Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Malombra

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Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

La rimproverò di volersi pigliare per forza un mal di capo e le disse scherzosamente ch'era in collera con lei perché quella mattina lo aveva abbandonato ed era corsa via come una farfallina capricciosa. Dove mai avea svolazzato la signorina? Già si saran fatte delle imprudenze, si sarà andati in qualche luogo pericoloso, vicino a qualche acqua infida, piena di malinconie, per raccogliervi canzonette gittate via mesi addietro. "Oh, papà" disse Edith "non va bene, prima di tutto andar a guardare nel mio album, e poi non va bene far certe supposizioni. Le ho lasciate dove sono, io, le malinconie; nel lago, nell'Aarensee. E della canzonetta, lì sulla riva, non ho trovato che il titolo. Quello non fa male. E poi non ti ricordi come abbiamo riso l'anno scorso? Lo finirò quello schizzo e ci metterò Lei, signore, che corre poco rispettosamente dietro sua figlia, con l'ombrello sotto il braccio. Vorrei poterci mettere anche quelle risate ." "Ne metteremo delle altre" disse Steinegge. "Vedi questo sole, questo verde, questo vento se non è tutta una grande risata! Pensa se noi fossimo a Milano! È giovinezza che si beve qui. Non vogliamo camminare, oggi. Sei stanca?" "No, papà; ma dove vuoi andare?" "Così, a passeggio. Signora Marta! Signora Marta! Posso io domandare quando si pranza?" "Alle tre" gridò Marta dalla cucina. "Allora possiamo andare, per esempio, fino alla cartiera." "Bravi, bravi! Vengo anch'io" disse don Innocenzo, che avea congedato allora allora tutta la brigata. "Devo parlare all'ingegnere direttore dei lavori." Edith salì alla sua camera per il cappellino e i guanti. Quando ridiscese, suo padre ed il curato, che parlavano insieme, s'interruppero. Ella vide loro in viso una contentezza nuova, si fermò, interrogandoli con lo sguardo. "Andiamo! Presto!" disse Steinegge, e dimentico questa volta delle solite cerimonie, s'incamminò per il primo. Don Innocenzo colse il destro di sussurrare a Edith: "Non c'è più niente tra quei due: egli parte stasera". Edith aperse la bocca per domandare qualche cosa, ma suo padre si voltò a chiamarla e anche Marta gridava dalla cucina: "Facciano presto che non hanno mica tanto tempo!". Edith non ebbe più modo di domandare spiegazioni. Solo all'uscir dal cancello il curato le gittò nell'orecchio altre due parole. "Forse il Suo biglietto!" "Il mio?..." rispose Edith. Don Innocenzo fe' cenno di sì e andò a prendere il braccio di Steinegge. Edith, trasalì. Il curato non le aveva detto che il suo biglietto era stato consegnato. Come mai, dopo quei fatti? Anche questa partenza di Silla era ella una fortuna così grande? Non veniva dopo mali irreparabili? Sì, ma però era un bene, senza dubbio. Pazienza, pensava, se il suo biglietto aveva fatto del bene, pazienza essersi posta senza saperlo, fra così turpi intrighi, aver parlato meglio che amichevolmente a chi se n'era reso indegno. Vi si rassegnava, ringraziava Dio, che si fosse servito di lei per un atto di misericordia. Ma sentiva in pari tempo che il sacrificio proprio sarebbe diventato in avvenire più difficile, tormentoso, che quest'uomo avrebbe tentato riavvicinarsi a lei, discolparsi de' suoi errori. E allora? Allora la lotta sarebbe ricominciata nell'animo suo, quanto fiera! Perché se a Milano avea sperato esser tocca nella immaginazione soltanto e s'era studiata di convincersene con un attento e forse imprudente esame di se stessa, adesso non s'illudeva più: era il cuore che mandava sangue. "Edith!" chiamò suo padre perch'ella era rimasta qualche passo indietro. Ella alzò gli occhi, lo vide a braccio del curato, un lampo di speranza le attraversò l'anima. Balzò a fianco di suo padre. "Eccomi" disse. Entravano allora nella strada nuova che spiccandosi dal villaggio recideva i prati sino al fiume: una brutta cicatrice a vederla dall'alto, come di qualche gran fendente calato sul verde: bianca, dritta, fra due righe di pioppi nani, sottili. Piacevole passeggio, però. Era voluttuoso mettersi per quell'ampio mar verde, morbido, magnifico nel suo disordine di fiori, potente nell'odor di vita che ne saliva, nelle ondate d'erba che slanciava da destra e da manca ad assalir l'argine della strada, ad ascenderlo per ricongiungere un giorno sopra di esso la sua pompa, i suoi amori eterni. I piccoli pioppi si movevano al vento; qualche grossa nube bianca vagava pel cielo, e l'ombre ne correano sui prati, sulla celeste lama scintillante del lago, la tingeano di viola. "È magnifico tutto questo verde" disse Steinegge guardandosi in giro. "Pare di essere in fondo a una tazza di Reno." "Vuota" osservò don Innocenzo. "Oh, questa è un'idea triste, non affatto necessaria. Vi è pure in questa tazza, che Voi dite vuota, una fragranza, uno spirito che exhilarat cor, che rischiara il cervello, non è vero? Io mi meraviglio di Voi: io sono molto spiritualista adesso, amico mio, sono capace di trovare che l'acqua del fiume dove andiamo, bevuta lì sulla riva sotto quei grandi pioppi, contiene sole, ha un sapore di primavera ilare che inebbria meglio del Johannisberg." "Si voltino" disse don Innocenzo "guardino la mia casetta come sta bene." Stava bene infatti la piccola casetta, al di sopra delle altre e in disparte, bianca sotto il suo tetto inclinato. "Pare che ci guardi anche lei" osservò Edith "e ci sorrida come una buona nonnina che non si può muovere." "Oh" esclamò Steinegge "io sarei felice di viver qui." "E io, papa? Pare di sentirsi voler bene da tutto, qui. A Lei, signor curato, ci trovi un nido." "C'è il mio" diss'egli. "Bravi, vengano a stare col vecchio prete. Perché no? Non sarebbe una bella cosa? Non starebbero bene in casa mia? Mi par che Marta s'ingegni abbastanza, non è vero?" Edith sorrideva, suo padre si confondeva in esclamazioni e proteste di gratitudine. "No, no" disse Edith. "Prima, è una cosa impossibile per noi lasciar Milano, e poi così non andrebbe. Ci vorrebbe un'altra casettina." "Veramente? Lei starebbe qui, per sempre, in questa solitudine?" Edith rispose con gli occhi gravi, meravigliati. Don Innocenzo ammutolì. "Non sarebbe il solo tesoro sepolto in questo paese" disse Steinegge volgendosi al curato con un gesto ossequioso. Don Innocenzo si schermì, arrossendo e ridendo, dall'incensata. "Anche Lei ci sarebbe, non è vero?" diss'egli. "Oh no, io sarei qui un tegame preistorico. Io vi starei molto bene, ma mia figlia non deve, oh no!" "Perché mai, papà?" Egli rispose impetuosamente in tedesco, come faceva sempre nel bollore dell'affetto o dello sdegno. Si voltò quindi a don Innocenzo senz'aspettare la replica di Edith. "Non è vero" diss'egli "che questo paese non è per una giovane signorina, a meno che non fosse una Nixe?" "Una Nixe? Chi sa?" disse Edith. "Amo le acque limpide, i prati, i boschi..." "Oh sì, ma io non credo che le Nixen amino anche dei brutti vecchi gialli come me e vadano a spasso col signor curato. Sai cosa vedo io adesso nella mia fantasia?" Il bizzarro uomo si fermò, allargando le braccia e chiudendo gli occhi. "Vedo il molto onorevole signor Andreas Gotthold Steinegge che ha i capelli un poco più bianchi di adesso e sta in casa del suo carissimo amico qui vicino, il quale non ha affatto più capelli. Io vedo questo signore tedesco che tiene un giornale in mano e sta fortemente discutendo sulla questione dello Schleswig-Holstein con il suo amico il quale gli fa portare... un dito, un solo di Valtellina per mandar giù il duca di Augustemburg. Eh? Non è questo?" Aperse gli occhi un momento per guardar don Innocenzo che rideva e tornò a chiuderli. "E adesso vedo... Oh, cosa vedo? Una giovane Nixe vestita da viaggio che entra in salotto come una stella cadente, abbraccia il vecchio gufo tedesco e dice che è venuta a passare due giorni fra le acque limpide, i prati, i boschi. "Sola?" dice il gufo. Allora questa Nixe fa un piccolo gesto con un piccolo dito che io conosco..." Steinegge aperse gli occhi, prese la mano di Edith per baciarla; ma Edith la ritrasse in fretta ed egli, lasciatala, fece quattro gran passi avanti ridendo, e si voltò a guardarla. "Non è una bella visione?" diss'egli. Edith tardò un momento a rispondere. Non sapeva che pensare. C'era in quel discorso di suo padre una occulta intenzione, un proposito deliberato? "Dunque sei stanco di me?" diss'ella. "Vuoi viver solo?" "Come solo?" esclamò don Innocenzo. "Non sente che vivrebbe con me?" "Io sono stanco, molto stanco di te" rispose Steinegge "ma non vorrei vivere solo. Verrei a riposarmi della tua compagnia, qui con il signor curato, per qualche mese dell'anno. Vedi, io non scherzo più adesso, io avrei bisogno di stare molto, molto tempo qui con il signor curato." Edith guardò quest'ultimo. Era egli entrato nel grande argomento? Si avviavan bene le cose? Il curato guardava con attenzione un baroccio che veniva dalla cartiera, faticosamente, sulla strada male assodata. "Noi vogliamo cercare una pietra filosofale" continuò Steinegge "una pietra che cangi in oro tutto quello che è brutto, scuro fuori di noi, e, molto più, dentro di noi." "E la si trova qui, questa pietra preziosa?" disse Edith, palpitando. "Io non so, io spero." "E perché non la cercherei anch'io con voi?" "Perché non ne hai bisogno, perché non vogliamo." "Ma cosa ne farai di me, papà?" "Oh, non si sa ancora." A queste punto sopraggiunse il baroccio e divise Edith da' suoi due compagni. Don Innocenzo si accostò rapidamente a Steinegge e gli disse all'orecchio: "Non vada troppo avanti." "Non posso" rispose l'altro. Il barroccio passò. Erano giunti presso al fiume dove la strada faceva un gomito, scendeva per la sponda destra, lungo i grandi pioppi, fino alla cartiera. "Lei va" disse Steinegge al curato. "Noi L'aspetteremo qui." Scese con sua figlia dal ciglio della strada sul pendìo erboso, sino all'ombra d'un macigno enorme ch'entrava dritto nel fiume. Erano un delizioso poema le acque verdi e pure, un poema popolare antico, di quelli che l'ingenuo cuore umano, troppo pieno di amore e di fantasie, versava. Passavano tra i margini sassosi o fioriti, saltando, ridendo, cantando, serene sino al fondo scabro. Blandivan l'erbe, mordevano i sassi; anche dal filo della corrente venivan su tratto tratto de' fremiti appassionati, si spand evano in leggere spume. A tante voci rispondeva dall'alto il gaio stormire de' pioppi appuntati al cielo di zaffiro. "Ah" disse Steinegge. So viel der Mai auch Blumlein beut Zu Trost und Augenweide... Edith lo interruppe: "Perché, papà, mi hai detto quella cosa?" "Quale?" "Che vorresti un giorno esser diviso da me." "Oh no, non diviso. Solamente io verrei a passare qualche tempo qui. Mai diviso. In niente diviso. Capisci? In niente." Disse quest'ultime parole sottovoce, prendendole ambedue le mani. "Sì, io penso ora per la prima volta che non dobbiamo più esser divisi in qualche cosa qui dentro." Si strinse quelle mani sul cuore. Le labbra, le nari di Edith si contrassero; le si strinse la gola. Egli la trasse giù senza parlare a sedere sull'erba, sedette accanto a lei. "Io non posso" diss'egli, quasi parlando a se stesso. "Ho il petto pieno di questa cosa. È vero, Edith, noi non siamo stati bene uniti mai. Ti ricordi la sera che sei venuta, quando io entrai in camera e tu pregavi alla finestra? Che angoscia fu per me allora! Io pensai che non mi avresti amato perché non credevo come te. E il giorno dopo, mentre tu eri a Messa, ti ricordi che io sono uscito? Sai cosa ho fatto durante la Messa?" Egli parlava come uno che non sa se deve ridere o piangere. "Ho parlato a Dio, l'ho pregato di non mettersi fra te e me, di non togliermi il tuo amore." Edith gli strinse convulsamente la mano, serrando le labbra, sorridendogli con gli occhi umidi. "E tu sei poi sempre stata così tenera, così buona con me che mi hai fatto il paradiso intorno e io ho inteso che Dio mi aveva ascoltato. Questo mi ha commosso perché sapevo di non meritar niente. Oh no, credi. Mi ha commosso, dunque, di vedere che Dio ti permetteva di essere tanto amorosa con me. Ero felice, ma non sempre. Quando noi andavamo in chiesa insieme, io pregavo, ringraziavo Dio, vicino a te; ma pure vi era qualche cosa nel mio cuore, qualche cosa di freddo e di penoso, come se io fossi fuori del la porta e tu avanti a tutti, presso l'altare. Insomma mi pareva esser tanto lontano da te. Mi odiavo in quel momento ed ero così stupido di amar meno anche te. Quando poi..." Esitò un istante, quindi accostò la bocca all'orecchio di Edith, le sussurrò parole cui ella non rispose e ripigliò forte: "Quanto soffrivo! Una cosa che mi ripugnava tanto! Forse per le memorie irritanti ch'erano nel mio cuore, forse perché ero geloso di quell'uomo nascosto a cui tu confidavi i tuoi pensieri. Non solo, geloso; pauroso anche. Sentivo che anche restando invisibile, sconosciuto, poteva ferirmi, togliermi un poco della tua stima, del tuo amore. Sai che qualche notte non ho dormito per questo? Dopo ti vedevo sempre uguale con me, dimenticavo, tornavo ilare. Ieri, trovandomi ancora con don Innocenzo, stando nella su a chiesa, ho sentito quanto lunga strada avevo fatto in pochi mesi, quasi senza saperlo. Ho avuto l'impressione, come di essere sulla porta aperta di un paese sospirato e non poter entrare. Adesso... senti. Edith, figlia mia." Ella, silenziosa, piegò il viso verso di lui, stringendogli sempre una mano fra le sue. "Sono entrato" diss'egli, a voce bassa e vibrata. Edith abbassò la testa su quella mano, vi fisse le labbra. "Sono entrato. Non domandarmi come. So che il mondo mi pare inesprimibilmente diverso da quello di prima, ora che ho nell'anima il proposito di abbandonarmi interamente alla tua fede. Come si può dir questo, che io riposo sopra tutto quello che io vedo? Eppure è così; io non ho mai provato una sensazione di riposo simile a questa che mi viene per gli occhi nel cuore. Tu riderai se io ti dico che sento un grande amore per qualche cosa che è nella natura intorno a me. Cosa ne dici, Edith, di tutto questo?" Ella alzò il viso bagnato di lagrime. "Mi domandi, papà? Mi domandi?" Non poté dir altro. Il suo sacrificio era stato accettato da Dio, ricompensato subito. L'anima sua traboccava di questa fede mista allo sgomento, allo sdegno di non sentirsi felice. "Contenta?" disse Steinegge. Scese a intingere il fazzoletto nell'acqua e lo porse a Edith che sorrise, se ne deterse gli occhi. "Sai" diss'egli "sono contento per un'altra cosa, anche." Ella non parlò. "So del nostro amico Silla che va via dal Palazzo. Pare che non ci è stato affatto il male che si credeva." "Papà" disse Edith alzandosi "lo sa don Innocenzo quello che mi hai detto prima?" "Un poco, solo un poco." Ella guardò un momento il grosso macigno a cui era quasi appoggiata e si rizzò sulla punta de' piedi per cogliere un fiorellino che usciva da un crepaccio. Lo chiuse nel medaglione d'onice e disse quindi a suo padre: "Un ricordo di questo luogo e di questo momento. Dimmelo ancora" soggiunse teneramente "dimmi che sei felice e che questi pensieri sono proprio nati nel tuo cuore. Tornamelo a dire. papà." "Guarda dove sono!" disse una voce dalla strada. Edith non la udì, si ripose a sedere sull'erba presso a suo padre, che riconobbe la voce di don Innocenzo, ed esclamò volgendosi a lui raggiante: "Così presto?" Don Innocenzo vide, comprese, non rispose. "Signor curato" disse Edith risalita con suo padre sulla strada. "Ella ritrova un'altra Edith." Don Innocenzo si provò a far l'ingenuo, ma ci riusciva solo quando non lo faceva apposta. "Possibile?" disse, con tale accento di meraviglia da far credere che prendesse alla lettera queste parole: un'altra. Ma poi non vi ebbero più domande né spiegazioni. Edith camminava a braccio di suo padre, appoggiandogli quasi il capo alla spalla. Don Innocenzo teneva lor dietro soffiando perché il capitano aveva preso un passo di carica. Attraversarono così i prati senza parlare. Don Innocenzo non ne poteva più; si fermò trafelato. "Bella" diss'egli "quella striscia di lago, non è vero?" Forse non la vedeva neppure. Gli Steinegge si fermarono. "Povero conte Cesare" disse il padre dopo un momento di contemplazione. "A proposito, signor curato, avete inteso anche voi che il signor Silla parte questa sera dal Palazzo?" Edith si staccò da lui, si girò a guardar i prati da un'altra parte. Oh, furia amorosa di fiori protesi al sole onnipotente, erbe tripudianti, ubbriache di vento, qual ristoro esser voi, viver la vostra vita d'un giorno, sentirsi tacere la memoria, il cuore, quel tumulto faticoso di pensieri assidui a lottar insieme, a fare e disfare l'avvenire; non essere che polvere e sole, non aver nel sangue che primavera! "Andiamo, Edith" disse Steinegge. Quella cara voce la scosse, la tolse al pensiero non degno. Salendo alla canonica, Edith precedeva d'un passo a capo chino, il curato e suo padre, vedeva le loro due ombre spuntarle a fianco sulla via. Steinegge incominciò ancora a parlare del Palazzo, ed ella vide l'ombra del curato accennar con la testa; dopo di che Steinegge lasciò cadere il discorso. Quando rientrarono in casa, Marta li avvertì che il pranzo sarebbe pronto fra pochi minuti. Edith si fece dare da lei la chiave della chiesa, corse via, sorridendo a suo padre. Tutto era vivo per la campagna, tutto si moveva e parlava nel vento; tutto era morte nella vôta chiesa fredda, tranne la lampada dell'altar maggiore. Una luce debole si spandeva dagli alti finestroni laterali sugli angeli e i santi vinosi del soffitto estatici nelle loro nuvole di bambagia. Edith si inginocchiò sul primo banco, ringraziò Dio, gli offerse tutto il suo cuore, tutto, tutto, tutto; e più ripeteva il suo slancio di volontà devota, più la fredda chiesa muta e persino la fiamma austera della lampa da le dicevano: no, non lo puoi, non è tuo; tu speri che quegli ti ami ancora e torni degno di te, sino a che tu possa appoggiarti per sempre al suo petto virile, affrontare con esso e attraversar la vita. Ma ella non voleva che fosse così, e pareva ritogliere quello che aveva liberamente offerto, e si sentiva invadere il cuore da un arido disgusto di se stessa. Marta venne a chiamarla. "Signora! Oh signora! Presto ch'è in tavola! Oramai il Signore lo sa cosa ci vuole per lei." Edith sorrise.

