Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbandonati

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Vietato ai minori

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Bonanni, Laudomia 3 occorrenze

Abbandonati i bambini (la scuola) abbandonati i ragazzi (esonero dal tribunale). Questi distacchi, sì, come tagliare un cordone, interrompere certi contatti con la vita. Che nella grande città comunque si perdono. Un ritorno estivo, di villeggiatura, all'aria montana. Nativa. Per quel che vale l'aria nativa. Dicono molto, non so. Forse un'aria di montagna qualsiasi avrebbe la stessa efficacia. Se l'avrà. Pare che si possa soffrire di qualcosa come un rigetto da trapianto. Trapianto riuscito? Si torna ai luoghi. Con una breve deviazione, ci passo. Rione antico. Qualche residuo medioevale, bifore per lo più otturate in parte a mattoni, una finestruola a crociera cava e fumicosa come se dentro ci fosse stato un incendio, residui di tortiglioni lungo piccole facciate di pietra, le aperture dei bassi a sesto acuto sormontate da stemmi corrosi. I leoni duecenteschi all'ingresso di una chiesetta, il dorso lisciato ad avorio dalle cavalcate dei bambini. Rosoni e portali del romanico più tardo, con gli acanti smozzicati dal tempo e dalle sassaiole. Tutte le chiese a incastro fra vecchie case basse a portoncini e finestrine. Rione popolare. Le piazzette a catena dove giocano rincorrendosi e gridando torme di monelli sordi ai richiami delle donne. Il vocio che arrivava nella cappella del carcere. Attaccato al fianco della chiesa maggiore _ una fiancata poderosa _ lungo, anonimo, ridotto a muro qualsiasi. Era il convento. Aspetto comune, riadattato _ incongruo in cima al portone il campanile _ si capisce la destinazione dalla targa avvicinandosi a leggere. O se vi arriva il cellulare. In sosta qualche utilitaria del personale, macchine di visitatori. È l'ingresso per gli adulti. Dall'edificio non scaturisce un suono un rumore (tranne durante le rivolte dei detenuti, che salgono sui tetti buttando tegoli e riempiendo i dintorni di rottami e clamori). Più giù il cancello dei ragazzi. Si travede la breve bordura e dietro il reticolato cielo e montagne. Sempre tutto allo stesso posto, tutto uguale. È cambiata la dicitura: prigione scuola _ riformatorio giudiziario. Tornano prigione e riformatorio. La stradina laterale scende in forte pendio. Sul viale sottostante, ampio viale della città nuova, il retro del carcere risulta elevato altissimo oltre la muraglia recente del terrapieno, a non saperlo non si riconosce. Una facciata giallina sopra muri alti e sui muri un alto reticolato, rade finestre che figurano piccole dal basso, le inferriate sono comuni a certe vecchie costruzioni. Poco oltre il moderno Grand Hotel, bandiere e macchine straniere, turismo aperto dall'ardita autostrada che " ha rotto l'isolamento con un balzo di secoli." Dalla stampa. A proposito di situazioni secolari rimosse: è sparito il Gabelli. Non per grazia di Dio e volontà del Popolo, ci ha lavorato il tempo. Abbastanza indisturbato, bisogna dire. Comunque "fine della fabbrica dei delinquenti," annunciata dai giornali. Chiuso per inagibilità. Pericolo di crolli. Si è scritto: pareti senza quasi più intonaco, ricettacolo d'insetti e parassiti d'ogni specie, servizi igienici pressoché inesistenti, convivenza esplosiva (i rieducandi coi corrigendi e i giudiziari), feroci pestaggi collettivi sempre più frequenti e indomabili. Al limite di rottura. Il famigerato Gabelli e il fantomatico San Michele, appiccicati per un fianco come fratelli siamesi, colossale scheletro _ ancora spettacolo architettonico al turista _ in attesa di restauro. Maturato anche il bubbone dell'assistenza. Coinvolta una congerie di gente dal basso all'alto. Si rivela il numero pletorico di istituzioni, lo sterminato quanto infruttuoso sperpero del pubblico danaro. Scoperti abusi vergognosi, condizioni ignobili, trattamenti brutali. Alla ribalta laici e religiosi, megere e monache, le monache smonacate e i preti corrotti, autoiità ignave e speculatori privati. Sono venuti fuori davvero strumenti di tortura, catene manette sacchi di contenzione (moderni in plastica) e violenze sevizie morti, sparizioni di bambini, occultamento di cadaveri. La favola dell'Orco attualizzata. Non più il grosso ghiottone avido di carne tenera, ma l'aguzzino sadico. Lo sfregiatore dell'infanzia. I lager dei subnormali. Scandalo infame e infamante. Atrocità che si riteneva appartenessero al passato, quanto meno alla letteratura ottocentesca _ romantica _ gli squallidi mostri di Dickens hanno rivisto la luce. L'abitudine mercenaria genera indifferenza, 1 indifferenza genera crudeltà. Bambini rinchiusi nei gabinetti, a dormire legati per i piedi a due a due, assicurati con catene, sporchi di feci, docce gelate e privazione dell'acqua per non bagnare i letti, fustigazioni correttive. Discriminati, emarginati, esclusi, trattati come adulti colpevoli, peggio, come bestie da eliminare. Non c'è stata per loro nemmeno la Protezione Animali. La piaga dell'assistenza ha fatto bubbone, così gonfio da scoppiare, è scoppiato, rovesciando pus e sangue. Rabberciato, continuerà a suppurare. Non si è messo mano al bisturi. Nell'ambiente (casta) deplorazione con prudenza. Eccessi della stampa, gli sfrenati paparazzi a caccia. Episodi, casi sporadici, generalizzati dilatati fino all'inverosimiglianza. Si eccita l'opinione pubblica. Chiedono sempre le teste. La Giustizia deve pesare con la sua bilancia. Infallibile? Ben regolata. Strumento necessario. Strumento. Ancora nella letteratura e nel cinema di tutto il mondo ricorre il motivo traumatizzante dell'orfanotrofio e del riformatorio. Incontri. Se ne parla. Qualcuno a riposo. Asprezza dello stato di vecchiaia e di cessazione d'attività (esercizio del potere). È della gioventù contemporanea che si parla. Opinioni recise, a volte contraddittorie. L'assurdo voler abbattere tutto. Mai si potrebbe ricominciare da capo. Anche i vecchi miti e i tabù puntellano qualche cosa, anzi tengono in piedi i muri portanti. La libertà assoluta è un vuoto da riempire. Gli infelici figli dei fiori, gli amanti dell'" erba," i disperati della droga. (Gli allucinogeni, questa sorta di fantascienza psichica.) Contestano la tecnica e cercano _ o credono _ di tornare alla natura, con la reazione incoerente dell'incivilito senza scampo. O altrimenti distruggendo. Morte alla famiglia. E poi si constata la mancanza d'amore alla base di frustrazioni e turbe. La gioventù al potere? Il quarto stato? Ma come sempre al potere borghese li porterà l'età. La borghesia non è una classe sociale ma la vocazione dell'uomo medio. Succederà anche a loro, a quelli che ci arriveranno. Intanto la criminalità minorile assume caratteri spaventosi deliranti. Appena maggiorenni colpire a fondo. La pena di morte. Favorevoli. Graziare dalla pena di vita. La morte la morte... La fine dell'uomo, l'oscura morte, non si osa chiamarla grottesca, ma tale è quale la meritiamo. Fenomeno nuovo: il suicidio dei vecchi. E stragi. Le donne hanno un sesto senso di preveggenza: ammazzano tutti i figli e si uccidono con loro. È cominciato lo scoppio della follia collettiva. Apocalisse. Giudici giovani: suicidio dei bambini. In pochi anni si è abbassata in maniera allarmante l'età dei disadattati, degli irregolari. Vero è che la legge non ha mai stabilito un'età per il decreto di ricovero: da zero a diciotto anni, dimissione anche al ventunesimo. Ma ormai si drogano gli scolari delle elementari. Rubano, fuggono da casa, si prostituiscono, non ancora quattordicenni. Ma assai più preoccupante è la tentazione del suicidio, il male misterioso attaccato ai bambini. Una estrema forma di fuga. Per ragioni diverse _ situazioni familiari, intossicazioni emotive stravolgenti _ o senza una ragione comprensibile, sempre più bambini, i bambini che non vogliono vivere. Freudiano istinto di morte. (Un vecchio appunto: Classe millenovecentoquarantatré: la leva del pianto. Le bambine della prima generazione che "a quel tempo" non c'era. Non ne sanno niente, la loro memoria è al di qua. I loro problemi sono in un segreto di radici. Sembrano portare in sé da una coscienza prenatale il senso della morte. I personaggi del primo decennio: ruolo inconsapevole. A caratterizzarle tutte è il pianto. Ogni impressione la chiamano paura, ma risulta come un sottile piacere. Parlano molto, insistentemente, con una effusione continua irreprimibile. Raccontano a scuola i fatti di casa propria, dei vicini, del quartiere, della cronaca, disgrazie malattie morti _vanno sempre a vedere i morti _ come storie romanzate, quasi con entusiasmo. In un travaglio sentimentale non privo di compiacimento. Poi per un nonnulla si sciolgono in lacrime, lisce facili veloci lacrime di emotività nervosa. Non lasciano traccia negli occhi, come un lavaggio igienico. La bambina che l'ultimo giorno di scuola, quasi per un traboccamento d'amore, mi disse d'avermi sognata morta.) Impassibile, il potere autoritario centralizzato smista i casi ridotti a pratiche cartacee. Autorità chiusa, decisioni anonime burocratiche. E sempre sistemi minacciosi punitivi, coercizione segregazione isolamento. È la critica del giovane magistrato progressista. Occorre il giudice nuovo che si liberi della toga. Che non sia ne imparziale ne, per carità, neutrale. Soprattutto bisogna spogliarsi della neutralità come della toga, restare solo e unicamente il difensore del più debole, il protettore dell'indifeso. Siamo in pochi e guai ad avanzare proposte innovatrici. Bollate come arbitrarie. Sovvertitrici. A nostra volta veniamo isolati e frustrati, ostacolati nel lavoro. Non esiste gente più inutile e dannosa di quella arrivata allo stadio del quieto vivere. Guai attaccare il concetto di autorità, l'autorità è intoccabile. E abbiamo a che fare con materiale umano, ragazzi bambini, sempre più bambini. L'altra parte: tentativi di scardinamento. Teorie permissive indulgenti a tempi di permissività forsennata. Criticati i colleghi nuovi come gli studenti contestatori, definiti con le stesse espressioni. Questi giovanotti, gli hippies della magistratura... Inatteso invito a colazione. Al ristorante del Grand Hotel modernissimo. Il vecchio signore, in privato così timido irresoluto taciturno, mi pilota decisamente a un tavolo d'angolo contro la vetrata. Sala terrazza sul tetto, veduta panoramica. Invito a guardare _ da lui forestiero. Guardo sorpresa. Da un lato l'orizzonte in larga curva frastagliata dalle montagne, cime di sasso nudo d'un cinerino etereo, più giù azzurre e negli anfratti viola, le pendici ricciute di boschi, al fondo la linea ondulata del fiume segnato dalla massa verde cangiante di pioppi e salici in mezzo ai prati. Le costruzioni recenti, disordinate anonime _ che invaderanno _ è possibile per ora ignorarle, l'occhio le elimina spontaneamente. " Guardi. " Guardo. L'altro lato. Il corpo della città antica _ dietro sempre le montagne _ un addossarsi di tetti rossi rugginosi e il colore caldo della pietra secolare, emergono i campanili, qualche cupola, la torre medioevale. E facciate facciate di chiese, scoperte _ come se fossero state sistemate a scenario per uno spettacolo dal cielo col traforo nitido dei rosoni. "Vede?" Vedo. Molto suggestivo, non immaginavo. Lo stesso albergo è a incastro fra l'antico e il nuovo, attaccato a un muro di pietra, apre sul viale. Lo sguardo percorre da lontano a vicino, s'accosta, s'abbassa. Voci, movimento. A livello di qualche piano inferiore, ragazzi in pantaloncini e canottiera giocano al pallone. Appaiono come ravvicinati da un binocolo. Spiazzo recinto da reticolato alto, un campo di gioco pensile. Sembra appartenere all'albergo. "Si ricorda le reticelle per le lampadine?" Non capisco ancora, ma sì che ricordo, furono messe, dopo anni. Il vecchio signore sorride, mentre il cameriere aspetta riguardoso. Sono loro, già. Quello così vicino è proprio il convento carcerario. Il reticolato così alto, già. E quelli sono proprio i ragazzi. Dice: Perché non ci va? Ho dovuto vincere certe intime resistenze, non me n'ero resa conto. Eppure deviavo per passarci. La cancellata esterna aperta, ma a che scopo entrare, tutto ormai così lontano. Io estranea. Invece mi torna di colpo familiare e ancora c'è chi mi riconosce, un agente anziano si fa incontro. Manda ad avvertire. Il censore si presenta subito. Ossia no, l'educatore. Sa chi sono, ne ha sentito parlare, ha letto qualche cosa. Gentile, accogliente. Piuttosto giovane, piccolo magro, voce pacata, mite. Il luogo è sempre quello. Un decennio, ma per certi cambiamenti non basta il secolo. (L'istituto degli orfanelli buttato giù e ricostruito a grande elevazione e con marmi, siamo tutti milionari anche le povere monache _ pensionato studentesse paganti.) Il cancello intemo, lo schiavardamento. Si conta di togliere questa chiusura, è in progetto l'abolizione delle sbarre. Stesso cortile, imbnittito dalla loggia con le colonne incorporate da un'otturazione a mattoni. Tuttavia sembra meno tetro, è l'ora che ci arriva il sole, di striscio. Sempre in uso per la ricreazione, ma vi sono sparsi attrezzi da ginnastica. E hanno il campo di gioco. Pallacanestro pallavolo, con pallone vero, certo. L'educatore mi conduce nel suo ufficio. Parliamo. Domando. Risponde di buon grado ragguagliandomi. Sposato, tre bambini. Buona cosa avere figli propri. A proposito di bambini, e del silenzio, un silenzio che colpisce. Infatti sono pochi. Sono, per la precisione, al momento, diciannove. Tutti grandi, scontano una condanna o in attesa di giudizio. Prigione scuola, detenuti, soggetti a reclusione completa, si capisce. Non esiste più il problema della promiscuità e dello spazio, dacché è stato costruito il complesso pilota per l'istituto di osservazione. Moderno in ogni accorgimento, ridente, fiorito e alberato, gran spazio all'aperto. Ne esistono pochi, a elencarli _ richiesto _ gli avanzano le dita di una mano. Purtroppo quasi dovunque permangono la promiscuità e l'affollamento, in certe aree depresse viene tuttora sfruttata la manodopera minorile. Qui si è avuta la fortuna, il privilegio, qualche conterraneo in politica, insomma arrivato nella stanza dei bottoni o press'a poco. Domando dall'aula interna per il Tribunale. Smobilitata e utilizzata (adesso che lo spazio avanza). Le udienze si tengono fuori _ già, come prima _ al nuovo palazzo di Giustizia (mastodontico incombente _funzionale _chiamato subito il palazzaccio) qui è tutto troppo vecchio. Indecoroso, sì, per i giudici. Però molti miglioramenti, gabinetti docce, camerate rinnovate, refettorio con tavoli separati: se vuole vedere. Voglio vedere i ragazzi. (Vedrò nelle porticine mai aperte, cubicoli che ora ospitano secchi scope strofinacci. Gli agenti sempre dalla carriera carceraria _il direttore lo stesso del carcere _ma comincia ad arrivarne qualcuno giovane preparato ai corsi indetti dal ministero. Le ragazze? Come se non esistessero. Ah sì, il numero aumenta, fughe da casa. Aggregate alle adulte o negli istituti retri da monache, bisogna mandarle fuori. È cambiato tutto e non è cambiato niente. L'educatore espone idee innovatrici, un po' didascalico, con una leggera enfasi. La retorica, se così può chiamarsi, derivante dalle teorie avanzate che si studiano al biennio per il titolo di assistenti sociali . E comunque ricorrono ormai sulle bocche, se non altro, di tutti. Largamente insistentemente sulla stampa, nazionale e internazionale. Comprendere i giovani, mutare metodi sistemi (non il sistema) guardarsi dall'autoritarismo. La voce pacata mite. (Paternalismo?) Si attiene al generico. Ho l'impressione di non poterlo riportare su un terreno realistico, che non riuscirei facilmente a indurlo ad aprirsi, magari quei pertugi involontari così penetranti. Del resto non ci provo neppure, è solo una visita unica occasionale. Mi limito a qualche notizia, informazioni sul genere dei reati, dandomi io stessa le risposte: prevalgono sempre sesso e danaro. Lo ammette: le statistiche, sicuro. Sento che non si lascerebbe andare sulla propria situazione interna, i comuni fenomeni dell'isolamento e della convivenza tra maschi. (Quei cedimenti, in fondo compiaciuti, del censore che fra il dire e il non dire lasciava intendere e alla fine parlava.) Discrezione professionale, oppure ritegno di padre di famiglia, i tabù dell'adulto. O forse darebbe per sottinteso che anche certi problemi siano superati, in risoluzione? Non è da credere i ragazzi di oggi più trattabili ne davvero più continenti. Al contrario, hanno avuto fuori possibilità di esperienze vietate ai minori delle precedenti leve. Facilitato lo sfogo naturale e con maggiore naturalezza, coetanee consenzienti, le compagne di scuola che portano nella borsetta il preservativo. Necking e petting, frequentazione mercenaria, omosessualità di ripiego o d'elezione, marchette e pugnette: deve esserci qui dentro l'intero campionario. D'altronde tutte le pratiche sessuali, comprese quelle dette contronatura, sono antichissime, vecchie quanto l'uomo. Semen retentum venenum est. Con buona pace. Mi torna in mente la Mercedes targata Roma vista all'ingresso. Parenti, sì ne vengono. Visita per un minore, i genitori. Temo di aver disturbato. Posso star comoda, sono dal direttore. Effettivamente, statistiche alla mano, prevale ormai di molto il numero dei cittadini sui paesani, è cambiata anche la classe sociale, ceto alto. Questi della Mercedes, gente perbene, facoltosi industriali: la disgrazia li ha fulminati. Una sciagurata faccenda. Ebbene, ne hanno parlato abbondantemente i giornali, è noto, il caso della straniera quindicenne violentata a turno. In sei, appunto. Questo che abbiamo qui è uno dei sei. Ottimo ragazzo, comportamento ineccepibile, umiliato ha vergogna si apparta. Sa, le cattive compagnie, in gruppo sono capaci di tali eccessi... Si è lasciato trascinare, realmente lui il meno responsabile, coinvolto. Ma l'ha fatto? L'ha fatto. Sa come succede, spinto beffato, per non essere da meno.. Lo difende. Difende la Simiglia. Rinnegano la famiglia e la sostituiscono col gruppo. Il vagabondaggio ormai consiste nelle fughe da casa. La famiglia avrà le sue carenze, spesso inconsapevoli, le si attribuiscono colpe anche immeritatamente. C'è nell'aria qualche cosa... contestano tutto e tutti... (In sintonia con la situazione generale.) Le rivolte contro i padri e la loro generazione in blocco. Si è creata una condizione d'impotenza dei genitori, degli adulti, alla quale non si sa che contrapporre. L'umanità sembra essersi scatenata ed essi pure, i ragazzi. Il ladruncolo è diventato scippatore motorizzato rapinatore armato, le violenze carnali solitàrie sono diventate stupri collettivi. Gran furti di macchine. Da aggiungere politica e droga, i reati nuovi. Ascolto lo sfogo inatteso che ha spazzato l'ottimismo teorico dell'educatore. Ma si riprende: occorre aver fede, opporsi al dilagare, abbiamo la volontà e gli strumenti. Mi domando quali. Ho sentito il vocio. Sono a ricreazione in cortile. Andiamo. Aperto e richiuso il cancello, vedo che all'interno è staio decorato: lunette triangoli rombi cerchi, applicati sui ferri e verniciati a colori smaglianti. Irriconoscibile, non sembra lo stesso cancello. Fatto dai ragazzi. Decorazione pop. Come gusto all'educatore non piace. Ma sorride indulgente. Alcuni stanno agli attrezzi, correndo su e giù, saltando. Altri guardano. Non guardano noi. Appena qualche occhiata indifferente o blanda curiosità. (Se ricordo quella selvaggia di allora...) E anche l'aspetto è diverso. Il modo di vestire, di muoversi, la corporatura, come se appartenessero a una razza più sviluppata, capelli lunghi perfino alle spalle, spiccano due biondissimi. Viene un agente: chiamata dal direttore. Il chiamato si muove dall'angolo dove se ne stava solitario. Alla mia occhiata l'educatore annuisce. E lui. Passa senza salutare e senza volgersi. Piccolo bruno, ricci leggeri, viso gentile imberbe: la vecchia impressione d'un aspetto non corrispondente al reato. Sono io a far cenno, sentendomi quasi in fallo di disobbedienza. Ne arrivano. Di corsa o molleggiando, in pantaloni corti di tela, camicie aperte sul petto, torsi lisci freschi. Alti belli elastici, capigliature ondeggianti. Tutti con qualche cosa al collo, rosari bianchi (distribuiti dal cappellano), catene tese da medaglioni pesanti, simboli, le croci di chiodi neri, uno porta appeso un ciucciotto da neonato. Mi sembra di essere a Trinità dei Monti, fra gli hippies bivaccanti per la scalinata. Parecchi vengono infatti da Roma, ve n'è di torinesi e napoletani, i due biondi veneri. Circondano sorridenti senz'ombra di timidezza o d'imbarazzo. Anzi confidenziali. Non sono più i brutti e squallidi, le facce stralunate o ipocondriache, una sorta di misantropia senile. Forse qualcuna allucinata, droga? L'educatore senza il piglio autoritario, la grinta del censore. Non ce l'hanno con lui, non ne hanno paura. Si direbbero rovesciate le posizioni. Che abbiano paura quelli che prima la mettevano, cioè non propriamente invertite le parti, paura no, il potere è sempre dalla stessa parte, ma una tal qualw circospezione. Prudenza. Mi rendo conto di quello che è davvero cambiato: sono cambiati i ragazzi. Sento il passato così remoto. Nel frattempo il mondo si è precipitato, non si sa ancora bene se avanti o indietro. Ispeziono, dopo le facce, i muri,, come se mi aspettassi di ritrovarvi la scritta a carbone. Magari a vernice indelebile. (Per le strade dominano simboli e slogan di partito, in ribasso i soliti falli, comunque se ne vedono, ma evoluti nel disegno, stile Picasso Amori di Raffaello.) Facciamo l’amore non facciamo la guerra, sarebbe l’aggiornamento più ovvio. Oppure abbasso la guerra viva la guerriglia. Già, i politici, questa nuova specie. Hanno combattuto alle università, disselciato strade, usato catene, tubi di ferro, bottiglie molotov, le battaglie ideologiche. Questi non sono gl’infelici figli dei fiori, i disperati della droga, i delinquenti comuni, i fuorilegge passivi. Qui dentro, in definitiva, e per assurdo, forse i migliori, quelli ancora vivi, che non si lasciano solamente esistere. Qualche cosa si è smosso. Ed è terribile pensare che il rifiuto ma soprattutto la violenza facciano cambiare qualche cosa. La violenza. Come le doglie che via via sforzano e la risolutiva che spinge col sangue alla nascita. Da dove vengo? Prendono l’iniziativa, interrogano loro. Dove abito io e dove abitava l’interrogante. A Piazza Navona. Ride. Certe volte a Santa Maria in Trastevere. Dopo lo rimanderanno a casa. (Se ci resterà.) Mi rivolgo all’educatore: Posso fare qualche domanda? Anche lui sottovoce: Meglio no. Ai ragazzi: Andate a mangiare. Ne restano. E un piccolo napoletano dagli occhioni patetici me lo dice: Tentato omicidio. Può essere stata una rissa fra ragazzi o un fatto grave, scontri con la polizia. Non mi riesce, come essi apertamente, di disobbedire all’educatore. Sfugge la domanda stupida: che desiderano. Sono venuta a mani vuote. Sigarette, m’era balenato. Ignoro se sia permesso fumare lecitamente, di nascosto s’è sempre fatto, un tempo perfino foglia secca con carta di giornale, capaci oggi di procurarsi l’"erba". Ma che domanda stupida: desiderano la libertà e basta. Il napoletanino patetico: 'O mare. E gli altri scanzonati: Ci saluti Roma.

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Dal brefotrofio finiscono per andarsene quando le obbligano ad allattare anche quelli già abbandonati. Franco non ha che due freghi. Come lo chiamo alza la sua fronte di capretto e s'invermiglia. Vedo gli occhi lattiginosi dolci che ha, mi guarda finalmente in faccia. Nel quaderno la scrittura sbilenca va prendendo qualche forma. Impugna la penna ancora con tutte le dita, tenacissimo. Adopera meglio la sinistra. "Scrive proprio bene," dico all'aspirante accusatrice per quella sinistra. Come Leonardo. E lo sento per la prima volta ridere, fa un piccolo gorgoglio emozionato. Ride, Franchino, con una di quelle boccucce di latte a granitura minutissima che mandano in visibilio le madri.

