Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbandonati

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DISPERATAMENTE GIULIA

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Casati, Sveva 1 occorrenze

Giulia riconobbe il suo volto smarrito tra quei morti abbandonati e provò pietà per se stessa. Sapeva di sognare, sapeva che si sarebbe risvegliata, ma era certa che il suo stato d'animo, comunque, non sarebbe cambiato. Si svegliò. Albeggiava. Aveva le guance fredde e il naso gelido: l'estrema periferia dell'impero, come lei lo definiva, era un infallibile misuratore termico. Tolse un braccio da sotto la coperta di guanaco ed ebbe la conferma del freddo pungente. Usci dal letto con la memoria ancora piena dei morti del sogno, ma la certezza di avere sognato non le diede alcun sollievo. Saggiò con le mani il termosifone sotto la finestra: era freddo. Oddio, pensò, ci risiamo. Ogni inverno, al colmo del gelo, spieiata come il destino, la caldaia andava in tilt. La revisione autunnale non serviva. Quel maledetto aggeggio, nel momento meno opportuno, la tradiva. Si infilò la vestaglia, scese al piano terreno, entrò in cucina e affrontò la scala della cantina. Aveva i piedi intirizziti e una grande pena nel cuore come se tutto cospirasse contro di lei. Raggiunse lo stanzino della caldaia. Era una Vaillant murale, il meglio della tecnologia tedesca. Una fiammella azzurrina con venature rossastre guizzava nel fornello al centro del parallelepipedo di smalto bianco modulando una risposta beffarda ai suoi interrogativi. Il termostato era orientato sui ventidue gradi, la pressione dell'acqua era tra l'uno e il due, la valvola a farfalla per l'erogazione del gas era perfettamente aperta. Tutto era a posto, ma quel perfetto congegno teutonico non funzionava. Risalì in cucina. L'orologio elettrico sul frigorifero segnava le sette. Prima delle otto e mezzo non avrebbe trovato nessuno al centro assistenza per la manutenzione della caldaia. Ammesso che il centro fosse aperto. Era l'ultimo giorno dell'anno e tanta gente era in vacanza a godersi il lungo ponte di Natale. Giulia rabbrividì. Aprì il forno della cucina a gas e lo accese: era l'unica fonte di calore. La casa fredda le dava un senso di abbandono e vestiva d'angoscia la sua solitudine. Era la prima volta che affrontava da sola questo dramma domestico. Una volta c'era Leo, suo marito. L'inverno scorso c'era Giorgio, suo figlio, che con la vitalità dei suoi quattordici anni portava anche nelle situazioni più deprimenti un'ondata di speranza, ma cinque giorni prima il ragazzo era partito per il Galles. Giulia era proprio sola nella grande casa. Dalla strada, oltre il giardino, salì il gemito dell'avviamento di un'auto. Si sentivano passare le macchine sull'asfalto battuto dalla pioggia. Quel grigio albeggiare versava tristezza nella spaziosa cucina. Giulia si strinse addosso la vestaglia di un pallido azzurro, ma non ne trasse alcun calore. Si passò le dita sottili nella folta zazzera scura ricacciando indietro una ciocca ribelle che le scendeva sulla fronte. Decise di farsi un caffè. Poi, magari, avrebbe riletto l'ultimo capitolo del romanzo, del quale non era completamente soddisfatta. C'era qualcosa che non la convinceva. Dal forno veniva un tepore confortevole. Lavorare alla macchina da scrivere era sempre stata la sua medicina, un modo per non accorgersi del tempo che passa, il segreto per restare giovane e vitale. In questo modo, l'ora per chiamare il « caldaiaio » sarebbe venuta prima. Lontano, un imbecille mattiniero fece esplodere alcuni botti di Capodanno. Pensò, senza rallegrarsene, che la stupidità è inevitabile come la pioggia e il sole. Il caffè tostato all'americana, di un bei marrone dorato, spandeva intomo un aroma delicato. Lo