MEMORIE DEL PRESBITERIO SCENE DI PROVINCIA

679349
Praga, Emilio 4 occorrenze
  • 1881
  • F. CASANOVA. LIBRAIO - EDITORE
  • prosa letteraria
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Ma il sindaco pretendeva rivendicarlo per antico dritto di proprietà non mai abbandonato che precariamente dal comune, - e coonestava l'animosità col progetto di farvi passare una viottola assai incomoda del resto che dalla strada provinciale, che saliva al di là della Strema, mettesse direttamente senza passar in paese alla frazione di Fontanile, le cui case si vedevano in fondo accovacciate in una piega del monte e non giustificavano davvero colla loro importanza quella singolare premura sindacale. Inoltrandomi fra le macchie, scoprii don Luigi. Era seduto dietro la casupola sopra un grosso ceppo di castagno coverto di muschio; teneva la fronte bassa appoggiata al dosso della mano e aveva le guancie rigate di lagrime. Non si accorse di me. Ebbi rimorso di averlo spiato. Per salvare almeno le apparenze, mi rivolsi indietro pian piano e, quando mi fui allontanato convenientemente, mi posi a cantarellare ad alta voce per metterlo sull'avviso della mia presenza. Egli mi richiamò per nome. Quando tornai da lui, s'era ricomposto, ma senza ombra di dissimulazione. Mi diè uno sguardo di amichevole confidenza, mi prese la mano e la tenne alcuni minuti nelle sue senza far motto. - Figliuolo, mi disse poi, ho pensato alle idee ieri manifestate dal dottore .... e, posso errare, ma quello mi pare materialismo nè più, nè meno. - È un argomento che prova troppo .... e nulla. Coll'ammettere l'irresponsabilità delle inclinazioni, si esclude la colpa, e il male; si esclude la pena, la sanzione e il giudice .... È tutto una conseguenza. Quanto a me, dinanzi a questo cielo e a questi luoghi, testimoni di tutti i miei pensieri .... e dei miei errori, - vi assicuro, - del male che ho fatto preferisco sentirmene responsabile e accusarmene, - perchè ciò mi da la speranza di ottenere perdono per me e la consolante certezza che sarà riparato per gli altri. Che ne dite? Che potevo dire? Il materialismo allora mi dava assai meno fastidio di adesso. Non lo conoscevo che da lontano, e mi seduceva coll'apparenza di una generosa, eroica ribellione contro la più assoluta autorità dell'universo. Pure ammiravo l'ingenua bontà di quell'animo che s'adombrava al pensiero di esser liberato da una obbligazione e protestava contro l'assoluzione offertagli, con una logica che veniva dal sentimento più che dal raziocinio. Esternai la convinzione che le sue parole non avessero altro movente che una eccessiva austerità di coscienza. - Il male che avete fatto è un modo di dire, soggiunsi, ma non è di tal natura da rimordervi troppo .... e quanto alla riparazione ella è bella e fatta a quest'ora .... - Zitto, vi prego, - m'interruppe subitamente turbato, - zitto, voi non sapete nulla. Volevo replicare, ma egli ripetè: - Non sapete nulla, non sapete nulla. Poi dopo alcuni minuti di silenzio, con maggior calma e una malinconica intonazione di voce: - No davvero, figliolo, non posso scroccarvi un giudizio tanto indulgente. La santità di ser Ciappelletto mi ripugna. La sua modestia era tanto sincera e tanto viva che non ardii combatterla, tacqui. Don Luigi si alzò, passò il braccio sotto il mio e mi trasse con sè in gran fretta. Al principio del sentiero si volse, abbracciò con uno sguardo di ineffabile tenerezza quel suo prediletto ricovero. - È forse l'ultima volta ch'io vengo quassù, mormorò; - oh i decreti di Dio colpiscono giusto .... Cominciammo a scendere la china in silenzio. Don Luigi era triste, accasciato come non l'avevo mai visto. Mi parve allora assai più vecchio del solito; si appoggiava al mio braccio e camminava a stento. Appressandosi al villaggio si rinfrancò un poco; ma non tanto che Baccio non s'accorgesse della sua tristezza. E mi disse con sincera schiettezza: - Vossignoria è andato a disturbare il curato; ha fatto male, ha fatto male. Egli aveva bisogno di restar solo. - Perchè? domandai sorridendo a fior di labbra. - Perchè, quando nessuno l'inquieta, egli trova colà nella solitudine il rimedio di tutti i suoi fastidi. E mi contò i mirabili effetti di quel luogo sull'animo del curato, ch'io sapevo già dallo speziale. - Ma cosa ci trova lassù? - Dicono, rispose esitando il sacrestano e abbassando la voce, dicono che venga un angelo a visitarlo. - Un angelo, chi l'ha veduto? - Saranno quasi vent'anni, un giorno tornando dalla Valsesia, scendevo per il Mongrigio. Arrivato a un certo punto dove il sentiero sovrasta al piano della Carbonaia guardo in giù e scorgo qualcosa di bianco fra i castagni: era una figura di donna ravvolta in un velo lungo fino a terra sotto al quale traspariva una veste azzurra. La visione passò lentamente fra gli alberi e scomparve dietro il muro dei carbonai. Non la vidi che un minuto, ma ne fui abbagliato. Splendeva più del cielo!, - andava cauta ma tanto leggiera che non pareva toccasse la terra. Dopo il primo stupore calai giù, passai il ponte dello Strona e, girando intorno alla collina, passai la strada di Sulzena. Allo sbocco del sentiero della Carbonaia incontrai don Luigi. Allora aveva dei dispiaceri ed era triste, afflitto più di adesso. Ma quel dì mi sembrò tutt'altro: mi passò vicino senza vedermi, incantato come uno che viene dal paradiso. Il paragone di Baccio non mi sembrò punto strano: il suo racconto in cui altri più positivo di me non avrebbe visto che una fiaba grossolana, mi interessava grandemente. Lo ascoltai come la più seria cosa del mondo. Egli era certo in buona fede. Eravamo in sacristia dove don Luigi ci aveva lasciati soli per entrare in chiesa a parare l'altare per la benedizione. Il sacrestano mi fece la sua confidenza agitando il turibolo a ravvivarne le brace. Il barlume del crepuscolo cadeva dall'alte e strette finestrello su certi visi pallidi di madonne e di sante; il bisbiglio sommesso dei devoti che entravano in chiesa, certi echi profondi, un acuto profumo d'incenso, - la maestà del luogo disponevano l'animo al meraviglioso. Un po' di prodigio cresceva attrattive alla misteriosa figura del curato.

Mi fissò nuovamente, parve riflettere, poi prendendo una rosa che pendeva lì vicino e fiutandola: - Che lusso di fiori, disse sbadatamente, e, abbandonato il ramo che rimbalzò a raggiungere il cespo, continuò: - Che taccola quel sindaco; uh! quando comincia a far danzare la lingua, non smetterebbe più; è una pioggia d'ottobre; è la mia morte quell'uomo. Alla messa, in piazza, nella farmacia, dappertutto, la sente la sua voce. E dover far finta di prenderci gusto! Chè, altrimenti guai! Ha un carattere ..... basta .... le sono seccaggini; pene e tormenti, inerenti alla vita di campagna. - Pare, interruppi, che oggi avesse qualche grave affare pel capo. - Lo so io? rispose Bazzetta animandosi; lo so io? Mi colga malanno se ho capito una parola di tutto il suo discorso. Non ha veduto? Dondolavo il capo, tanto per dargli ad intendere che la ascoltavo, e più di qualche monosillabo così pro forma come si suol dire, non ho risposto nè bianco nè nero. - Gli consigliaste la prudenza, se non ho male inteso. Trattasi dunque di cosa in cui è presumibile ch'egli possa dimenticarla, la prudenza? - È un affare che s'agita da un gran pezzo. Il curato possiede un campicello; un prato, per dir meglio, ombreggiato da una gran quercia. Son pochi metri di terra che non valgono due scudi, tanto più che il curato li lascia incolti, permettendo che vi raccolgano l'erba e le ghiande gli accattoni delle montagne. Però, il perchè lo ignoro, predilige quel luogo stranamente. Ci va, benchè la salita sia molto erta, quasi tutti i giorni, al tramonto, e vi resta a leggere un libro, sempre quello, da venti anni in qua. Or son pochi mesi, essendo obligato da tempo a star a letto per una febbre ostinata, un bel giorno, dopo aver molto e molto sospirato, gli venne la fantasia di farsi vestire e trasportar da Baccio fino lassù, sotto la sua quercia. Il giorno dopo era guarito. Ebbene, il Sindaco, col pretesto che quella poca terra è necessaria per farvi passare una viuzza, secondo lui indispensabile, vuole e pretende che Don Luigi la ceda al Comune, vantando non so quali diritti. Per me, ripeto, amico di tutti e farmacista di tutto il mondo, e così messer Iddio lo volesse. - Che ne dice? - E credete che il sindaco riescirà? - Eh! se ci si mette .... ha le autorità dalla sua .... ha influenze .... acqua in bocca ..... ecco don Luigi; facciamo sembiante di nulla. Il curato infatti ci veniva incontro pel viale di mezzo, tutto sorridente, e spalancando le braccia. Avute le mie congratulazioni per la cameretta, pel giardino e per la chiesa, don Luigi si rivolse al farmacista che accendeva una lunga pipa di schiuma e: - Caro Bazzetta, gli disse amichevolmente, avete data un'occhiata in cucina? Come vedete, oggi il pranzo è proprio di gala; bisogna farsi onore. - Non dubitate, reverendo, rispose l'altro toccandosi il cappello e inchinandosi burlescamente: ho già impartite le ordinazioncine; ora tocca alla Mansueta ed a Baccio; però un'altra occhiatinina può giovare. Ci vado. Quando il farmacista fu partito, don Luigi mi stese nuovamente la mano, e stringendo con effusione la mia, mi invitò a sedere sul banco di pietra. - Mi sembrate preoccupato, disse guardandomi in faccia dopo uno scambio di parole che era durato una diecina di minuti. Ditemi, per carità, che cosa vi ha tolto la ciera contenta di ieri sera? avete dormito male? vi è nata qualche contrarietà? parlatemi come a un vecchio amico, mio caro, giacchè voi siete già tale per me ... - Preoccupato, risposi, oh! no, davvero! È questa lieta novità di spettacolo che mi distrae: ho dormito a meraviglia, ho visto dei soggetti di pittura magnifici, tutto mi sorride e mi piace, sono vostro in corpo ed anima, e vi avverto, don Luigi, che il giorno di lasciar questa casa non è molto vicino. - E se occorresse barricarla, per allontanarlo di più, son io quello che la muterei in fortezza, sclamò il curato, a cui il lettore s'accorgerà che io non avevo detta tutta intiera la verità. I miei occhi non potevano togliersi da una macchia di castagni sovrastante al giardino, sotto la quale, da cinque minuti, era venuto a sedersi il terribile sindaco, armato di un grosso volume nero nero, e seguito da un figuro che la lontananza non mi permetteva di ben definire. Nella posa di quei due uomini raggomitolati sotto quelle fronde, v'era un non so che di truce, di misterioso, che mi sgomentava. La testa del sindaco, china sul libro, seguiva affannosamente la mano dell'altro che pareva leggesse; e di tanto in tanto si alzava verso il presbiterio, ed erano allora due pugni chiusi che si appuntavano nella stessa direzione. Per quanto mi fosse doloroso il togliere don Luigi alla sua calma allegria, non potei resistere al bisogno, che mi pareva dovere, di additargli quello strano gruppo, pur tacendo delle cose udite in cantoria. - Don Luigi, gli dissi, studiano molto le vostre pecorelle. Guardate lassù quelle due: si direbbero studenti di Università alla vigilia degli esami. Il povero vecchio alzò gli occhi, guardò, ravvisò, e un tremito gli corse sulle labbra, e un pallore, non so se di collera o di paura, gli coperse la faccia. Balbettò, per rispondermi, poche parole ch'io non compresi, e si alzò. - Entriamo in casa; oggi conoscerete tutti i notabili del villaggio. E mi precedette passandosi a più riprese la mano sulla fronte. Io mi sentiva l'anima oppressa.