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Vi sono monellucci che la famiglia senza risorse spinge all'accattonaggio, bambini abbandonati, ladruncoli, vagabondi, rissosi, i cosiddetti "generici". (Se si fa vedere qualche madre delle borgate è per piangere, se parlano è per lagnarsi con la monaca di questa maledizione dei figli, cercare a lei un sistema per abortire meno pericoloso del ficcarsi dentro un corpo estraneo.) C'è un calabresino bruno come un moretto, occhi neri dolcissimi, che il fratello maggiore fornì a Cosenza del biglietto ferroviario e spedì alla capitale contando che sarebbe stato fermato e messo in qualche posto a spese del governo: ebbe il tempo di godersi la capitale per qualche giorno. C'è la bambina che vide sgozzare la propria madre dall'uomo nero" e rimase coricata con la morta l'intera notte, la trovarono che cercava di scaldarle le mani. Una coppia d'indivisibili _ prima di qui non si conoscevano _ simpaticissimi. Vogliono fare i meccanici, come spesso ambiscono i ragazzi, e sembra questo ad accomunarli. Ma se pure si trattasse d'una indivisibilità di natura più intima, ebbene ? Due faccette serie, fruste, con pieghe dolorose, la patina dell'esperienza. Aspettano di essere destinati insieme a qualche istituto. (Ma si baderà a non separarli?, le assegnazioni sulla carta separano anche i fratelli.) Genitori all'ospedale, in carcere, morti. Uno ha detto con importanza: Mamma eia il cancro alle budella. L'altro, rimasto completamente solo, per mesi ha dormito dove capitava e provveduto al proprio sostentamento. C'è il ribelle disadattato irreversibile che coi mezzi comuni _qui senza mezzi _non si riesce a domare. Facile predirgli la galera, previsione dell'agente. Una faccia sbalestrata. Arretra divincolandosi e parando il braccio. Deve averne preso di botte. Si lascia infine toccare con un lungo fremito come una belva. È la terza volta che lo portano qui (ci ritrova il fratello e la sorellina con la bocca storta per una paresi), dai salesiani scappa. Gli domando perché. Menano col manganello. Attorno si ride. Sbaglia sempre, vorrebbe dire campanello. Gli davano sulla testa il campanello delle lezioni. Questi tipi scappano tutti dai salesiani, conferma la suora. La disciplina della comunità applicata di colpo deve risultare come una imposizione subitanea e incondizionata di virtù al gran peccatore. Anche le città i borghi dei ragazzi, superata la fase eroica del rastrellamento fra le macerie e dei capannoni a tettoia, costituiti a organizzazione regolamentata, escludono gl'irregolari, la loro collocazione resta l'ospedale la neuro il manicomio il reclusorio. L'" artista" si esibisce davanti all'ospite su un pezzo sgualcito di giornale, col mozzicone di matita traccia a segni rapidi e sicuri grosse teste sbilenche espressive. Sono avidi di carta, c'è gran consumo di giornali vecchi. Quello che crede di prepararsi all'esame d'ammissione _ ma non ha libri, gli fanno fare qualche cosa per tenerlo buono _si offre di leggermi un suo tema. E vuole mostrarmi la fotografìa di quando cantò alla Rupe Tarpea. (Be', non ce li hanno buttati.) In cinque o sei spostano i tavoli con fracasso, vi mettono sopra le panche, staccano dal muro foto accartocciate. È davvero lui al microfono. E gerite intorno, signore e signori, pezzi grossi. Ebbero un gran pranzo. Eh, dice rimirandosi, sono proprio io.. Ora è seminudo sporco irsuto. Non ce tengo, dice, a dove sta qua dentro uh piagnerei. Va e viene. Ci sta da sei mesi. Ebbero anche i pacchi dalla "moglie della Repubblica," insomma la Presidente. Un pacco per uno, ma c'era roba piccola, i calzoni non entravano, la maglietta a una coscia. Che si credevano, il brefotrofio. Domando perché si trova al San Michele. So' cattivo, mbè. Ma cede la sua spavalderia, gonfia gli occhi di lacrime e s'allontana. Questo mostruoso San Michele. Almeno separarli maschi e femmine. Nel putiferio che a tratti si scatena, suor Maria Elodia ripete che i maschi hanno già le veneree. Basterebbe intanto un semplice cambio: gli uffici ai cameroni tetri e i piccoli ai saloni degli uffici, vedrebbero il Tevere come un pezzo di mare. Certo, è solo uno scherzo. Sia l'agente che la monaca a sentirmelo dire hanno riso. Ma si sta provvedendo per iniziativa della questura. Sì, proprio la questura. Appello a tutta la cittadinanza abbiente. E l'istituto di osservazione al centro minorile? Risposte evasive, come se non si sapesse che è, il Gabelli viene sempre chiamato riformatorio. Bene, milioni se ne sono già raccolti. C'è stato il famoso ballo, ne parlarono le rubriche mondane. Mi si mostra il ritaglio di un diffuso quotidiano: civettuolo titolo "II ballo dei nastri," cronaca d'un "avvenimento mondano di memorabile eleganza" a totale beneficio della erigenda "Casa del fanciullo". Le vie della provvidenza sono infinite: questa forse, gira e rigira, alla fine arriverà.

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CHI VUOL FIABE, CHI VUOLE?

660222
Capuana, Luigi 1 occorrenze

Ritrovarono, buttati in un canto, i pali e i picconi abbandonati là mesi addietro; ma della buca nessuna traccia. Esitavano, un po' scombussolati dalla risposta del vecchio. - Furbo il vecchiaccio! - esclamò colui con le braccia. - Ha detto a quel modo per impedirci di tentar di rompere l'incanto. E cominciò a dar colpi di palo alla porta nello stesso punto ove si era richiusa la buca. La parete non cedeva: sembrava di bronzo. Allora l'altro ebbe l'idea di appoggiarvisi con le spalle, e di far forza puntando i piedi al suolo. La parete crollò. Questa volta essi non ebbero più nessuna esitanza di entrare, né temerono di esser bastonati di nuovo all'uscita; l'incanto era stato rotto dall'uomo senza braccia. E corsero fino in fondo, dove l'altra volta non erano arrivati. Le pietre preziose erano tali e tante, che essi non sapevano decidersi da che parte rifarsi per riempirsi le tasche. - Questa! - No, quest'altra! - No, quella là! - Non dubitare. Ritorneremo domani, domani l'altro e altri giorni e mesi ancora. Ora i padroni siamo noi. Non c'è più incanto. - Ricorda il patto! Ricorda il patto! - Scelgo il meglio per te. Questo non era vero; le pietre più belle e più grosse se le metteva in tasca lui. Esse pesavano, ma non come l'altra volta, da impedir loro di muovere un passo. Sul punto di uscire dalla grotta, esitarono un po', ricordando le legnate di quel giorno; ma non vedendo balenare bastoni per aria, rientrarono nella grotta, e dietro le loro spalle la porta si richiuse tutt'a un tratto ruvida, quasi di bronzo, com'era prima. - Avete dormito bene, compari? - Come su un letto di rose. - Eh? Dunque per romper l'incanto ci vuole l'omo senza testa? - Chi l'ha detto? Avete sentito male. Senza gambe ci vuole! - Siete allegro, compare! Scendendo la strada del monte i due cominciarono a bisticciarsi. - Tu m'hai truffato! - Guarda: le tue tasche son più piene delle mie! - Rimettiamo tutto in comune, e dividiamo pietra per pietra. Due parti per me, una per te. Vuotate per terra le tasche, colui con le braccia si mise a contare rapidamente. - Dici uno ... dici due ... dici sei, diciassette, diciotto, diciannove e venti. É una tua parte. Dici uno, dici due ... e venti. É un'altra tua parte. Ma contando per sé contava esattamente: - Uno, due, tre ... - E così prendeva il doppio. Quando stese la mano per rimettere in tasca al compagno le pietre preziose; gettò un grido quasi gli si fosse rattrappita dallo spavento, vedendo mutarsi in gusci di chiocciole tutte le pietre preziose che aveva davanti. Allora l'omo senza braccia non ne volle più sapere di costui. Andò a trovare un suo parente e gli raccontò ogni cosa. - E tu hai veduto e toccato con mano le pietre preziose? - Sì, le ho vedute e le ho toccate la prima volta. - E poi sono diventate gusci di chiocciole? - Sì, poi son diventate gusci di chiocciole. - E ti sei fatto segare le braccia per guadagnare quel tesoro? - Per rompere l'incanto ci voleva l'uomo senza braccia. Non la finiva con le domande, tanto gli sembrava incredibile quel racconto. Tutte quelle pietre preziose fattegli riluccicare quasi sotto gli occhi accendevano intanto l'avidità di costui. - Tentare non nuoce. E accompagnò l'uomo senza braccia in cima al monte. - Dov'è la grotta? - Era qua; come mai non si trova? Gira, rigira, non vedevano altro che massi, piante selvatiche e massi ancora. - Dov'è la grotta? Te la sei sognata. - Eppure son certo che era qui, e vi abitava un vecchio contadino che coltivava legumi e fiori, e non regalava mai un fiore a nessuno, perché, diceva, ogni fiore è una pietra preziosa pel suo tesoro. E il poverino piangeva, pensando che si era fatto segare inutilmente le braccia. Per un pezzo nessuno del paese ebbe il capriccio di salire in cima al monte. C'era, non c'era più il vecchio? Lo avevano quasi dimenticato. E se qualcuno accennava al tesoro incantato nella grotta lassù, si sentiva rispondere: - E infatti lo presero, l'omo senza braccia e quei dai gusci di chiocciola! Quegli era morto di dolore da parecchi anni. E prima di lui era morto il suo compagno impazzito, che portava le tasche piene di gusci di chiocciole e voleva venderli per diamanti. Ma un giorno quel paese fu messo sossopra da un inatteso avvenimento. Andava attorno per le vie una povera donna, vestita a bruno, stracciata, magra scheletrita, con un bambino in collo, più magro e scheletrito di lei: - Fate la carità a questa infelice creaturina! É nata senza braccia! Fate la carità! Da principio nessuno le aveva badato, le davano una monetina, una fetta di pane, qualche frutta secca, e non volevano neppur guardare il bambino che era denudato fino alle spalle dove avrebbero dovuto essere attaccati i braccini e non si vedevano neppure i moncherini. Poi qualcuno disse, scherzando: - Ecco chi romperà l'incanto del tesoro lassù! Lo ripeté un altro, poi un altro. - E chi sa che non sia vero? Parecchi ebbero la curiosità di andare a vedere se il vecchio contadino viveva ancora. Lo trovarono che zappava il terreno, forte, robusto e allegro, quasi tanti anni non fossero passati su lui. - Quanti legumi! Quanti fiori! - I legumi per lo stomaco, i fiori per la vista. - E il tesoro? - É incantato nella grotta. Per rompere l'incanto ci vuol l'omo senza braccia. - Un grande tesoro? - Il più grande che sia al mondo! La comitiva tornò in paese gongolante di gioia. Lungo la strada avevano ideato un progetto per arricchire tutti. Dovevano dare alloggio e vitto a quella poveretta col bambino monco di braccia: e appena quei due si fossero un po' rimessi in carne, accompagnarli lassù dal vecchio: - Ecco l'omo senza braccia! Quell'altro se le era fatte segare, ma era nato e cresciuto con le braccia. Questi no. Il tesoro era dunque destinato a lui. Ci voleva poco a capirlo. E fu una gara per alloggiare e nutrire mamma e figliuolo. Ad evitare insidie e rancori, essa andava ad abitare e desinare a turno da una casa all'altra. In meno di un mese, mamma e bambino non si riconoscevano più; lei pienotta, il bambino roseo, grassoccio, un amore. La poveretta, che ignorava il motivo di tanta carità, benediceva l'ora e il momento in cui aveva messo il piede in quel paese, e non sapeva spiegarsi perché ai suoi ringraziamenti tutti rispondessero: - Dobbiamo anzi ringraziarvi noi! Ognuno pensava alla parte del tesoro che gli sarebbe toccata; giacché ormai era stabilito tra tutti che il tesoro doveva venir diviso in parti uguali: la mamma e suo figlio prenderebbero per quattro, com'era giusto. Oh se avessero potuto far crescere il bambino a vista d'occhio! Invece, disgraziatamente, dovevano attendere che fosse diventato omo, come aveva detto il vecchio di lassù. E perciò tutto il paese viveva in continua trepidazione per la salute del bambino. Avrebbero voluto tenerlo tra la bambagia per non farlo sciupare. E se accadeva qualche piccola novità, la notizia passava di bocca in bocca: - Ha tossito! - Ha i dolorini! - Ha messo un dente! - Ha la rosolia! E, di mano in mano che veniva su, le trepidazioni aumentavano: - Non correre! - Non ti scalmanare! - Bada di non cadere! E se per caso inciampicava, tutti gli erano a torno: - Ti sei fatto male? - Dove ti duole? Peggio ancora quando fu divenuto un bel giovinotto. Ognuno si credeva in dovere di tenerlo d'occhio, di sorvegliarlo, di ammonirlo più che se fosse stato proprio figlio. Fortunatamente il giovane era buono d'indole, e non si spazientiva. Veniva trattato bene in ogni casa, vestito, ripulito a spese di tutti. E siccome sin dai primi anni si era visto trattar così, non si maravigliava di nulla, e non domandava neppure alla mamma perché ella e lui soltanto godessero in paese quella vita privilegiata. Con l'età intanto gli cresceva anche l'intelligenza, e il vedersi privo di braccia, tronco inutile per sé e per gli altri, lo rendeva così malinconico e taciturno da impensierire tutto il paese, che appunto dalla disgrazia di lui si attendeva di diventar ricco senza lavorare, per via del tesoro. In ogni casa, da mattina a sera, non si faceva altro che almanaccare quanto sarebbe toccato a ognuno. Ricchi e poveri, signori e contadini, vecchi, donne, fanciulli ... non ci doveva essere nessuna differenza; parti uguali, prelevate le doppie parti della mamma e del figlio. E se questi volesse di più, gli si darebbe senza fiatare. C'era una specie di congiura fra tutti gli abitanti per mantenere il segreto. Se la gente dei paesi vicini avesse trapelato qualcosa del tesoro incantato, avrebbe potuto accorrere, stabilirsi là ... Non era facile impedirlo; e allora, bisognava fare troppe parti; ché! ché! E parlavano del tesoro sotto voce anche tra loro. Vedendo divenire il giovinotto ogni giorno più triste, non sapevano che cosa inventare per svagarlo, per divertirlo. - Che vi manca, figliolo? - Niente! - O dunque? Non sorridete, non cantate più; eppure siete tanto ben voluto da tutti. - Il bene è un'altra cosa. Non mi lagno di loro. - Di che vi lagnate? - Della sorte. - Zitto! Non sapete quel che vi dite. Voi fate la vita di un Re; anche meglio di quella di un Re. C'è chi pensa ad alloggiarvi, a vestirvi, a imboccarvi ... Che cosa potreste desiderare di più? - Un paio di braccia! - Zitto! Non sapete quel che vi dite. Vi toccherebbe di lavorare come tutti noi, arrostirvi al sole, bagnarvi alla pioggia, e vi toccherebbe a patire qualche volta anche la fame! - Non m'importerebbe nulla, pur di avere le braccia! - Andiamo! É una fissazione. Mangiate, bevete, dormite e non pensate ad altro. Qualcuno soggiungeva: - Non so cosa pagherei per essere come voi! Quegli scoteva la testa, e si allontanava malinconico e taciturno. Parlava poco anche con sua madre; sembrava che gliene volesse perché lo aveva partorito senza braccia, quasi la colpa fosse stata di lei. E accadde quel che doveva accadere: si ammalò. Deperiva a vista d'occhio, con gran terrore di tutti. Gli mancavano ormai pochi mesi per compire i ventun anni per diventare omo, come aveva detto il vecchio e come ripeteva ogni volta che mandavano qualcuno ad interrogarlo. Il vecchio era sempre lassù, tra i suoi legumi e i suoi fiori, arzillo, allegro, quasi gli anni non avessero nessun potere su lui! - Per vincere l'incanto ci vuol l'omo senza braccia! E l'omo senza braccia minacciava di morire prima di arrivare ai ventun anni! Tutti i medici del paese gli stavano attorno. L'osservavano, lo palpavano, si consultavano tra loro. Chi ordinava una medicina, chi un'altra. Gli facevano prendere pillole, ingoiare intrugli di ogni sorta. E lui, pur sottomettendosi pazientemente ad eseguire quelle ordinazioni, ripeteva di tanto in tanto: - La vera medicina sarebbe un bel paio di braccia! - Zitto! Non sapete quel che vi dite! Il paese sembrava in lutto, più che se in ogni casa ci fosse un malato gravissimo. S'interrogavano desolatamente: - Come va? - Sempre peggio! - E che ne dicono i dottori? - I dottori, a quel che pare, ne sanno meno degli altri. - Che disgrazia se morisse prima del tempo! Che disgrazia! E quando fu notato un piccolo miglioramento, tutti sembravano quasi impazziti dalla gioia. - Una settimana ancora, e saremo ricchi più del Re! - Come va? - Meglio! Assai meglio! - Tre giorni ancora, e la nostra fortuna sarà fatta! La mattina in cui l'omo senza braccia compì finalmente ventun anni, la gioia di quella gente non ebbe più limiti. Spari, scampanii, canti, abbracci, baci. Tutti per le vie, e poi a processione dietro l'uscio della casa dove quel giorno mamma e figliolo erano ospitati. Quel povero diavolo era sbalordito; la sua mamma più di lui; non sapevano spiegarsi quel gran chiasso. - Al monte! Alla grotta! E si avviarono, portandolo sulle braccia, in trionfo. - Al monte! Alla grotta! I ragazzi, quantunque ignorassero che cosa si andasse a fare lassù, saltando, scapricciandosi in capriole, avanti; e dietro uomini, donne, anche coi bambini in braccio, vecchi, e questi apparivano più lesti degli altri, non ostante l'età; l'idea di esser ricchi tra pochi istanti avea lor rafforzato quelle gambe che ieri si reggevano male. Erano così impazienti di arrivare, che per poco non credevano a un malefizio per cui si allungasse la strada di mano in mano ch'essi avanzavano. E quando scòrsero il vecchio che zappava e non si voltava neppure, quasi fosse sordo e non udisse i loro gridi di gioia, si fermarono meravigliati di trovare soltanto piante di legumi e non un solo fiore. - Salute, compare! - Salute, signori miei. Allora soltanto egli seppe perché lo avevano ospitato, vestito, nutrito per tant'anni con tanta cura. Non era stata dunque carità, ma sordido interesse. Infatti gli dicevano: - Divideremo in parti uguali; tu e tua madre, però, prenderete ciascuno per due. - Chi fa i conti senza l'oste, Gli convien farli due volte. - Perché dite così, compare? - M'intendo da me. Si erano affollati davanti alla grotta; avrebbero voluto entrare tutti insieme. Ma il vecchio disse: - Prima deve entrare lui solo; altrimenti il fondo della grotta non si apre. E l'omo senza braccia fu lasciato inoltrare solo. Lo videro appoggiarsi con le spalle alla parete; videro farsi un grande spacco dietro, di lui, e uscirne tale Splendore da abbagliare gli occhi. Fu un istante; la parete si richiuse. L'omo senza braccia era sparito, e il vecchio insieme con esso. Trascorsero parecchie ore di ansiosa aspettazione. Tutta quella gente non rifiatava. Si guardavano negli occhi interrogandosi. La mamma dell'omo senza braccia pareva istupidita da quel che aveva udito e visto. Con gli sguardi fissi verso il fondo della grotta, ripeteva sottovoce: - Figliuolo mio! Figliuolo mio! Tutt'a un tratto, la parete cadde giù e la folla si precipitò dentro le grotte che si internavano nelle viscere del monte in lunghissima fila illuminate da debole luce. Dapprima a tutti era parso di non vederci bene per la mezza oscurità. Poi la delusione fu immensa; quelle pareti che dovevano essere incrostate di oro e di pietre preziose erano rozze, affumicate, coperte qua e là di un po' di muschio verde, giallo, rossiccio che non poteva illudere nessuno. - E l'omo senza braccia? - Sarà in fondo, in fondo. Il tesoro è là certamente. Ne avrà già preso possesso. Ma più andavano innanzi e più la delusione cresceva. Nella grotta in fondo, neppure quel po' di muschio alle pareti! Rozzi massi sporgenti, buche fonde, e suolo umido e scivoloso ... - E l'omo senza braccia? E le pietre preziose del tesoro? - Sarà laggiù in fondo; il tesoro è là certamente. Ne avrà già preso possesso. E allora, proprio di laggiù, in fondo in fondo, videro avanzarsi l'omo ... non più senza braccia. Ne aveva due e le agitava trionfalmente, folle di gioia, e le gettava al collo di sua madre, stringendosela forte al cuore. Eran proprio le braccia che la Strega aveva segato a quell'altro. - E il tesoro? Il tesoro? - É questo: due belle braccia per lavorare! Avrebbe voluto abbracciare gli altri, ma tutti gli voltarono le spalle. - Tante spese, tante cure ... Ed era finita così! Chi la vuol cruda, chi la vuol cotta; Chi non la vuole me la riporti.

Il Marchese di Roccaverdina

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

E colà, contadini e lavoranti si erano abbandonati a una frenesia di grida, di salti di gioia nel cortile, mentre i ragazzi si divertivano a pestare coi piedi nelle pozze e a sbruffarsi in faccia, l'uno a l'altro, l'acqua raccolta nelle palme. Ora, affacciati alle porte delle stanze a pianterreno, si davano spintoni per buttarsi fuori a vicenda a prendere un'insaccata di quella che veniva più fitta quasi la rovesciassero con gli orci. «Eh, ragazzi! ... Finitela!», gridò il marchese sporgendosi dal davanzale. Eppure tutta quell'allegria avrebbe dovuto fargli piacere! La pioggia tanto desiderata e tanto invocata, gli aveva messo addosso, al contrario, un senso di tristezza; gli scherzi dei ragazzi lo irritavano. Aveva ripetuto anche ultimamente a Zòsima: «Non piove! Vedete? Non piove», e la risposta di lei: «Non c'è fretta!», gli aveva fatto una cattiva impressione, che però si era subito dileguata appena ella aveva soggiunto: «Margitello non vi lascia pensare ad altro!». E ora che la pioggia era venuta, e che pioggia! ora che il solo lieve ostacolo frapposto tra loro due era già rimosso, egli non solamente non ne sentiva gioia, ma stava là, davanti a quella finestra, con gli occhi fissi su gli eucalitti grondanti acqua dai rami curvi e dalle lunghe vecchie foglie lavate dallo strato di polvere che le aveva fatte ingiallire e inaridire; stava là, con gli occhi fissi, quasi il sogno che avrebbe dovuto presto avverarsi si allontanasse rapidamente, ed egli non potesse far nulla per arrestarlo o richiamarlo. E quel senso di tristezza che gl'invadeva il cuore era tanto più penoso e vivo, quanto meno egli scorgesse occasioni e circostanze da doverlo indurre a pensare così. La casa, rinnovata, era pronta; il voto di Zòsima esaudito. Che altro gli occorreva di fare, all'infuori di andare a prendere lei per mano, condurla davanti al sindaco e poi davanti al parroco, in riprova del proverbio citato spesso dalla zia baronessa: Matrimoni e vescovati dal cielo son destinati? In quel momento però gli sembrava che la riprova, sì, sarebbe avvenuta, ma nel modo opposto a quel che egli credeva e si aspettavano tutti. E, appunto, quasi gli avesse letto nel pensiero, l'ingegnere gli diceva: «La signorina Mugnos dev'essere lietissima oggi. Per dire la verità, essa si merita la fortuna di diventare marchesa di Roccaverdina; ma credo che se qualcuno, mesi addietro, glielo avesse predetto, la signorina si sarebbe fatto il segno della santa croce, come suol dirsi, quasi per scacciare una tentazione.» «Forse ... anch'io!», disse il marchese. «Il mondo va così, per salti. Non c'è mai niente di sicuro per nessuno. Agrippina Solmo ... per esempio ... chi sa che cosa si era immaginato di dover raggiungere! ... Ed è finita, prima in un modo, poi moglie di un pecoraio di Modica, che forse le farà desiderare fin il pane ... » «No; anzi la tratta come una signora.» «Gliel'ha fatto scrivere lei? Brava ragazza!», continuò l'ingegnere. «Non è facile trovarne, nella sua condizione, una uguale. Qualunque altra, padrona, com'era qui lei, di ogni cosa, avrebbe pensato ai casi suoi, si sarebbe fatto il gruzzoletto. Essa, niente! Ammirevole anche per la modestia. Avea voluto rimanere quella che era, fin nell'apparenza. Non smise mai la mantellina, e avrebbe potuto portare, meglio di tant'altre, lo scialle che ora portano tutte le popolane, anche se più miserabili. E poi, bocca serrata! ... Anche dopo, quando non poteva più lusingarsi con nessuna speranza, mai, mai una parola di dispetto o di sdegno. Dinanzi a lei, il marchese di Roccaverdina era Dio! E se qualcuno, per commiserarla o per stuzzicarla e provocarla, le diceva: "Il marchese avrebbe dovuto comportarsi meglio con voi! ... E qua! ... E là!", sa come sono certe persone! essa non lo lasciava finir di parlare: "Il marchese ha fatto bene! Ha fatto più di quel che doveva! Dio solo glielo può rendere!". Me l'ha raccontato mia moglie, che l'ha sentito proprio con i suoi orecchi, senza esser vista ... Insomma, lei, marchese, è fortunato con le donne ... L'una meglio dell'altra! ... Se lo faccia dire dal notaio Mazza che cosa significhi incappar male!» Il marchese avrebbe voluto interromperlo subito, appena pronunciato il nome di Agrippina Solmo; ma, nella gran tristezza che gl'infondeva la pioggia, quello spiraglio sul passato aperto dalle parole dell'ingegnere, quell'evocazione inaspettata lo avevano un po' commosso, spingendolo a ricordare tante e tant'altre cose con lieve senso di rimpianto. Perché, infine, la colpa era stata tutta sua. Per vanità di casta, per premunirsi contro se stesso, egli aveva dato marito alla Solmo, con quel tirannico patto, senza punto riflettere alle sue possibili conseguenze. L'ingegnere, vedendo che il marchese taceva, e supponendo che gli accenni al passato gli fossero dispiaciuti, tratto di tasca un sigaro e accesolo, si era messo a fumare e a passeggiare per la stanza, stirandosi le fedine. Il marchese intanto, tenendo ancora fissi gli occhi su gli eucalitti grondanti d'acqua, rincorreva col pensiero una figura bianca, con le trecce nere sotto la mantellina di panno blu cupo; e rincorrendola per luoghi da lui visti anni addietro, tra casupole arrampicate a la roccia quasi ad accovacciarvisi al riparo del vento, sentiva un sordo impeto di gelosia diversa assai di quella sentita una volta ... Poteva forse dubitare ora? Poteva forse indignarsi? ... Non era egli stato contento che colei fosse andata ad abitare in quella lontana città mezza rannicchiata nell'insenatura di una roccia, in una di quelle casupole arrampicate su pei fianchi di essa quasi per accovacciarvisi al riparo del vento? E si voltò bruscamente verso l'ingegnere, che passeggiava su e giù col sigaro in bocca stirandosi le fedine, in atto di dirgli: «Ma perché mi avete rimestato nel petto queste ceneri ancora calde?». Come se la tristezza che lo aveva invaso gliel'avesse soffiata addosso colui, come se gli avesse messo lui sotto gli occhi la visione di Zòsima malinconicamente rassegnata e che diceva con voce dolente: «Non c'è fretta. Margitello non vi lascia pensare ad altro!». Ed era vero!