versò in una lucente tazza di porcellana a fiori e cominciò a sorseggiarlo, bollente e amaro compera, guardando, fuori dall'ampia vetrata protetta da inferriate verdi, il giardino sfiorito dove i cespugli di rododendri, di azalee e di rose intristivano nell'aria già vecchia del giorno appena nato. L'ultimo giorno dell'anno o l'ultimo giorno del mondo? Giulia si sentiva percossa, sfilacciata e triste come il suo piccolo giardino. Scorse in quella desolazione i rametti scheletriti di un'ortensia che, smentendo la meteorologia e la stagione, stavano mettendo gemme. Quanto ottimismo, pensò con invidia. Lei non avrebbe messo gemme. Mai più. Viveva sensazioni indefinibili, isolata dal mondo e dai suoi stessi pensieri, posseduta da un'emozione intima e incomunicabile. Pensò che se ci fosse stato Giorgio si sarebbe sentita meglio, ma anche lui l'aveva piantata in asso, come la caldaia, sia pure con un preavviso di qualche settimana. « Sai, mammina (la chiamava sempre così quando voleva ottenere qualcosa), mi piacerebbe passare le vacanze di Natale dai Mattu », aveva cominciato a corteggiarla in novembre. I Mattu erano una giovane coppia di indiani con tré figli piccoli, vivevano a Swansea nel Galles e avevano ospitato il ragazzo l'estate precedente per un soggiorno di studio. Lui si era trovato benissimo. « Tesoro », aveva replicato Giulia con affettuosa ironia, « hai mai pensato che una vacanza in montagna, magari con tua madre, potrebbe essere più divertente e meno costosa? » Un mese o un secolo prima? Era comunque un tempo remotissimo in cui c'era ancora spazio per i progetti e la prospettiva di una vacanza sulla neve in compagnia del figlio le accendeva la fantasia e la faceva sentire giovane. Stava scrivendo il nuovo romanzo e viveva il dramma solitario ma eccitante dell'autore che non sa mai se riuscirà a portare a termine la storia che ha in mente. Il calore che usciva dal forno appannava le vetrate della cucina. Pensò con tenerezza a Giorgio che una volta aveva sorpreso a disegnare ingenue oscenità sul vapore rappreso e provò una gran voglia di sentire la voce del figlio. Abbandonò il tepore della cucina e affrontò il rigore del soggiorno per telefonargli. I tappeti color avorio che ricoprivano le mattonelle liberty erano morbidi ma freddi come la tappezzeria che simulava un muro tirato a stucco. Guardò il camino di marmo sovrastato da due candelieri e da una specchiera rettangolare chiusa nella cornice di noce scuro. Pensò che avrebbe potuto accenderlo. Sedette su uno dei due divanetti ricoperti di tela a grandi rose scarlatte su fondo verde e avorio, inforcò gli occhiali e cercò il numero degli amici di Swansea nella rubrica di pelle turchese, appoggiata, sul tavolino di cristallo, vicino a una grande e moderna abat-jour. Erano quasi le otto e Giulia sapeva che a quell'ora i Mattu erano in piedi. Le rispose la voce dolce di Salinda il cui volto, molto grazioso, Giulia aveva visto soltanto in fotografia. « Giorgio is sleeping », disse. « Ha fatto tardi ieri sera? » indagò Giulia sospettosa. « Soltanto mezzanotte », la tranquillizzò Salinda. « C'è stata una piccola festa tra ragazzi. » Giulia si sentì esclusa. Non ebbe neppure il coraggio di gridare che tirasse giù dal letto quel piccolo, sporco egoista, perdio! Prima d'allora non le era mai venuta in mente un'imprecazione di quel genere, per lei quasi una bestemmia, ma adesso, per la prima volta, sentiva irresistibile il desiderio di coinvolgere l'Onnipotente nelle sue questioni private, di coinvolgerlo con rabbia, rimproverandogli la sua latitanza o il suo accanimento. « Vuoi che lo svegli? » chiese Salinda, sempre dolce e comprensiva. « No », disse Giulia rassegnata. « Volevo sapere se è tutto a posto », mentì. In realtà voleva dirgli che stava