. - Perchè dunque vi ha abbandonato nelle mani di uno che non ha nessun affetto per voi? ... - Oh non è stato lui, ne sono sicuro ... quel giorno che io lasciai la mia queta stanzuccia del Presbiterio, egli mi prese in disparte mi abbracciò stretto e piangendo mi disse: - Povera creatura, mi ti vogliono levare e mi strappano il cuore, io ti terrei tanto volentieri. - Poi si fe' promettere ch'io sarei venuto spesso a trovarlo e che in ogni mio bisogno avrei ricorso a lui. E diffatti tutte le volte che ha potuto in qualche modo aiutarmi egli l'ha fatto ed io gli devo tutte le poche gioie che m'ebbi in questi otto anni di purgatorio. - Ma colui là, il sindaco, vi reclamava forse? - Non so ... se l'ha fatto non è stato certo per tenerezza ... e, ne son sicuro, nemmanco di sua volontà. Ricordo perfettamente tutte le circostanze che precedettero e accompagnarono la mia disgrazia: c'è di mezzo un mistero che non ho mai potuto penetrare. Otto anni sono, in aprile, il Vescovo venne a Sulzena ad impartir la cresima e si intrattenne due giorni al Presbiterio. Lo accompagnava un canonico, parente del signor Bazzetta; andò ad alloggiare da costui e la sera stessa dell'arrivo lo condusse qui a parlare con Monsignore. Veggo ancora lo speziale vestito in abito di cerimonia farsi strada in mezzo alla gente che ingombrava la soglia ed entrare tutto superbo del singolare favore. Non so perchè ho sempre sospettato che quel ciarlone sia l'autore dei miei mali. Il mattino seguente di buon'ora fui svegliato da un discorso animato che si teneva sotto il mio bugigattolo, nella stanza del Vescovo, quella stessa che adesso voi occupate. Monsignore faceva ad intervalli non so quali domande, brevi, come quelle di un confessore o di un esaminatore; il curato rispondeva sommesso, - non sentivo che il mormorio confuso delle sue parole, - seguivano delle lunghe pause. Ad un tratto il curato proruppe con maggior vivacità; - «ma io feci a fin di bene» e la voce del Monsignore incalzava tosto più severa, più diffusa e accentuata, persisteva su certe parole che venivano sino al mio orecchio: decoro… convenienza ... riguardo. Poi tacquero entrambi; io sentivo dallo scricchiolar degli scarpini nuovi sul pavimento di legno che Monsignore passeggiava, Dopo mezz'ora il colloquio ricominciò: e vi si era aggiunto una voce, quella cupa del signor Angelo. Egli pareva preso da una gran collera, che frenava a stento e che irrompeva in esclamazioni e in interiezioni. Il Vescovo lo riprendeva vigorosamente ogni volta, e continuava a parlare in tono di rimprovero. Mi ricordo d'aver inteso il signor Angelo a strillare: - le prove, le prove, - e Monsignore rispondergli con recisa fermezza: - le prove ci sono, le abbiamo. In quella Mansueta venne a prendermi; mi vestì in furia e mi condusse abbasso: la buona zia mi parve più amorosa del solito: era inquieta - ed anch'io lo ero. Il colloquio durò quasi due ore: finalmente il signor Angelo discese, quel suo viso sinistro che ci faceva scappare noi bambini, era sconvolto dal furore. Io mi trovavo sulla soglia e non fui in tempo a cansarlo: egli mi diè un gran calcio che mi mandò ruzzoloni sui ciottoli della strada. Fu quello il suo primo atto di autorità a mio riguardo. - Voi sapete che non è stato l'ultimo di tal genere ... Povero ragazzo, mi faceva compassione. Era tanto avvilito che non poteva neppure nutrire rancore contro il proprio aguzzino. Egli continuò: - Qualche giorno dopo, la zia cominciò a parlarmi di andare col signor De Boni. Aggiunse per ispiegazione che egli era parente del padre mio e che egli voleva così e ch'io dovevo obbedire. Figuratevi il mio spavento; gridai, piansi, - la zia cercò di tranquillarmi dicendo che il signor De Boni, se ero saggio, mi avrebbe trattato bene, che mi avrebbe portato amore ... ma finiva sempre col piangere desolatamente; non credeva nemmanco lei a quelle sue parole. Un giorno fui condotto dal cavallante nel seminario di Novara. Quando, sopraggiunto l'autunno tornai a Sulzena, entrai per la prima volta in casa del signor Angelo; egli mi trattò sempre come un cane malvisto. Le mie vacanze sono una tal tortura che io anelo sempre al collegio come ad una liberazione. Dopo una pausa conchiuse: - Ecco tutto quel che conosco della mia storia: nessuno mi ha mai detto qual sia il diritto che vanta sulla mia persona il sindaco - e che egli esercita con tanta malavoglia come fosse il più odioso dei doveri. - Ma voi, - dissi io, senza riflettere, spinto dalla curiosità, ma voi che ne pensate? La domanda era indiscreta e me ne accorsi subito e studiavo il modo di ritirarla ... ... Ma, con mio stupore, il giovinetto non se ne adontò punto; - mi guardò con amichevole timidezza come volesse farmi una confidenza e rispose misteriosamente: - Ho paura che la mia parentela con colui ..... sia assai più stretta di quel che volesse farmi credere la zia. Questo sospetto è il mio tormento, la mia disperazione. Nei suoi frequenti accessi di collera il Sindaco mi da i nomi più oltraggiosi mi chiama ... mi chiama ... voi capite; - urla che sono la vergogna della sua casa, - ed io domando bestemmiando perchè Dio congiunga coloro che non possono volersi bene ..... Un lampo di odio sfolgorò nelle sue pupille e tosto si spense nella triste rassegnazione di prima, le sue parole terminarono in un angoscioso singhiozzo. Come il fiotto del torrente mi parve lugubre in quel punto! - Usciamo fuori, dissi io, e quando fummo all'aperto, e che l'aspetto sereno del cielo, la vista dei monti rivestiti dal raggio di un roseo tramonto ebbe dissipata un po' la mia commozione, presi il mio compagno a braccetto e, sforzandomi di dare una gaia intonazione alla mia voce, gli dissi: - Ringrazio il caso che mi ha condotto a pescare un amico in fondo alla cascata. - Forse non è il caso ... soggiunse l'abatino. - Può darsi non sia il caso. - È la prima volta che mi accade di parlare di queste cose con alcuno e mi ha fatto bene. Questa dichiarazione non mi meravigliò punto. Egli non era il primo a farmela e non fu l'ultimo: ebbi molte volte a ricevere confidenze da gente che mi vedevano per la prima volta. Io sono stato così il depositario di molti dolori. È una triste prerogativa: ho dovuto persuadermi per esperienza mia e per l'esempio di quelli che la dividono con me che non è segno di fortuna: è una attrattiva che una sciagura esercita su altre sciagure. In tutti i casi consimili non è mai stato mio vezzo di far del sentimentalismo: ho veduto che i dolori sono come i ragazzi viziati: più li accarezzi e più si fanno impertinenti. Io preferisco strapazzarli: è una cura quasi sempre efficacissima. Però rivolto all'abatino dissi: - Badate però ch'io voglio sgridarvi; alla nostra età la rassegnazione è, scusate la parola, dappocaggine, La vostra condizione vi par un mantello troppo pesante? ebbene gettatelo dietro le spalle. Il mondo ha tante strade, sceglietene una, e tirate innanzi senza voltarvi indietro. Mi guardò stupito: nessun pensiero di ribellione aveva mai attraversato quel suo animo umile e mansueto. Si strinse a me rabbrividendo. Superbo di farla da Mentore o meglio da Mefistofele, io ripresi: - Il signor Angelo vi tratta come un cane; mostrategli che siete un uomo col respingere i suoi oltraggiosi beneficii; lasciate la sua casa, buttate il suo pane e fate da voi. - scommetto ch'egli non vi correrà dietro a farvelo accettare per forza. - Guardate, dissi poi, accennando al libro di Rousseau che faceva sempre capolino dalla sua tasca, voi avete lì un bell'esempio. Non vi fermate alle sue melanconie, ai suoi piagnistei: guardate al sodo della sua vita: tutte le volte che Gian Giacomo ha voluto cercare il successo, il successo gli è venuto incontro: colpa sua se sovente egli l'ha rinnegato per rinchiudersi daccapo nella chiocciola della sua pigrizia. Eravamo così arrivati a Sulzena. Fin là l'abatino aveva camminato al mio fianco dritto e spedito. Ma all'ultimo svolto del sentiero, quando apparvero le case del villaggio e più eminente da una parte del paese, solitaria, più vasta ma non più appariscente dall'altre, quella del signor De Boni - non potè contenersi. Tolse il suo braccio di sotto al mio e fe' capire colla sua inquietudine che non voleva essere visto in mia compagnia. Non insistei e lasciai che prendesse un viottolo di traverso che girava dietro alle case. - Ci rivedremo, caro ... come ti chiami? gli domandai. - Il sindaco mi fa chiamare Ignazio, per un suo fine di ironia, ma il mio nome è Aminta. - Curioso nome! ... vuoi ch'io venga a prenderti qualche volta? - No, fu lesto a rispondere, verrò io. E così ci separammo amici, di quella vecchia e durevole amicizia che a dieciott'anni si fa in un'ora.