Racconti 1

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Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1877
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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- Ed ecco che le carezze, i baci e gli abbracci, le intense gioie di innamorati alle quali si erano abbandonati spensieratamente, gioiosamente, come se egli, l'egoista! avesse ignorato che la povera creatura doveva piú prestamente restarne infranta, ecco, gli si mutavano tutti in angosce, in dilaniamenti ... - Me li merito! Merito anche peggio! - In certi momenti però, vinto dalla stanchezza di quella lunga dissimulazione, tentava d'illudersi: - La natura fa talvolta miracoli che stupiscono gli scienziati. Chi sa? ... - E osava sperare. Ma una notte Concettina lo svegliò con un grido - Lorenzo! Lorenzo! - E al vederla seduta sul letto, co' capelli sciolti, atterrita dallo sbocco di sangue rosseggiante sul guanciale, Lorenzo non sperò piú. Allora, per la prima volta, anche Concettina capí chiaramente di che si trattava. E gli si aggrappò al collo, piangente, con gli occhi smarriti dal terrore: - Lorenzo mio, dammi aiuto. Non voglio morire! - Non è niente - le ripeteva Lorenzo. Ma ella leggeva la sua sentenza in quegli sguardi desolati, in quel volto terreo e contratto dallo spasimo interno. - Mia madre è morta di questo male ... Dovrò morire cosí anch'io? Oh, no, non voglio morire! ... Sono felice, Lorenzo mio. Non voglio morire! - esclamava, straziante. Una tristezza quasi di lutto si addensò nella casa. Lorenzo, il povero vecchio di suo padre e la serva, istupiditi da quel silenzio pauroso, parevano tre ombre, tre anime del purgatorio raggirantisi per un luogo di pena. - Chi l'avrebbe sospettato? - smaniava don Giacomo. - Quel fior di salute! E l'ho costretto io a sposare costei! Ma come sospettare? - Concettina se ne stava in camera, rannicchiata nella poltrona tenendo socchiusi gli occhi, tossendo, ansimando, arsa dalla febbre che ormai non la lasciava piú, estenuata da sudorini ghiacci che le imperlavano la fronte bianca come cera, e si osservava continuamente le manine scarne. Voleva Lorenzo sempre accanto, agitata da terribile gelosia dell'avvenire, quand'ella non sarebbe stata piú là, come la sua povera mamma ... E perciò voleva portarselo con sé, per continuare ad amarlo ed esserne amata nella tomba, nell'altra vita, eternamente. - Baciami! Baciami! - gli diceva a ogni momento. Lorenzo esitava: quella continua eccitazione dei nervi agevolava la potenza del male. - Hai paura? ... Ti faccio schifo? ... - strillava Concettina, con voce strozzata da un gruppo di pianto. - Vuoi ucciderti, per forza? - balbettava l'infelice. Ella gli s'attaccava alle labbra con labbra scolorite e febbrili, stringendogli attorno al collo i braccini stecchiti: ed erano baci caldi, violenti, interminabili; cosí intendeva inoculare il proprio male al marito. La notte, se lo teneva abbracciato stretto stretto, fiato contro fiato, per compenetrarlo con la febbre che la struggeva, con quel sudore mortale che le agghiacciava il corpo e ch'ella voleva assolutamente fosse mortale anche per lui. E se Lorenzo resisteva a quei capricci di malata, ella dava in istrilli, in pianti, cadeva in crisi nervose che lo atterrivano, quasi dovesse spirargli allora allora tra le braccia. In quei momenti era spietata: - Ah, tu non m'ami piú! ... Sei stanco di me ... Me ne accorgo -. Lorenzo la supplicava a mani giunte e con le lagrime agli occhi. - Sí, me n'accorgo. Ti son diventata insopportabile. Ti par mill'anni di liberarti di questo cadavere ... Mi odii, forse ... - Concettina! - Non puoi ingannarmi; ti leggo nell'anima. Che infamia! Ti ho adorato piú di Dio; ti ho dato tutta la mia vita, tutta; muoio ... di amore ... per te; e tu intanto! ... Ingrato! Ingrato! ... E portava alla faccia sbiancata e macilente le scarne mani, scotendo desolatamente il capo, finché non veniva presa da un colpo di tosse che le facea perdere il respiro e la lasciava abbattuta, sfinita, tra i guanciali che la sorreggevano da ogni lato. Lorenzo, ginocchioni, piú pallido di lei, tentava di far le ingoiare un cucchiaio di calmante: - Per amor mio, per amore di te stessa! Vuoi proprio ucciderti con questi eccessi? - Vedendoselo ai piedi; sentendo quella voce piena di angoscia e che le rimescolava il cuore, ella si rizzava, e lo guardava, lo guardava, vinta da pietà di donna innamorata, capace di qualunque sacrificio. - Perdonami, - gli diceva, - perdonami! ... No, non toccarmi, non baciarmi. Sono appestata; allontanati! ... Tu devi vivere ... Vivi. Lasciami morire qui, abbandonata. Mi basterà vederti, sentirti parlare ... Dimmi però che mi vuoi bene ancora, come prima. Proprio come prima? ... - Anche piú! - Allora ... giurami che quando sarò morta tu non amerai nessun'altra donna. - Te lo giuro. - ... Che seguiterai a dormire in questa camera, in quel letto, con quella stessa biancheria ... - Te lo giuro! - Ah, se tu mentissi! ... Vieni, fatti piú accosto ... Dammi un bacio, uno solo! Sono diventata brutta, lo so senz'essermi vista allo specchio ... Ma ti voglio tanto bene! Tu sei mio, è vero, Lorenzo? - Tutto tuo, anima e corpo. - Ripetilo, ripetilo. - Tutto tuo, anima e corpo. - Grazie. Come mi fanno bene queste parole! ... Ah, se potessi risanare! Ah, se potessi almeno continuare a vivere in questo stato, a costo di penare il doppio, venti, cento volte piú! - Guarirai; ogni speranza non è perduta. Senza questi terrori, senza questi eccessi ... - Sarò buona, starò tranquilla; vedrai. Ti ubbidirò come una cagnolina ... Lasciati baciare ... Non ti faccio ribrezzo, è vero? No. Stringimi forte al cuore ... - Queste tregue duravano appena un giorno, qualche volta soltanto poche ore; poi la fissazione la riprendeva. Fra il bianco delle pareti, alla luce del giorno che penetrava dalle ampie vetrate con tutti gli splendori del maggio, in quel silenzio di ore ed ore, interrotto soltanto dal sommesso rammarichio di lei o dagli schianti di tosse che, di tratto in tratto, pareva dovessero soffocarla; quella figura squallida, da gli occhi infossati e diventati piú grandi nel volto rimpicciolito, dai capelli spettinati c he conservavano tuttavia i loro bagliori di oro filato, affondata fra i guanciali nella poltrona, perché a letto non ci voleva piú stare, oh!, era spettacolo pietosissimo. Lorenzo non doveva muoversi dalla camera dove ella non voleva vedere altri visi, neppure quello del suocero. Già invecchiato, quasi tutto incanutito durante quei terribili mesi, il povero Lorenzo non si riconosceva piú. Ed ella se lo divorava, silenziosa, con sguardi lampeggianti di fascino maligno. Voleva portarselo via con sé; voleva rapirlo a quell'altra che forse attendeva impaziente di gettarglisi tra le braccia, piena di salute, bella, amante e trionfante, tale da scancellargli dalla memoria ogni trac cia di lei. No, colei non lo avrebbe avuto. Non lo avrebbe avuto! Se ne sarebbero andati assieme, abbracciati nella morte come nella vita. Suo era, e colei non lo avrebbe avuto, no, no! E per non lasciarselo sfuggire, per paura che il male non gli si fosse attaccato abbastanza, tornava a baciarlo, a ribaciarlo, su la bocca, su le gote, sul collo, sugli occhi, sui capelli; talvolta lo mordeva, con furore di belva ... - Ah! ... Ti ho fatto male? ... - E subito lo baciava dove lo aveva morso, per attutirgli il dolore. Intanto egli doveva asciugarsi il viso coi fazzoletti tutti impregnati del sudore di lei; intanto doveva bere nello stesso bicchiere, dal lato dov'ella avea accostato le labbra ... No; non volea lasciare la sua cara preda a quell'altra! Infatti Lorenzo che davvero si sentiva morire a poco a poco, ora le si avvicinava con indefinito terrore superstizioso, pensando - I miei presentimenti, ecco, si avverano! - L'attesa della catastrofe, inevitabile, lo teneva invasato. E il giorno ch'ella gli disse: - Mi sento meglio - Lorenzo le prestò fede, tanto aveva bisogno d'illudersi. - Mi sento bene, quasi guarita improvvisamente. È effetto di questa bella giornata? Di questo sole? - Ridiventata buona, gentile, affettuosa come nei primi giorni, scherzava anche intorno alla sua malattia: - Alla fine vinco io ...? Doveva essere cosí! Ho una gran forza dalla mia parte: l'amore! - Ne hai un'altra: la gioventú -. E ne risero insieme. Quel giorno Concettina volle rivedere il povero don Giacomo, e gli chiese perdono di essere stata cattiva con lui: - Quando si è malati non si ha coscienza di quel che si fa. Oggi che sto meglio, vede? - Don Giacomo però non fu ingannato dall'apparenza: - Ahimè! La lucerna dà gli ultimi guizzi. Bisogna chiamare il prete, se pur si fa a tempo! - A un tratto, ella si sentí mancare; il debole filo che la teneva attaccata alla vita stava già per spezzarsi. Si abbandonò su la poltrona, guardando Lorenzo con sguardi d'invidia feroce: - Egli restava? ... Non andava via con lei? - Gli accennò, col capo: - Senti: spingi la poltrona verso il terrazzino; apri la imposta; voglio vedere la città e la campagna, per l'ultima volta ... Affrettati ... Affrettati ... - Lorenzo ubbidí, macchinalmente. - Guarda quel campanile ... - Lorenzo guardava, sbalordito. - Ricordati che lo hai veduto l'ultima volta con me ... E quelle colline ... quegli alberi! ... Ricordati, ricordati ... che prima di morire li abbiamo guardati insieme ... e che io ti ho detto: "Guarda, guarda! ..." E quei pini di Santa Maria di Gesú ... lí a manca ... dove spesso siamo andati a passeggiare, ricordati! ... Ricordati! ... - Lorenzo, trasognato, rispondeva di sí con la voce e col capo. Quel campanile, quelle colline, quegli alberi, quei pini di Santa Maria di Gesú se li sentiva imprimere negli occhi quasi per una malía che lo invadeva ... Non avrebbe piú veduto altro che quelli! ... Sempre! ... Sempre! ... Sempre! ... E Concettina, attiratolo al petto con sforzo supremo, cercando le labbra di lui che la reggeva per la vita: - Muori con me! ... Muori con me! ... - balbettava. Roma, novembre 1882@. 1882.

Racconti 2

662704
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1894
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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- Lo diceva senza malignità, forse; ma i contadini si sussurravano da un orecchio all'altro quelle parole, e guardavano in cagnesco il dottor La Bella che si prestava a dar la mano al pretore, al maresciallo, al parroco, quantunque confortati dal pensiero che il dottor Ficicchia non li avrebbe abbandonati. Una mattina però furono atterriti, apprendendo che il dottore e la sua signora erano partiti alla chetichella per Trizzitello, e avevano messo tanto di catenaccio alla porta di casa. Non c'era piú dubbio: quello era il segnale che il domani la macchina del veleno avrebbe cominciato a funzionare. Le autorità s'erano già messe d'accordo: un centinaio di morti, né uno di piú, né uno di meno! Il parroco, pover'uomo, aveva fatto quel che aveva potuto. Si riferivano le parole della discussione, quasi pretore, parroco e maresciallo avessero discusso in piazza alla presenza di tutti. Il piú accanito era stato il pretore, che avrebbe voluto almeno almeno dugento morti, scellerato! per ingraziars i il governo e ottenere una promozione. Al dottor La Bella venivano pagate dieci lire per morto. Almeno il dottor Ficicchia era scappato in campagna! Se n'era lavate le mani. Per fortuna del dottor Ficicchia, e piú del La Bella che passò dei brutti quarti d'ora, a Rammacca non avvenne neppure un solo caso di colera. E quando il dottore tornò in paese, dopo un paio di mesi di assenza, a coloro che gli rimproveravano la sua scappata, rispondeva con un sorrisetto malizioso, scrollando la testa, o brontolando fra' denti: - Se non me ne fossi andato! - E da lí a poco i contadini si ripeterono sotto voce: - Se non se ne fosse andato lui! - Si era saputo, di certa scienza, al solito, che all'ultimo il dottor La Bella non aveva voluto assumere da solo la responsabilità dell'eccidio, e per questo Rammacca non aveva avuto colera. Il dottor Ficicchia, scappando, aveva salvato il paese! Curando gratis a questo modo, il bravo dottore si fabbricò il palazzo, come diceva la sua signora, e allargò i limiti del fondo di Trizzitello, che divenne una tenuta. All'ultimo, fino il dottor La Bella dovette riconoscere che il suo avversario era piú furbo di lui; e per far bene i propri interessi, sposò una figliuola del collega, quantunque brutta e cieca di un occhio, e andò ad abitare nel palazzo insieme col suocero. Da quel giorno in poi però il dottor Ficicchia mutò registro nella sua condotta verso i contadini. Tutti i casi di malattia erano gravi: non si fidava di se stesso; suo genero ne sapeva piú di lui e lo mandava in sua vece. E col dottor La Bella non si canzonava; bisognava pagare, o le citazioni piovevano da tutte le parti quando i contadini non saldavano il conto delle visite. E se i clienti ricorrevano al suocero perché s'intromettesse, questi rispondeva secco secco: - Io non c'entro -. Solamente quando egli era convinto che non ci era proprio da cavare neppure un soldo dalle tasche d'un povero diavolo, riprendeva il metodo antico, e pareva concedesse una grazia, facendosi ricompensare il doppio al solito modo. Cosí c'era sempre qualcuno a Rammacca che, parlando del dottor Ficicchia, poteva ripetere come prima: - Almeno costui ci ammazza gratis! - Roma, 9@ 9 gennaio 1892@. 1892.

DISPERATAMENTE GIULIA

662788
Casati, Sveva 1 occorrenze

Giulia riconobbe il suo volto smarrito tra quei morti abbandonati e provò pietà per se stessa. Sapeva di sognare, sapeva che si sarebbe risvegliata, ma era certa che il suo stato d'animo, comunque, non sarebbe cambiato. Si svegliò. Albeggiava. Aveva le guance fredde e il naso gelido: l'estrema periferia dell'impero, come lei lo definiva, era un infallibile misuratore termico. Tolse un braccio da sotto la coperta di guanaco ed ebbe la conferma del freddo pungente. Usci dal letto con la memoria ancora piena dei morti del sogno, ma la certezza di avere sognato non le diede alcun sollievo. Saggiò con le mani il termosifone sotto la finestra: era freddo. Oddio, pensò, ci risiamo. Ogni inverno, al colmo del gelo, spieiata come il destino, la caldaia andava in tilt. La revisione autunnale non serviva. Quel maledetto aggeggio, nel momento meno opportuno, la tradiva. Si infilò la vestaglia, scese al piano terreno, entrò in cucina e affrontò la scala della cantina. Aveva i piedi intirizziti e una grande pena nel cuore come se tutto cospirasse contro di lei. Raggiunse lo stanzino della caldaia. Era una Vaillant murale, il meglio della tecnologia tedesca. Una fiammella azzurrina con venature rossastre guizzava nel fornello al centro del parallelepipedo di smalto bianco modulando una risposta beffarda ai suoi interrogativi. Il termostato era orientato sui ventidue gradi, la pressione dell'acqua era tra l'uno e il due, la valvola a farfalla per l'erogazione del gas era perfettamente aperta. Tutto era a posto, ma quel perfetto congegno teutonico non funzionava. Risalì in cucina. L'orologio elettrico sul frigorifero segnava le sette. Prima delle otto e mezzo non avrebbe trovato nessuno al centro assistenza per la manutenzione della caldaia. Ammesso che il centro fosse aperto. Era l'ultimo giorno dell'anno e tanta gente era in vacanza a godersi il lungo ponte di Natale. Giulia rabbrividì. Aprì il forno della cucina a gas e lo accese: era l'unica fonte di calore. La casa fredda le dava un senso di abbandono e vestiva d'angoscia la sua solitudine. Era la prima volta che affrontava da sola questo dramma domestico. Una volta c'era Leo, suo marito. L'inverno scorso c'era Giorgio, suo figlio, che con la vitalità dei suoi quattordici anni portava anche nelle situazioni più deprimenti un'ondata di speranza, ma cinque giorni prima il ragazzo era partito per il Galles. Giulia era proprio sola nella grande casa. Dalla strada, oltre il giardino, salì il gemito dell'avviamento di un'auto. Si sentivano passare le macchine sull'asfalto battuto dalla pioggia. Quel grigio albeggiare versava tristezza nella spaziosa cucina. Giulia si strinse addosso la vestaglia di un pallido azzurro, ma non ne trasse alcun calore. Si passò le dita sottili nella folta zazzera scura ricacciando indietro una ciocca ribelle che le scendeva sulla fronte. Decise di farsi un caffè. Poi, magari, avrebbe riletto l'ultimo capitolo del romanzo, del quale non era completamente soddisfatta. C'era qualcosa che non la convinceva. Dal forno veniva un tepore confortevole. Lavorare alla macchina da scrivere era sempre stata la sua medicina, un modo per non accorgersi del tempo che passa, il segreto per restare giovane e vitale. In questo modo, l'ora per chiamare il « caldaiaio » sarebbe venuta prima. Lontano, un imbecille mattiniero fece esplodere alcuni botti di Capodanno. Pensò, senza rallegrarsene, che la stupidità è inevitabile come la pioggia e il sole. Il caffè tostato all'americana, di un bei marrone dorato, spandeva intomo un aroma delicato. Lo versò in una lucente tazza di porcellana a fiori e cominciò a sorseggiarlo, bollente e amaro compera, guardando, fuori dall'ampia vetrata protetta da inferriate verdi, il giardino sfiorito dove i cespugli di rododendri, di azalee e di rose intristivano nell'aria già vecchia del giorno appena nato. L'ultimo giorno dell'anno o l'ultimo giorno del mondo? Giulia si sentiva percossa, sfilacciata e triste come il suo piccolo giardino. Scorse in quella desolazione i rametti scheletriti di un'ortensia che, smentendo la meteorologia e la stagione, stavano mettendo gemme. Quanto ottimismo, pensò con invidia. Lei non avrebbe messo gemme. Mai più. Viveva sensazioni indefinibili, isolata dal mondo e dai suoi stessi pensieri, posseduta da un'emozione intima e incomunicabile. Pensò che se ci fosse stato Giorgio si sarebbe sentita meglio, ma anche lui l'aveva piantata in asso, come la caldaia, sia pure con un preavviso di qualche settimana. « Sai, mammina (la chiamava sempre così quando voleva ottenere qualcosa), mi piacerebbe passare le vacanze di Natale dai Mattu », aveva cominciato a corteggiarla in novembre. I Mattu erano una giovane coppia di indiani con tré figli piccoli, vivevano a Swansea nel Galles e avevano ospitato il ragazzo l'estate precedente per un soggiorno di studio. Lui si era trovato benissimo. « Tesoro », aveva replicato Giulia con affettuosa ironia, « hai mai pensato che una vacanza in montagna, magari con tua madre, potrebbe essere più divertente e meno costosa? » Un mese o un secolo prima? Era comunque un tempo remotissimo in cui c'era ancora spazio per i progetti e la prospettiva di una vacanza sulla neve in compagnia del figlio le accendeva la fantasia e la faceva sentire giovane. Stava scrivendo il nuovo romanzo e viveva il dramma solitario ma eccitante dell'autore che non sa mai se riuscirà a portare a termine la storia che ha in mente. Il calore che usciva dal forno appannava le vetrate della cucina. Pensò con tenerezza a Giorgio che una volta aveva sorpreso a disegnare ingenue oscenità sul vapore rappreso e provò una gran voglia di sentire la voce del figlio. Abbandonò il tepore della cucina e affrontò il rigore del soggiorno per telefonargli. I tappeti color avorio che ricoprivano le mattonelle liberty erano morbidi ma freddi come la tappezzeria che simulava un muro tirato a stucco. Guardò il camino di marmo sovrastato da due candelieri e da una specchiera rettangolare chiusa nella cornice di noce scuro. Pensò che avrebbe potuto accenderlo. Sedette su uno dei due divanetti ricoperti di tela a grandi rose scarlatte su fondo verde e avorio, inforcò gli occhiali e cercò il numero degli amici di Swansea nella rubrica di pelle turchese, appoggiata, sul tavolino di cristallo, vicino a una grande e moderna abat-jour. Erano quasi le otto e Giulia sapeva che a quell'ora i Mattu erano in piedi. Le rispose la voce dolce di Salinda il cui volto, molto grazioso, Giulia aveva visto soltanto in fotografia. « Giorgio is sleeping », disse. « Ha fatto tardi ieri sera? » indagò Giulia sospettosa. « Soltanto mezzanotte », la tranquillizzò Salinda. « C'è stata una piccola festa tra ragazzi. » Giulia si sentì esclusa. Non ebbe neppure il coraggio di gridare che tirasse giù dal letto quel piccolo, sporco egoista, perdio! Prima d'allora non le era mai venuta in mente un'imprecazione di quel genere, per lei quasi una bestemmia, ma adesso, per la prima volta, sentiva irresistibile il desiderio di coinvolgere l'Onnipotente nelle sue questioni private, di coinvolgerlo con rabbia, rimproverandogli la sua latitanza o il suo accanimento. « Vuoi che lo svegli? » chiese Salinda, sempre dolce e comprensiva. « No », disse Giulia rassegnata. « Volevo sapere se è tutto a posto », mentì. In realtà voleva dirgli che stava al gelo, da sola, in quella vecchia casa senza qualcuno che le desse conforto, e che il gatto era finito sotto una macchina alcuni giorni prima pagando con la vita il suo primo anelito di libertà. Avrebbe voluto parlargli anche del dolore che si era annidato dentro di lei, ma nessuno dei due era pronto per quella confessione. E non poteva certamente dirgli che proprio oggi, ultimo giorno dell'anno, doveva andare a Modena, al cimitero, per assistere all'esumazione del nonno. « Davvero, Salinda, va bene così. » « Se vuoi ti faccio chiamare appena si sveglia », propose la giovane indiana che, sempre nella foto scattata da Giorgio l'estate prima, aveva l'aria di una casalinga appagata. « Vi chiamo io a mezzanotte per augurarvi buon anno », tagliò corto. « Abbracciami Giorgio. E ancora grazie. » Riattaccò rifugiandosi nel tepore della cucina. Il freddo le era penetrato fin dentro le ossa. Pensò al nonno, a quello che restava di lui e sorrise al ricordo di quel principe dell'avventura. Il comune di Modena aveva mandato a lei, a sua sorella Isabella e a suo fratello Benny, che mascherava sotto un ridicolo diminutivo il nome scomodo di Benito, una comunicazione firmata da! sindaco: le reliquie di Ubaldo Milkovich sarebbero state collocate in un ossario perenne per onorare la memoria del partigiano Gufo, figura di spicco dell'antifascismo, eroe della Resistenza. Giulia si era ripromessa di partire verso le undici per essere sicura di non mancare all'appuntamento fissato per le due del pomeriggio, ma adesso, con il problema della caldaia, sarebbe riuscita a rispettare il programma? L'orologio elettrico sul frigorifero segnava le otto. Tentò di mettersi in contatto con il tecnico della manutenzione. Si immerse nuovamente nel gelo del soggiorno, alzò la cornetta e si accorse che qualcosa non funzionava nel ricevitore. Invece del segnale consueto sentiva un suono gracchiante, fastidiosissimo. Premette ripetutamente il meccanismo del contatto, provò a formare un numero sulla tastiera e al suono gracchiante si sovrappose il segnale di occupato. Depose il ricevitore e guardò la graziosa sveglia poggiata sul piano di cristallo sostenuto da un basamento a tamburo di legno istoriato e dorato: erano le otto e cinque. Che la dolce Salinda avesse riagganciato male il suo apparecchio, lassù nel Galles? Alzò di nuovo il ricevitore e questa volta l'apparecchio non diede alcun suono. Adesso era chiaro che anche il telefono era andato in tilt, mentre lei aveva un disperato bisogno di comunicare con il mondo. Se alle otto e mezzo in punto non si fosse messa in contatto con i tecnici rischiava di perdere la possibilità di farli venire in giornata. Salì velocemente la scala e tornò in camera da letto, un ambiente molto intimo che amava particolarmente, sui toni pastello del rosa, celeste e grigio perla. Lampade di porcellana chiara, dai paralumi rosati, poggiate sui piccoli cassettoni gemelli, ai lati del letto, diffondevano una luce garbata che accarezzava due poltroncine in stile settecento veneziano. Alle pareti, un crocefisso ligneo e una serie di immaginette sacre ottocentesche in cornici dorate. Giulia evitò di guardare il Cristo dal quale si sentiva ingiustamente abbandonata. Si vestì velocemente. Nell'ingresso infilò un vecchio cappotto di montone e uscì. Attraversò la via Tiepolo facendo lo slalom tra pozzanghere e auto, incurante della pioggia che continuava a cadere. Entrò in un bar tabacchi con l'insegna del telefono pubblico. Un marocchino armato di zelo e di uno straccio sudicio affrontava coraggiosamente un pavimento maltrattato da centinaia di scarpe, ma sembrava destinato a una clamorosa sconfitta. Giulia si avvicinò alla cassa dietro la quale troneggiava una giovane donna che aveva tutta l'aria di essere lì per sbaglio, mentre avrebbe dovuto trovarsi su un aereo per le Maldive. Era di cattivo umore e si vedeva. « Dica », l'aggredì la tabaccala guardando la cliente infreddolita come se fosse una chiazza d'unto sul suo vestito migliore. Un gettone », disse Giulia impaziente allungando duecento lire. « Fuori servizio », sentenziò la tabaccala alludendo al telefono pubblico. « Ma io devo assolutamente telefonare », insistè Giulia sull'orlo della disperazione. « Fuori servizio », ripetè fredda e spieiata come un cobra; quindi si rivolse a un paio di clienti che erano entrati e chiedevano un cappuccino. « Non potrebbe farmi usare il suo? » domandò supplichevole. « Quello lì », soggiunse indicando l'apparecchio accanto alla cassa. « Privato », la gelò senza guardarla, continuando a scambiare sigarette e caffè con danaro contante. « Tabaccala di schifo », scattò Giulia, « città di schifo, gente di schifo, mondo di schifo », gridò coinvolgendo irrazionalmente l'universo intero. Riattraversò il locale sotto gli occhi sbigottiti dei clienti, il silenzioso stupore della tabaccala, l'ingenuo sorriso solidale del marocchino. SÌ diresse quasi di corsa verso il bar latteria di piazza Novelli dove Giorgio e i suoi amici dissipavano la paghetta settimanale in merendine, Coca-Cola e juke-box. Il telefono c'era e funzionava. Giulia compose il numero del tecnico che conosceva a memoria. « Sono Giulia de Blasco », fece appena in tempo a dire all'addetto che aveva risposto all'altro capo del filo. Poi scoppiò in lacrime. Seminascosta fra cassette di birra, Coca-Cola e uno scaffale pieno di pasta e biscotti, nell'odore dolciastro di segatura bagnata, stringendo la cornetta lercia di un telefono pubblico, Giulia pianse senza ritegno. Pianse sulla sua vita sbagliata, sul suo matrimonio fallito, pianse perché anche suo figlio l'aveva lasciata sola, perché quel giorno doveva assistere all'esumazione delle reliquie del nonno Ubaldo. Pianse perché aveva la casa gelida, perché il telefono non funzionava, pianse perché a quarant'anni s'era innamorata come una ragazzina, ma soprattutto pianse perché lei stessa era andata in tilt. Qualcosa nella mirabile costellazione del suo organismo si era inceppato. Le cellule di un nodulo al seno prelevato un mese prima non erano del tipo regolamentare. Erano di quelle che continuano a ripetersi senza fermarsi mai. Come un interruttore che si accende e non si spegne più. Quel giorno accidioso di dicembre Giulia piangeva per molte cose, ma soprattutto perché aveva un cancro.