al gelo, da sola, in quella vecchia casa senza qualcuno che le desse conforto, e che il gatto era finito sotto una macchina alcuni giorni prima pagando con la vita il suo primo anelito di libertà. Avrebbe voluto parlargli anche del dolore che si era annidato dentro di lei, ma nessuno dei due era pronto per quella confessione. E non poteva certamente dirgli che proprio oggi, ultimo giorno dell'anno, doveva andare a Modena, al cimitero, per assistere all'esumazione del nonno. « Davvero, Salinda, va bene così. » « Se vuoi ti faccio chiamare appena si sveglia », propose la giovane indiana che, sempre nella foto scattata da Giorgio l'estate prima, aveva l'aria di una casalinga appagata. « Vi chiamo io a mezzanotte per augurarvi buon anno », tagliò corto. « Abbracciami Giorgio. E ancora grazie. » Riattaccò rifugiandosi nel tepore della cucina. Il freddo le era penetrato fin dentro le ossa. Pensò al nonno, a quello che restava di lui e sorrise al ricordo di quel principe dell'avventura. Il comune di Modena aveva mandato a lei, a sua sorella Isabella e a suo fratello Benny, che mascherava sotto un ridicolo diminutivo il nome scomodo di Benito, una comunicazione firmata da! sindaco: le reliquie di Ubaldo Milkovich sarebbero state collocate in un ossario perenne per onorare la memoria del partigiano Gufo, figura di spicco dell'antifascismo, eroe della Resistenza. Giulia si era ripromessa di partire verso le undici per essere sicura di non mancare all'appuntamento fissato per le due del pomeriggio, ma adesso, con il problema della caldaia, sarebbe riuscita a rispettare il programma? L'orologio elettrico sul frigorifero segnava le otto. Tentò di mettersi in contatto con il tecnico della manutenzione. Si immerse nuovamente nel gelo del soggiorno, alzò la cornetta e si accorse che qualcosa non funzionava nel ricevitore. Invece del segnale consueto sentiva un suono gracchiante, fastidiosissimo. Premette ripetutamente il meccanismo del contatto, provò a formare un numero sulla tastiera e al suono gracchiante si sovrappose il segnale di occupato. Depose il ricevitore e guardò la graziosa sveglia poggiata sul piano di cristallo sostenuto da un basamento a tamburo di legno istoriato e dorato: erano le otto e cinque. Che la dolce Salinda avesse riagganciato male il suo apparecchio, lassù nel Galles? Alzò di nuovo il ricevitore e questa volta l'apparecchio non diede alcun suono. Adesso era chiaro che anche il telefono era andato in tilt, mentre lei aveva un disperato bisogno di comunicare con il mondo. Se alle otto e mezzo in punto non si fosse messa in contatto con i tecnici rischiava di perdere la possibilità di farli venire in giornata. Salì velocemente la scala e tornò in camera da letto, un ambiente molto intimo che amava particolarmente, sui toni pastello del rosa, celeste e grigio perla. Lampade di porcellana chiara, dai paralumi rosati, poggiate sui piccoli cassettoni gemelli, ai lati del letto, diffondevano una luce garbata che accarezzava due poltroncine in stile settecento veneziano. Alle pareti, un crocefisso ligneo e una serie di immaginette sacre ottocentesche in cornici dorate. Giulia evitò di guardare il Cristo dal quale si sentiva ingiustamente abbandonata. Si vestì velocemente. Nell'ingresso infilò un vecchio cappotto di montone e uscì. Attraversò la via Tiepolo facendo lo slalom tra pozzanghere e auto, incurante della pioggia che continuava a cadere. Entrò in un bar tabacchi con l'insegna del telefono pubblico. Un marocchino armato di zelo e di uno straccio sudicio affrontava coraggiosamente un pavimento maltrattato da centinaia di scarpe, ma sembrava destinato a una clamorosa sconfitta. Giulia si avvicinò alla cassa dietro la quale troneggiava una giovane donna che aveva tutta l'aria di essere lì per