Rientrando dopo le sue lezioni per riaprire i dotti volumi, egli spogliavasi per così dire la pelle del maestro e ridiventava il pensatore; se sotto quella pelle alcuno sguardo indiscreto avesse potuto scoprire quest'ultimo, egli se ne sarebbe sentito abbandonato completamente; gli pareva che l'Idolo lo avrebbe guardato con faccia meno benevola, gli pareva che lo avrebbe profanato. La fortuna gli arrise. Non era scorso un anno e la sua fama di professore aveva già fatto il giro delle sale più aristocratiche di Londra, sicchè egli aveva ormai abbandonato l'uggioso e gretto insegnamento delle lingue per non dar che lezioni di lettere e di estetica, lezioni che gli venivano largamente retribuite e che, introducendolo, intermediarii l'ingegno e la coltura, nelle più cospicue famiglie, dovevano trovar preparata al medico futuro una vasta e invidiabile clientela. Gli agi non lo tolsero alla sua vita di privazioni; anzi affilarono, per così dire, l'aculeo che lo spingeva allo studio, talchè in due anni egli fece ciò a cui altri non sarebbe riuscito di fare, in doppio spazio di tempo. Pochi mesi mancavano al giorno in cui sarebbe stato in possesso di tutte le patenti volute dalla legge per professare la scienza salutare, quando un avvenimento sopraggiunse che doveva decidere di tutta la sua vita. Una delle famiglie con cui per mezzo delle lezioni egli era entrato in più intimi rapporti, - rapporti direi quasi di dimestichezza se dimestichezza fosse possibile fra inglesi e stranieri, - era la famiglia di Riccardo Hutley, antico capitano della Grande Compagnia. Arricchitosi di molto nelle Indie, il vecchio viaggiatore terminava in una quiete ben meritata la laboriosissima vita, in uno dei più begli appartamenti della City, educando principescamente insieme colla sua signora, l'unica figlia, miss Jenny, una fanciulla di dieciotto anni, un miracolo di virtù e di bellezza. Oltre le ore dedicate alla lettura e ai commenti dei nostri poeti a fianco di miss Jenny, erano molte quelle che il giovane De Emma passava nelle sale da pranzo e di conversazione e in quella del bigliardo, invitato con sempre maggiore frequenza dal capitano che aveva preso stranamente ad amarlo. Il vecchio scorridore dell'Oceano prendeva un gusto da non dire udendo il professore leggere le terzine di Dante; mai, egli andava dicendo a chi voleva o a chi non voleva sentire, mai egli aveva meglio provato l'influenza dei versi ... e notate che non capiva una sillaba di italiano! Bizzarria britanna! Frequentando così assiduamente quella famiglia, obbediva egli ad un sentimento di cordialità, di gratitudine? Tutti i colleghi che conoscevano quel giovane sempre pensieroso, sempre accigliato, il quale, - finite le ore dello studio non divideva cogli altri le lietissime dell'andarsene a zonzo, - che adocchiava, dalle vetrine dei librai, - le nuove edizioni, - nella attitudine di Adamo davanti al frutto proibito. - Tutti quei giovani inglesi lo guardarono, lo contemplarono, e finirono per ammirarlo. L'idolo è custodito: ecco perchè i passi di De Emma furono seguiti da altri passi. Quella frequenza contraria alle parche abitudini del giovane italiano, nella casa del vecchio capitano fece dire, dopo poco tempo, ad un primo. - È innamorato di miss Jenny! - È il suo amante, - ripetè il secondo. - Quel vecchio babbeo! ... osservò il terzo. E così di seguito. Che c'era di vero in tutto ciò? Eccolo detto in poche parole: De Emma non era l'amante di Jenny, il padre di Jenny non era un babbeo; ma il primo interlocutore aveva ragione. - De Emma era innamorato. E il padre di Jenny se ne accorgeva. Innamorato senza volerlo, quasi senza saperlo; come si è innamorati per la prima volta; innamorato non tanto della creatura come della poesia che ella espandeva; assorto in questa come in una visione; infelicissimo quasi sempre e più che mille volte felice in un giorno. Venne l'ora in cui constatò la propria malattia, e se ne atterrì come mai forse non si era atterrito al capezzale di nessun infermo. Due soli rimedii potevano salvarlo: uno d'ambrosia, l'altro di tossico; al primo non poteva, non doveva nemmeno pensarci; quanto al secondo, c'erano novantacinque probabilità su cento che invece di guarirlo lo avrebbe ucciso. De Emma scelse quest'ultimo. Il giorno stesso in cui si era convinto della dolce e crudele verità, egli ricevette un invito come al solito dettato nei termini della più squisita gentilezza, in cui lo si invitava in campagna ad Hutley House, per l'indomani; era sottoscritto «Jenny». Il povero giovane rispose immediatamente di non poter aderire all'invito attestando occupazioni che gli avrebbero reso necessario per assai tempo il soggiorno alla capitale. È vero che lacerò per ben tre volte il biglietto prima di poterlo scrivere in modo che la sua disperazione non trasparisse dalla sconnessione delle frasi e dei caratteri. Quel giorno errò come un pazzo per le strade e pei parchi preceduto da un fantasima di fanciulla dagli occhi azzurri e dai lunghi, disciolti capelli biondi, che ora pareva sorridergli con ingenua famigliarità, quasi facendogli coraggio a seguirla, ora sembrava comporre a corrucciata espressione l'angelica faccia, come chi vorrebbe rimproverare e non osa, e tiene il broncio di fuori e di dentro ha il rovello. Quella notte la visione sedette davanti a lui, insonne e febbricitante, nè lo abbandonò che coll'alba, quando l'orologio della torre lo richiamò dalle plaghe della inesorabile fantasia ai solchi della crudele realtà. Ma i libri su cui si gettò come si precipita sulla fontana il pellegrino assetato non erano più quelli del giorno prima: che insipida presa, che gelata selva di formule, che arida landa di dubbii, di supposizioni, di errori! Come mai tutto ciò aveva potuto, per tanto tempo, formare la sua delizia, il suo orgoglio, l'esistenza sua tutta intiera? Egli si vide allora spalancato un abisso in cui si sentiva irresistibilmente trascinato; come un ragno a cui la verga di uno spensierato fanciullo abbia infrante tutte le fila cui era sospesa la pensile dimora. Fu dapprima uno sgomento inenarrabile, una perturbazione spasmodica, se così è lecito esprimersi, di tutte le fibre dell'animo suo; uno stupore, una meraviglia, di sè, degli altri, di tutto, come sarebbe quella di un uomo che addormentatosi tranquillamente nel proprio letto, si risvegliasse d'improvviso sull'ultima vetta dell'Imalaia, o all'estremo confine delle sabbie del Sahara. Questi dolori sogliono condurre per mano la pazzia a destra, a manca l'abbrutimento: la rassegnazione sta in mezzo talvolta ..... ma è una rassegnazione forse meno invidiabile dell'abbrutimento e della pazzia. Guardata faccia a faccia la via del dovere, l'angusta via del dovere come la chiama il poeta, quella che lo separava per sempre da Jenny, il giovane De Emma non trovò il coraggio di batterla che esagerandone le scabrosità, moltiplicandone le spine, tenendo a bella posta aperte e sanguinolenti le piaghe che gli rallentavano il cammino. Il suo dolore a poco a poco andava trasformandosi in voluttà. Come il viaggiatore del deserto, sorpreso dalla notte, poichè ha acceso un gran fuoco onde tener lontane le bestie feroci, per paura di addormentarsi si abbrucia un dito, e come appena lo spasimo è cessato, lo riabbruccia, e così continua finchè l'alba tropicale non spunti in suo aiuto; così il signor De Emma cercava la propria salvezza, e, povero illuso, credeva trovarla, martirizzandosi nella fiamma fatale di quell'amore; nè si accorgeva che in tal modo, lungi dall'allontanarli si riscaldava e rinvigoriva ogni sorta di mostri nel cuore. Ragionava, sillogizzava sulla sua passione; ciò che è terribile. Si arrestava, avvolto in certi pensieri che, se altri avesse potuto leggergli dentro all'involucro cerebrale avrebbero fatto dubitare della sua ragione. Continuava, ma macchinalmente, gli studi di medicina; il resto del tempo impiegava (oh dov'era l'uomo serio d'una volta!) rileggendo e meditando le istorie innumeri degli amori e degli amanti infelici. Con esse cominciò ad insinuarsegli nell'animo il veleno che dalle pagine sublimi del Werther e dell'Ortis si era versato in tutta la letteratura dell'epoca. La sirena del suicidio venne a cantargli nell'animo le sue terribili ed affascinanti canzoni. Accade in questi rabbuiamenti del senso morale come nell'orgie: il ritornello vi trascina. E il giovine De Emma si trovò una brutta notte a ripeterlo colla passiva incoscienza dell'uomo soggiogato da una fissazione sopra il parapetto del Tamigi. Pioveva una belletta negra, figlia dei nembi e della caligine delle officine. L'acqua del fiume correva densa, scura, con dei vaghi riflessi plumbei. Scena atta veramente a disgustare del mondo. Egli diceva fra sè, con tutta calma, che non c'era ragione di rimanervi. Ma s'ingannava: per sua buona sorte, la ragione ci fu e tale da riconciliarlo perfettamente con la vita. A sua destra, lontano una cinquantina di passi, le finestre illuminate di una palazzina gettavano sulla superficie liscia, oleosa del Tamigi i suoi riflessi simili a pezzi di tela sudicia. Subitamente gli colpì l'occhio di sbieco qualcosa di bianco che scendeva tuffarsi là dentro. E, fra lo scroscio sordo e pigro dell'onda e il rombo cupo delle macchine che rantolavano la loro veglia, distinse un tonfo leggiero. Non ci avrebbe posto mente (aveva ben altro per il capo) se non ne fosse seguito una specie di tumulto nella casa vicina. Si gridava aiuto, accorreva gente con delle lanterne, si staccavano delle barche. Si mosse istintivamente e discese anch'egli alla riva. Sul fiume era cominciata la ricerca; tre barche in crocchio scendevano la corrente e, in mezzo ad esse, qualcuno gettavasi a nuoto e tuffavasi: a brevi intervalli, quando veniva a galla, i barcaiuoli gli gettavano dei monosillabi di consiglio, di avvertimento. - Si trattava certo di qualcuno caduto nel fiume. De Emma, in mezzo alla folla raccolta sulla sponda, guardava, aspettava con grande ansietà: avrebbe voluto essere dalla partita di salvataggio. Cosa strana; il sentimento della vita spento dal tedio della propria esistenza, rinasceva in lui dalla compassione per quell'infelice. Finalmente una esclamazione venne dal fiume ad annunziare il successo dell'impresa. Una barca si staccò innanzi alle altre e si avvicinò rapidamente alla riva. Recava il corpo inanimato di una donna. I barcaiuoli la portarono in una casupola vicina. e chiusero i battenti dell'uscio in faccia alla curiosità invadente della folla. Dopo qualche minuto, un finestrello s'aperse; una voce gridò: - Un medico! ... - Eccolo, rispose De Emma, che era rimasto là in mezzo. L'uscio si riaperse e fu introdotto nella camera. La donna distesa sopra un mucchio di reti non s'era punto riavuta. Egli si assicurò che il cuore le batteva fievolmente. Era giovane e bellissima: indossava una splendida veste di raso bianco e aveva un stupendo monile di brillanti al collo. Quella brava gente aveva esaurito senza frutto tutti i soliti mezzi empirici per richiamarla alla vita. De Emma si curvò e, posate le proprie labbra sulle sue, con quanta forza aveva nei polmoni inspirò a più riprese nel petto della giovane. Dopo un quarto d'ora un debol soffio indicò che le funzioni respiratorie si rianimavano. Due o tre curiosi erano riusciti a penetrare in casa col dottore; mentre egli era curvo intento all'operazione sporgevano il capo sopra le sue spalle per vedere. Uno di essi, un vetturale della vicina stazione, sclamo: - Tò la ballerina della palazzina verde. Qualcun altro confermò le sue parole. De Emma domandò: - Sta qui vicino? - A due passi. Il luogo non era adatto alle cure necessarie nella crisi che stava per dichiararsi. Per suo ordine i barcaiuoli la presero e la trasportarono in casa sua. Colà nessuno s'era accorto della sua assenza; un servitore che dormiva in anticamera si alzò in soprassalto e, tutto sbalordito, li guidò nella camera della signora. Attraversando l'appartamento la triste comitiva si imbattè nel finale di un banchetto d'uomini. Nella sala da pranzo dormicchiavano distesi nella posa di volgari ubbriaconi lords e gentlemens dei più noti del gran mondo. I meno cotti, all'inatteso spettacolo, pensando si trattasse di una burletta di quella matta di Rosilde, che quella sera li aveva invitati, come diceva il biglietto «all'ultima cena» levarono alte risa e batterono le mani; e afferrato un candeliere fecero scorta recitando le preci dei defunti. Figuratevi come rimanessero quando si accorsero che la cosa era pur troppo seria. Due, che giocavano in un salotto attiguo, assorti nella loro partita non intesero e non videro nulla: nel silenzioso stupore di quel momento si sentivano distintamente le loro irose osservazioni. Un reporter di un giornale del mattino scarabocchiava in un boudoir il suo cenno descrittivo. Fu il solo ad afferrar subito il vero: ma, avvezzo per professione a non meravigliarsi di nulla, seguì colla matita sulle labbra il convoglio, ne osservò i particolari, assunse a bassa voce minute osservazioni e tornò tranquillamente a terminare l'articolo, felice di potere nella chiusa impreveduta di esso regalare ai suoi lettori una ghiotta primizia. Il dottore riuscì non senza stento a congedare tutta quella marmaglia in giubba nera e non permise di rimanere che al barcaiuolo che avea pescata la giovinetta. Dopo un'ora di sforzi Rosilde cominciò davvero a riaversi. Aprì gli occhi, e al ritrovarsi nella sua camera, fe' una smorfia di disgusto. Volle sapere come c'era tornata e bisognò contentarla. Quando il signor De Emma ebbe terminata la sua breve relazione, lei si tolse dal collo il monile di brillanti e porgendolo al barcaiuolo: - Prendi, spetta a te; io l'avevo portato per chi avesse ripescato il mio cadavere. Tu mi hai servita un po' troppo sollecitamente, - ma non importa, la colpa è dello stupido mio destino. - Quanto a voi, disse poi al dottore, non vi date troppo fastidio, il miglior servizio è lasciarmi finir presto. De Emma, nella sua passione di medico, non si sgomentò per questo. Non vide in lei che un organismo da conservare a dispetto della sua volontà e prese a cuore il suo compito. Per parecchie settimane fu una guerra continua fra il medico e l'inferma. Egli faceva valorosamente il suo assedio, ed ella, benchè soggiogata da quel fermo proposito, si schermiva con delle segrete astuzie, con delle resistenze dissimulate. Però la crisi fu più lunga di quello che il dottore si riprometteva: quando credeva d'averla vinta scoprì d'aver di fronte un nemico formidabile. La Rosilde era affetta da un serio male di cuore che il suo tentativo di suicidio aveva aggravato. Era questa la causa della sua disperata risoluzione; la disperazione di guarire l'aveva buttata nelle braccia della morte per finirla colle ansie, colle terribili delusioni di una lenta consunzione, che pareva inevitabile. Quel giorno Rosilde gli gettò come una sfida queste dure parole: - Per far tanto armeggio bisognerebbe almeno sapermi rifare questo ordigno guasto. E picchiava coll'indice sul suo seno ansimante per l'asma, eh! che ne dite, patria? - Lo spero, rispose gravemente il De Emma con una sicurezza che non era punto una simulazione. - Davvero? ebbene proviamo. Da quel giorno fu di una docilità assoluta. Ella amava la vita. Il romanzo della ballerina del Covent-Garden, rivestito di tutte le grazie letterarie dei giornali, corredata delle ipotesi e delle spiegazioni con cui si fabbrica il mistero, menò grandissimo rumore. Tutti gli amici vennero a trovarla; molte notabilità vollero esserle presentate: ella fu per due mesi grandemente alla moda. Malgrado il divieto del medico, per due ore il giorno si teneva nella stanza di lei una sceltissima conversazione. Un po' la nuova speranza, un po' la cura del De Emma cominciavano a trionfare del male. La giovinetta rifioriva. Quelli che sapevano della sua malattia dichiarata incurabile da due celebrità mediche del paese ne facevano le meraviglie. Quando essi la complimentavano della sua guarigione, essa rispondeva: - Non so nulla io, è tutto merito del mio genio taciturno. Voleva dire il De Emma. Nessuno l'aveva mai veduto. Qualche volta egli veniva mentre c'era gente; e la Rosilde s'alzava per ricevere il «genio»; di solito rientrando congedava seria seria la compagnia. Si cominciò a scherzare del misterioso personaggio: poi ad esserne curiosi. Il baronetto Mac Snagley aveva un fratello che soffriva di cuore: pregò Rosilde di presentargli il suo medico. De Emma ebbe la sorte di guarire il giovinetto Arturo Snagley, idolo della famiglia. La sua riputazione si estese nella alta società di Londra. Parecchie altre cure felici finirono per metterlo in voga. La sua non era soltanto fortuna. Per il primo aveva indovinato, allora al tempo delle cliniche dirette e operative, l'importanza dell'igiene nella cura delle lente alterazioni organiche: non violentava il male, aiutava indirettamente la natura a correggerlo, a sopprimerlo. La novità del suo metodo, la gradevole facilità di eseguirlo aggiungevano attrattiva alla sua assistenza. Quando venne la primavera Rosilde per suo consiglio affittò un grazioso villino dalle parti di Brighton. L'aria aperta, la quiete della vita campestre compierono la sua guarigione. De Emma le rare volte che fu colà a visitarla si confermò nella certezza di avere rimosso definitivamente ogni minaccia del male. Gli istinti della sua prima giovinezza avevano ripreso il dominio della sua vita, Ella ritornava la gaia fanciulla di Castelletto. Aveva stretto relazione con la moglie del ministro e l'accompagnava nelle sue visite di beneficenza per le capanne dei contadini. Qualche volta ne invidiava ad alta voce gli uffici. I suoi sentimenti di donna e di campagnuola vi avrebbero trovato intera soddisfazione. Ella e De Emma si dovevano scambievolmente la vita. In lui i tristi fantasimi del suicidio eransi dissipati dinnanzi all'amore rinato della scienza e alla fiducia in sè stesso, - a ciò venne dopo qualche mese ad aggiungersi un alleato anche più poderoso. Una mattina di estate, all'ora in cui il dottore era solito ricevere in casa, il servo introdusse un signore nel quale il dottore ravvisò non senza meraviglia il signor Hutley, il padre di Jenny. Costui gli tenne questo strano discorso: - Voi siete un orgoglioso: avete lasciata la mia casa dove tutti vi volevano bene; ora io vengo umilmente a pregarvi di ritornare. Zitto, non ricusate, vi scongiuro; mia figlia è malata; voi siete medico, guaritela. Nessuno