Milano in ombra - Abissi Plebi

662887
Corio, Ludovico 1 occorrenze

Non pochi di coloro che creano siffatti sventurati compongono la cosi detta buona società e se conoscono gli allevatori dei loro bambini si recano da essi con istrani infingimenti per portar ai figli abbandonati qualche dolciume: ma la loro riputazione non dev'essere offuscata, ma la loro tranquillità domestica non dev'essere turbata ... guai se il padre, la madre, lo zio, la zia risapessero questo errore, sarebbero capaci di diseredare chi l'ha commesso, e allora! Epperò voi, poveri bambini, soffrite, crescete incolpevolmente spregiati e quando la negligenza sociale e la snaturatezza dei vostri genitori vi hanno indirizzati e quasi dannati al male, allora soltanto la società vi teme, lo statista vi scerne fra la turba multiforme dei delinquenti e nota: "Pur troppo anche in questo anno dei condannati per delitti comuni il maggiore contingente è fornito dai trovatelli. È questa una piaga alla quale conviene che la società ponga un rimedio provvidenziale ed efficace." Ma intanto chi soffre e lo statista volta la pagina per fare altri calcoli. La sua voce est tamquam vox clamantis in deserto. Qualche volta il gettatello si vendica dei suoi snaturati genitori a misura di carbone. Allorchè dopo aver composte le cose loro secondo le ipocrite norme delle convenienze sociali, il padre o la madre, ricordandosi di aver fatto consegnare il proprio figlio al Brefotrofio ne fanno ricerca, il figlio al vedere i proprii genitori, vinto dalla gratitudine per chi l'ha allevato, rifiuta e il nuovo nome e la nuova condizione che gli viene offerta, protestando che giacchè è rimasto per anni molti senza che da' suoi sia stato riconosciuto, oggi si crede in diritto di non voler egli riconoscere i suoi. Atroce eppure nobile vendetta che priva il padre e la madre dell'affetto de' proprii figliuoli. Ma non è qui il luogo di far degli sfoghi siano pure ragionevoli contro una Società generalmente corrotta e senza cuore. Ripigliamo in quella vece la nostra archeologia statistica, la quale ci può insegnare ancora oggi qualche cosa. Nel giorno del censimento del 1871 i bambini illegittimi nati vivi furono 1105, dei quali 224 videro la luce nel Brefotrofio provinciale, istituto che nel solo 1874 accolse 2375 infanti. Questa numerosa famiglia darà più tardi i 350 giovanetti da ricoverarsi nel Riformatorio di Parabiago, i 150 adulti da rifugiare nell'ospizio del Patronato, e la maggior parte di coloro che popoleranno le 762 segrete del carcere cellulare. Sono dati vecchi, ai quali gioverà contrapporre i recentissimi pubblicati al pari di quelli dal dottor Romolo Griffini, direttore del Brefotrofio di Milano. "Nell'anno 1881, scrive il Griffini in una sua accurata relazione, si raccolsero nel Brefotrofio 1408 infanti di primo ingresso, contro 1389 entrati nel 1880. Ne risultò pel 1881 un aumento di 19 infanti. Quanto al sesso, i nuovi entrati si distinguono in 728 maschi e 680 femmine. Prevale, come generalmente suole, il sesso forte, e quest'anno in ambe le categorie dei legittimi, e degli illegittimi, poichè sopra 354 legittimi si hanno 185 maschi e 169 femmine, e sopra 1051 illegittimi, 543 maschi e 511 femmine." E volete sapere quanti erano nel 1881 i disgraziati componenti la famiglia a cui l'Ospizio provinciale di Milano ha dovuto provvedere? 8439. Quanti dolori! C'è da inorridire. E siamo sull'aumentare. Come si provveda poi a questi infelici è bello tacere. Nessuno ne ha colpa, poichè la istituzione del Brefotrofio è organizzata, retta da norme non facilmente mutabili e da consuetudini che tengono veci di leggi. E poi la burocrazia non è la Provvidenza. Gli esposti vengono quasi tutti affidati ad allevatori abitanti in campagna. Si conta un po' sulla moralità e sul buon cuore dei campagnuoli. E anche per vero dire molti di questi hanno meno pregiudizii dei cittadini. Nel bambino quelli non vedono il bastardo, vedono il disgraziato e se lo tengono caro. È una specie di buon augurio per la famiglia che lo ricetta e lo nutre. Il compenso che paga l'Ospizio non è sempre allettamento sufficiente per indurre una famiglia ad assumersi la cura di allevare un figliuolo che sul fiore dell' età può essere richiesto e portato via da chi l'ha messo al mondo. Vi sono pure dei bambini che per la loro bellezza attraggono gli allevatori, ma ve ne sono di quelli che sono male aggraziati, o brutti, o infermicci, o colle membra contorte e rattrappite e, poveretti, non sono voluti da nessuno. Fino a pochi anni or sono per una vecchia consuetudine si provvedeva al loro collocamento in questo deplorevole modo. Quando la Direzione dell'Ospizio da sicure informazioni era fatta certa che in un determinato circondario di campagna v'erano parecchie famiglie, che avrebbero assunto l'allevamento di alcuni trovatelli ne caricava qualche dozzina sopra un carretto e li inviava al comune indicato. All'arrivo dell'infelice convoglio si dava nella nota campana esattoriale; i terrieri convenivano sulla piazza e incominciava la scelta dei bambini. Tolti i più belli o i meno brutti restavano coloro, ai quali insieme colle altre sventure toccava pure l'umiliazione d'essere rifiutati. Chi ha appena un po' di cuore pensi quali sentimenti in quel punto dovevano germinare negli animi di quei disgraziati fanciulli. Allora l'agente dell'Ospizio, che voleva ritornarsene col carro vuoto, andava sollecitando or l'uno or l'altro dei contadini presenti a prendersi o questo o quel bambino quantunque storpio o deforme, chè l'Ospizio provvedeva per essi al pagamento di una ragguardevole ricompensa all'allevatore. E così a stento e a fatica tutti i bambini venivano accolti nelle case dei contadini e quindi dopo un secondo rifiuto s'affacciavano alla vita di famiglia paurosi, sapendo di esservi appena tollerati. Altro che notare nelle statistiche penali che il numero maggiore dei delinquenti è fornito dagli Esposti! Non è loro colpa se questi bambini crescono male. L'illustre prof. Dott. Edoardo Porro nel suo lavoro che risguarda ??il biennio 1869-70 alla maternità di Milano a pagina 266, parla della sorte che attende gl'infelici che hanno culla nell'Ospizio, " i quali sovente hanno per sopraggiunta la sventura di perdere nascendo la propria madre. La quale nell'istante di dare alla luce il suo bambino è tormentata da gravi dolori non solo fisici, ma anche morali; pensando, come dice il Porro, che la sua creatura troverassi isolata e reietta dalla società, dannata ad un Brefotrofio e ad un allevamento poco dissimile da quello dei bruti. Chi ha pratica delle maternità, ed in ispecie di quella di Milano, non troverà esagerate queste parole. " Oggi le condizioni dei ricoverati da quest'Istituto debbono essere un cotal poco mutate, grazie alla benefica influenza delle persone che ora lo dirigono. Un forte sentimento di pietà si ridesta in ogni animo bennato alla vista di un povero gettatello. E il Giusti, descrivendo scherzosamente un suo viaggio a Montecatini, osservando uno di questi sventurati bambini, sente dentro il suo cuore vibrare a un tratto la corda del dolore e però esce in un volo lirico, degno d'essere riletto. Accanto a me dal lato delle brenne, Una povera donna montanina, Lieta recava al petto un trovatello. Preso là nel buglione, ove s'insacca Dal matrimonio e dallo stupro a gara O legittima o no l'umana carne. Oh benedetta, miseri innocenti, La pubblica pietà che vi ricovra Nudi, piangenti, abbandonati! A voi il casto grembo della cara madre. E del tetto paterno il santo asilo, Che dà l'essere intero, e dolcemente L'animo leva a dignità di vita, Error, vergogna delitto e miseria Chiuse per sempre! Crescerete soli, Soli all'affetto e mal securi in terra; Al disonor di genitori ignoti, Come la pianta che non ha radice, Maledicendo ....... Poveretti, quant'era meglio per essi il non nascere!

Pagina 28

Racconti, leggende e ricordi della vita italiana (1856-1857)

663030
D'Azeglio, Massimo 1 occorrenze

Cosí le cose mie, anzi le nostre, vanno bene; i miei aderenti, che sanno di non essere abbandonati nel pericolo, ridono sul viso di chi crede spaventarli colle smargiassate, e cosí, facendo tutti una famiglia, si campa; e, coll'aiuto del Signore, si camperà dell'altro. Gliel'ho detto, signor lettore, che ce n'era pur uno de' sillogismi che non aveva bisogno di cura! Questo, se non sbaglio, sta come un Cesare, e per lui non occorre trattato patologico; ma siamo finalmente d'accordo che molto occorrerebbe per gli altri. Dunque lo scriva! dice lei. Oh! qui lo volevo! Fossi matto a perderci il tempo! Sarebbe lo stesso come prender la cura d'una bella signora, di quelle piene di grilli, di convulsioni, fatte a modo loro, che ogni giorno n'hanno una nuova, e non fanno mai un rimedio ragionevole, né tengono un minuto un regime che abbia buon senso: ed in conclusione fanno impazzare il medico, e per contentino gli danno dell'asino e lo mettono fuor dell'uscio per ricompensa. Veda che bell'occupazione vorrebbe che m'accollassi! Scartiamo dunque anche quest'argomento e lasciamolo a chi ha tempo da battere e campa d'entrata. Un terzo me n'avevano suggerito, ma si va di male in peggio. Volevano che me la pigliassi, nientemeno, con un apostolo! Un apostolo francese che, non saranno sei mesi, ha pubblicato un libro, del quale ora mi sfugge il titolo, ma, per quanto mi pare, dal suo contesto dovrebbe essere: Correzioni ed eccezioni al Vangelo... qualche cosa di simile. Non sa di chi voglia parlare? Che vuole? non ho proprio la memoria de' nomi; ma il nome non ci ha che fare: e siccome la memoria delle idee e del loro senso l'ho discretamente, è un momento a dargliene un sunto. Ecco qua. Ella sa che ogni cristiano crede che siamo tutti figliuoli dell'istesso padre, ricomprati tutti all'istesso prezzo, e che perciò le anime nostre, sien esse rinchiuse nella spoglia d'un principe, come in quella d'un mendico, tutte, senza eccezione di climi, di lingua, di colore, abbiano agli occhi del Creatore il valore e l'importanza medesima. Tutti credevamo cosí, e questa fede ci pareva trovarla scolpita in ogni pagina del Vangelo. Che vuol che gli dica? Pare che ora la cosa diventi per lo meno molto dubbia, a dar retta al suddetto apostolo... e, alla fine, anche lui, subito che è apostolo, ha diritto di parlare, ed avrà i suoi motivi. Ecco dunque invece come starebbe la cosa. Resterebbe sempre vero che la fede nostra è fondata sopra un riscatto, del quale siamo tutti partecipi; ma parrebbe necessario, onde questa fede potesse vivere, mantenersi e prosperare, che una frazione dell'umanità... poca cosa, badi! tre milioni d'uomini circa... si spogliassero, o piuttosto venissero spogliati dai loro fratelli di quest'eredità comune. Parrebbe - sempre secondo l'apostolo - che a tutti i cristiani si debba far giustizia ed usar carità indistintamente, e siccome ad usar questa carità e questa giustizia omo per omo è affare lungo ed incerto, perciò si sono inventate leggi uguali per tutti, appunto per prenderceli sotto tutti indistintamente: onde si può dire che questo complesso di leggi essendo ciò che con un solo vocabolo si chiama un governo, ne venga per conseguenza che l'espressione piú estesa, anzi piú completa ed assoluta della giustizia e della carità evangelica sia su questa terra un buon governo. L'apostolo dice dunque che a questo buon governo tutti i cristiani hanno diritto, e, secondo lui, nel buon governo articolo principale v'è il poter dire quel che si pensa ed anche scriverlo, se si vuole, senza che nessuno vi si metta tra' piedi: ed anzi, siccome pare che nel suo paese gli abbiano voluto misurar la chiacchiera ed accordarne un tanto per uno, una porzione competente che ci si possa campare - perché dice che là a non aver questo sfogo si muore - ma non di piú, e non permettere che la gente se ne prenda quanta vuole, bisogna sentirlo, l'apostolo, che razza di coroncina sfila a chi ha stabilito una tale misura! Ma questo lasciamolo da parte. Dunque, ad un'applicazione completa delle massime evangeliche, detta altrimenti un buon governo, tutti hanno diritto, salvo questi tali tre milioni. E, siccome il Vangelo non fa questa riserva, qui sta il bello del libro, che dovrebb'essere intitolato: Correzioni, ecc. come ho detto dianzi. Oh! perché mi vuol ella stabilire questi iloti nella cristianità? Badi, non son io che voglio; io non voglio nulla; è l'apostolo francese: e la ragione che ne dà a certuni pare fondata su uno di quei tali sillogismi che hanno bisogno del medico. Dicono, per esempio, che ammettendo pure la necessità di fondare questa fede sulla collottola di tre milioni di tribolati, la giustizia vorrebbe almeno che i 150 o 200 milioni d'uomini della medesima opinione che sono pel mondo si dividessero per tre, si dessero la muta, efacessero un po' per uno a portar in collo questa fede e le sue necessità - all'incirca come nei reggimenti si dividono fra i soldati i tours de corvée. Dicono altresí che per mantenere nel rimanente del globo questa fede col suddetto mezzo, che cosa succede? Succede che se prospera fra gli altri, muore etica presso que' tali tre milioni; perché, invece di far una traduzione libera del famoso Moriamur pro rege nostro, cc. de' Magiari, e mettervi fide nvece di rege, andano a far benedire la fede e chi le vuol bene, e pur troppo tutt'in un fascio il suo primo autore, e questo è il frutto piú spiccio di quella bella combinazione. Insomma ne dicono molte. Ma, ripeto, quando un apostolo parla deve avere i suoi motivi. Egli dice che il capo della fede ha bisogno d'esser libero di insegnare al mondo e guidarlo colla voce e coll'esempio. Cioé, deve potergli dire senza sindacati: ?Signori, questa è la teoria e questa è la pratica, prova che la teoria è buona!? e s'appoggia al seguente sillogismo, quello appunto nel quale parecchi vedrebbero la crittogama: - Una teoria buona, dopo una lunga e libera applicazione, deve produrre effetti buoni. Questi tre milioni (piú o meno) d'uomini, dopo una prova d'un migliaio d'anni, durante i quali l'esperienza s'è fatta colla maggior somma di autorità che si possa immaginare, quella cioé che obbliga egualmente l'anima ed il corpo; dopo questi dieci secoli, dico, i detti tre milioni sono riusciti i piú infelici, i piú corrotti, i piú rovinati di tutta l'umanità civile; dunque bisogna mantenerli come sono, onde il loro padrone possa esser libero di dire al mondo: - La mia teoria è la migliore di tutte; - e mostrarli come un esempio da invogliare chi non ne avesse assaggiato. Ora, questo sillogismo sarà sano, sarà ammalato; io non lo so e non lo voglio sapere. Se è sano, prosit; e è ammalato, vada pel medico; ma non lo prendo in cura io, perdio! Fosse aver da fare cogli apostoli d'una volta - Dio li benedica! - con loro si poteva discorrere. Chi li mandava, aveva loro date le istruzioni, come si fa sempre, ed in queste istruzioni - ancora ci devono essere in archivio - era detto che vedessero di persuadere la gente colle buone, e si preparassero ad esserne mal ricevuti e soffrirne di tutte le razze; a non dovessero opporre altre difese fuorché la pazienza e la dolcezza, perché trattandosi di persuadere e non di usar violenza, ci voleva mansuetudine e non livore; ma ora pare che abbiano domandate nuove istruzioni, che le abbiano ricevute e che ci sia - è vero che nessuno le ha vedute le nuove - tutt'un'altra canzone; che ci sia detto chiaro e tondo: - Tutte quelle dolcezze erano buone finché stavate fuor dell'uscio e bisognava farvi aprire: ma ora che v'hanno aperto e siete entrati, e, si può dire, siete diventati di casa, mutate registro; e il primo che vi guarda di traverso, mettetelo fuor dell'uscio lui; e non basta: dategli dietro e pigliatelo a sassi, e aizzategli addosso bestie e cristiani, senza lasciargli un'ora di bene, neppure quando sia nella bara, ecc., ecc. Un po' po' di bagattella! e vorrebbero che io me la pigliassi coll'apostolo! Io m'ingegnerò di campare, e campare in pace se piace a Dio, e di questi gatti a pelare non me ne piglio. Dunque? È mezz'ora che si discorre, ed un nuovo argomento da trattare ancora non è scappato fuori! Vuol che gliela dica? Nelle malattie del mondo, come in quelle degli uomini, ci son certe epoche dove a voler scrivere ricette, e dar ampolle e rimedi, si fa peggio. La meglio dunque è star zitto, o parlare di scioccherie senza conclusione. Via via, avevo cominciato dicendo che il mio solito argomento doveva venire oramai a noia, e invece, d'una parola in un'altra, che cosa si viene a scoprire? Sissignore; si viene a scoprire che l'uomo della situazione è il sor Checco Tozzi.

CENERE

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Deledda, Grazia 2 occorrenze

Olì si mise a piangere; fece chinare la testa del piccolo Zuanne sulle sue ginocchia, gli strinse una manina sporca e dura, e pensò ai suoi fratellini abbandonati. «Essi saranno come gli uccellini nudi entro il nido, quando la madre, ferita dal cacciatore, non torna da loro. Chi darà loro da mangiare? Chi farà loro da madre? Pensate che l'ultimo, il più piccolo, non si sa ancora vestire né spogliare.» «Dormirà vestito, allora!», rispose la vedova per confortarla. «Perché piangi, idiota? Dovevi pensarci prima: ora è inutile. Abbi pazienza. Iddio Signore non abbandona gli uccelli del nido.» «Che vento! Che vento!», si lamentò poi Olì. «Credete voi ai morti?» «Io?», disse la vedova, spegnendo la candela e riprendendo il fuso. «Io non credo né ai morti né ai vivi ... » Zuanne sollevò il capo, disse piano piano: «Io cì!» e nascose ancora il viso in grembo ad Olì. La vedova riprese i suoi racconti: «Io poi ebbi un altro figlio, che ora ha otto anni ed è già servetto in un ovile. Poi ebbi questo. Ah, siamo ben poveri adesso, sorella cara; mio marito non era un ladrone, no; viveva del suo e perciò dovemmo vendere tutto, tranne questa casa». «Come morì?», domandò la fanciulla, accarezzando la testa del bimbo che pareva addormentato. «Come morì? In un'impresa. Egli non stette mai in carcere», osservò con fierezza la vedova, «sebbene la giustizia lo ricercasse, come il cacciatore ricerca il cinghiale. Egli però sfuggiva abilmente ad ogni agguato, e mentre la giustizia lo cercava sui monti, egli passava la notte qui, sì, proprio qui, davanti a questo focolare, dove stai seduta tu ... » Il bimbo sollevò la testa, con le grandi orecchie improvvisamente accese, poi la riabbassò sul grembo di Olì. «Sì, proprio lì. Una volta, due anni or sono, seppe che una pattuglia doveva percorrere la montagna ricercandolo. Allora mi mandò a dire: "Mentre i dragoni mi ricercheranno, io prenderò parte ad una impresa; al ritorno passerò la notte in casa; mogliettina mia, aspettami". Io aspettai, aspettai, tre, quattro notti: filai un rotolo di lana nera.» «Dove era andato?» «Non te lo dissi? Ad una impresa, ad una bardana, ecco!» esclamò la vedova con una certa impazienza: poi riabbassò la voce: «Io aspettai quattro notti, ma ero triste: ogni passo che udivo mi faceva battere il cuore; e le notti passavano, il mio cuore si stringeva, si faceva piccolo come il seme d'una mandorla. Alla quarta notte udii battere alla porta e aprii. "Donna, non aspettare più", mi disse un uomo mascherato. E mi diede il gabbano di mio marito. Ah!». La vedova diede un sospiro che parve un grido, poi tacque; e Olì la fissò a lungo, ma ad un tratto il suo sguardo seguì lo sguardo atterrito di Zuanne. Le manine del bimbo, dure e brune come zampe d'uccello, si agitavano e additavano la parete. «Che hai? Che cosa vedi?» «Un motto ... », egli sussurrò. «Ma che morto! ... », ella disse ridendo, improvvisamente allegra. Ma quando fu a letto, sola, in una specie di soffitta grigia e fredda, sul cui tetto il vento urlava ancora più tonante, smuovendo e sbattendo le assi, ella ripensò ai racconti della vedova, all'uomo mascherato che le aveva detto: «donna, non aspettare più!», al lungo gabbano nero, al bimbo che vedeva i morti, agli uccellini nudi del nido abbandonato, ai suoi poveri fratellini, ai tesori di Anania, alla notte di San Giovanni, a sua madre morta; ed ebbe paura e si sentì triste, così triste che, sebbene si ritenesse dannata all'inferno, desiderò di morire.

