceva agonizzare, per due ore egli mi parlò dello spirito he doveva apparirmi, che era lì lì per apparirmi, che mi avrebbe detto le parole sacre. E tenendomi le mani, soffiandomi il suo alito nella faccia, comunicandomi il suo ardore e la sua fede, egli ha ottenuto il suo scopo. - In che modo? - Io ho veduto o spirito, mico mio. - Come, veduto? - Come vi vedo. - Era la febbre: non vi è nulla di ciò, Bianca, - disse lui, aspramente, per ricondurre quella mente smarrita alla pace. - Voi lo dite, vi credo. Ma quando voi sarete partito, quando io avrò finito di pregare, di leggere, quando sarò sola nella mia stanza, fra le penombre della lampada, io vedrò la visione di quella notte, e la vertigine mi coglierà dì nuovo, facendo roteare il mio cervello e battere i miei denti! Ma mio padre, oramai, disperato, perché i numeri di quella notte non sono mai usciti, dice che io non seppi interpretarli, vuole che io evochi di nuovo lo spirito! Ma egli mi crede assistita oramai, e non mi lascia più un'ora di riposo! Ma io non sono sua figlia oramai, egli mi considera solo come intermediaria fra lui e la fortuna, e sorveglia ogni mia parola, e mi guarda talvolta con invidia, talvolta con alterezza, e non so quali strane discipline vada pensando, perché io possa vedere, i nuovo, non so quali bizzarre privazioni egli voglia impormi, perché la mia anima sia pura come il mio corpo e possa avere la veggenza lucidissima! Nei primi giorni della settimana mi lascia più tranquilla, ma la notte del giovedì egli viene da me e mi prega, capite, mi prega di chiamare lo spirito: questo vecchio bianco, a cui io bacio la mano per rispetto, s'inginocchia innanzi a me, come innanzi all'altare, per commuovermi! In quella del venerdì, le sue preghiere diventano furiose, egli non si accorge delle convulsioni di spavento che squassano il mio corpo, egli crede che siano l'approssimazione dello spirito! L'altra notte, per sottrarmi a questa tortura che mi pareva ormai insopportabile, ho chiuso a chiave la mia porta, ho avuto il coraggio di negare l'accesso della mia stanza, a mio padre! Ebbene, egli è venuto a bussare, prima piano, poi forte; mi ha parlato, supplicando, comandando, passando dalla collera all'umiliazione, voleva che io vedessi lo spirito, a forza, a forza, quella notte - io mi turava le orecchie, per non udire, nascondevo la testa nel cuscino, mordevo le lenzuola per soffocare i miei singhiozzi, venti volte avrei voluto aprire quella porta, ma il terrore m'inchiodava sul letto. Mio padre ha pianto! Oh mamma mia, mamma mia, io ti ho disubbidito! Tu hai saputo morire per mio padre, ma io non so imitarti! - Poveretta, poveretta, - mormorava lui, tentando di cullarne l'esaltamento con quella dolce parola di compatimento, carezzandone le mani, quasi per addormentarla, per magnetizzarla. - Oh sì, sì, compatitemi, perché io sono così misera, così disgraziata, che l'ultima mendicante della via mi fa invidia: compatitemi perché la sola persona che dovrebbe amarmi, cercare la mia salute e la mia felicità, sogna invece di darmi del denaro, molto denaro, e m'impone per questo tutti i sacrifici materiali e morali; compatitemi, perché sono una disgraziata creatura, votata a una oscura catastrofe; compatitemi, perché in tutto il vasto mondo, io non trovo altro, per me, che la vostra compassione! Tacquero. Il sangue era salito alle guance pallide di Bianca Maria; gli occhi di lei scintillavano; e le parole dove si era sfogato tutto il suo cuore, erano uscite convulsamente, tumultuariamente dalle sue labbra. Taceva, ora. Aveva detto tutto. L'aspro segreto che torturava implacabilmente la sua esistenza, evocato dall'amore, aveva dato i brividi di una paurosa sorpresa, al forte uomo che l'ascoltava. Egli taceva, cercando di dominare la propria stupefazione, cercando di riunire le proprie idee confuse. Certo, egli era avvezzo a udire il racconto lugubre di tutte le miserie spirituali e fisiche dei suoi ammalati, egli aveva sollevato i veli di tutte le onte, di tutte le corruzioni, e come al confessore si erano aperti a lui, affannosi e contriti, i cuori che racchiudevano i più orrendi umani misteri. Ma in verità, l'affanno di Bianca Maria era così profondo, attaccava così profondamente le sorgenti stesse della vita, che lo aveva fatto sgomentare, dinanzi allo spettacolo di una miseria inaudita. Ma quella povera creatura che si consumava sotto le strette di un morbo non suo, che aveva il suo carnefice in suo padre, quella povera buona e bella creatura, era la donna che egli amava, senza la quale egli non poteva vivere, la cui felicità, la cui salute gli era necessaria, più della propria. Perturbato, non sapendo ancora raccapezzarsi innanzi a quel duplice problema di malattia e di passione, che rendeva il marchese Cavalcanti l'uccisore della sua famiglia, egli non trovava nulla da dire a Bianca Maria, per confortarla. Adesso, ella era accasciata: e provava un vago rimorso di aver accusato suo padre. Ma non doveva Antonio Amati essere il suo salvatore? Non si sentiva ella tranquilla, sicura, forte, quando egli era là? E traendosi dal suo abbattimento, levandogli gli occhi nel volto, timidamente gli disse: - Voi non dite che io sono cattiva ed ingrata, nevvero? - No, cara. - Voi non lo giudicate male, lui? - Io lo guarirò, - egli disse, pensando.

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