seppe mai bene come terminasse questo colloquio; pare che i due si trovassero nelle braccia l'un dell'altro. La stessa scena dovette ripetersi la sera in casa del signor Hutley e c'era presente una giovanetta un po' pallida che singhiozzava di gioia. Il dottore De Emma sposò poco dopo la sua Jenny; e partì con essa per un viaggio sul continente. Ma, come dicono i contadini, il Signore non vuole nessuno contento. Furono richiamati tosto a Londra dalla triste notizia che Hutley era stato colpito da una apoplessia. Gli sposi tornarono appena in tempo di ricevere la sua benedizione. Dopo la morte del padre, Jenny fu colta da una così profonda malinconia che il marito pensò a levarla dai luoghi che le rammentavano troppo vivamente la disgrazia. E Jenny accettò con viva riconoscenza la proposta di venire in Italia. Il dottore aveva ereditato in Lomellina da un lontano parente una vistosa tenuta: e poichè egli poco ambizioso, tutto assorto negli studi scientifici poco ci teneva alla sua clientela risolvettero di fissare la loro dimora a Zugliano, dove avevano passati i momenti più lieti del loro viaggio di nozze. Frattanto De Emma aveva, se non dimenticata, almeno perduta di vista la Rosilde. Solo aveva risaputo ch'ell'era tornata verso il fine dell'estate a Londra ed era risalita sul palcoscenico. Egli si proponeva di recarsi a salutarla prima di lasciar l'Inghilterra ma preoccupato dei preparativi della partenza rimandava di giorno in giorno la visita. Una mattina, era pressapoco l'anno da quella sera lugubre del loro primo incontro, ricevette l'invito dì passare da lei. La poveretta era ricaduta malata: l'aria pesante di Londra e gli strapazzi del palcoscenico avevano risvegliate le sue sofferenze di cuore. Il dottor De Emma ebbe rimorso di abbandonare così colei che era la causa di ogni sua fortuna, e si trattenne tutto quell'inverno. Anche allora egli riuscì a scongiurare la crisi minacciata. Le sue cure vinsero la violenza del male. Verso il fine di febbraio Rosilde tornò a stare meglio, ma era tanto debole stavolta, tanto sfinita che la convalescenza progrediva molto stentatamente. La rigidezza dei clima la teneva in continue oscillazioni. Il dottore pensava con viva inquietudine ai venti e alle pioggie del marzo imminente. Una settimana di tempesta poteva uccidere l'Inferma. Allora egli suggerì il ritorno in Italia. Rosilde non disse nè sì nè no, ma non si decideva mai. Il dottore indovinò il segreto motivo della sua esitanza. Ella non aveva più parenti all'infuori di Mansueta che stava a servire dal curato di Sulzena: la malattia aveva esauriti quasi interamente i suoi risparmi. In Italia come e dove avrebbe vissuto? Il dottore ne parlò a Jenny, le ricordò le obbligazioni ch'egli aveva alla Rosilde, gli confidò il suo stato e la pregò di trovar modo di aiutarla. La giovine sposa, buonissimo cuore, interpretò rettamente e liberalmente il suo desiderio. Si recò essa stessa dall'inferma e tanto fece e tanto disse che l'indusse a seguirli in Italia. Per qualche mese le cose andarono a meraviglia, l'accordo delle due giovani pareva perfetto; quando Rosilde parlava di partire i signori De Emma le davano sulla voce, ed ella messi da parte i pensieri dell'avvenire accettava con gioia la generosa ospitalità. Ma, dicono i montanari, due galli in un pollaio, due donne in una casa non fanno il paio. Il sereno non tardò ad intorbidarsi. Colla salute rinverdiva la mirabile bellezza di Rosilde; la sua fisionomia vivace, espressiva, gareggiava vittoriosamente colla figura forse un po' tranquilla di Jenny. Tutti ne parlavano in Zugliano e nei dintorni; facevano dei confronti, aggiungevano delle supposizioni che appunto per il loro carattere di maldicenza trovavano larga e pronta accoglienza. Qualche ciarla cominciò a salire fino all'orecchio della signora De Emma. Ella cominciò a dubitare, poi a sospettare. Il sospetto è un miraggio che ha l'aria di una rivelazione. Tutte le cose pigliano attraverso a quello un'apparenza menzognera che, per disgrazia, è più verosimile del vero, s'incontrano in una logica più stretta perchè più artifiziale della realtà. La effusione tutta italiana con cui Rosilde manifestava al dottore la propria riconoscenza, parve a Jenny, più contegnosa, l'espressione di un sentimento più caldo e meno lodevole. Essa vide in lei non già una rivale, ma una minaccia al suo avvenire, alla tranquillità della casa; e la sua amicizia per Rosilde al soffio gelato della gelosia inaridì. Tuttavia non trascese in volgari ostilità: dissimulò nobilmente il suo sospetto, il suo timore, tutto, fuorchè una cosa, la sua freddezza. Ma questa bastò a Rosilde per indovinare tutto il resto. La triste scoverta la fe' pensare ai suoi casi, alla precaria sua condizione, all'incerto avvenire, ma sovr'ogni altra cosa all'umiliazione di essere a carico de' suoi ospiti. A tutta prima ella, come poi confessò al dottore, ebbe un accesso di odio per colei che coi suoi sospetti veniva a turbar la sua quiete: ma si persuase poi che la signora De Emma aveva ragione. Rosilde era innocente: aveva invidiata la felicità della casa in cui era stata raccolta ma l'aveva rispettata: non mai il suo cuore erasi aperto a delittuosi desideri. Voleva bene al dottore come ad un amico, ad un fratello maggiore com'egli si mostrava con lei: i loro caratteri entrambi risoluti, franchi, fieri non eran fatti per amarsi diversamente. L'amicizia si contenta spesso della somiglianza, l'amore esige quasi sempre l'antitesi dei caratteri; cerca l'armonia nelle differenze. Per invaghire un'indole così vivace e quasi virile come quella di Rosilde ci voleva un animo più tenero, più pieghevole, direi quasi più femmineo Ella deliberò di lasciare senz'indugio la casa De Emma e annunzio a tavola il suo divisamento senza preamboli, senza mezze confidenze, senza misteriose titubanze a tutti due i suoi ospiti insieme: disse che Mansueta l'aveva invitata a passare qualche tempo con lei e che intendeva recarsi a Sulzena l'indomani, - così senz'altro. Poi, con singolare tristezza, sorridendo, mutò discorso risparmiando al dottore l'imprudente ingenuità di farle delle preghiore e alla signora l'impaccio di nascondere la sua soddisfazione. Con lei si mostrò gentilissima, serena, volendo dissipare in lei persino l'ombra del dubbio. Questa fu la sua vendetta. Jenny ne fu commossa, Nel congedarla il giorno dopo non potè esimersi dal dirle: - tornerete? Rosilde le rispose: - A salutarvi. Molto probabilmente io lascierò di nuovo l'Italia. E le strinse la mano perfettamente tranquilla. Il dottore s'era accorto all'ultimo delle inquietudini della moglie e, contentissimo di essere liberato da una posizione molesta, si guardò bene dal rattizzarla con delle imprudenze. Riconoscente di tutto cuore a Rosilde della sua discrezione, finchè ella rimase a Sulzena, non cercò una volta sola di vederla. La ritrovò una sera per caso in quelle circostanze strane descrittemi dallo speziale. La povera giovine sorpresa nel proprio segreto gli contò allora la sua vita degli ultimi mesi, un romanzo di trista e funesta dolcezza. L'infelice s'era lusingata di tradurre in pratica il suo sogno di Brighton. La quiete del Presbitero l'aveva sedotta, ammaliata il carattere timido, pensieroso e malinconico di Don Luigi, allora giovane di aspetto e di forze malgrado i suoi quarant'anni sonati. Per certe donne l'amore non è che una forma più squisita della compassione: danno il loro cuore per un sentimento affine a quello per cui si farebbero suore di carità. Rosilde era di questi caratteri che pensano sempre agli altri e mai a sè stessi, che si guardano ansiosi intorno per trovare se c'è persona da soccorrere, da consolare e si feriscono spesso a morte per risanare il primo capitato da una scalfittura. La triste solitudine di quest'uomo così buono, così degno d'affetto la commosse. Ella non dava per sè stessa una grande importanza alle passioni amorose, ma come la madama Warens di Rousseau, e come la maggior parte delle donne, credeva che gli uomini non potessero farne senza, e veramente gli uomini che ella aveva incontrati, il mondo corrotto in cui aveva vissuto non potevano darle una più retta opinione. Perciò le pareva di scorgere nella vita di don Luigi un vuoto doloroso. Ella, così pronta a sacrificarsi senza chiedere ricambio, non capiva che si potesse fare di un'idea, di un sentimento soprannaturale l'interesse massimo della vita. Gli è che il suo cuore arrivava molto più in alto della sua mente incolta. Quando ella, nascosta dietro le stecche delle persiane o fra i cespugli del giardino, vedeva don Luigi appoggiarsi meditabondo al muricciuolo dell'orto, e là rimanere immobile per dell'ore colla fronte corrugata, gli occhi fissi alle cascatelle del torrente: poi levarsi repentinamente e passeggiare e poi fermarsi di botto e riprendere a camminare a passi ineguali, - ella s'immaginava che fossero le torture di un'indole passionata costretta a ripiegarsi dentro di sè. Ella non aveva torto interamente. La gioventù, ingagliardita dal lungo ritegno, tentava allora l'ultima e più formidabile ribellione contro le rigidezze del povero prete, mascherando i suoi assalti con quel misticismo, - potente e fuorviata sensualità delle indoli caste, - il quale penetra l'umana natura nelle sue più intime fibre, e la colpisce nell'arcano principio onde si congiunge l'elemento morale colla materia. Don Luigi attraversava quella crisi in cui il senso aggredisce la volontà violentemente, all'improvviso senza più avvertirla colle tentazioni, - e riesce spesso a sopraffarla. Egli andava inconsciamente contro il pericolo, dissimulato dai sintomi più diversi e più lontani. Sentiva un grande distacco dalle cose terrene, una stanchezza scevra di desideri, - eppure egli non era mai stato così debole di fronte ai piaceri mondani: non li temeva, perciò non stava in guardia. Così è, quando il vapore aderge troppo alto si scioglie e precipita nel rigagnolo. Qualche volta Rosilde sbucava fuori dal suo nascondiglio e andava raccogliendo fiori, camminando dall'una all'altra aiuola queta e silenziosa, come le premesse di non frastornar le sue meditazioni. Egli non tardava a scorgerla. Non l'evitava punto; la seguiva placidamente cogli occhi; guardava la sua manina bianca passar coll'agilità di una farfalla dall'uno all'altro cespo fiorito a farvi la sua preda, senza neppur farne cadere una stilla della rugiada che ne imperlava le fronde. Di solito se le accostava lentamente, e, mentre essa componeva ghirlande e mazzolini per l'altare, avviava con lei, senza sforzo, la conversazione. Parlavano dei fiori, del paese, ma nei discorsi più indifferenti trapelava l'alto pensiero di lui, il sentimento vivace di lei. Così poco alla volta, quel loro mattutino colloquio divenne una necessità della loro vita. Rosilde non mancò più di farsi trovare in giardino; e Don Luigi ci si recava dopo la messa inconsciamente per una abitudine che non gli costava nulla e gli era molto più cara che non credesse. Rosilde era uno di quegli eccezionali temperamenti di donna che, per la loro ventura, il poeta e il filosofo, - questi ossessi dell'idea e dell'immagine, - dovrebbero trovare sempre sull'aspro cammino della loro vita cogitabonda. Indoli fatte per riconoscerne, per ammirarne più che per capirne la superiorità. per tollerarne con pietosa e quasi inconscia abnegazione le debolezze, vigilanti alla felicità dell'uomo distratto dalle alte cure, pazienti ad attenderlo, sollecite ad aggiungere olio alla lampada della loro devozione come le vergini dell'evangelo. Nei primi giorni che ella passò al presbiterio malata, sfinita di cuore e di forze ella non vedeva Don Luigi che molto raramente; ma sentiva intorno a sè, in tutte le cose, la carità benefica delle sue premure, la sua pietà nobile, generosa, schiva di mostrarsi. Ad ogni momento Mansueta le usava qualche riguardo, qualche nuova cortesia, - e sempre ne attribuiva il merito al padrone: - don Luigi così ha detto, don Luigi ha pensato, don Luigi ti manda questo e quest'altro. Ell'erasi così bene avvezza alle dolcezze di quella casa che il pensiero d'uscirne la sgomentava tutta. Però quando, convalescente, ella venne a ringraziar don Luigi, comprendendo che per discrezione dovea prendere finalmente congedo, tremava e i suoi occhi erano assai più fecondi di lagrime che le sue labbra di parole. Ma il buon prete alle prime parole di riconoscenza la interruppe; il suo viso pallido arrossì subitamente dalla commozione, e scotendole la mano: - Che dite mai, che dite mai .... un piacere, un dovere .... Rosilde ebbe la soave, intima certezza che la sua presenza colà non era molesta, e non finì il discorsetto preparato e incominciato. Don Luigi aveva soggiunto: - Che volete, siete capitata in un eremo, e in un brutto mese; ma ora viene la bella stagione e vi ci troverete molto meglio: non manca in questa solitudine una certa selvaggia bellezza: vedrete dei luoghi di una singolare amenità. La giovinetta accolse queste parole con un sorriso di gratitudine, come la più cortese maniera d'invitarla a rimanere. Ma forse il sentimento che le inspirava era ancora più nobile. Ho dovuto convincermi per esperienza che don Luigi non pensava mai alla partenza dei suoi ospiti. La loro domanda di congedo era sempre per lui una sorpresa che, secondo i casi, combatteva con una viva e affettuosa resistenza, o, come nel caso mio, subiva come una triste necessità. Ella rimase dunque. Ispirata dalla calda sua riconoscenza, dalla indipendenza del suo carattere e della sua educazione bizzarra, si convinse che non solo era di troppo, ma poteva recare qualche conforto a quella malinconica vita di anacoreta, Ed aveva istintivamente abbracciato, prima che compresa la sua missione: - umile e sublime missione! Il suo mestiere l'aveva avvezza a riguardare sè stessa come un giocattolo: come uno svago, - ed ora, dopo aver rallegrato colle sue danze le noie di tanti oziosi e buoni a nulla, le pareva di nobilitarsi col fare omaggio di sè stessa a un uomo di merito e di cuore, ad uno che l'aveva ospitata, che le aveva usato riguardo senza esservi spinto nè dalla concupiscenza nè dalla vanità. Però fu con viva gioia ch'ella si accorse d'essergli cara. Ciò bastava al suo orgoglio e non aveva la pretesa nè di dare, nè di ottenerne amore. Era troppo modesta per questo. Certo ella non scandagliava troppo in fondo i proprii sentimenti, non notomizzava con analisi soverchiamente rigorosa l'effetto che produceva nel suo cuore lo sguardo affettuosamente grave di don Luigi, il suo viso allora giovanile e incorniciato da ricche ciocche ricciute di capelli nerissimi. Ella ci teneva a non farsi illusioni, - e forse questa sua modesta smania di realtà era la più grande, la più generosa delle illusioni. Però ella non la smentì mai neppure con sè stessa; se i desideri, i timidi suggerimenti del suo cuore si levarono alla fine contro di essa per dissiparla, - ella seppe vincerli, frenarli, farli tacere. Ella non pensò mai a calcolar sull'avvenire di lui e del presente non prese mai che le ore di riposo: e quando si avvide che ella poteva influire sul suo destino, nuocergli, ebbe il coraggio di .... Ma non precipitiamo gli avvenimenti. Rosilde e don Luigi si vedevano dunque regolarmente tutte le mattine. A quell'ora, dopo la messa prima, si faceva nel Presbiterio e nel villaggio una gran pace. Il campanile dopo aver confidato agli echi della montagna i suoi squilli di benedizione taceva. Baccio, svestito, coll'abito di sacrestia, il sacro carattere delle sue funzioni, usciva in campagna con tutta la sua famiglia. Mansueta attendeva al governo del suo pollaio: governo assoluto, personale, faccenda di colossale importanza. Essi rimanevano soli in mezzo alla vasta e gioconda quiete mattinale. Era giunta la primavera. L'aria olezzava di primolette e di viole. Nei campicelli scaglionati sui clivi, una verzura pallida annunziava colla lirica verginale delle sue tinte delicate l'epopea splendida delle spighe d'oro. In tanta gloria di cielo, in tanta serenità di paesaggio, i loro colloqui erano tutti tranquilli e lieti. Quantunque Rosilde avesse per don Luigi un grande rispetto, l'umiltà vera di lui, la sua repugnanza per ogni apparato. per ogni posa anche la più legittima della sua dignità, davano alla conversazione un tono perfetto di uguaglianza. Schivo di tutte le affettazioni, egli non la chiamava mai figliola e, neppure sorella, diceva senz'altro Rosilde. Egli, come io stesso ne feci la prova molti anni di poi, era anzi istintivamente disposto a riconoscere una certa superiorità nella gente che avesse vissuto nella città. L'attrattiva del mondo era allora anche più possente sulla fantasia dell'anacoreta. Riguardava con uno sgomento d'ammirazione quella debole giovinetta che aveva da sola attraversata quella vita che gli ascetici suoi maestri gli avevano paurosamente descritta come un vortice divoratore. Era una delizia inenarrabile il sentirla parlare dei suoi viaggi e Rosilde, vedendo che ciò lo divertiva, gliene parlava sovente. Poco alla volta il racconto della sua vita teatrale venne a frammischiarsi ai discorsi placidi dei primi giorni, e ad interromperli sovente. Don Luigi, affascinato, si dimenticava; si avvezzava senza volerlo, senza accorgersene, a carezzare col pensiero, sulla fronte bianca, sulle treccie bionde, sulle labbra rosee della bella narratrice, le malie, gl'incanti ch'ella gli suscitava colle sue parole dinanzi alla mente. Se qualche volta, sopraffatto dalle immagini lusinghiere, chiudeva gli occhi, riaprendoli trovava dinanzi a sè il sorriso sereno, soave di Rosilde. E, infine, sorrideva egli stesso, - e, in quel momento di debolezza, egli era vinto; il suo cuore, colto alla sprovveduta, cedeva al fascino di quella bontà e di quella bellezza. Nè l'uno nè l'altro aveva pronunziato mai la parola fatale; eppure l'idillio era incominciato: - e la passione per un sentiero sparso di fiori, molle di muschi trascinava la loro innocenza nei suoi abissi profondi. Oh se i loro cuori avessero conosciuto le cose per il loro vero nome: se l'amore non si fosse celato per lei sotto le sembianze della devozione, e per lui sotto quelle più candide dell'amicizia, nulla sarebbe accaduto. Se don Luigi avesse dovuto lottare, o anche solo formulare un'aspirazione, un desiderio ... egli avrebbe arretrato impaurito; la sua volontà allarmata avrebbe vinto. Ma nulla di tutto questo. Ella offriva. egli non aveva che a chinarsi per accettare.