Sul musco dei viali abbandonati il sole calante tra i pini rosei gettava riflessi delicati; a sinistra s'intravedevano prati verdi, mandorli in fiore, siepi rosse al tramonto; a destra boschetti di pini, e chine ombrose coperte di iris. Egli non sapeva dove fermarsi, tanto i posti erano deliziosi; colse un fascio d'iris, e infine salì sopra una cima verde di asfodeli, dalla quale si godeva la triplice visione della città rossa al tramonto, degli stagni azzurrognoli e del mare che pareva un immenso crogiuolo d'oro bollente. Il cielo ardeva; la terra esalava delicate fragranze; le nuvole azzurrastre, che disegnavano sull'orizzonte d'oro profili di cammelli e figure bronzee, davano l'idea d'una carovana e ricordavano l'Africa vicina. Anania si sentiva così felice che sventolò il fazzoletto e si mise a gridare salutando un essere invisibile, - che era l'anima del mare, del cielo, lo spirito dei sogni: Margherita. D'allora in poi le pinete di monte Urpino diventarono il regno dei suoi sogni: a poco a poco egli si considerò talmente padrone del luogo che si irritava quando incontrava qualche persona nei viali solitari: spesso rimaneva nella pineta fino al cader della sera, assisteva ai rossi tramonti riflessi dal mare, o seduto fra le iris guardava il sorgere della luna, grande e gialla, fra i pini immobili. Una sera, mentre stava seduto sull'erba di una china, al di là di un piccolo burrone, udì un tintinnio di greggie pascenti, e fu assalito da un impeto di nostalgia. Davanti a lui, al di là del burrone, il viale perdevasi in una lontananza misteriosa: i pini rosei sfumavano sul cielo puro, il musco aveva riflessi di velluto; Venere splendeva sull'orizzonte roseo, sola e ridente, quasi affacciatasi prima delle altre stelle per godersi la dolcezza della sera senza essere disturbata. A che pensava la solitaria stella? Aveva un amante lontano? Anania osò rassomigliarsi all'astro radioso, così solo nel cielo come egli era solo nella pineta. Forse in quell'ora Margherita guardava la stella della sera. E che faceva zia Tatàna? Il fuoco ardeva nel focolare, e la buona vecchia preparava melanconicamente il pasto della sera, pensando al suo caro fanciullo lontano. Ed egli, egli non pensava quasi mai a lei; egli era un ingrato, un egoista. Ah, ma che poteva farci? Se al posto di zia Tatàna ci fosse stata un'altra donna, il suo pensiero sarebbe volato costantemente a lei. Invece quella donna ... Dove era quella donna? Che faceva in quell'ora? Scorgevano anche i suoi occhi la stella della sera? Era morta? Era viva? Era ricca o mendicante? E se fosse in carcere? Egli si meravigliò di non arrossire a questo pensiero. Per la prima volta, dopo tanti anni, provò un senso di pietà, come quando, bambino, cercava di scaldare coi suoi piedini i piedi gelati di Olì ... Finalmente il giorno del ritorno arrivò. Egli partì, quasi oppresso dalla sua felicità: aveva paura di morire in viaggio, di non arrivare a rivedere le care montagne, la nota strada, il dolce orizzonte, il viso di Margherita ... «Se però io morissi ora», pensava, con la fronte appoggiata alla mano, «se morissi ora ella non mi dimenticherebbe mai più ... » Fortunatamente arrivò sano e salvo; rivide le care montagne, le valli selvaggie, il dolce orizzonte, il viso paonazzo di Nanna venuta ad incontrarlo alla stazione. Ella aspettava da più di un'ora; appena vide il bel volto di Anania aprì le braccia e cominciò a piangere. «Figliuolino mio! Figliuolino mio!» «Come la va? Prendi!», egli gridò, e per impedirle di abbracciarlo le gettò addosso la valigia, un involto, un cestino. «Avanti! Avanti! Va avanti, passa di qui; io devo passar di là. Andiamo.» Si mise quasi a correre, e sparve, lasciando la donna stupefatta. Ecco, ecco. Egli deve rivedere la nota strada: ella lo aspetta alla finestra, e non hanno bisogno di testimoni per rivedersi. Come le case di Nuoro sono piccole e le strade strette e deserte! Meglio! Fa quasi freddo, a Nuoro! La primavera c'è, ma è ancora pallida e delicata come una fanciulla convalescente. Ah, ecco alcune persone che s'avanzano: fra esse è Franziscu Carchide che, riconoscendo lo studente, comincia a far gesti di gioia. Che rabbia! «Ebbene, come stai? Ben tornato! Come ti sei fatto grande! Ed elegante, poi! E che scarpette da damerino! quanto le hai pagate?» Finalmente Anania è libero. Avanti, avanti! Il suo cuore batte, batte sempre più forte. Una donna s'affaccia al limitare di una porta, guardando curiosamente; ma Anania passa, fugge, e da lontano sente esclamare: «È lui, sì, proprio lui!». Ebbene, sì, è proprio lui, che vi importa? Ah, ecco, ecco; ecco la strada che conduce all'altra, alla nota, alla cara strada. Finalmente: non è un sogno? Anania sente dei passi e si stizzisce; è un bambino che attraversa di corsa la strada, lo urta, vola via. Egli vorrebbe correre così, ma non può, non deve. Prende anzi un aspetto rigido, composto, si accomoda la cravatta, si sbatte con due dita i risvolti del soprabito. Già; egli ha un soprabito lungo, chiaro, elegante che lei non ha ancora veduto. Lo riconoscerà subito con quel soprabito? Forse no. Ecco finalmente la nota strada! Ecco il portone rosso, ecco la casa bianca con le finestre verdi. Margherita non c'è! Perché? Perché, Dio mio? Egli si ferma, palpitando. Fortunatamente la strada è deserta: solo una gallina nera passeggia, alzando molto le zampe prima di posarle per terra, e si diverte a battere il becco sul muro ... Basta, bisogna passare oltre, a scanso di essere notato da qualche occhio curioso. Egli comincia a camminare lentamente come la gallina; e benché le finestre rimangano vuote egli non cessa di fissarle un istante, e si commuove e sente il cuore saltargli in gola. Ad un tratto gli parve di svenire. Margherita s'era affacciata, pallida di passione, e lo guardava con occhi ardenti. Egli impallidì e non pensò neppure a salutare, a sorridere; non pensò a nulla, e per parecchi istanti non vide che quegli occhi ardenti dai quali gli pioveva una voluttà ineffabile. Camminò automaticamente, voltandosi ad ogni passo, seguito da quegli occhi inebbrianti; e solo quando Nanna, con la valigia sul capo, l'involto in una mano e il cestino nell'altra, apparve ansante in fondo alla strada, egli trasecolò, sorpreso, e affrettò il passo. Parte Seconda I. Era nell'ora che volge il desìo ai naviganti ed a quelli che stanno per salpare verso ignoti lidi. Anania è fra questi. Il treno lo trasporta verso il mare; cade una limpida sera d'autunno, grave di melanconia; i dentellati monti della Gallura sfumano nelle lontananze violacee, l'aria odora di brughiere; un ultimo paesetto appare, grigio e nero su uno sfondo di cielo rossastro. Anania guarda gli strani profili dei monti, il cielo colorato, le macchie, le roccie, e solo il timore di apparire ridicolo agli altri due viaggiatori, un prete e uno studente già suo compagno di scuola, gli impedisce di piangere. Eppoi, ormai, egli è un uomo. È vero che egli si credeva un uomo fin da quando aveva quindici anni: ma allora si credeva un uomo giovane, mentre adesso si crede un giovine vecchio. Eppure la salute e la gioventù brillano nei suoi occhi; egli è alto, svelto, con due seducentissimi baffetti castanei dalle punte d'oro. La sera cadeva; già qualche stella appariva «sovra i monti di Gallura» e qualche fuoco rosseggiava tra il verde-nero delle brughiere. Addio dunque, terra natìa, isola triste, antica madre amata ma non abbastanza perché una voce potente d'oltre mare non strappi i tuoi figli migliori dal tuo grembo, incitandoli a disertare, come aquilotti, il nido materno, la roccia solitaria. Lo studente guardava l'orizzonte ed i suoi occhi si offuscavano a misura che s'offuscava il cielo. Da quanti anni egli aveva sentito la voce che lo attirava lontano! Ricordava l'avventura con Bustianeddu, il progetto della fuga infantile; poi i continui sogni, il desiderio mai spento di un viaggio verso la terre d'oltre mare: eppure sul punto di lasciar l'isola egli si sentiva triste, e si pentiva di non aver proseguito gli studi a Cagliari. Era stato così felice laggiù! Nell'ultimo maggio Margherita gli era apparsa tra lo splendore fantastico delle feste di Sant'Efes, e insieme con lei, fra allegre brigate di compaesani, egli aveva trascorso ore indimenticabili. Ella era elegante, molto alta e formosa; i suoi capelli splendenti e gli occhi turchini solcati dall'ombra delle lunghe ciglia nere attiravano l'attenzione dei passanti che si voltavano a guardarla. Anania, meno alto e più sottile di lei, le camminava al fianco, trepidante di piacere e di gelosia; gli pareva impossibile che la bella creatura regale e taciturna, nei cui occhi sdegnosi brillava tutta la fierezza d'una razza dominatrice, si abbassasse ad amarlo e neppure a guardarlo. Margherita parlava poco; non era civetta, non cambiava aspetto né voce, quando gli uomini le rivolgevano lo sguardo o la parola; e Anania l'amava anche per questo, e non vedeva che lei, non guardava altra donna che per paragonarla a lei e trovarla inferiore; e più egli diventava uomo e lei donna, e più la passione lo infiammava: spesso gli sembrava impossibile che anni ed anni dovessero ancora passare prima che ella diventasse sua. Durante le ultime vacanze si erano spesso trovati soli, nel cortile di Margherita, favoriti dalla serva che facilitava la loro corrispondenza. Di solito essi tacevano, ma mentre Margherita, o per paura o per pudore tremava, vigile e melanconica, Anania sorrideva completamente dimentico del tempo, dello spazio, delle cose e delle vicende umane. «Perché non mi ripeti le parole che mi scrivi?», le domandava. «Taci! ... Ho paura ... » «Di che? Se tuo padre ci sorprende io mi getterò per terra, gli dirò: "no, non facciamo del male; siamo già uniti per l'eternità ... ". Non aver paura; io sarò degno di te, io ho un avvenire davanti ... Io sarò qualche cosa!» Margherita non rispondeva, e vedendola così bella e gelida, con gli occhi illuminati dalla luna come gli occhi di perla d'un idolo, egli non osava baciarla, ma la fissava silenzioso e sussultava, non sapeva bene se di angoscia o di felicità. «Il mare è calmo. Dio sia lodato!», disse uno dei viaggiatori. Anania si scosse dai suoi ricordi e guardò la distesa verde- dorata del mare, che nel crepuscolo pareva una pianura illuminata dalla luna. Le rovine d'una chiesetta, un sentiero attraverso le macchie, perduto sull'estremo limite della costa, quasi tracciato da un sognatore che l'avesse condotto fin laggiù con la speranza di proseguirlo sul velluto marezzato delle onde, attirarono gli sguardi di Anania. Egli pensò a Renato del quale gli parve intravedere il triste profilo su una roccia guardante il mare ... No, non è lui, è un altro eroe di Chateaubriand, Eudoro, che sulle roccie marine della Gallia selvaggia sogna le rose dell'Ellade lontana ... Ebbene, no, non è neppure Eudoro ... è un poeta che si domanda: Questa roccia granitica erta sul mar che fa? ... Ma la roccia, la chiesetta ed il sentiero sono già spariti e con essi il profilo dell'incerto personaggio ... La tristezza dello studente aumentava: domande gravi e inutili gli attraversavano la mente, cadevano senza risposta, come pietre buttate nell'acqua. Perché non poteva egli fermarsi su quella costa selvaggia, dolcemente melanconica, e perché il profilo intraveduto sulla roccia non poteva essere il suo? Perché non poteva egli costrurre una casa sulle rovine della chiesetta? Perché pensava a queste stupide romanticherie, perché andava a Roma, perché studiava, perché studiava leggi? Chi era lui? Che cosa era la vita, la nostalgia, l'amore, la tristezza? Che cosa faceva Margherita? Perché egli l'amava? E perché suo padre era servo? E perché suo padre lo aveva replicatamente avvertito di visitare, appena giunto a Roma, quei luoghi dove si conservano monete d'oro ritrovate sotterra o nelle antiche rovine? Suo padre era o no un delinquente, o un pazzo affetto dall'idea fissa dei tesori? Che aveva egli ereditato da suo padre? L'idea fissa in forma diversa? Era dunque soltanto un'idea fissa, una malattia mentale, il pensiero costantemente rivolto a quella donna? Ma trovavasi ella veramente a Roma, e la ritroverebbe egli? «Anninia», disse con voce beffarda l'altro studente, dando ad Anania il nomignolo che i compagni gli avevano affibbiato, «fai la nanna? Su, via, non piangere, la vita è fatta così: un biglietto per viaggio circolare, con diritto di fermate più o meno lunghe. Consolati almeno che il mal di mare non verrà a interrompere i tuoi sogni d'amore ... » Infatti il mare era calmissimo e la traversata cominciò coi migliori auspici. La luna nuova calava illuminando fantasticamente le coste e la roccia enorme di Capo Figari, sentinella ciclopica vigilante il melanconico sonno dell'isola abbandonata. Addio, addio, terra d'esilio e di sogni! Anania rimase immobile, appoggiato al parapetto del piroscafo, finché l'ultima visione di Capo Figari e delle isolette, sorgenti azzurre dalle onde come nuvole pietrificate, svanirono tra i vapori dell'orizzonte; poi sedette sulla panchina, battendosi dispettosamente un pugno sulla fronte per ricacciar dentro le lagrime che gli velavano gli occhi; e rimase lì, pallido e sconvolto, intirizzito dalla brezza umida, finché vide la luna, rossa come un ferro rovente, calare in una lontananza sanguigna. Finalmente si ritirò, ma tardò ad assopirsi; gli pareva che il suo corpo s'allungasse e si restringesse incessantemente, e che una interminabile fila di carri passasse sopra il suo petto indolenzito; i più tristi ricordi della sua vita gli tornarono in mente: gli sembrava di udire, nello scroscio delle acque frante dal piroscafo, il rumore del vento sopra la casetta della vedova, a Fonni ... Oh, come, come la vita era triste, inutile e vana! Che cosa era la vita? Perché vivere? Così, tristemente, si assopì; ma svegliandosi si sentì un altro, agile, forte, felice. Si era addormentato in un tetro paese di dolore, fra onde livide vigilate da una luna sanguigna: si svegliava in mezzo ad un paese d'oro, in un paese di luce, - vicino a Roma. «Roma!», pensò, palpitando di gioia. «Roma, Roma! Patria eterna, abisso d'ogni male e fonte d'ogni bene!» Gli pareva di poterla abbracciare tutta, di muovere alla conquista del mondo intero. Già a Civitavecchia, attraversando la città umida e nera sotto il cielo mattutino, tutto gli sembrava bello, e diceva allo studente Daga: «Vedi, mi par d'essere nel vestibolo d'una grotta marina meravigliosa». Il Daga, che aveva già vissuto un anno a Roma, sorrideva beffardo, invidiando l'entusiasmo enfatico del suo compagno. L'arrivo rombante del diretto diede al giovane provinciale sardo un senso di terrore, la prima impressione vertiginosa d'una civiltà quasi violenta e distruggitrice. Gli parve che il mostro dagli occhi rossi lo portasse via, come il vento porta la foglia, lanciandolo nel turbine della vita. A Roma i due studenti andarono ad abitare al terzo piano di una casa in Piazza della Consolazione, presso una vedova, madre di due graziose ragazze telegrafiste, maestre, dattilografe, civette. I due studenti dormivano nella stessa camera, vasta, ma poco allegra, divisa da una specie di paravento formato con una coperta gialla; la loro finestra guardava su un cortile interno. La prima volta che Anania guardò da quella finestra provò un senso disperato di sgomento. Non vedeva che muri altissimi, d'un giallo sporco, bucati da lunghe finestre irregolari, e panni miseri, d'un candore equivoco, appesi a fili di ferro; uno di questi fili, con anelli scorrevoli, dai quali pendevano laccetti di spago attorcigliati, passava davanti alla finestra degli studenti. Mentre Anania guardava con disperata tristezza i muri perdentisi sul pallido cielo della sera, Battista Daga scosse il filo e cominciò a ridere: «Guarda, Anninia, guarda come gli anelli e i laccetti di spago ballano. Sembrano vivi. Così è la vita: un filo di ferro attraverso un cortile sporco: gli uomini si agitano, sospesi sopra un abisso di miserie». «Non rompermi le scatole», disse Anania, «sono abbastanza melanconico! Usciamo, mi par di soffocare.» Uscivano, camminavano, si stancavano, storditi dal rumore delle carrozze e dallo splendore dei lumi, dal passaggio violento e dal rauco urlo delle automobili. Anania si sentiva triste, tra la folla; gli pareva d'essere solo in un deserto, e pensava che se si fosse sentito male e avesse gridato nessuno lo avrebbe udito e soccorso. Ricordava Cagliari con nostalgia struggente; oh, balcone incantato, orizzonte marino, dolce occhio di Venere! qui non esistevano più né stelle, né luna, né orizzonte: solo un disgustoso ammasso di pietre, un pullulamento di uomini che allo studente barbaricino parevano d'una razza diversa e inferiore alla sua. Veduta attraverso lo sbalordimento, la stanchezza dei primi giorni, la suggestione melanconica del buio appartamentino di Piazza della Consolazione, Roma gli dava una tristezza quasi morbosa; nella città vecchia, dalle vie strette, dalle botteghe puzzolenti, dagli interni miserabili, dalle porte che parevano bocche di caverne, dalle scalette che sembrava si perdessero in un tenebroso luogo di dolore, egli ricordava i più miseri villaggi sardi; nella Roma nuova si sentiva smarrito, tutto gli appariva grande, le strade tracciate dai giganti per giganti, le case montagne, le piazze tancas sarde; anche il cielo era troppo alto e troppo profondo. Anche all'Università, dove egli cominciò a frequentare assiduamente i corsi di Diritto civile e penale e le lezioni di Enrico Ferri, lo aspettava una delusione. Gli studenti non facevano altro che rumoreggiare e ridere e beffarsi di tutto. Pareva si beffassero della vita stessa. Specialmente nell'aula IV, mentre si aspettava il Ferri, il chiasso e il divertimento oltrepassavano il limite; qualche studente saliva sulla cattedra e cominciava una parodia di lezione accolta da urli, fischi, applausi, grida di «Viva il Papa», «Viva Sant'Alfonso de' Liguori», «Viva Pio IX». Qualche volta lo studente, dalla cattedra, con una faccia tosta indescrivibile imitava il miagolar del gatto o il canto del gallo. Allora le grida e i fischi raddoppiavano; venivano lanciate pallottole di carta, pennine, fiammiferi accesi, finché l'arrivo del professore, accolto da applausi assordanti, metteva fine alla scena. Anania si sentiva solo, triste fra tanta gioia, e gli sembrava di appartenere ad un mondo diverso da quello ove era costretto a vivere. Solo quando il professore cominciava a parlare, egli provava una commozione profonda, quasi un senso di gioia. Fantasmi di delinquenti, di suicidi, di donne perdute, di maniaci, di parricidi, passavano, evocati dalla voce possente del professore, davanti al pensiero turbato di Anania. E fra tante figure egli ne distingueva una, che passava e ripassava davanti a lui, ad occhi bassi. Ma invece di fissarla con orrore egli la guardava con pietà, col desiderio di stenderle la mano. Una sera lui e il Daga attraversavano Via Nazionale: lo splendore delle lampade elettriche si fondeva col chiarore della luna: le finestre del palazzo della Banca erano tutte vivamente illuminate. «Sembra, che tutto l'oro racchiuso nella Banca brilli attraverso le finestre», disse Anania. «Ma bbraaavooo! Si vede che la mia compagnia ti dirozza.» «Sono più che mai romantico stasera. Andiamo al Colosseo!» Andarono. Si aggirarono a lungo nel divino mistero del luogo, guardando la luna attraverso ogni arco; poi sedettero su una colonna lucente e sospirarono entrambi. «Io sento una gioia simile al dolore,» disse Anania. Il Daga non rispose, ma dopo un lungo silenzio disse: «Mi sembra d'essere nella luna. Non ti pare che nella luna si debba provare ciò che si prova qui, in questo gran mondo morto?». «Sì», disse Anania, con voce flebile. «Questa è Roma.» Al ritorno passarono ancora per Via Nazionale. Chiacchieravano in dialetto. Era tardi, e su e giù, attraverso i marciapiedi quasi deserti vagavano molte farfalle notturne, così le chiamava il Daga. A un tratto una di esse passò accanto a loro e li salutò in dialetto sardo. «Bonas tardas, pizzoccheddos!» Era alta, bruna, con grandi occhi cerchiati: la luce elettrica dava al suo piccolo viso, emergente dal collo di pelo d'un soprabito chiaro, un pallore cadaverico. Come a Cagliari, la sera in cui Rosa e la compagna lo avevano fermato, Anania sussultò, preso da un senso d'orrore, e trascinò via il Daga che rispondeva insolentemente alla donna. Era lei? Poteva esser lei? Era una sarda ... poteva esser lei! II. Sdraiato sul suo lettuccio, dopo ore ed ore di amarezza, di dubbio, di opprimente melanconia, egli pensava: «È inutile illudermi: non sono pazzo, no; ma non posso più vivere così; bisogna ch'io sappia ... Oh, fosse morta! fosse morta! Bisogna che io cerchi. Non sono venuto a Roma per questo? Domani! domani! Dal giorno che arrivai ripeto questa parola, e l'indomani arriva ed io non faccio niente. Ma che posso fare? Dove devo andare? E se la trovo?». Ah, era di questo che egli aveva paura. Non voleva neppur pensare a quanto poteva accadere dopo ... Improvvisamente si domandò: «E se mi confidassi col Daga? Se io ora gli dicessi: "Battista, devo uscire, devo recarmi in questura per chiedere informazioni ... ". Ah, non ne posso più! Sono tanti e tanti anni che io trascino con me questo peso: ora vorrei liberarmene, gettarlo via come si getta un carico opprimente ... liberarmene, respirare ... Bisogna snidarlo questo verme roditore. Mi diranno che sono uno stupido, mi convinceranno che lo sono, mi diranno di smettere ... Ebbene, tanto meglio se mi convinceranno ... Che giornata triste! Il cielo si abbassa ... si abbassa sempre più ... Avrei sonno? Bisogna ch'io vada subito». Pioveva dirottamente. Anche il Daga sonnecchiava sul suo lettuccio, al di là del paravento. «Battista», disse Anania, sollevandosi, col gomito sul guanciale, «tu non esci?» «No.» «Mi presti il tuo ombrello?» Sperava che il compagno gli chiedesse dove voleva andare, con quel tempo orribile, ma il Daga disse: «Non potresti farmi il piacere di comprartene uno?» Anania sedette sul letto, rivolto al paravento, e mormorò: «Devo andare in questura ... ». E sperò ancora che una voce fraterna gli chiedesse il suo segreto ... Ecco, egli palpitava già pensando come cominciare ... Ma attraverso il paravento una voce beffarda chiese: «Vai a far arrestare la pioggia?». Il segreto gli ripiombò sul cuore, più amaro e grave di prima. Ah, non un paravento, ma una muraglia insuperabile lo divideva dalla confidenza e dalla carità del prossimo. Non doveva chiedere né aspettare aiuto da nessuno; doveva bastare a se stesso. S'alzò, si pettinò accuratamente e cercò nel cassetto la sua fede di nascita. «Prendilo pure, l'ombrello. Ma perché vai?», chiese l'altro, sbadigliando. Egli non rispose. Sulle scale buie si fermò un momento, ascoltando lo scroscio sonoro dell'acqua sull'invetriata del tetto: pareva il rombo d'una cascata, che dovesse di momento in momento precipitarsi entro la casa, già inondata dal fragore dell'imminente rovina. Una tristezza mortale gli strinse il cuore. Uscì e vagò lungamente per le strade lavate dalla pioggia: salì su per una viuzza deserta, passò sotto un arco nero, guardò con infinita tristezza i chiaroscuri umidi di certi interni, di certe piccole botteghe, nella cui penombra si disegnavano pallide figure di donne, di uomini volgari, di bimbi sudici: antri ove i carbonari assumevano aspetti diabolici, dove i cestini di erbaggi e di frutta imputridivano nell'oscurità fangosa, ed il fabbro e il ciabattino e la stiratrice si consumavano nei lavori forzati, in un luogo di pena più triste della galera stessa. Anania guardava: ricordava la catapecchia della vedova di Fonni, la casa del mugnaio, il molino, il misero vicinato e le melanconiche figure che lo animavano; e gli pareva d'esser condannato a viver sempre in luoghi di tristezza e tra immagini di dolore. Dopo un lungo ed inutile vagabondare rientrò a casa e si mise a scrivere a Margherita. «Sono mortalmente triste: ho sull'anima un peso che mi opprime e mi schiaccia. Da molti anni io volevo dirti ciò che ti scrivo adesso, in questo triste giorno di pioggia e di melanconia. Non so come tu accoglierai la rivelazione che sto per farti; ma qualunque cosa tu possa pensare, Margherita, non dimenticare che io sono trascinato da una fatalità inesorabile, da un dovere che è più terribile d'un delitto ... » Arrivato alla parola «delitto» si fermò e rilesse la lettera incominciata. Poi riprese la penna, ma non poté tracciare altra parola, vinto da un gelo improvviso. Chi era Margherita? Chi era lui? Chi era quella donna? Cosa era la vita? Ecco che le stupide domande ricominciavano. Guardò lungamente i vetri, il filo di ferro, gli anellini ed i lacci bagnati e saltellanti su uno sfondo giallastro, e pensò: «Se mi suicidassi?», Lacerò lentamente la lettera, prima in lunghe striscie, poi in quadrettini che dispose in colonna, e tornò a fissare i vetri, il filo di ferro, i laccetti che parevano marionette. Rimase così finché la pioggia cessò, finché il compagno lo invitò ad uscire. Il cielo si rasserenava; nell'aria molle vibravano i rumori della città rianimatasi, e l'arcobaleno s'incurvava, meravigliosa cornice, sul quadro umido del Foro Romano. Al solito, i due compagni salirono per Via Nazionale e il Daga si fermò a guardare i giornali davanti al Garroni, mentre Anania proseguiva distratto, andando incontro ad una fila ciangottante di chierici rossi, uno dei quali lo urtò lievemente. Allora egli parve destarsi da un sogno, si fermò e aspettò il compagno, mentre i chierici s'allontanavano, e il riflesso dei loro abiti scarlatti dava uno splendore sanguigno al lastrico bagnato. «Nella mia infanzia ho conosciuto il figliuolino d'un bandito famoso; il bimbo era già arso da passioni selvaggie, e si proponeva di vendicare suo padre. Ora invece ho saputo che si è fatto frate. Come tu spieghi questo fatto?», domandò Anania. «Quell'individuo è pazzo!», rispose il Daga con indifferenza. «Ebbene, no!», riprese Anania animandosi. «Noi spieghiamo o vogliamo spiegare molti misteri psicologici, dando il titolo di matto all'individuo che ne è soggetto.» «Per lo meno, però, è un monomaniaco. D'altronde anche la pazzia è un mistero psicologico complicato; un albero il cui ramo più potente è la monomania.» «Ebbene, ammetto. Ma l'individuo in questione aveva la monomania del banditismo; aggiungi, monomania atavica. Facendosi frate egli, sebbene uomo quasi primitivo, ha voluto liberarsi dal suo male ... » «E finirà con l'impazzire davvero, quel frate. Un uomo cosciente, colto dal malanno di un'idea fissa qualunque, deve liberarsene secondandola.» «Tu forse hai ragione», disse Anania, pensieroso. E non parlò più finché non arrivarono all'angolo di Via Agostino Depretis. Allora disse, svoltando strada: «Voglio prendere ... mi hanno incaricato di prendere l'indirizzo di una persona ... Devo andare in questura». Il compagno lo seguì, curioso. «Chi è questa persona? Chi ti ha incaricato? È del tuo paese?» Ma Anania non si spiegava. Arrivati davanti a Santa Maria Maggiore il Daga dichiarò che non sarebbe andato oltre. «Allora aspettami qui», disse Anania, senza fermarsi, «ti dirò poi ... » Messo in curiosità il Daga lo seguì per un tratto, poi lo aspettò sulla gradinata della chiesa. «Il dado è gettato?» chiese con enfasi, quando Anania ricomparve. Ma nonostante le sue domande e i suoi scherzi non riuscì a sapere che cosa il suo compagno era andato a fare in questura. Appoggiato al muro Anania guardava l'orizzonte e ricordava la sera in cui, bambino, era salito sulle falde del Gennargentu ed aveva veduto un pauroso cielo tutto rosso, animato da spiriti invisibili. Anche adesso sentiva un mistero aleggiargli intorno, e la città gli sembrava una foresta di pietra attraversata da fiumi pericolosi, e sentiva paura. III. Sì, come si legge nelle vecchie storie romantiche, il dado era gettato. La questura, dopo la domanda e le indicazioni di Anania, fece ricerca di Rosalia Derios, e verso la fine di marzo informò lo studente che al numero tale di Via del Seminario, all'ultimo piano, abitava una donna sarda, affitta-camere, il cui passato e i connotati corrispondevano a quelli di Olì. Questa signora si chiamava, o si faceva chiamare, Maria Obinu, nativa di Nuoro. Abitava in Roma da quattordici anni, e nei primi tempi aveva vissuto un po' irregolarmente. Da qualche anno, però, menava vita onesta - almeno in apparenza - affittando camere mobiliate e facendo pensione. Anania non si commosse troppo nel ricevere queste informazioni. I connotati combinavano; egli non ricordava precisamente la fisonomia di sua madre, ma ricordava che ella era alta, coi capelli neri e gli occhi chiari: e la Obinu era alta, coi capelli neri e gli occhi chiari. Inoltre egli sapeva che a Nuoro non esisteva alcuna famiglia Obinu, e che nessuna donna nuorese viveva e affittava camere a Roma. Evidentemente quindi la Obinu falsava il suo nome e la sua origine ... Tuttavia egli sentì che la donna indicatagli dalla questura non era, non poteva essere sua madre; questa non viveva a Roma dal momento che la questura non riusciva a scoprirla. Dopo giorni e mesi di attesa e di ansia, egli provò come un senso di liberazione. La primavera penetrava anche nel cortile melanconico di Piazza della Consolazione, in quell'enorme pozzo giallo esalante odori di vivande, animato dal canto delle serve e dal gorgheggio dei canarini prigionieri. L'aria era tiepida e dolce; sul cielo azzurro passavano nuvolette rosee, e il vento portava fragranze di rose e di viole. Affacciato alla finestra, Anania si abbandonava ai suoi sogni nostalgici. L'odore delle viole, le nuvole rosee, il tepore della primavera, tutto gli ricordava la terra natìa, i vasti orizzonti, le nuvole che dalla finestra della sua cameretta egli vedeva affacciarsi o tramontare fra gli elci dell'Orthobene. Poi ricordava la pineta di monte Urpino, il silenzio delle cime coperte d'asfodeli e di iris violette, il mistero dei viali vigilati dal puro sguardo delle stelle. E la figura diletta di Margherita dominava i freschi paesaggi natii, circondata di asfodeli e di gigli selvatici, coi capelli di rame sfumati nel fulgore del cielo metallico. La primavera romana non lo commoveva che per le rimembranze: gli sembrava una primavera artificiale, troppo ardente e luminosa, troppo abbondante di fiori e di profumi. Piazza di Spagna, ornata come un altare, con la scalinata coperta di petali di rose mosse dalla brezza, il Pincio con gli alberi avvolti di fiori violacei, le vie profumate dai cestini di narcisi e di ranuncoli che le fioraie, ferme sull'orlo dei marciapiedi, offrivano ai passanti, - tutta questa ostentazione, tutto questo mercato della primavera, dava allo studente l'idea di una festa banale, che a lungo andare rattristava e disgustava. La primavera palpitava al di là dell'orizzonte; giovinetta selvaggia e pura ella scorrazzava attraverso le tancas coperte d'erbe alte aromatiche, e cantava con gli uccelli palustri in riva ai torrenti, e scherzava coi mufloni e con le lepri, fra i ciclamini, sotto le immense quercie sacre ai vecchi pastori della Barbagia, e si addormentava all'ombra delle roccie fiorite di musco, nei voluttuosi meriggi, mentre intorno al suo letto di felci e di pervinche gli insetti dorati ronzavano amandosi, e le api suggevano le rose canine estraendone il miele amaro; amaro e dolce come l'anima sarda. Anania amava e viveva in questa primavera lontana; seduto accanto alla finestra guardava le nuvolette rosee, e s'immaginava di essere un prigioniero innamorato. Una sonnolenza piacevole gli velava lo spirito, togliendogli la forza e la volontà di pensare a determinate cose. Le idee venivano e passavano nella sua mente, - così come le persone passano per la via; lo interessavano per un attimo, ma non si fermavano ed egli le dimenticava subito. Più che mai amava la solitudine; e persino la presenza del compagno lo irritava, anche perché il Daga lo derideva continuamente. «Noi vediamo la vita sotto aspetti ben diversi», gli diceva, «cioè io la vedo e tu non la vedi. Io sono miope e vedo, attraverso lenti fortissime, le cose e le umane vicende, nitidamente, rimpicciolite; tu sei miope e non possiedi neppure un paio d'occhiali.» Talvolta infatti pareva ad Anania di aver un velo davanti agli occhi; egli viveva di diffidenza e di dolore. Anche la sua passione per Margherita, in fondo, era composta di tristezza e di paura. Un giorno, agli ultimi di maggio, egli sorprese il compagno stretto in tenero amplesso con la maggiore delle padroncine. «Sei un bruto», gli disse con disprezzo. «Non amoreggi anche con l'altra sorella? Perché ti burli di entrambe?» «Scusami, stupido: son loro che vengono a buttarmisi fra le braccia, le posso respingere?», chiese cinicamente il Daga. «Poiché il mondo è diventato un gambero, profittiamone. Ora son le donne che seducono gli uomini; ed io sarei più stupido di te se non mi lasciassi sedurre ... fino ad un certo punto ... » «Ma perché certe cose non accadono che a certi tipi? A me no, per esempio.» «Perché agli asini non può succedere ciò che succede agli uomini: eppoi le nostre soavi padroncine hanno, in fondo, l'onesto desiderio di trovarsi un marito e sanno che tu sei fidanzato.» «Io fidanzato? ... », gridò Anania, «chi lo ha detto?» «Chi lo sa? E di una Margherita, anche, che questa volta, meno male, va gettata ante asinos.» «Ti proibisco di ripetere quel nome!», proruppe Anania, andando addosso al Daga. «Capisci, te lo proibisco!» «Abbassa le dita, ché mi cavi gli occhi! Il tuo amore è feroce!» Fremente di collera Anania si mise a impacchettare i suoi libri e le sue carte. «Ah», diceva, a denti stretti, «me ne vado subito, subito. Io non so vivere fra gente curiosa e volgare.» «Addio, dunque!», disse Battista, gettandosi sul letto. «Ricordati almeno che nei primi giorni che siamo giunti, se non c'ero io rimanevi vilmente schiacciato da una carrozza.» Anania uscì, col cuore gonfio di fiele: si diresse automaticamente verso il Corso, e quasi senza avvedersene si trovò in Via del Seminario. Era un pomeriggio ardente; lo scirocco sbatteva le tende dei negozi: l'aria odorava di vernici, di droghe e di vivande. Anania sentiva i suoi nervi fremere come corde metalliche. In Via del Seminario passò in mezzo a uno stormo di chierici e di preti dalle mantelline svolazzanti e mormorò dispettosamente: «Corvi!», A un tratto, accanto a una piccola porta che dava su un andito buio, egli vide un numero, il numero della casa ove abitava Maria Obinu. Entrò, salì all'ultimo piano e suonò. Una donna alta e pallida, vestita di nero, aprì: egli si turbò, sembrandogli di aver veduto altra volta i grandi occhi verdastri di lei. «La signora Obinu?» «Sono io», rispose la donna con voce grave, «No», egli pensò, «non è lei; non è la sua voce.» Entrò. La Obinu gli fece attraversare un piccolo vestibolo buio e lo introdusse in un salottino grigio e triste; egli si guardò attorno, vide una testa di cervo e una pelle di muflone attaccate al muro, e immediatamente sentì i suoi dubbi rinascere. «Vorrei una camera; io sono sardo, studente», disse, esaminando la donna da capo a piedi. Ella era pallida e scarna, col collo lungo, il naso affilato quasi trasparente; ma i folti capelli neri, pettinati ancora alla sarda, cioè a trecce strette appuntate fortemente sulla nuca, le davano un'aria graziosa. «Lei è sardo? Ho piacere ... », rispose disinvolta. «Adesso non ho camere disponibili, ma se lei può pazientare una quindicina di giorni, ho una signorina inglese che deve partire ... » Egli chiese ed ottenne di veder la camera; il letto stava al centro, fra due cataste di libri vecchi e d'oggetti antichi; entro una vasca di gomma, ancora piena d'acqua insaponata, olezzava un fascio di gaggie; dalla finestra si scorgeva un giardinetto melanconico. Sul tavolino Anania vide, fra gli altri, un volumetto che egli amava con passione dolorosa. Erano i versi di Giovanni Cena: Madre. «Ho bisogno di andar subito via dalla casa dove sto; prenderò questa camera, ma intanto, non potrebbe darmene un'altra, fosse anche un buco? ... » Rientrarono nel salottino, ed egli si fermò a guardare la testa imbalsamata del cervo. «È un ricordo di mio padre, che era cacciatore», disse la donna, sorridendo con bontà. «È di Nuoro, lei?» «Sì, ma sono nata là per caso.» «Anch'io sono nato per caso nel villaggio di Fonni», egli disse, guardandola in viso. «Sì, sono nato a Fonni; mi chiamo Anania Atonzu Derios.» Ella non batté palpebra. «No, non è lei!», egli pensò, e si sentì felice. «Per questi quindici giorni le darò la mia camera», disse finalmente la Obinu, cedendo alle insistenze di lui, ed egli accettò. La cameretta pareva la cella d'una monaca; il lettino candido, odorante di spigo, ricordava i semplici giacigli di certe patriarcali abitazioni sarde. E come in quelle abitazioni, Maria Obinu aveva appeso lungo le pareti grigie della sua camera una fila di quadretti e di immagini sacre; tre ceri, poi, e tre crocefissi, un ramo d'olivo e un rosario che pareva di confetti, pendevano in capo al letto; in un angolo ardeva una lampadina davanti ad una immagine dove le Sante Anime del Purgatorio, tinte di livido da un lapis turchino, pregavano tra fiamme insanguinate da un lapis rosso. Anania prese possesso della camera, e ben presto fu riassalito dai suoi dubbi. Perché la Obinu gli cedeva la sua camera? perché si mostrava così premurosa con lui? Mentre egli metteva a posto i suoi libri, Maria bussò e, senza avanzare, gli domandò se desiderava che la lampadina delle «Sante Anime» venisse spenta. «No», egli rispose con voce forte, «venga avanti, anzi, che le faccio vedere una cosa.» Ella entrò, pallida, sorridente; pareva avesse sempre conosciuto il suo inquilino e gli volesse bene. Egli teneva fra le mani uno strano oggetto, un sacchettino di stoffa unta, attaccato ad una catenina annerita dal tempo. Disse, mettendosi l'amuleto al collo: «Veda, anche io sono devoto, questa è la ricetta di San Giovanni, che allontana le tentazioni.» La donna guardava. Improvvisamente cessò di sorridere, ed Anania sentì il suo cuore battere forte. «Lei non crede a queste cose?», domandò Maria. «Ebbene, se non ci crede, almeno non se ne burli. Sono cose sacrosante.» Steso sul lettino odorante di spigo, Anania pensava continuamente al suo segreto. ... E se Maria Obinu era Olì? Se era lei? Così vicina e così lontana! qual filo misterioso lo aveva condotto fino a lei, fino al guanciale su cui ella doveva qualche volta piangere ricordando il figliuolo abbandonato? Che strana cosa la vita! Egli era dunque giunto così al suo destino, solo per forza di una volontà misteriosa che lo aveva guidato quasi a sua insaputa. Ma non era pazzo, dunque? Che sciocchezze, che puerilità! No, non era lei, non poteva esser lei. Ma se lo era? Se ella già sapeva di essere vicina a suo figlio, mentre egli si dibatteva nel dubbio? No, non poteva essere lei. Una madre non può non tradirsi, non può non gridare nel rivedere suo figlio. Era assurdo. - Sciocchezze, idee convenzionali. Una donna sa dominarsi anche tra le più violente emozioni. Essa, poi, che aveva abbandonato e buttato via la sua creatura! Appunto per questo doveva tradirsi, gridare, sussultare. Una madre è sempre una madre. Eppoi Olì, una selvaggia, una semplice figlia della natura, non poteva aver assimilato la perfidia delle donne di città, tanto da fingere come una commediante, da sapersi dominare così! Impossibile. Era assurdo, Maria Obinu era Maria Obinu, simpatica donna, mite e incosciente, che aveva avuto la fortuna, più che la forza, di emendarsi. Non poteva esser lei. Ma intanto egli ricordava la prima notte passata a Nuoro e il bacio furtivo di suo padre, e di momento in momento aspettava che l'uscio s'aprisse, e un'ombra si avanzasse, nel chiarore della lampadina, e un bacio rivelatore gli sfiorasse la fronte! ... «E se ciò fosse ... che farei io?» si chiedeva trepidando. I rumori della città si affievolivano, s'allontanavano, quasi ritirandosi anch'essi, stanchi, verso un luogo di riposo. Anania sentì rientrare i tardivi inquilini, poi tutto fu silenzio, nella casa, nella via, nella città. Ed egli vegliava ancora! Ah, forse quella lampadina? ... «Ora la spengo ... » Si alzò. Un rumore, un fruscio ... È l'uscio che si apre? Oh, Dio! Egli si gettò nuovamente sul letto, chiuse gli occhi e attese. Il cuore e la gola gli pulsavano febbrilmente. Ma l'uscio rimase chiuso, ed egli si calmò e rise di sé. Però non spense la lampadina.