sbaglio, mentre avrebbe dovuto trovarsi su un aereo per le Maldive. Era di cattivo umore e si vedeva. « Dica », l'aggredì la tabaccala guardando la cliente infreddolita come se fosse una chiazza d'unto sul suo vestito migliore. Un gettone », disse Giulia impaziente allungando duecento lire. « Fuori servizio », sentenziò la tabaccala alludendo al telefono pubblico. « Ma io devo assolutamente telefonare », insistè Giulia sull'orlo della disperazione. « Fuori servizio », ripetè fredda e spieiata come un cobra; quindi si rivolse a un paio di clienti che erano entrati e chiedevano un cappuccino. « Non potrebbe farmi usare il suo? » domandò supplichevole. « Quello lì », soggiunse indicando l'apparecchio accanto alla cassa. « Privato », la gelò senza guardarla, continuando a scambiare sigarette e caffè con danaro contante. « Tabaccala di schifo », scattò Giulia, « città di schifo, gente di schifo, mondo di schifo », gridò coinvolgendo irrazionalmente l'universo intero. Riattraversò il locale sotto gli occhi sbigottiti dei clienti, il silenzioso stupore della tabaccala, l'ingenuo sorriso solidale del marocchino. SÌ diresse quasi di corsa verso il bar latteria di piazza Novelli dove Giorgio e i suoi amici dissipavano la paghetta settimanale in merendine, Coca-Cola e juke-box. Il telefono c'era e funzionava. Giulia compose il numero del tecnico che conosceva a memoria. « Sono Giulia de Blasco », fece appena in tempo a dire all'addetto che aveva risposto all'altro capo del filo. Poi scoppiò in lacrime. Seminascosta fra cassette di birra, Coca-Cola e uno scaffale pieno di pasta e biscotti, nell'odore dolciastro di segatura bagnata, stringendo la cornetta lercia di un telefono pubblico, Giulia pianse senza ritegno. Pianse sulla sua vita sbagliata, sul suo matrimonio fallito, pianse perché anche suo figlio l'aveva lasciata sola, perché quel giorno doveva assistere all'esumazione delle reliquie del nonno Ubaldo. Pianse perché aveva la casa gelida, perché il telefono non funzionava, pianse perché a quarant'anni s'era innamorata come una ragazzina, ma soprattutto pianse perché lei stessa era andata in tilt. Qualcosa nella mirabile costellazione del suo organismo si era inceppato. Le cellule di un nodulo al seno prelevato un mese prima non erano del tipo regolamentare. Erano di quelle che continuano a ripetersi senza fermarsi mai. Come un interruttore che si accende e non si spegne più. Quel giorno accidioso di dicembre Giulia piangeva per molte cose, ma soprattutto perché aveva un cancro.

La stampa terza pagina 1986

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Levi, Primo 1 occorrenze

Sono, in maggioranza, ex ospiti degli ospedali psichiatrici: se non sono pericolosi, vengono dimessi e abbandonati a se stessi. All' estremo opposto, al vertice della civiltà occidentale, stanno le fonti della cultura: musei, biblioteche, scuole, teatri. L' offerta di cultura è terrific:si dice così, il termine è positivo. È terrifica per qualità e quantità, e desta reverenza. L' amico americano me ne dà una spiegazione diminutiva, che non mi appaga: al ricco, fondare un istituto culturale conviene, può detrarne l' importo dalla dichiarazione delle imposte. Non credo che ci sia solo questo. C' è sete di cultura e rispetto per la cultura; a lungo termine, la cultura viene sentita come un buon investimento. Meritano lode, gli incolti miliardari texani e californiani che investono in cultura i loro dollari; ma per ora, a termine breve, i frutti sembrano scarsi. La cultura americana ha punte altissime, produce eccellenti specialisti, ma la sua media è più bassa di quella europea. Come l' humus del sottobosco, la cultura richiede i secoli: surrogati rapidi, instant, non esistono.

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