Il dialetto milanese

682110
Rajna, Pio 1 occorrenze

Miran per esempio, si poteva già dire un posto abbandonato fin dai primi del seicento; chè il Prissian Milanes osserva: « Quaichun dìsenn Miran, se ben el è più da massè; che nun disem Milan » Una caratteristica assai più importante, dalla quale dipende in molta parte l'intonazione del dialetto, è il suono della n scempia in certe posizioni. e specialmente della n in fine di parola e preceduta da vocale accentata. L' n si fonde allora colle vocali antecedenti, e costituisce con esse delle vocali nasalizzate, come in francese. Il Prissian la paragona al suono che « fa el cordon che bat el bombas: fron fron » Una nasalizzazione analoga, sebbene meno completa, s' ha anche nell'interno dei vocaboli, quando ad n seguano certe altre consonanti. Ma accanto a questa n mezza morta come la chiama lo stesso Prissian il dialetto milanese ne ha un' altra viva vivissima. L' n segua ancora alla vocale accentata; ma sia poi anche seguita da un' altra vocale : essa suonerà allora in modo, che l'alfabeto italiano non ci permette di ben rappresentare nè con un' n sola, nè con due, sebbene in mancanza di meglio, si sia pur costretti ad adottare o l'uno o l'altro partito. Il femminile di bon non è nè bona nè bonna letti all'italiana. L' n di questi casi è vibrata come la doppia toscana, ma più breve e compatta; chè, invece di ripartire le sue articolazioni tra la vocale antecedente e la seguente, le appoggia per intero alla seguente, quasi fosse scritto bo-nna E nella stessa posizione suonano analogamente per ragioni analoghe anche altre consonanti: inse-mma, gne-ecca, e-cco (eco), euro-ppa, poe-tta In fatto di vocali, il milanese ne possiede due ignote al toscano: l'ö quell'ü così caro a molti (si può dire a tutti, fino a pochi decennii fa) da non volersene staccare, qualunque linguaggio essi parlino. Ma quello esercitato su questi due suoni è un condominio diviso con tanta gente che nel caso nostro è anche troppo l'averlo menzionato. Metto poi subito in disparte le vocali atone, che presenterebbero fatti molteplici, ma alquanto sbrigliati e d'importanza minuta, e mi contento di chiamare al redde rationem le toniche ; toniche, s' intende, perchè portan l'accento, non perché abbiano affinità nessuna col Fernet dei Fratelli Branca. La prima cosa che balza agli occhi, o piuttosto agli orecchi, è il molto affetto ai suoni larghi; gli o e gli e aperti abbondano nel milanese. Sono aperti ordinariamente gli o seguiti da n vibrata, da gn, da m, da tt: Marchionn, personna; besogn, vergogna; nomm, Romma; rott, sott, nagotta. Cito solo esempi - eccetto il primo, che è una storpiatura locale di Melchiorre - dove, e il toscano, e anche il più dei dialetti affini al milanese, contrappongono all'o aperto un o chiuso, discendente legittimo di un o lungo latino, o addirittura di un u. Stretto si mantiene nondimeno l'o di insomma, bott botte e non so che altro. In altre condizioni i progenitori decidono della sorte dei tardi nipoti; aperti quindi pocch, socca, foss, or, confort, sporg chiusi mocch, mozzo, mocc mozzicone di sigaro, bocca, ross, occor, descors Un o aperto notevole per la sua peculiarità si ha in giò, giù. Viceversa, sono da avvertire, sebbene non punto peculiari a Milano, gli o stretti delle prime persone singolari foo, stoo, voo, ah'hoo seguito quest'ultimo dal gran codazzo dei futuri; inoltre poo, coo capo. Nelle stesse condizioni dell'o è pur largo l'e; ma questo in molte altre ancora. È largo in generale, ancorchè provenga da un e lungo o da un i, quand' è seguito da consonante più o meno doppia, da gn, e da gruppi di consonanti di cui la prima sia s : scenna, menta, ingegn, colmegna, medemm, insemma, mansuett, mett, giughett, pess, istessa, bellezza, fregg, oreggia, todesch, cresta. L' e è largo del pari nelle terminazioni degl'infiniti della seconda coniugazione : avè, vedè, piasè, ecc. È stretto invece, tralasciando altri casi, quando ha dopo di sè una n scempia, non solo se questa è isolata e sale tutta per il naso, ma anche se la obbligano a prendere un po' più la strada della bocca altre consonanti che le tengan dietro: ben, presenza, dent, vend, scendera ecc. Intrecciamo allo stesso modo un m, e l'e suonerà chiuso anche allora: temp, november, e così via. Perchè l'ö non abbia a dolersi d' una dimenticanza assoluta, lo noterò aperto in poeu, a differenza di più altri dialetti lombardi. Oltre alla larghezza e strettezza del suono, è da considerar bene nelle vocali accentate la quantità. Sicuro: i nostri ragazzi, che nelle scuole strillan tanto contro la maledizione latina delle brevi e delle lunghe, non pensano che nel milanese s' avrebbero a rigore, almeno tre categorie : brevi, lunghe e medie. In fondo, è questa la particolarità che il Cherubini vuol significare, quando distingue un suono vibrato, uno rimesso ed uno stemperato. Del fatto avevano peraltro mostrato d' accorgersi anche prima gli scrittori, adottando il sistema di segnare certe vocali coll'accento grave, di mettere ad altre il circonflesso, e di scriverne molte duplicate. Dei tre gradi possono dar esempio fà, ciallad, veritaa; pè, , spêd, pee, goss, occôr, poo; finna, rid, vorii; brutt, rûd, luu; foeura, foeugh, fioeu plurale). Ridotte a due sole le classi, comprendendo nella categoria delle lunghe anche le medie, che in sostanza le appartengono, si può dire che, di norma, sono brevi le vocali seguite da una doppia o da certi gruppi di consonanti, lunghe quelle seguite da una consonante semplice o da certi altri gruppi. Si noti, per esempio, la lunga di sporg, incorg, confort Quanto alle vocali in fin di parola, parte sono brevi, parte lunghe, a seconda dell'origine. Per il suono, l'a lungo volta la sua faccia dalla parte dell'o sulla bocca di chi parla sbottasciaa; tanto più, quanto maggiore la lunghezza. Nelle scritture del secolo passato a quest' a corrisponde il segno ae. Ora, ravvicinando a ciò il fatto, che realmente cotali a suonano e in certi dialetti rustici, se ne argomenta con apparenza di verità, da alcuni, per esempio, dal Cherubini, che nel secolo passato la medesima pronunzia fosse pure in città; da altri che gli scrittori della città affettassero l'uso del contado. Mi permetto di dissentire da entrambe le opinioni. La seconda conterrebbe forse molto di vero riferita al secolo XVII, all'età classica di Beltramm de Gagian e della sua degna consorte Beltraminna Ma una volta che Meneghin Tandoeuggia ambrosiano puro sangue, milanes de Milan ebbe dato il bando al suo predecessore, il dialetto della letteratura fu universalmente quello della città; del Bottonuto e del Poslaghetto in particolare, come s' è visto. E del resto l'affettazione contadinesca non era per nulla generale nemmeno nell'età antecedente; altro è, si badi, la letteratura milanese, altro quella, tutta artifiziale e punto popolare, dell'Accademia di Val di Bregno e della Badia dei Facchini del Lago Maggiore. Fatto sta che già il Prissian primo varo trattatista del nostro dialetto, vuol propriamente seguire e insegnare l'uso cittadino. E siamo al l606. Quanto all'ipotesi che supporrebbe avvenuto nella pronunzia un cambiamento radicale, la credo da rifiutare assolutamente per ragioni linguistiche e storiche. Ravvolgo le prime nella maestà del silenzio; e mi contento di notare rispetto alle altre, che cotesto ae è rappresentato da un semplice a nella scrittura del seicento e del cinquecento. Gli è ben vero che il Prissian distingue per l'a due pronunzie diverse : la larga e la stretta. Ma la larga è per lui quella di sarà, sarà e serrare, di sara, sala e chiudi, ossia la breve. La stretta è quella « che i Latin antigament ghe diseven l'a longa, es la scriveven dobla inscì: amaabam. » L' ae non è dunque, a mio vedere, che un semplice segno grafico, poco felicemente scelto, e forse non abbastanza felicemente surrogato dai due a, suggeriti appunto dall'uso antico latino, o piuttosto dal passo del Prissian Certo peraltro il bisogno di una mutazione c'era; come c'era per l'ö, che in grazia di un falso concetto della sua natura, si scriveva ancora nel secolo scorso con ou. Ma anche qui fu un rimedio poco felice quello di accumulare tre lettere per un suono solo, introducendo quell'incomodissimo oeu. Ohimè! dove vado? Quo, Musa, tendis ? Nei regni della noia, vorrei dire .... se non ci avessi condotto i lettori già da troppo tempo! Vediamo almeno di essere spicci di qui innanzi; dirò delle flessioni solo le cose veramente caratteristiche. Le più spettano al dominio dei nomi. Va notata anzitutto la formazione del plurale dei femminili in a non accentato, che sia preceduto da consonante o da consonanti. Si perde la vocale che c'era in origine all'uscita, e le consonanti restano allo scoperto : finezza, scoeura, porta, mamma, donna, balarinna, fanno finezz, scoeur, port, mamm, donn, balarinn. Come si vede, l'n mantiene la vibratezza che ha al singolare; anzi, mantiene anche quella che al singolare ha perduto in molti diminutivi; sicchè, per esempio, mammin da mammina — non ispento, del resto, neppur esso — fa mamminn. Tosa è anomalo : fa tosann. A proposito di diminutivi, sono ancor più osservabili i plurali in itt, la più parte per nomi maschili, e unicamente per questi in origine. Parecchi si trovano avere adesso il singolare in in; per esempio, basitt, piscinitt, dencitt ma in realtà sono ancor essi plurali di un singolare in ett, perdutosi per istrada, e non perduto da tutti. Così omitt conserva il suo bravo omett e cereghitt può sempre vantare, accanto a cereghin, il cereghett pizzamochett e il Cereghett, « Covoe Dominus. » Questa rispondenza, ett singolare, itt plurale, è lo strascico di una legge ben più generale, che era un tempo in vigore in gran parte della valle del Po. Per essa l'e accentata dei nomi maschili, al plurale diventava sempre i (l. V. i Saggi Ladini dell'Ascoli nel t. I dell'Arch. Glottologico; passim.. La legge a poco a poco ha perduto la sua forza, non altrimenti da ciò che accade a quelle dei codici; e anche coloro che le si conservarono docili fino a tempi vicini, hanno cominciato ad alzare la cresta. Certo ben pochi direbbero adesso col Porta cavij, basij, scinivij e pochi anche usij, registrato come vivo dal Cherubini. Si conserva paricc, plurale di un singolare che il dialetto non ha; e sembra voler passare alle età future come singolarissimo esempio di fedeltà il pronome quist. Un arcaismo di questo genere, che tutti abbiamo continuamente in bocca senza accorgercene, è, credo, il Bij della Contrada Bij giacchè il casato della famiglia che dette nome alla via era probabilmente tutt'uno con quello, pur comunissimo, di Belli. Bigli deve essere un'italianizzazione altrettanto dotta come sarebbe remissegli, pivegli oppure l'Osteria dei tre Baccelli Nel verbo, noto di passaggio hin, sono, anomalo sì, ma non punto quanto lo fa parere senza sua colpa quell'h peggio che ostrogota; inoltre rammento la flessione, spesso violata, del condizionale: ev, isset, av; issem, esser, issen E alla sintassi manderò di lontano un semplice saluto, rammentando la negazione no, posposta al verbo: Se po no, se po no! ... Sulle differenze tra questo no che si pospone, e il minga che si prepone, potrei dir molte cose, conchiudendone poche; caso rarissimo ! Ma scusi, mi sento dire. Non s' accorge di fare come quando, in una certa società numerosa, il signor X discorre un' ora filata sul suo argomento favorito della concia dei cuoi? O non sarebbe meglio parlar di qualcosa dove ognuno potesse dire la sua? Dica per esempio, se le par bello o brutto il milanese; ne determini, se tiene ai paroloni, il valore estetico! Ecco un punto, su cui tutti hanno idee proprie. Le hanno e le hanno avute. Un' idea l'aveva anche Dante, che si permette di