Giacomo l'idealista

663183
De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Prega l'Addolorata e abbi davanti che nelle nostre afflizioni Dio è presente: anzi, non è mai cosí vicino a noi, come quando ci sembra che ci abbia abbandonati. Il tuo Giacomo. Mai filosofo s'era abbassato tanto, fino a invocare in suo aiuto il nome della Madonna addolorata! mai sapiente s'era tanto rimpicciolito per farsi perdonare il peccato d'esistere! Ma è pur forza riconoscere che dovendo parlare ad un'umile creatura della terra, poco gli potevano servire le ingegnose argomentazioni degli stoici e i sillogismi della coerenza scientifica. La bontà ha questo di superiore, che non disdegna, quando occorre, di essere irragionevole e incoerente. Il cuore ha detto un filosofo corazzato di matematica, ha delle dimensioni e delle ragioni, che la ragione non conosce. Fu questo medesimo sentimento di umile convinzione, che lo persuase qualche giorno dopo a scrivere alla contessa Magnenzio una lettera, che egli considerò quasi come il suo testamento morale: "Mio zio - le diceva - mi ha fatto sapere che la S. V. Ill. desidera avere da me una parola che le manifesti i miei sentimenti e i miei propositi di fronte ai fatali avvenimenti che hanno colpito la mia povera esistenza. Sarebbe ormai un vano orgoglio per parte mia, se volessi opporre un glaciale silenzio alle domande angosciose di una madre, che per antiche ragioni ho l'obbligo di riverire, e che la comune sventura rende oggi agli occhi miei ancora piú degna di rispetto. Mi pare che le mie stesse sofferenze vadano rimpicciolendosi come ghiaccio che si scioglie in un'acqua mortale e profonda. Non sarò mortodel tutto, ma sento il freddo della morte salire da tutte le parti e circondarmi il cuore. Ho scritto a Celestina parole, che mi uscirono spontanee, ma che non saprei ripetere per paura di me stesso, come non ho saputo rileggerle al momento che mi sgorgavano dalla penna, mentre una nuvola pregna di lagrime circondava la mia testa. Se mi lascio trascinare da qualche atto che ha apparenza di perdono, non mi lodi come di una prova di forza morale; ma consideri quel che faccio e quel che dico come la conseguenza dello stato di atonia e d'incapacità, in cui sono ridotto da questi mali troppo crudeli. Credo che anche il mio povero cervello non sia in grado di connettere e di formulare gli elementi di una risoluzione. Come un vinto ferito a morte, accetto tutti i patti e tutte le catene nella convinzione che l'umiliazione non potrà durar molto, e che io non potrò vederne la fine. Non posso non volere io solo e per un inutile intento ciò che è desiderio di tutti quelli che mi vogliono bene. Avrei troppo poco rispetto e troppa poca pietà verso i miei stessi dolori, se respingessi con insolente asprezza la carità di questa medicina. Ho accettato un umile posto provvisorio a Pallanza, dove mi recherò subito dopo le feste di Natale. Avrei voluto partir subito, se di tempo in tempo un resto di febbre non mi avvertisse di usare prudenza, e mi curo non per troppa voglia di guarire, ma per il timore di rimanere troppo tempo invalido a consumare la carità di questa povera mia gente, che non posso sacrificare al mio risentimento. Al mio disinganno basto io, e bene ho fatto a sacrificargli tutte le illusioni, che andavo raccogliendo in un fascio di carte, a cui non potevo piú credere. Perché avrei pubblicato le menzogne di un sogno? Se la cenere è tutto quello che resta in fondo di ogni verità, tanto fa non credere alla fiamma .". - E mentre scriveva queste parole, si compiaceva di carezzare il presentimento che l'eccesso del patimento l'avrebbe presto dispensato dal cercar altre ragioni, riducendolo all'ultima, che comprende tutte le altre.

La morte dell'amore

663208
De Roberto, Federico 1 occorrenze

Se ella dunque vuol sapere da me in qual modo questa pena estrema dei traditi e degli abbandonati guarisce, già è in grado di indovinare la mia risposta. Reprimere la nostra passione dicendo a noi stessi e dimostrando che l’oggetto nel quale la riponemmo ne è indegno, non vale a niente: già in una precedente mia lettera io le parlai della contraddizione per la quale proprio l’indegna persona sembra meritevole sopra ogni altra, unicamente. Alcuni credono che il riso sia un buon revulsivo, e non è infatti da disprezzare. Conosco un abbandonato il quale, struggendosi nel suo dolore, cominciò a sorridere e a sentirsi molto meglio quando vide la antica sua amante a braccio di un altro uomo, in un luogo oscuro, pendere dalle sue labbra e stringersi tutta a lui… Ha ella notato come lo spettacolo di due amanti e anche di due sposi ecciti spesso il sorriso beffardo? E perché mai la vista dell’amore felice, invece di disporre alla gioia dispone alle beffe?… Io credo che si possano assegnare due cause di questo fatto, cioè una sola causa che agisce in due modi differenti. Essa risiede in quelle leggi che dell’amore, d’una cosa cioè molto e fin troppo naturale, hanno fatto una cosa misteriosa, difficile e quasi vietata. Di questa prepotente passione non si deve quasi parlare nel civile consorzio; mentre di tutti gli altri bisogni noi vediamo quotidianamente lo sfoggio, questo qui dobbiamo piuttosto indovinarlo attraverso le ipocrite convenienze. Tutte le volte adunque che esso si rivela o traspare, come quando un corteggio nuziale attraversa le vie d’una città o quando una coppia di amanti erra nelle ombre propizie di qualche deserto bastione, allora l’improvvisa rivelazione d’una troppo celata e contrastata realtà dispone al sorriso. Aggiungo ancora che lo spettatore dell’amore vorrebbe anch’egli, ma non può, per le medesime leggi severe, prendersi sotto il braccio una persona con la quale poter fare ciò che fanno i due attori; e l’invidia umanamente le spiegherà il suo schermo. Chiudiamo questa parentesi e torniamo alla persona di mia conoscenza: costui, vedendo tubare le due tortorelle, una delle quali era il rivale, l’altra la donna che fino a pochi giorni innanzi giurava d’amar lui, sentì tanto più acutamente l’umorismo dello spettacolo e, ridendo, si sollevò. Un altro amante abbandonato guarì in modo che è alla portata d’ognuno; perché non sempre il caso ci è tanto propizio da farci spettatori dei nuovi idillii delle nostre antiche fiamme. Ecco il modo: l’abbandonato, spasimando alle memorie del perduto amore, tremava di paura al pensiero di vederne i materiali ricordi. Come contemplare senza entrare in agonia i ritratti dell’amata, i fiori, i nastri, le cose che ella gli aveva donate? Come rileggere senza morire le lettere sue?… Ed un giorno vide i ritratti ed i fiori, e il suo dolore crebbe veramente oltre misura: ma quando egli cominciò a leggere le lettere, le lettere piene di queste espressioni: "L’amor mio per te sarà senza fine… tu solo m’hai rivelato l’amore… fuori di te non c’è, non potrà esserci mai piacere e felicità… non solo l’amor mio è eterno, ma più eterna sarà la gratitudine… io voglio morire per provarti che non posso amare nessun altro fuori di te… tu potrai lasciarmi, tradirmi, scacciarmi, io ti sarò fedele da lontano, eternamente…", leggendo queste parole delle quali avevo avuto paura perché prevedeva che il dolore di non poterne ricevere più mai di simiglianti lo avrebbe soffocato, egli sentì improvvisamente il suo petto sollevarsi e il riso fiorirgli sulle labbra, perché la donna che aveva scritto queste cose, ella stessa in carne ed ossa, le scriveva in quel punto ad un altro… Tuttavia questi rimedi quantunque giovino spesso, spesso anche restano inefficaci. Se è vero – e come negarlo? – che l’amor proprio è massimamente offeso nel tradimento e nell’abbandono, bisogna, per guarire radicalmente, che l’amor proprio ottenga la sua rivincita. Chiodo scaccia chiodo, dice il proverbio; e se a noi parve finito tutto il nostro merito perché la persona che prima ci amava ora non ci ama più, basterà che, perduto quell’amore, noi ne otteniamo un altro perché il merito nostro torni a rifulgere. Eppure neanche questo rimedio è infallibile! Noi abbiamo ottenuto un altro amore e non ce ne contentiamo, perché non ne volevamo un altro, uno qualunque, ma precisamente quello che non potevamo avere: tale il bambino bizzoso grida e strepita e non si cheta se, offrendogli voi le cose più belle o le chicche più dolci, gli negate quel balocco o quella confettura che per l’appunto egli si è fitto in capo di avere! La guarigione infallibile e radicale non avviene pertanto se non quando il nostro amor proprio, offeso perché ci fu sottratto un amore, è soddisfatto all’idea di poterlo riottenere. C’è anche allora un’ironia, ed è la più sottile di tutte, perché noi ridiamo – di noi stessi… Eccole a questo proposito un curioso documento che mi fu mandato una volta: sopprimo l’esordio e le comunico la parte più degna della sua attenzione. "Questo amore era stato tutto ciò che di meglio avevo tenuto al mondo, il sogno della mia giovinezza, la felicità della mia vita, e nulla era valso a compensarne la perdita. Avevo, sì, tentato di affezionarmi ad altre creature; ma l’imagine di quella donna mi restava sempre dinanzi, impediva quasi materialmente che io scorgessi le altre, e se pure le scorgevo, toglieva loro ogni incanto e sembrava quasi ammonire: "No, mai più troverai dolcezze così grandi come quelle che io ti diedi!". E dalle sterili prove uscivo sempre più assetato di lei. Sentivo dire, a proposito di grandi dolori, di perdite irreparabili, che il tempo è un sovrano rimedio, che nulla resiste alla sua azione lenta e continua; quest’azione pacificatrice, questo rimedio infallibile, io l’avevo provato altre volte; ora ogni giorno che passava accresceva la pena mia. Il lavoro paziente ed assiduo non era anch’esso un diversivo sicuro? Ma non poter più lavorare, nessun’idea ormai spuntava più nella mia mente tutta invasa dai ricordi, oppressa dai rimpianti; e quando pure avessi potuto ridarmi all’arte mia, l’avrei ora sdegnata. Tutto ciò che avevo fatto non l’avevo fatto per lei, affinché ella fosse contenta di me, affinché le apparissi meno indegno di quel che mi sentivo? Le sole lodi ambite ed apprezzate non erano state le sue? Come tutto mi pareva ora inutile, vuoto ed oscuro! Nulla m’interessava più, nulla riusciva a strapparmi dal letargo nel quale ero caduto: contavo i giorni, contavo le ore. Esse scorrevano con lentezza mortale: come affrettarne la caduta? Pensavo: "Se potessi chiudere gli occhi e riaprirli di qui a due anni, a tre anni?…". E poi? Perché? Che cosa aspettavo? Che cosa avrei ottenuto? Sì, forse tra qualche anno quel cocente ricordo sarebbesi spento; ma, a quest’idea, al pensiero di perdere la stessa memoria di un amore che era stato tutto il mio bene, il cuore mi si stringeva talmente che io trovavo nelle torture presenti una specie di felicità e come l’illusione che tutto non fosse ancor morto… Così, invece d’insistere nei miei tentativi di stordimento e d’oblio, cominciai ad attizzare il mio dolore rappresentandomi tutte le gioie conseguite in quel dolce legame, dando un valore perfino alle cose futili, perfino alle cose delle quali mi ero stancato. Perché, infatti, mi ero stancato di certe esigenze che avevo giudicate irragionevoli, di certe sue superstizioni che avevo giudicate puerili. Ora vedevo in esse altrettante inestimabili prove d’amore, altrettante fortune impagabili: per ottenerne ancora una sola che cosa non avrei dato?… Ella aveva sempre voluto che io le scrivessi ogni giorno, anche un rigo soltanto; ed io che negli ultimi tempi non l’avevo più obbedita, pensavo adesso, ahimè troppo tardi, che scriverle continuamente, che aprirle ogni ora l’animo mio era ciò che avrei dovuto far sempre. Anch’ella mi aveva scritto tante volte; e rivedere le sue lettere, aspirare soltanto il profumo del quale erano impregnate, mi turbava fino alle lacrime. Altre volte io avevo restituite le lettere d’amore quando l’amore era finito; ma come paragonare questa passione alle antiche? Ed io non mi separavo da quelle carte, che non osavo rileggere per pietà di me stesso, ma dove era pure la prova che non avevo sognato la svanita gioia… Com’ero dunque stato folle nel lasciarmi sfuggire quel bene! Come incolpavo me stesso della morte d’un amore che invece ella stessa aveva ucciso!… Allora, ripensando alla premeditata freddezza di quella creatura che senza darsi la pena neppure di mendicare un pretesto m’aveva scacciato; ripensando alla crudeltà della quale aveva dato prova nel restar sorda alle mie preghiere, al mio pianto, alla mia disperazione; per un poco il mio dolore si mutava in un sordo rancore, in un odio secreto; ma io riconoscevo ben tosto, nel finale abbattimento di tutto l’essere mio, che questa sua freddezza, che questa sua crudeltà, che l’inflessibile rifiuto opposto a tutte le mie insistenze, erano l’origine della mia disperazione. L’idea di non averla potuta piegare, il sentimento della mia incapacità a ridestare una passione della quale ero andato superbo, mi prostravano, mi umiliavano, mi attaccavano a lei sempre più. E come se tanta miseria non bastasse, la gelosia, una gelosia terribile che non poteva fermarsi sopra una determinata persona, ma che comprendeva tutti gli uomini, mordeva il mio cuore. Perché dunque m’aveva lasciato, colei, se non per darsi ad un altro? Perché era stata così dura verso di me se non per riacquistare la libertà, per correre a nuove avventure? Un altro aveva preso il mio posto; e quest’altro poteva essere uno dei miei più intimi amici come il primo sconosciuto che mi passava accanto per la via! La credevo capace di tutto; e la disistima, invece di guarirmi, accresceva il mio male! Avevo pensato di partire, riserbandomi di porre ad effetto questo proposito quando null’altro mi sarebbe rimasto da tentare, come i medici riserbano per i casi disperati certi pericolosi rimedii che, se non affrettano la morte, riescono ad eccitare una crisi salutare nelle fibre vicine a distruggersi. I viaggi m’avevano sempre procurato la più gradita delle distrazioni. Dentro un treno che corre con la velocità di sessanta chilometri all’ora lasciandosi dietro monti, valli, fiumi e città; sopra un piroscafo che fende maestosamente il mare mobile e largo, avevo sempre respirato a pieni polmoni, m’ero sempre liberato da ogni oppressione. Ora non mi decidevo ad andar via. Quantunque la ragione mi dimostrasse fino all’evidenza che non c’era più nulla da fare, io aspettavo non sapevo bene che cosa. L’orgoglio mio era stato crudelmente ferito, nondimeno l’idea di tornar da lei a pregarla, ad umiliarmi, mi tentava certe volte ancora. Io mi ribellavo contro me stesso, m’accusavo di viltà, non facevo nulla – ma restavo. La divorante e mortale curiosità di sapere che cosa sarebbe accaduto di lei, se veramente un altro avrebbe ottenuto i suoi favori, mi tratteneva. E mi umiliavo altrimenti, spiandola da lontano, studiando il modo di far parlare di lei la gente che la conosceva. Alle volte mi sentivo sollevare da tale sdegno contro me stesso per l’incapacità di strapparmi quella donna dal cuore, che la risoluzione di partire era presa, irrevocabilmente. Ma il terrore di portar meco quel ricordo come un vampiro attaccato alla mia carne, intento a succhiare il mio vivo sangue, fiaccava il mio coraggio. E speravo ancora, accoglievo ancora qualche lusinga! Pensavo che ella avrebbe potuto pentirsi del male che m’aveva fatto e cercare un giorno o l’altro di me. E con l’istinto della salute che fa aggrappare anche ad un filo d’erba chi precipita in un abisso, m’afferravo a queste lusinghe, lavoravo a dar loro qualche apparenza di fondata speranza… Fu un giorno del settembre che ricorreva l’indimenticabile anniversario. Lo avevo aspettato con un’ansia ineffabile: i miei ricordi, i miei pentimenti, i miei rimpianti, le mie speranze, tutti i moti dell’animo mio s’erano esasperati talmente che non credevo possibile resistere di più a simile travaglio. Tanti disegni m’erano passati per il cervello, uno più pazzo dell’altro, che non sapevo veramente che cosa imaginare. Spuntò quel giorno, ed io non feci nulla di nulla. Ma se le fossi stato vicino, se l’avessi sentita tutta stretta a me, non sarei stato così pieno di lei come in quelle ore di agonia, occupate a ricordare le altre, le antiche, le divine, le prime e le sole che contassero nella mia vita. Che cosa faceva ella in quei momenti? Era possibile che non ricordasse anch’ella? Nonostante la lunga separazione, nonostante la lontananza, in quel momento le nostre anime non dovevano confondersi come s’eran confuse altra volta? E se così pensava anch’ella, se era pentita, se era libera, non toccava a lei di scrivermi una riga, una parola, perché tutto fosse detto?… Quando arrivò la posta cercai con mano tremante in mezzo al fascio dei giornali e delle lettere. Non c’era nulla. Ebbi veramente un sorriso di profonda commiserazione per la mia sciocchezza. Calò la sera, e mai tenebre più paurose chiusero il mio cuore. Improvvisamente udii squillare il campanello. Il servo mi venne incontro con un dispaccio in mano. Poiché il cuore non mi si ruppe in quel punto, la fibra dev’esserne molto resistente. Apersi in quel foglio: era un mio creditore che mi mandava un vaglia telegrafico. Il giorno dopo partii. In verità l’esistenza più salda, più tenace, non è già quella delle cose o degli esseri, ma quella delle idee e dei sentimenti. Voi potete spezzare un oggetto materiale, calpestarlo, incenerirlo, darne al vento le ceneri, voi potete uccidere una persona, distruggere quel prodigio che è un corpo vivente: ma dinanzi a questa cosa semplicissima che si chiama un pensiero, così tenue, così alato, fuggevole tanto che un soffio parrebbe doverlo abolire, voi siete inermi. La volontà è l’unico mezzo del quale potreste disporre; ma tutti gli sforzi della vostra volontà per sradicarlo servono invece a configgerlo più profondamente nel vostro cervello. Non voler pensare a una cosa importa rammentarsela continuamente; contro l’invasamento spirituale non vi sono esorcismi… Sì, io partii, con l’anima abbeverata di fiele, con le labbra contorte da un sardonico riso; ma il fischio del treno che si metteva in moto mi parve l’urlo della mia disperazione, e quasi tentai rompermi la fronte contro la gabbia che mi serrava, tentai precipitarmi dallo sportello per finirla una buona volta… E quando fui lontano, quando mi vidi in un paese straniero, fra gente sconosciuta, quando udii risonarmi d’intorno una lingua ignorata, un immenso stupore mi vinse e sedò per un istante il mio cordoglio. Io domandai a me stesso: "Perché sono qui? Che cosa sono venuto a fare? E potrò respirare soltanto?…". Mi mancava l’aria, mi sentivo morire. In mezzo al vasto tumulto di quella metropoli, dinanzi allo spettacolo di migliaia e migliaia d’uomini correnti dietro agli affari, ai piaceri, agli amori, io sentivo di me stesso la pietà che certi poveri fanciulli smarriti tra la calca in un giorno di festa m’avevano talvolta ispirata. Provai d’annegare il mio dolore negli stordimenti dell’orgia; ma come un legno che noi spingiamo sottacqua risale rapido a galla appena abbandonato a sé stesso, così il mio dolore risorgeva ogni volta, più acuto. E senza più ritegno, senza più vergogna, mi abbandonai ad esso, interamente. Avevo portato con me le sue lettere, i suoi ritratti. Una sera mi chiusi in camera e li rividi. Terribile! Terribile! Era dunque lei? la sua fronte? le sue guance? le sue labbra che avevo tanto baciate? Era il suo sguardo che si fissava ancora su di me, pieno della mia visione? Tutte quelle lettere, quelle parole d’amore, quei giuramenti, quelle promesse erano stati ispirati da me? Ed io non avrei più riveduto quella figura reale come ora ne rivedevo la mera effigie? Non avrei più ricevuto nessuna di quelle lettere, mai? Era dunque come morta?… Allora, nella nuova e più dura crisi d’ambascia scatenata nell’anima mia, io pensai di fare ciò che prima non avevo voluto: restituirle quelle carte per poterle scrivere ancora. Rapidamente quest’idea mi soggiogò. Io le avrei scritto per mostrarle l’esulcerata mia piaga, per farle intendere che l’amavo ancora tanto da perdonarla, da accusare anzi me stesso, da implorare il suo perdono per me. Fra giorni ricorreva il suo natalizio: ella non aveva parenti, nessuno dei suoi conoscenti sapeva la data che io solo avevo festeggiata, altre volte. Volevo anche ora mandarle una buona parola per questa festa che è sempre un po’ triste… Nella notte alta, nel silenzio profondo, alla luce d’una candela che si struggeva con fiamma tremula e lunga, io mi misi a scriverle. Scrivevo tre righe e ne cancellavo due. Volevo mettere sopra un foglio di carta tutto ciò che avevo in cuore; ma le parole mancavano, ed anche temevo di contenermi troppo o di troppo lasciarmi trascinare. Ma ero deciso a non levarmi dalla scrivania se non dopo aver finito. Quando finii rilessi la lettera; ne rammento ogni parola, diceva così: "Lasciata l’Italia per un tempo non breve, compio il dovere di rimandarvi alcune carte che non posso esporre al rischio di cadere in mani indiscrete e che per altro mi dorrebbe troppo distruggere. Già io ho sempre pensato che le carte di questa natura si debbano restituire quando restano a testimoniare qualcosa che più non esiste, un passato perduto: serbarle è permesso soltanto quando sono le prove d’una realtà che ricomincia continuamente. Eccole adunque: distruggetele voi stessa, o voi stessa serbatele, secondo stimerete opportuno. Come passa rapido il tempo! Ecco tornare il vostro giorno natalizio che lo scorso anno noi passammo insieme. Mi permetterete di presentarvi ancora i miei augurii, fervidi come quelli d’un tempo? Ora e sempre, possiate voi ottenere tutto quel bene che il vostro cuore desidera…". Mi parve di non aver detto niente e d’aver detto fin troppo. Niente, perché quelle poche righe non mostravano la mia lunga passione; troppo, perché il rammarico e l’implorazione vi si leggevano, nonostante, in mezzo. Esausto della lunga veglia, andai a letto. Quando mi destai erano le undici; mancavano due ore alla partenza del corriere d’Italia. Senza più pensare a nulla, ricopiai la lettera, feci un pacco di quelle carte, lo suggellai e andai alla posta. Mi movevo come in sogno; non avevo coscienza dei miei atti. Consegnai dapprima il pacco all’ufficio di raccomandazione, poi mi avviai alla buca delle lettere. Quando vi fui vicino, quando cercai in tasca la lettera mia, parvemi che qualcuno m’afferrasse per tirarmi indietro. Il pacco non poteva partir solo? La restituzione di quelle carte aveva forse bisogno di commenti? Nella mia lettera io mi davo vinto, dicevo a quella donna che l’amavo ancora, imploravo ancora da lei il ricambio dell’amor mio – ed ella forse l’avrebbe letta fra le braccia d’un altro. Ella avrebbe riso di me, m’avrebbe risposto due righe di ricevuta – forse non m’avrebbe risposto neppure! Era stata così malvagia, m’aveva fatto tanto soffrire; ed io le davo ancora quest’altra soddisfazione!… Tutto ciò fu pensato nel tempo che la mia mano andò dalla tasca alla buca – perché vi andò, e vi lasciò scorrer dentro la lettera. Prima che potessi avere risposta dovevano passare cinque giorni. Impiegai questo tempo a imaginare la risposta. Poteva essere arida e fredda come avevo temuto, ma il pentimento era inutile, ormai. Se invece… se invece… Ed io dicevo a me stesso che, infatti, nel rivedersi dinanzi le sue lettere, le prove dell’amore che m’aveva portato, nel ritrovarmi supplice ancora dopo i torti che m’avea fatti, nel sapermi tanto lontano, ma nel sentirmi pure così vicino a lei, il suo cuore avrebbe dovuto palpitare più forte e, se non l’amore, almeno la pietà, la simpatia, la compiacenza dettarle una buona parola, indurla a consolarmi… Allora, sostenuto ed infiammato dalla divina speranza, io pensavo all’altra lettera che le avrei subito scritta: "Ebbene, non occorre più ch’io ve lo dica, voi già lo sapete: nonostante tutto, voi siete ancora l’amor mio, l’amor mio forte e grande, il mio unico amore, l’amore che non posso più scordare, che porterò eternamente con me… Se mi volete ancora, dite una parola e sarò ai vostri piedi. Se volete che aspetti, aspetterò quanto vorrete. Sempre, in tutto, la vostra volontà sarà la mia…". Ma una lettera avrebbe messo troppo tempo a dirle queste cose: io mi sarei piuttosto servito del telegrafo, le avrei mandato il mio pensiero con la velocità del lampo. E cercavo le parole del telegramma!… Al quinto giorno ebbi la sua risposta. L’ebbi alla posta, la lessi per via, tra le spinte della gente, lo strepito delle vetture, gli squilli delle cornette dei tram. Diceva così: "Grazie! Nessuna attenzione commuove, quanto quella che meno si prevede perché meno si sente di meritare. I vostri augurii d’oggi sono graditi come quelli di un tempo, anche perché come quelli di un tempo sono stati i soli che ho ricevuti in questa ricorrenza. Mi sono pervenute e non ho distrutto le carte che con rara delicatezza avete creduto di dovermi restituire: c’è un passato che si custodisce gelosamente, come il più reale dei beni, disperderne le tracce sarebbe delitto. Se voi vorrete ancora ricordarvi di questa vostra povera amica, sarà sempre una festa per lei". Orbene; quando io ebbi finito di leggere questa lettera me ne andai al caffè, perché avevo fame. Fu la prima volta, dopo tanto tempo, che mangiai con gusto. Tutto il giorno fui in giro al Museo, che non avevo ancora visto. Prima di desinare visitai una bella signora che avevo conosciuto di fresco. La sera andai al teatro con amici, dopo cenammo allegramente. Tornai a casa alle tre della notte e dormii d’un fiato sino alle due del domani. Svegliandomi, mi rammentai della lettera ricevuta la vigilia, e la rilessi. Non c’era bisogno di molta penetrazione psicologica per comprenderne l’intimo significato: "Un’attenzione che si sa di non meritare… i soli augurii, graditi come quelli d’un tempo… non ho distrutto le carte che avete creduto di dovermi restituire… un passato custodito gelosamente, come il più reale dei beni… se vorrete ricordarvi ancora di questa vostra povera amica…". Il suo rammarico, il suo pentimento, la sua solitudine: ella diceva apertamente tutto ciò; non diceva. "Tornate!", ma questa parola era come scritta su tutte le altre, io quasi la leggevo attraverso la grana della carta. Nel mio farneticamento dei giorni scorsi avevo mai sperato tanto? Non dovevo fremere di gioia, risponderle subito, aprirle il mio cuore?… Per una settimana non trovai il tempo di scriverle. Quando finalmente mi posi a tavolino le scrissi così: "Ho ricevuto la vostra lettera e vi ringrazio della buona memoria che serbate di me. Siate certa della devozione che vi porto, e lasciatemi sperare di potervene dare qualche giorno la prova. Io sono qui per fare qualche studio e per vedere un po’ di mondo. Se potessi giovarvi in qualche cosa, disponete pure liberamente di me: mi farete sempre un regalo…".

Versione elettronica di testi relativi al periodo 800 - 900 Donna Folgore

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Faldella, Giovanni 3 occorrenze

Con questo pensiero di rimorso Adriano Meraldi rivolgeva l'animo alla sua natia San Gerolamo, ai suoi abbandonati genitori, al padre suo probo ed operoso, alla sua madre semplice e santa ... E pur di uscire da quel fascino di voluttà sapiente avrebbe sposato l'ignoranza e l'innocenza più contadina ... * O Santa Maddalena, con il tuo esempio tu scusi le peccatrici e i peccatori ... Gesù, che ti ha perdonata, perché hai amato, salvi anche noi, sia pure con la più selvaggia penitenza ... Ma i pittori, che hanno ritratto le forme sporgenti e i capelli lunghi avvolgenti di Maria Maddalena, hanno visto le forme e i capelli di Nerina? Per ovviare ai danni della sensualità, la civiltà utilitaria ha inventato il terzo sesso delle fanciulle intellettuali ... Ma non fidatevi ... Anche Nerina è una intellettuale ... Parno tutto greco, tutta matematica, tutta chimica; e poi, mentre meno ve lo aspettate, vi conquidono mostrandovi un seno di bomba che scoppia ... Forse ... Sì! Sì! la Religione è l'unico riparo ... Potessi con una conversione manzoniana ricuperare i miei sogni di gloria letteraria ... Dominare nel romanzo e nel giornalismo ... Invece egli diverrebbe schiavo di Nerina, fino a sposarla da italiano rinnegato ... La Contessa De Ritz diportavasi a Venezia anelando di imitare il modo con cui la baronessa Dudevant (Giorgio Sand) erasi diportata a lato di Alfredo Musset. E credeva di collimare con l'ardente e riflessiva romanziera ed apostola, notando: * Come i frutti hanno un sapore proprio per ogni clima, così l'amore ... L'amore a Venezia è una specialità di gondola e chiaro di luna ... Pare che sul velluto scuro del felze i raggi della luna aggiungano capelli biondi ai miei capelli biondi ... Ma ciò bisogna farselo dire in dialetto veneziano da un medico Pagello ... E la Contessa avrebbe voluto trovare lì per lì un medico Pagello, come la Sand, il quale le guarisse, rinfrancasse il suo Alfredo de Musset e divertisse Lei ... Dovette accontentarsi dell'avvocatissimo en bon point , e fugacemente di un erculeo gondoliere. Il Conte de Ritz, rivoltosi ad un avvocato austero vegliardo, aveva spiccata una citazione per separazione civile e presentata una querela di adulterio. La Contessa si decise all'immediata fuga per ottenere il divorzio e contrarre nuovo matrimonio in paese straniero. * * * Il 21 Marzo 1868 (vedi Almanacchi dell'epoca) il commendatore Atanasio Vispi smagrito, nobilitato dal dolore presentavasi risolutamente davanti al suo genero conte Federico De Ritz in un appartamento dell'Hotel Danieli a Venezia. Il Conte si metteva in parata: * È inutile! Non venga a domandarmi pietà per quell'indegna anche di Lei ... * Federico, ti sbagli, se credi io invochi pietà per mia figlia ... Piuttosto mi inginocchio a chiedere perdono per me ... , che credevo di darti un angelo, invece ti ho dato un demonio in carne ed ossa ... Sebbene io non abbia fatto il macellaio, come il padre della signora Losati, mi sento un polso fermo, il fegato sano, un cuore di popolo, che accorre alla vendetta ... Sono venuto qui per darti man forte ... Tu hai voluto ricorrere alle vie giuridiche ... Ed io ti propongo di affrontarli col sacro diritto della Natura ... Sono un padre ... (Così dicendo l'emerito droghiere assurgeva a una dignità tremenda da romano delle Dodici Tavole). Sono un padre; ed ho preparata una reclusione paterna per la figlia dissoluta ... Essa non resisterà al mio imperativo categorico ... * Per combinazione dove va a cacciarsi la filosofia di Kant? ... * mormorava l'avvocato Ilarione Gioiazza rimasto nell'anticamera con il prof. e abate Vigo Razzoni. E il padre droghiere romanizzato: * La tradurremo all'Ospizio del Santo Oblio ... Invece appunto in quella mattina la Contessa Nerina De Ritz nata Vispi ed Adriano Meraldi avevano lasciato il grand Hotel Lido per salire sull' Ofelia , che salpava verso l'Oriente. Dalla balaustra sotto il gabbiotto di prora la Contessa con un gomito sopra una spalla di Adriano scioglieva un inno intimo alla libertà coniugale ... Le onde che si increspavano alla fenditura mandavano immagini di ninfe plaudenti, sprizzanti ... Orazio e Virgilio, Camoens e Shakespeare, o maggiori poeti, che abbiate dato i migliori augurii del mare, dateli agli amanti nel concerto della poesia universale ... Esaurito l'amore di Venezia, andranno a fruire l'amore del Bosforo, così dolce di fosforescenza da meritare per un bacio la traversata mortale ... * Tutta per te! * faceva sentire Nerina ad Adriano con un premito di Odalisca ... Tutta per te ... Paese che vai, usanza che trovi ... A Costantinopoli sarai il mio sultano senza harem ... Io sarò la tua unica schiava ... Poi risaliremo tra le rive pittoresche del Danubio mezzo turco e mezzo cristiano nel cuore della Germania, e ci faremo santamente marito e moglie ... Bella silente premeditazione di santità! Tradire un nuovo marito, avendo riconosciuta l'insulsaggine di tradire un libero amante ... Ed Adriano, avvinto da quella ondata di capricci voluttuosi, pensava alla vittoria riservatagli quando moveva al gran conquisto per il concorso di Pompei ... Così ripigliato dai ricordi arcaici non poteva presentemente liberarsi del bagaglio letterario scolastico di un'immagine dantesca: Sicura, quasi rocca in alto monte, ... una puttana sciolta m'appare con le ciglia intorno pronte ... ... ... ... ... ... .. l'occhio cupido vagante ... Ed avrebbe voluto essere lui il feroce drudo del Purgatorio di Dante per flagellarla dal capo insin le piante. Mentre il vizio salpava libero, appena rinserrando immagini letterarie, le reali costrizioni imprigionavano o salvavano la Virtù perseguitata ed innocente.