strappare, come erba cattiva, insieme col bergamasco, anche il milanese, e ricorda con una tal quale compiacenza una poesia, che già allora correva in dileggio di questi dialetti: Intel' ora del vesper, Ziò fu del mes d' ociover .... E allo stesso modo non si vergognò di pensare Luigi Pulci, che il 22 di settembre del l473 ebbe la sfacciataggine di mandare da Milano a Lorenzo de' Medici due sonetti obbrobriosi (1. S' hanno singolarmente straziati a pag. 86- 87 delle edizioni dei sonetti del Pulci e del Franco. Io li ho trascritti direttamente dall'autografo, che è alla Nazionale di Firenze, e posso così darne la lezione genuina.), di cui non si laverebbe la colpa con tutta l'acqua del Seveso, del Lambro, dell'Olona. Nell'uno sono gli abitanti che più specialmente si prendon di mira; e solo una terzina deride il parlare: E' dicon le carote i gniffi, i gnarri, Et l' uve spicciolate pinceruoli, Da far, non che arrabiare (1. Prima il Pulci aveva scritto, se non erro, impazzare.) i cani, i carri. Ma l'altro è pressochè tutto un' ingiuria al dialetto: Ambrosia, vistu ma il più bel ghiotton, Quel fiorentin ch' è in chà messer Pizzello ? El non manza ravizze : mò zervello, Ch' el si butta per zerto un gran poltron. Non li san le ravizze mica bon. El son tutte materie! El dise chello Zanzator che Fiorenza è mò più bello, Che si vorrava darli un mostazzon! El passa ! Ha, fiorentin, va scià chillò! El guarda, in fe de dè ! Ma tasi ti, Che 'l non z' à ancor vezzuti il chò di bò ! Et chi credessi un certo odor che è qui Quasi rosea piantata in Jerichò Fussi, io noi crezzo; ch' io lo so ben mi! Ma egli è ben ver così, Ch' e milanesi spendon pochi soldi, Et mangian cardinali et manigoldi ; Et ferrù coldi coldi ! Tanto ch' io serbo all'ultimo il sonetto, Ch' io mangerei forse io del pan buffetto. In fondo al sonetto il Pulci mette questa postilla per Lorenzo : « Nota che cardinali è una cierta vivanda di più cose in guazzetto : manigoldi le bietole : le ferruche son succiole. Ma tu se' milanese vecchio. » Da queste ultime parole risulta che Lorenzo de' Medici sapeva il milanese; ciò vale a consolarci un poco delle insolenze di messer Luigi, il quale poi, per giusto castigo del cielo, volendo dileggiare il dialetto nostro, è riuscito a fare dei versi molto debolucci. La parodia poteva essere, non solo più corretta, ma anche più spiritosa. Ecco venir terzo il Bandello: « II parlare milanese ha una certa pronuncia, cche mirabilmente gli orecchi degli stranieri offende .... » (Parte I, nov. 9). Misericordia! E nessuno si leverà a difesa ? — Milano tutta, come un sol uomo. Lasciam parlare il Prissian : « Par la proùma (1. Si legga proeuma V. quel che s' è detto a pag. 40.) al besogna savè cche el nost lenguag al è el più pur, el più bel, e il miò che se possa trovà. » E anche poco prima aveva detto: « Parlo dela parnonzia del parlà Milanes, ch' alè el più bel che sia al mond ; e si avess temp, e' vel farev vedè ; salv la lengua fiorentena, ch' al' è nassù dala nosta, ma che lor ai l' an lechà inscì on pochin, com' es fa ona sposa. » Qui, per verità, si fa una restrizione alquanto pericolosa, che darebbe forse motivo sufficiente di chiamare il Prisciano stesso davanti al tribunale della Santa Inquisizione. Egli puzza un po' dell'eresia di quel traditore di padre Branda, che un secolo e mezzo più tardi ritornava di Toscana così innamorato o infatuato del parlare di colà, da gettar fango in viso al linguaggio materno in un certo dialogo fatto recitare in pubblico dai suoi scolari. Ed ecco accendersi una guerra terribile, nella quale la prima lancia contro il Branda fu rotta dal Parini, oscuro abate tuttavia. Le ingiurie - usiam parole proporzionate alla grandezza dei fatti - riempirono l'aria; l'inchiostro scorse a ruscelli; e ben cinquanta opuscoli a stampa, vomitati dalle bocche da fuoco delle due fazioni, rimasero sul campo, a testimonio della gran lotta. Chi li vuol vedere, vada all'Ambrosiana, e chieda della Brandana Troverà cose abbastanza divertevoli. Tacque finalmente la guerra; ma le cause e i sentimenti che l'avevano suscitata non vennero meno negli animi, e si perpetuarono anche nei posteri. E così più di mezzo secolo dopo si riaccendeva, se non la guerra, un duello, quando un articolo del Giordani nella Biblioteca italiana faceva montare al Porta la mosca al naso, e lo spingeva a mitragliare l'oltraggiatore dei dialetti colla scarica dei dodici sonetti famosi all'abaa Giavan Ma lasciando gli scherzi e le simpatie: o chi aveva ragione in coceste lotte? - La ragione e il torto non si dividono mai in maniera così netta, che tutto il torto sia da una parte, tutta la ragione dall'altra, dice il Manzoni. E il Manzoni appunto, milanese e affezionatissimo al milanese, così dotto nel suo dialetto da aver pochi pari, assegnava di sicuro una parte di ragione, nel secolo passato al Branda, nel presente al Giordani. I fatti lo dimostrano; giacchè egli fu per suo conto un sostenitore e propugnatore ardentissimo ed efficacissimo di idee molto analoghe alle loro. Qui peraltro corriam rischio d' impigliarci nella quistione della lingua, molto più complessa di quella che s' aveva per le mani. Rientrando nel nostro guscio, diciam pure aperto che nel giudizio sulla bellezza e bruttezza dei dialetti in generale e di un dialetto in ispecie, l'abitudine, ossia il pregiudizio entra per quattro quinti. A molti letterati tutti i dialetti paiono brutti, compreso il loro proprio; alla generalità, e particolarmente al volgo, paiono brutti tutti, a eccezione del loro. Quindi il continuo darsi la baia da paese a paese per ragion del parlare. Da ciò alcuni spassionati conchiudono, che dunque tutti i dialetti sono brutti e belli ad un modo. Non assento : per quanto il mi piace e non mi piace renda malagevole il giudizio, c'è bene anche un grado assoluto e variabilissimo di bellezza e bruttezza. Il difficile sta a poterlo determinare. Non pretenderò già io di esser da tanto; a ogni modo alcune cose le devo dire. Per quel cche spetta ai suoni, il milanese avrebbe una ricchezza invidiabile; ma non ne cava forse tutto il partito che potrebbe, giacchè certi elementi prevalgono un po' troppo, con danno della varietà; e non di quella soltanto. Ricorrono troppo abbondanti le vocali a lungo strascico, nasalizzate e non nasalizzate, che danno al parlare un carattere lento. Nei verbi riesce adesso d'impaccio l'accumularsi dei pronomi, promosso da cause per così dire rettoriche, più che da una vera necessità e dal logorio delle forme; chè, quanto a forme, il milanese è forse tra i dialetti cittadini dell'Italia settentrionale uno dei meno impoveriti dal tempo. Di derivazioni il dialetto milanese è copioso, tanto per i sostantivi che per gli aggettivi. E quanto al dizionario, non s' ha proprio motivo di portare invidia a chicchessia. Se dai caratteri per così dire fisici, si volge l'attenzione ai morali, oh, come ha ragione il Tanzi di esclamare: Gh'emm ona lengua averta, avert el coeur! ll milanese è realmente il linguaggio di un popolo dal cuore aperto, bonario, inclinato alla benevolenza verso ognuno, amante della buona tavola e in generale di tutti i piaceri del senso, lieto, proclive alla sguaiataggine più che alla vera arguzia, ricco di un buon senso alla mano. Un linguaggio fine il milanese non si potrebbe dire : efficace, è di sicuro. Il popolo che lo parla ci si riflette dentro tutto quanto, colle sue virtù e colle sue debolezze: di gran lunga più numerose le prime - si permetta di dirlo ad uno non nato all'ombra del Duomo - che le seconde. Questi caratteri interni si mantengono inalterati, nonostante la variazione delle fattezze esteriori. Giacchè, come s' è accennato in più casi, il dialetto si trasforma, e sempre s'è venuto trasformando in tutto quanto il corso della sua vita. Ben si sa: la trasformazione è condizione essenziale dell'esistenza. Una delle mutazioni di maggior rilievo avvenuta in tempi vicini a noi, riguarda il passato remoto, cominciato a cadere in disuso verso la metà del secolo scorso, rappresentato da pochi superstiti al principio del nostro, e quindi sceso nella tomba fino all'ultimo suo rampollo. Vens, diss, voeuss, spongè ecc. ecc., farebbero adesso inarcare le ciglia al più ambrosiano tra gli ambrosiani. Non si riguardi questa sparizione come un sintomo pericoloso per la vita del dialetto; lo stesso fenomeno sta succedendo, mentre parliamo, nel francese, senza che ciò faccia nascere nessuna inquietudine per la sua preziosa salute. Piuttosto danno da pensare i mutamenti non pochi che si producono nei suoni. Per esempio la z, che aveva preso molte volte il posto del c e del g dinanzi ad e e ad i, è ricacciata di nuovo dal ritorno vittorioso dei fuorusciti. Nessuno dice più zent, nessuno Porta Zines pochi zerusegh, suzzed, suzzess Qui, tanto e tanto, s' ha il trionfo d'un vecchio diritto lungamente conculcato; ma è effetto di prepotenza se molte terminazioni ben legittime in cc sono bandite, o almeno confinate tra la gente bassa; dicc, scricc, facc non si sentono più; non frequentemente lecc, succ e c'è chi spinge lo zelo fino a dire per tecc una parola che non mi permetterò qui di pronunziare. Presi un per uno cotali mutamenti non significherebbero nulla; ma invece destano l'allarme, se si considerano uniti insieme e si riferiscono alla loro causa unica ed universale, che è un graduale ravvicinamento alla lingua letteraria o al toscano. Non ci sarebbe da dolersene, se il ravvicinamento potesse metter capo all'identificazione; ma facciam conto che ciò sia per accadere ad una distanza infinita, là dove s'incontrano, al dire dei matematici, e si danno con un bacio il « ben arrivato, » anche due parallele. E la lingua letteraria non si contenta di pervertire la fonetica del dialetto; ne perverte ancor peggio il vocabolario. Essa v' introduce così alla sordina un numero infinito di vocaboli, ciascuno dei quali circuisce una voce indigena, le somministra un lento veleno, e non ha pace finchè non la vede morta e non ne raccoglie l'eredità. E dire che i tribunali non hanno pene per cotesti misfatti! O non pare evidente che le lingue abbiano diritto ad essere rispettate al pari delle persone? Io non capisco perchè, mentre è severamente vietato di corrompere il toscano col mescolarvi voci, forme e pronunzie dialettali, abbia poi ad esser lecito di corrompere il dialetto con mescolanze toscane. Dunque l'uguaglianza di tutti dinanzi alla legge è proprio un' irrisione? Si parli italiano o milanese secondo che pare e piace: ma l'italiano italianamente, e anche il milanese milanesemente! È inutile: se s'ha a cuore la salvezza del dialetto bisogna, mentre non è ancor troppo tardi, pensare a un provvedimento. E il provvedimento lo propongo io medesimo, dando prova con ciò di un eroismo, che solo gli amici miei possono valutare. Esso dovrebbe consistere in una multa per ogni delitto di lesa meneghità. In altre città il prodotto della multa potrebbe servire a ristorare le finanze municipali; qui da noi invece, dove, grazie a Dio e ai nostri amministratori le finanze sono in complesso abbastanza prospere, converrebbe convertirlo in premi per coloro che parlan più corretto. Ed ecco che, cercando piombo, ci si troverebbe aver rinvenuto dell'oro; giacche, incamminatici per provvedere all'incolumità del dialetto, ci si vedrebbe arrivati inaspettatamente alla soluzione della questione sociale. Che, siccome in generale gli abbienti parlano scorretto, e relativamente corretto i non abbienti, si riuscirebbe ad un capovolgimento nella distribuzione delle ricchezze; i ricchi diventerebbero poveri, e i poveri ricchi ; che è l'unica soluzione del gran problema atta a contentare davvero, non dico chi predica le riforme stando comodamente in alto, ma chi le chiede dal basso.

LEGGENDE NAPOLETANE

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Serao, Matilde 2 occorrenze

Messer Diomede Carafa sapeva amare: la sua anima nobile ed eletta era aperta a tutte le squisite sensibilità dell'affetto, la sua forte anima comprendeva tutti gli slanci di una passione umana e potente; le orgogliose dame spagnole della Corte vicereale avrebbero volentieri abbandonato la loro fierezza castigliana per esser amate da lui e per amarlo; le fanciulle dell'aristocrazia napoletana, brune fanciulle dagli occhi azzurri, lo avrebbero amato se egli avesse voluto amarle. Ma messer Diomede non amava che madonna Isabella che aveva fama di donna crudele e disamorata; difatti ella non fece che sorridere appena alle frasi amorose che messer Diomede le scriveva. Nel grande salone del suo palazzo, madonna Isabella, vestita di broccato rosso che faceva risaltare il pallore del volto, con una reticella di perle sulle fulve trecce, sedeva a conversazione con messer Diomede. Il giovane innamorato era seduto alquanto discosto dalla sua donna, ma la fissava con l'occhio intento e cupido, senza mai distogliere lo sguardo da quella figura; a seconda che la donna parlava, sul viso del giovane passavano onde di sangue che lo coloravano, o un terreo pallore vi si diffondeva; come il giovane si lasciava trasportare dall'amore, la sua voce tremava, ed in essa passava la nota tenera e grave dell'affetto, la vibrazione profonda della gelosia, l'ondulazione indefinita della mestizia, la nota stridula dell'ironia, tutte le variazioni che ha l'amore. La dama, placida, tranquilla, sorridente, agitando il leggiero ventaglio di piume, giocherellava amabilmente e ferocemente col cuore del giovane. Ella, a sua posta, creava in lui lo sconforto desolato o l'inesauribile speranza, la cupa gelosia o l'estrema fiducia, la collera senza nome e senza limiti o la gioia senza confine. Abituata a questi sottili e malvagi godimenti, ella si compiaceva stringere quel cuore innamorato in una mano di ferro che lo soffocava a poco a poco e poi ridonargli la vita, carezzandolo con una mano leggiera e vellutata; si dilettava far sussultare di dolore quell'anima, gittandola bruscamente nella disperazione; gioiva facendola esaltare grado a grado, sempre più, fino a farla impazzire nella vertigine dell'altissimo pinnacolo. Furono tali donne, sono e saranno. Il mondo le maledice, le disprezza, paiono fatte estranee alla soave comunanza femminile, paiono odiate, esecrate. Ma il mondo le ama, ma l'uomo le ama. Così è sempre, così sempre sarà. Pace a voi, giovanette gentili, dalle anime buone che rischiarano come luce di lampada familiare il corpo delicato; pace a voi, donne il cui destino unico è l'amore, è il sagrifizio: giammai sarete amate come quelle donne lo saranno. Virtù, dolcezza, abnegazione, serenità, calma, felicità sono vani nomi: l'acre e malsano desiderio dell'uomo corre verso la misteriosa e temuta sirena. Pace a voi; amate, soffrite, morite: giammai sarete amate come quelle donne lo saranno. Eppure fu un giorno in cui Diomede Carafa credette di arrivare al culmine inaccessibile della sua vita, al momento fatale in cui ogni facoltà, ogni potenza fisica, ogni luce di ragione, ogni festa di fantasia, ogni robustezza di fibra, si riuniscono in una sola, profonda, alta armonia che è l'amore. Fu il giorno in cui madonna Isabella, all'impensata, dopo una lotta d'un anno in cui essa non aveva ceduto di una linea sola, presa da un subitaneo abbandono e dominata da una strana causa, disse d'amarlo. Oh! chi ha amato la conosce questa stagione calda ed esuberante, colorita dal sole, nell'azzurro sconfinato, nell'infiammato meriggio dove tutto arde e si consuma in una grande voluttà, quando i fiori nascono presto, vivono una vita rapida e soverchiante, esalano profumi grevi e violenti e muoiono per aver troppo vissuto; la stagione fremente dove tutto è luce, tutto è fulgore, tutto è febbre che precipita il sangue; la benedetta stagione, la eccelsa stagione dopo la quale tutto è cenere e fango. Chi ha amato sa la stagione d'amore di Diomede Carafa e non aspetta dalla scialba parola del freddo e disanimato cronista una descrizione. Chi ha amato evochi tutti, tutti suoi ricordi di amore, riviva in quel passato pieno di una gioia e di un dolore che non hanno l'eguale, palpiti, s'agiti, abbia la convulsione ed il delirio di quell'amore e saprà di Diomede Carafa. Le storie d'amore non si raccontano, non si descrivono che miseramente: l'arte istessa, la divina arte che tutto scopre, tutto rivela, non può che dare una sola e fuggevole immaginazione del proteiforme amore. Breve stagione. Se durasse, il cuore morirebbe nella esagerazione di un sentimento che è la follia. A poco a poco, con gradazioni impercettibili, madonna Isabella fu meno felice, meno innamorata; il sorriso fu più scarso sulla bocca, le braccia più fiacche nell'abbraccio, le labbra più gelide nel bacio, il palpito meno frequente nell'arrivo e nel distacco. Diomede Carafa, cieco, pazzo d'amore, non vedeva, non comprendeva. Madonna Isabella discendeva sempre più verso l'indifferenza che poi era il suo stato abituale e la sua naturale ferocia rinasceva per la tortura di quell'uomo. Ma Diomede Carafa soffriva e s'inebriava di quella sofferenza, piangeva e s'ubriacava di quelle lagrime, era ammalato e si consolava di quel morbo ora gelido, ora infuocato che gli consumava la vita; era tormentato, oppresso, disperato. ma si estasiava di ciò come i martiri cristiani del sangue che usciva dalle loro vene esauste. Isabella si mostrava con lui chiusa, dura, sprezzante e lui l'amava anche così, massimamente così; Isabella si faceva volubile, leggiera, accogliendo in casa i più bei cavalieri napoletani e lui, morendo di gelosia, amava Isabella per la gelosia che aveva di lei. Egli gettava pazzamente i suoi averi, obliava le prerogative della sua nobiltà, non conosceva più amici, non conosceva più parentado, non sapeva più nulla di obblighi o di diritti: Isabella, Isabella, amare Isabella. Fino a che un giorno tutta la verità gli fu palese come parola di Dio e seppe del proprio avvilimento, seppe del tradimento di Isabella con Giovanni Verrusio, amico suo e suo compagno d'infanzia. Egli nascose a tutti il dramma del suo spirito, sdegnoso di compianto. Il crollo immenso della sua felicità, la rovina tragica e nera dello splendido edificio non ebbero testimonio. Meglio così. Che vale il rimpianto? Che cosa è la parola compassionevole e glaciale? Foglie morte che il vento si porta via, ed il dolore rimane eterno. Invano egli errò, viaggiatore solitario e noncurante, per fiorenti paesi, invano chiese alle ricchezze, al lusso, ad altri amori, a feste stupende, l'oblio; invano egli volle innamorarsi delle vaghe creazioni dell'arte per ritrovare la pace. Dappertutto, in ogni paese, in ogni donna, in ogni fiore, al fondo dei vini generosi, nelle figure dei quadri, nelle figure delle statue, negli ondeggiamenti della musica, egli ritrovava Isabella. Il suo dolore non era più acuto e straziante, ma lento, lungo, stupefacente. egli sentiva la sua anima gonfiarsi di affetto ed i suoi occhi gonfiarsi di lagrime; egli provava il bisogno del sagrificio, del culto, dell'estasi ... - Dio, Dio - ripetette un giorno la stanca amica sua. Diomede Carafa fu vescovo di Ariano, prelato esemplare e amatore dell'arte. Leonardo da Pistoia, pittore, fu suo amico. Per sua ordinazione e per la chiesa di Piedigrotta dove giace il Sannazaro, il Leonardo fece il quadro bellissimo di S. Michele che atterra Lucifero. Lucifero vinto e bello e ancor folgorante, ha il volto di madonna Isabella. Ed è una donna il diavolo di Mergellina.

Giace lungo disteso, abbandonato, i piedi diritti, rigidi, uniti, le ginocchia sollevate lievemente, le reni sprofondate, il petto gonfio il collo stecchito, la testa sollevata sui cuscini, ma piegata, sul lato diritto, le mani prosciolte. I capelli sono arruffati, quasi madidi del sudore dell'agonia. Gli occhi socchiusi, alle cui palpebre tremolano ancora le ultime e più dolorose lagrime. In fondo, sul materasso, sono gettati, con una spezzatura artistica, gli attributi della Passione, la corona di spine, i chiodi, la spugna imbevuta di fiele, il martello. Sul piedistallo, sotto i cuscini, questa iscrizione: Joseph Sammartino, Neap., fecit, 1753 E più nulla. Cioè no: sul Cristo morto, su quel corpo bello ma straziato, una religiosa e delicata pietà ha gettato un lenzuolo dalle pieghe morbide e trasparenti, che vela senza nascondere, che non cela la piaga ma la molce, che non copre lo spasimo ma lo addolcisce. Sopra un corpo di marmo, che sembra di carne, un lenzuolo di marmo che la mano quasi vorrebbe togliere. Niente manca, dunque, in questa profonda creazione artistica: e vi è il sentimento che fa palpitare la pietra, turbando il nostro cuore, e v'è l'audacia del creatore che rompe ogni regola, e v'è il magistero di una forma eletta, pura, squisita. Quel corpo morto era poc'anzi vivo, si contorceva nelle angosce di un'agonia spaventosa, giovane e robusto si ribellava al male, si ribellava alla morte. Non vi era sfinimento, non vi era abbattimento: le fibre non volevano morire, il corpo non voleva morire. Ma sotto le pieghe del lenzuolo la testa ha un carattere stupendo: la fronte liscia ha un vasto pensiero; piangono gli occhi, è vero, pel cruccio fisico, ma le labbra schiuse hanno una traccia di sorriso che è una indefinita speranza. È vero. è vero, il dolore è passato dal corpo all'anima; è vero, l'anima è contristata, ma non è disperazione, ma non è desolazione. L'anima come la bocca è abbeverata di fiele, ma una goccia di consolazione vi è stata. Tutto quel Cristo è un dolore supremo, ma è anche una suprema speranza; ma il mistero di quella testa divina è così grandioso, ma l'ammirazione per la meravigliosa opera d'arte è così sconfinata, ma la pietà del bellissimo estinto è così invadente che il pensatore si scuote e non frena più le acute indagini dalla sua mente, l'artista s'inchina nella esaltazione del suo spirito ed il credente non può che abbandonarsi, piangendo, sui piedi del morto, cospargendoli di lagrime e di baci. Singolare anima d'artista doveva esser quella dello scultore che ha dato all'arte questo Cristo morto. Nell'opera sua vi è tutto il suo spirito. Uno spirito dove sorgevano uguali, immensi, due amori: quello per una donna, quello per l'arte. Infelicissimo, terribilmente doloroso il primo. Solamente chi ha conosciuto il furore acuto di una sofferenza senza nome può far passare tutta la poesia di questa sofferenza nel marmo senza vita; solamente chi è vissuto nelle lagrime, nell'angoscia, nella esaltazione di un'anima innamorata e solitaria, può infondere nel marmo il solitario e cupo dolore di questo Cristo. Lo scultore ha saputo, ha sentito. Ha saputo, ha sentito che cosa fosse il tormento sottile che stride come una sega piccina ed inesorabile; la desolazione grigia, lunga, monotona, dove tutto è cenere, tutto è nausea, tutto è disgusto: la disperazione larga e vasta e lenta come una fiumana di pianto; la disperazione fragorosa e tumultuante come un torrente che tutto trascina. Chi ha fatto quel Cristo ha spasimato d'amore; ha amato ed ha pianto; ha amato ed un fremito mortale gli ha travolto le fibre; ha amato ed una convulsione ha contorta e spezzata la sua vita; ha amato senza speranza, senza gioia, senza diletto, abbruciando la propria esistenza nella tormentosa voluttà del dolore. Solo un uomo che ama può creare quel Cristo morto; solo colui che soffre col trasporto, con la passione delle sofferenze, può mettere in una statua tutta la sublime epopea del dolore. Ogni colpo di scalpello che scheggiava, rompeva, carezzava, curvava, ammorbidiva il marmo, era una parola, un gemito, un lamento, un grido, uno scoppio furente di questo amore. La passione dell'uomo vivo creava la passione del Cristo morto. E ne veniva fuori un'anima d'artista che imprimeva il suo carattere in un capolavoro dell'arte. - Perché quella tomba non ha ritratto? - chiesi di nuovo uscendo dalla chiesa, mentre il custode faceva tintinnire le chiavi. - Lo scultore non ebbe tempo di finirlo ... - Quale scultore? - Il Sammartino. - Ah!... - ... Morì prima di finirlo. Fu trovato in una straduccia buia, di notte, con un pugnale nel petto. - Fu ucciso o s'uccise? - Si crede che si fosse ucciso. Come nello strazio dell'ignota agonia, la testa del morto scultore doveva rassomigliare a quella del Cristo morto!

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