Il padre suo, Teodoro, tramviere, dopo parecchi mestieri ed uffici abbandonati, aveva fatto girare la testa alla maravigliosa signorina figliuola di un causidico da mandamento rurale, e se l'era sposata o piuttosto rubata. Con una faccia innamorativa da impostore aveva fatto sognare castelli in aria alla sposa; e l'aveva condotta in una soffitta. Ma egli si ripagava delle strettezze domestiche nei pubblici esercizii. Questi gli parevano la vendetta sociale dei proletarii, che nei caffè e nelle trattorie si trovavano eguagliati da una illusione di Corte, facendosi servire da camerieri in coda di rondine come diplomatici. Teodoro aveva educato, addomesticato all'ubbriacatura dei pubblici esercizii non solo la moglie maravigliosa, ma altresì la piccola innocente Gibigianna. Gli esercenti, anche socialisti, non sono gratuiti; e adottano il cartello dei vecchi osti: oggi non si fa credito, domani sì. Teodoro il tramviere , con quel bel titolo e con la posa attraente da teatro diurno, aveva sempre difficile il quarto d'ora di Rabelais, cioè quello di pagare il conto; ma riusciva a superare le difficoltà, facendo la corte alla padrona con occhi lampeggianti, o chiudendo un occhio, se il padrone faceva la corte alla maravigliosa di lui metà . Ognora egli aveva dimenticato il borsellino a casa; o non aveva voluto uscire con un biglietto di grosso taglio; ed ordinava che si registrasse il suo debito. Ma una sera, in cui Teodoro accompagnato dalla inseparabile mogliera e figliuola dopo avere preso il caffè e sopracaffè, aveva ordinato una bottiglia di barolo, e poi ancora il ponce, il trattore del Cannon d'oro dichiarò a se stesso: basta!; e poi venne a proclamarlo davanti alla triade, che si indugiava a libare nei lieti calici, mentre gli altri avventori avevano già lasciato l'esercizio. L'esercente del Cannon d'oro si era offeso, accorgendosi, che Teodoro in una momentanea uscita gli aveva abbracciata l'aurea moglie intronizzata al banco. Della moglie di Teodoro egli non sapeva che farne, egli che possedeva una cannonessa d'oro. Quindi: * Alle strette! Teodoro, sono stanco di riempire il mio gran libro dei tuoi puffi . Stassera, o mi paghi; o ti rinchiudo in questa stanza, e faccio chiamare le guardie vicine, perché arrestino te come un gargagnan e tua moglie come una Venere Vagabonda. * E la piccina? * domandò Teodoro. * La piccina * rispose il trattore, sarà condotta dalla Questura in qualche ospizio, dove starà meglio che a casa tua. Teodoro si era rivolto indarno a fiammeggiare uno sguardo per implorare la padrona che non si lasciava vedere. * Discese invano uno sguardo sulla propria moglie per illustrarne le offerentisi bellezze. Addolcito dal vino, egli aveva più che le prepotenze e le viltà del gargagnan , l'amenità del brillo. * O cannon d'oro! Che credi di guadagnarci? Io non ho in tasca un cito . I gioielli, che porta mia moglie, sono di princisbecco. Il trattore del Cannon d'oro con uno sguardo d'acciaio da banchiere crudele aveva avvistato che non erano di princisbecco gli orecchini di Gibigianna. * E questi qui? * Questi sono un regalo del nonno procuratore, che sarebbe capace di mandarti in galera, se tu li toccassi. * Non temo la galera. Dammi alla buona in pegno questi orecchini. Ed io, anziché molestarti e minacciarti, faccio portare due altre bottiglie di barolo stravecchio ch'a rangiu lo stomi e per addolcirti ancora più la bocca alla fine ti darò un passito di Caluso, che non hanno i Cardinali ... E berremo anche in compagnia della mia signora moglie, che farò venire per te ... Vieni qua, Madama, Madamona Catlonessa! Fu la stessa Cannonessa d'oro , che tolse gli orecchini del nonno a Gibigianna, dei quali padre e madre non furono inconsolabili; Gibigianna sì. La fanciulla, dopo una notte fremente, ebbe alla mattina da una compagna di scuola un filo di salvezza; andò in una sacrestia, si confessò a un prete; e venne anch'essa destinata al Sant'Oblio con il consenso dei genitori, ai quali venne regalata una cesta di bottiglie. Onde lo spensierato Teodoro, quando gli domandavano della figlia scomparsa, rispondeva: * Sta bene al caldo! Me la sono bevuta. * * * Qualche volta il protettore canonico Giunipero e la superiora Suora Crocifissa, contemplando quell'onda di vivezza giovanile, che corrispondeva ai raggi del sole, sentivano il rammarico di imprigionarla là dentro fuori della vita mondana. Ma loro si affacciavano i fantasmi dei persecutori dell'innocenza: faccie torbide, ferine, culari e patibolari. Via da loro gli angeli della terra. Bisogna sottrarre dall'empietà, salvare gli angeli della terra. Gli è vero, che bisognava ripulire le ali di questi angeli da molte brutture. * Bisogna convenirne, mia cara, mia santa Suor Crocifissa. Un presidente nord-americano ci chiamerebbe muck rakers , frugatori di fango. Però anche il fimo giova alla buona semente, che per noi è la Parola di Dio. Proseguiamo senza ribrezzo nell'opera buona e necessaria. Il materialismo moderno troppo sequestra l'Umanità dalle speranze celesti, fondandosi sull'ignoranza precisa dei Cieli, che pure indubbiamente esistono. Noi purghiamo le anime avvelenate, noi preserviamo le creature vergini, pascendole del più puro azzurro. I nostri sono serbatoi e traiettorie, che mantengono il contatto, sia pure forzato, dell'Umano con il Divino. Il Canonico Giunipero e Suora Crocifissa intrecciando le mani alzate come in una figura di ballo celestiale, formavano un arco mistico, sotto cui invitavano a passare tutte le minacciate od offese da brutali persecutori, tutte le guaste dalla corruzione, tutte le tocche dalla follia contemporanea. * Venite, passate alla salvezza del regno di Dio e della Madre Divina. Vieni Regina delle Gambe, rappresentante delle Risaie, ai tempi delle laute abbazie. Vieni Fiorina Lucy, vieni Tilde, vieni Maria, vieni Eugenia, vieni bastarda, vieni, purissima. Vieni anche tu, conferenziera socialista, anarchica, Solima Del Lago, che i curati e i sacrestani chiamano limo del lago. Vieni a zampillare fresca, purgata dalla contemplazione delle verità divine. E vieni nell'abbraccio della Croce, o Gilda, nell'abbraccio della più bella croce, che possa piallare, intarsiare e scolpire il buono e curvo Simone tuo padre. Non aveva costato molto al prefetto emerito barone Rollone Svolazzini il sequestrare babbo Simone e relativa figlia, a fine di preservare il proprio Svembaldo allontanato. Il falegname Simone era un'anima di vassallaggio medievale; aveva insita nel sangue la fedeltà alla Chiesa e all'Impero rappresentato dal nobile barone. Era pure medievale nella sua abilità tecnica. Invece del macchinario a vapore per l'impazienza moderna, egli aveva la curosa lentezza della commettitura e dell'intarsio manuale. Pella concorrenza del giorno e dell'ora egli sarebbe rimasto senza ordinatori; sarebbe languito nell'abbandono ad intagliarsi la cassa da morto. Di questa prospettiva si rese presto capace l'angusta e rispettosa mentalità dello stipettajo rurale, a cui parve una Terra promessa dalla Sacra Bibbia la dimora e la pensione vitalizia al Santo Oblio. Con la minuzia consentita dalla massima larghezza del tempo, senza disturbo di sollecitazioni, egli finirebbe armadii di sacrestia, cassepanche da sancta sanctorum , stalli da coro, cofani da Suore; incrosterebbe di fiori lignei, sottili come carta, la nicchia della Madonna ... Oh se potesse lui fabbricare la custodia per le ali dell'Angelo Custode! Intanto egli era relativamente felice, perché la sua Gilda sotto i suoi occhi paterni sarebbe custodita, sarebbe riparata dalle insidie, dalle seduzioni e dalle pretese sproporzionate del mondo. Gilda si mostrò restia dinnanzi alla facile contentatura del papà; oppose lacrime e lacrime; ed entrò al Sant'Oblio irrorata di lacrime, come un passerotto bagnato dalla pioggia, il quale si rincantucciasse sprofondandosi sotto una gronda. Volgeva gli occhi spauriti, come se spiasse tra i fili della gabbia un'evasione. Suora Crocifissa sentiva difficoltà ad ammansarla, asciugarla, e intepidirla del suo fuoco sacro. E temeva, che l'operazione del prosciugamento venisse compita invece da un terribile vento, che pur si aspettava. Il vento della Contessa De Ritz ... Sorridendo con ironia celeste il canonico Giunipero aveva notato, che la Contessa De Ritz era destinata al Santo Oblio dal Clericalismo e dalla Massoneria. Ma pigliarla quella contessa! Qui stava il busillis ... Si erano tese le ragne in Europa e nell'Asia Minore. Fino allora era stato come tendere la rete per acchiappare un vento. Le informazioni secrete dei gesuiti e della Massoneria recavano avventure strabilianti. C'erano di mezzo corone di re e corone da rosario, scimitarre, pugnali e bisturì. Le informazioni massoniche facevano capo principalmente al conte De Ritz; e le informazioni gesuitiche al Comm. Vispi padre della Contessa. Ma gli stimoli e i reagenti, e le direttive, e le curve strategiche si intrecciavano, quando non si intralciavano. Ostinate forze congiuravano ad attrappare finalmente quell'indomita potenza della bellezza e del capriccio femminile. * Ci riusciranno? Ci riusciremo? * si domandavano il canonico Giunipero e Suor Crocifissa; e le loro stesse persone diventavano due punti interrogativi ripiegati tra il desiderio e il terrore. Che beneficio sarebbe salvare quell'anima: un beneficio grande per l'anima da salvarsi, e un beneficio ancora più grande per le innumerevoli vittime, di cui è ancora capace quella furia allettatrice di pervertimenti! Ma che pericolo per il Santo Oblio! Alle reminiscenze classiche del Canonico Giunipero pareva, che neppure Eolo sarebbe capace di incarcerare quel vento di lussuria. E con un videmibus infra si chiudeva la longanime aspettativa del Santo Oblio.

Ti seguo nella traversata dell'Atlantico, anche se l'oceano ondeggi tutto di lacrime dei miei amanti abbandonati alla disperazione per me. Chi la trattiene a Genova non è un amante né all'ingrosso, né al minuto. È un dispettoso del suo amore. È il baroncino Svembaldo Svolazzini, la cui Gilda, di origine artigiana, si era perfettamente baronificata, come se discendesse da una baronia delle Crociate. Che modelli di coniugi (marito amante della moglie e moglie amante del marito) erano Svembaldo e Gilda! Svembaldo era Direttore amministrativo della Acciajeria Amaldi di San Pier d'Arena; e rappresentava a perfezione il tipo del padrone delle ferriere romanzato da Giorgio Ohnet. In tanta desolazione di fallimenti morali ed amorosi, è consolante fermarci su questa immagine reale di idealità. Per un rarissimo privilegio di tempra adamantina egli aveva potuto conservare nella virilità i purissimi ideali dell'adolescenza. Aveva creduto vedere, che Gilda, solo Gilda sarebbe stata la degna collaboratrice della sua vita; e in tale fede si confermò con la più salda ed immacolata costanza. Bisogna dire, che Gilda fece di tutto per associarsi a lui in quel tipo di coniugio. Bambina si era un po' indugiata a guardare il girasole di Adriano Meraldi. Ma ora è profondamente persuasa, che Svembaldo è un sole in paragone di quel girasole. Egli, benché figlio di ricco e superbo barone, ha prediletta lei povera figliuola di un umile falegname; ed ha continuato ad amarla con un attaccamento maraviglioso, benché spedito alla caccia nell'India per lo scopo di allontanarlo da lei; egli l'ha rintracciata al Ritiro, alla purificazione del Sant'Oblio, e l'ha estratta di là, per farla sua, per farla consorte del più esemplare barone della cristianità nella modernità operosa. Gilda ha nella sua coscienza una rettitudine superiore a quella della pialla e della squadra di suo padre; e sente, che sarebbe un mostro orribile di stortura, se mancasse per un bruscolo a quel dovere colossale di riconoscenza. Per ciò si studia di farsi ogni giorno più bella, più elegante, più savia e più spiritosa all'unico fine di allietare i giorni del suo sposo, e quando può annunciargli con sicurezza la prossimità di un lieto evento, gli promette: voglio fartelo così grazioso, così bombonin , da intenerire la dignità di tuo padre e il contegno della tua signora mamma. Egli le gittò le braccia al collo, e la baciò con estasi lunga, proclamandola santa, santa, santa. Quella beatitudine coniugale gli rendeva più lucida la mente, più solido il carattere, più elastica l'attività, lo rendeva un valore aureo crescente anche nell'acciajeria. Lo sollevava più nobile col blasone del lavoro. Soltanto il vero, degno, santo amore resiste alla seduzione dei sensi peccaminosi. Indarno Nerina imperatrice dei sensi peccaminosi cerca di accivettare Svembaldo; indarno essa ha rinunziato alla conquista dell'America per conquistare lui. Egli si mostra incorruttibile, come l'angelo più vicino alla Divinità; imprendibile come una fortezza fatata. Eppure Nerina non rinunzia ad avvincere anche lui. Niun personaggio della vecchia Europa e dell'Asia Minore le ha finora resistito. Che il giovane Svembaldo rimanga unico invitto nella vecchia Europa? che egli sia maggiore dell'Asia minore? Gli manda messaggi difilati, sinuosi, ardenti, uncinanti, appiccaticci. Affitta un quartierino dirimpetto all'alloggio di lui; lo specula; lo occhieggia; lo occhialineggia; lo persegue; gli fa da sentinella; gli soffia motti audaci, inviti affascinanti, paroline tenerissime. Lo rasenta fino a fargli tastare la sofficità calda, pungente del suo plasma di Dea. Invano, sempre invano. Pur Nerina non cessa dall'assedio e dalla persecuzione. La giovane baronessa Gilda sta per uscire armata di tutta la forza, che le dà il diritto più sacro alla difesa. Ma il marito la scongiura a non insudiciarsi al contatto di quella perduta; e per liberarsi dagli incessanti attentati dell'impudica persecutrice, minaccia di ricorrere alla Questura; pensa che deve finire col ricorrervi. * * * Fu una coincidenza, poiché per lo stesso soggetto, per cui pensava di ricorrere alla Questura una perla di galantuomo, si rivolgeva una schiuma di lerci ribaldi alla Questura, che nel regno d'Italia era legalmente incaricata non pure di tutelare la pubblica sicurezza della civile cittadinanza, ma di organizzare e costringere il più turpe e barbaro carnaio del vizio. Una volta si muovevano la Massoneria e il gesuitismo per restituire la Contessa Nerina al padre e al marito legittimo. Ora è succeduta la fatale combinazione della probabile denuncia di un perfetto gentiluomo e della trama di sordidi malfattori. Mentre gli onesti procedono spesso apertamente isolati, i malfattori si associano nell'ombra. Vere associazioni di malfattori si addensavano per acchiappare nella più vergognosa ragna la contessa Nerina, ed attrarla all'ultima perdizione. Essa con la sua audacia capricciosa tende ad evolversi, evolversi, per innalzarsi infinitamente. E non si accorge di precipitare nella più cupa e fetida profondità. Siccome il vero romanzo è una storia dei costumi, ed il romanziere verista deve lasciar parlare le persone e gli avvenimenti e, secondo una nota formola, deve guardarsi dallo scoprirsi, a similitudine della Corona nel governo costituzionale, così invece delle nostre considerazioni, riportiamo un ristretto delle dispense scolastiche di Ilarione Gioiazza, che è pure un personaggio del nostro racconto. Egli non trovando mai il tempo di divenire ammalato, oltre a tenere uno studio fiorente di avvocato, anzi di avvocatissimo, vinse un famoso concorso di dottore aggregato alla facoltà di giurisprudenza della Università di Torino, e da libero docente promosso a straordinario ebbe indi a poco quale titolare la cattedra di medicina legale all'Università di Catania. Ma non gli convenne accettarla; e seguendo l'andazzo legale di accrescere i corsi liberi per ispremere maggiore quantità di quattrini dagli studenti coatti moralmente; egli inaugurò un corso speciale sulla polizia sanitaria dei costumi nella stessa capitale delle antiche provincie. Noi diamo appunto un tratto delle sue relative lezioni stenografate e poligrafate. " Lo dirò, anche avessero a gongolarne i clericali e gli altri nemici dell'Unità e della Libertà Italiana, che (si intende i nemici) il Diavolo se li porti. Il vero, sì, che nel 1859 e nel 1860, durante l'orgasmo di fare l'Italia libera ed una, gli italiani e le italiane si amarono troppo, si amarono tanto che produssero una spaventosa diffusione di lue venerea specialmente nel regio esercito e nel corpo dei volontarii. Se ne impensierì lodevolmente quel testone del Conte di Cavour, che badava a tutto; ed incaricò l'intemerato ed oculato sifilografo prof. Casimiro Sperino di allestire alla lesta un regolamento sulla Prostituzione, che è il famigerato regolamento del 15 febbraio 1860, contro cui si appuntano i picconi demolitori dei moralisti, degli igienisti, dei giureconsulti e degli apostoli d'ambo i sessi. È perniciosa la schifiltà dei giornali in pantoffole, che vorrebbero mettere la sordina alle verità più strepitose. Noi proclamiamole salutarmente. Si disse che la Natura è più forte delle Leggi, e si direbbe meglio che essa stessa è la legge più forte fra le leggi. Poiché Dio Creatore ha dato l'amore naturale come mezzo indispensabile a continuare la sua creazione, un Governo, il quale deve governare ogni funzione sociale per evitare il maggior male e fare un po' di bene non può prescindere dalla funzione primigenia della massima importanza vitale. Perciò il tessuto connettivo del Governo va dalla santa nobiltà del matrimonio alla abbiettezza peccaminosa della prostituzione. Ma il Governo non deve mai procedere a casaccio, bensì secondo i casi, che offre il perpetuo svolgimento della sfera di vita umana. La Storia dei Costumi ci mostra, come agli stati nella maggiore potenza, e probabilmente a cagione della medesima, (tanto è breve il tratto dalla potenza alla prepotenza e alla strafottenza, dalla retta volontà al folle arbitrio) accadde un pervertimento, una rivulsione sessuale. Così alla Serenissima Repubblica di Venezia occorse provvedere contro al dannoso predominio della masturbazione e della pederastia. Lo stesso pare ricorra nel sottosuolo immorale della granitica Germania pervasa dalla omosessualità. Che fece la Serenissima verso la fine del 1400 per richiamare la sua maschia gioventù alle vie indicate dalla natura figlia di Dio? Ordinò alle sue cortigiane di affacciarsi spettoracciate allettatrici dai balconi. Così Pompeo Gherardi Molmenti nella sua Storia della Vita Privata di Venezia 21a ediz. pag. 321. Anche a Lucca nel 1448 si instituì l' Ufizio dell'Onestà a punire i peccati contro natura e a ravvivare gli amori naturali. E se non capitò al punto di un eccesso diverso forse fu ingiusto l'interdetto ricordato da Dante alle sfacciate donne fiorentine * d'andar mostrando con le poppe il petto. Ad ogni malattia il suo rimedio. Napoleone I, genio della guerra, per amore e necessità dei soldati, coniò il regolamento celtico, sottomettendovi le femmine da conio. Cavour, genio della nuova Italia, riparando all'epidemia celtica, che devastava le schiere giovanili accorrenti al compimento della libertà e dell'unità italiana, faceva rimodellare quel regolamento agli urgenti bisogni della nazione. In che consiste sostanzialmente il suddetto regolamento? Nel matricolare le femmine prezzolate per gli sfoghi sessuali ed astringerle a visita medica periodica, e se riconosciute infette, ritirarle dal commercio sottoponendole a cura coercitiva. Fin qui il regolamento non fa una grinza; il relativo diritto va diritto a fil di spada. Se per la salute pubblica si proibisce al macellaio di vendere carni infette, a fortiori si può applicare la proibizione alle femmine contaminate, che la voce del popolo chiama coi nomi di vacche, troje ed altre bestie da macello. Oltre ai benefizii della salute fisica, non manca chi ravvisa nella prostituzione ordinata i benefizii della salute morale. A questo proposito mi cadde sott'occhi nell'appendice di una gazzetta circondariale "Paradossi idrostatici" (speciosa verità, dove vai qualche volta a ficcarti?) una bizzarra laude di un Doctor Malalingua a Santa Raab patrona delle meretrici. È dedicata ad una nuova Ninon de Lenclost "amica sincera, amante infedele". Con il ritornello "per cinque lire" in quell'inno si loda (non ricordo precisamente i versi) Raab, meretrice di Gerico, e non solo per i meriti patriottici militari, per cui Dante, lasciata Taide puttana nell'inferno a graffiarsi con le unghie merdose, sublima, imparadisa Raab nel cielo luminoso di Venere facendola scintillare come raggio di sole in acqua mera. Nell'inno non solo è vantato il merito storico di Raab che ricettando in sua casa gli esploratori favorò la prima gloria di Jousè in su la Terra Santa ; ma è celebrato il suo merito attuale sociale. Lo studente, il garzone vede in te rifulgere la bellezza di Eva nel Paradiso Terrestre; acqueta un'estasi per cinque lire. E se ne parte senza responsabilità, scossa la polvere dai sandali, scossi i grilli dal cerebro, per cinque lire, aggiunta alla portinaia ruffiana la mancia di moneta invalida. Così è risparmiata la virtù della innocente figlia dell'onesto operaio, e della giovane sposa del vetusto Conservatore delle ipoteche per cinque lire. Si evita una fabbrica pestilenziale di corna con cinque lire. Quanto invece costa una seduzione! Spesso gronda lacrime e sangue. La corte di una damina si prolunga rovinosamente più dell'assedio di Troia. Crudeli infanticidii, fughe sciocche e calamitose, madri aspettanti nella preghiera o nella disperazione, padri che si inginocchiano o maledicono ai figli! suicidii, delitti ... Tutti i disastri, che si evitano con cinque lire. Fin qui l'inno. In prosa un prode e virtuoso generale, Alfonso La Marmora non credeva certamente, che la morale se ne andasse ad magnam meretricem , quando nel rapporto degli ufficiali, li consigliava paternamente: Fieui, andè a magne. Badate che i test ... i non vi pesino mai di più che la testa. Il senatore Giambattista Borelli, chirurgo di salutare prestigio, divisava nettamente l'alto benefizio di una Aspasia sensuale, intellettuale e spiritosa, che riposa, snebbia, consola e rallegra gli spiriti e i corpi affaticati dei grandi lavoratori della patria e dell'Umanità, e rintegra la forza sociale del maschio con la dolce e santa ebbrezza dell'eterno femminino, senza piagnistei di amanti, senza trafitture di gelosia e senza pezzuole ributtanti e puzzolenti di levatrici e nutrici. Signori Studenti! Non bisogna però mai esagerare, e tanto meno tirare a generalità lo specialissimo sollievo di alcuni celibi necessarii come le api operaie. Con tali esagerazioni ci dimostreremmo dammeno del ragionamento collettivo degli imenotteri fabbricatori di miele. La Società è profondamente complessa; la verità è infinitamente poliedrica; e la scienza deve procurare di rifletterne il maggior numero di faccette. Per la santa meretrice Raab della Sacra Scrittura o per la profumata esilarante intelligenza di Aspasia greca o di una principessa cosmopolita, non dobbiamo trascurare le giuste e sante nozze, fondamento della Società, seminarium reipublicae. La prostituzione, tutto al più male necessario, ha i suoi effetti perniciosi, che bisogna ridurre ai minimi termini. I Regolamenti, che si proposero di riparare alla maggiore pernicie, ci riuscirono? Pare di no, se ascoltiamo il grido di dolore e di protesta che si eleva e circola contro di essi dalla Patagonia alla Scandinavia. Da noi si è pronunziata nettamente contro il Regolamento meretricio la Reale Commissione per lo Studio delle Questioni relative alla Prostituzione e ai provvedimenti per la Morale ed Igiene Pubblica , composta dei signori: Peruzzi comm. Ubaldino, deputato al Parlamento, presidente , * Bertani dott. Agostino, deputato al Parlamento, * Bianchi prof. Francesco consigliere di Stato, * Casanova comm. avv. Giuseppe, capo di Divisione al Ministero dell'Interno, * De Renzis barone Francesco, deputato al Parlamento, * Giudici comm. Vittorio colonnello medico, deputato al Parlamento , * Lucchini prof. avv. Odoardo, deputato al Parlamento , * Mazzoni comm. prof. Costanzo, * Patania dott. Carmelo, deputato al Parlamento, * Pessina prof. Enrico, senatore del Regno, * Villari prof. Pasquale, senatore del Regno, * Pellizzari prof. Celso, segretario . Non si potrebbe immaginare un conserto più competente di ingegno, studio, ed amore del bene, dall'accortezza delle antiche repubbliche mercatanti alla fiamma di Gerolamo Savonarola, dal civilista al penalista, dall'ambulanza garibaldina alla tenda del R. Esercito, dall'eleganza del proverbio martelliano alla burocrazia più inchiostrata, dal numero all'idea, dal fucile al microscopio, dal Consiglio di Stato al laboratorio di Chimica, da una buona Camera a un bel Senato. Ebbene tutto questo conflato di osservazione, di scienza e di coscienza è unanime nel denunziare gli orribili abusi, di cui fu capace l'applicazione del Regolamento. Mentre lo Statuto del Regno e il Codice Civile garantiscono la libertà personale dei maggiorenni che non siano condannati al carcere e al manicomio, mentre si è persino abolita la cattura per debiti civili e commerciali, mentre si è tanto gridato contro la schiavitù negra d'America, ecco autorizzata dal nostro governo liberale e Nazionale, protetta dalla sacra maestà del braccio regio la tratta e la coercizione delle schiave bianche, lavoratrici organizzate della bellezza, lavoratrici del piacere, lavoratrici dell'amore. Onde il romanziere moralista Vittorio Bersezio può rettamente deplorare l'harem libero, che la civiltà europea consente alla libidine ricca di procurarsi specialmente nella miseria delle classi povere. Abbiamo le meretrici di stato tra gli altri monopolii dello stato, come i sali, i tabacchi, la polvere pirica, i pallini da caccia, i francobolli, i tarocchi, e le altre carte da gioco; come potremo avere le ferrovie di Stato e il chinino di Stato. Intanto abbiamo l'infezione di Stato. Imperocché i sifilicomii governativi sono definiti dalla Regia Commissione centri di lenocinio, scuole di corruzione, fomiti di libertinaggio, esercizii di tribadismo, scarica di malanni, sentina di febbri, ergastolo fecondo di tifo e scabbia, sordido ricetto di bestie immonde. L'infezione tocca pure i pubblici ufficiali, che impiegati a trattare turpitudini si deturpano. Nei sonetti del Fucini si contemplano le guardie briache addormentate in un casino, mentre in pescheria accadono zuffe mortali. La maggiore turpitudine è segnalata nella recluta delle prostitute. Si comprende alla stregua del semplice buonsenso, che una donna maggiorenne, la quale voglia fare commercio del proprio corpo, sia assoggettata a certe regole di igiene, di cura e di decenza, e che si freni la spocchia di un pistoiese Canonico Pacchiani (vedi Guadagnoli dello Stiavelli) che sorpreso di notte a far gazzarra nella pubblica via con una donnaccia volle proclamarsi uomo libero con donna libera in terra libera. Ma che per offrire carne fresca ai provetti consumatori, per fornire macchine di piacere ai loro organi viziati, l'autorità governativa dia forza legale ad associazioni di malfattori per la retata e la coscrizione di innocenti creature nell'esercito della mala vita, è un orrore. Inorridite, continenti! Inorridite, stelle, davanti a questo bolide. Il Comm. Bolis, benemerito e compianto direttore generale della Pubblica Sicurezza, attestò alla R. Commissione che si erano forzate alla disciplina delle meretrici vergini certe, che da tenenti postriboli si è mercanteggiata la verginità di fanciulle quindicenni e, più orrenda lacerazione della Natura, vennero insanguinate a prezzo dalla libidine fanciulle tuttavia acerbe, ignare del fiotto mestruo. Oh! Società di sepolcri imbiancati, o menzogne convenzionali della Civiltà, o Italia, non donna di provincia, ma bordello!" Neppure, secondo l'eloquenza dell'avv. prof. Ilarione Gioiazza larga di umorismo e di invettive, Nerina verso il termine dei suoi capricci per pianoforte poteva considerarsi vergine martire.

UNA SERENATA AI MORTI

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Faldella, Giovanni 1 occorrenze

Fra i loro stecchi nudi tengono imprigionati gusci d'ovo, stracci abbandonati che fanno un singolare contrasto con i piantoni di salici, che sputano tuttavia umori e foglioline. Il pergolato è un rovescio di travicelli tarlati, un penzolio di foglie fracide da una stuoia di ontani morti, è uno scarduffiarsi di pampini di una vite irrugginita, mentre serpeggia e verdeggia la zucca, tuttavia vigorosa, e mostra qua e là le punte dei suoi fiori luminosi. Uno zuccone rubicondo rotola giù dal tetto come un deretano fustigato; i fagiuoli rampicanti gittano a diverse altezze uno zampillo di capettini viperei, curvantisi come impugnature di violino e punti di interrogazione esilissimi come una filigrana vegetale. Il ballatoio della casa non ha sponda; quindi nella desidia campagnuola per evitare le cadute ai ragazzi, piuttosto che principiare il gran lavoro di una balaustra, si tiene per anni ed anni inchiodato il balcone, e buio il magazzino e camerino da letto, dove in un angolo talliscono le patate e le cipolle. Eppure, nonostante questo fastello di sgarbo, disordine e cascaggine che la circonda, l'osteria della Ghita è l'unica nota confortante e ricreativa nella vita selvaggia di Borgo Grezzo. Quivi convengono come ad un'oasi il cacciatore, il viaggiatore di commercio, il viandante uscito di prigione, e quello ricercato dalla giustizia e i maggiorenti del paese. Il giovane medico condotto, famoso pel suo gaio umore, qui sfrottola tutte le sere le sue satire e le sue caricature acclamato dalle più cordiali risate degli astanti, a cui egli unisce il proprio cachinno fragoroso. Egli nel muovere verso il villaggio si era fatto il più saldo proposito di intraprendere e compirvi studi botanici, fisici, antropologici e scrivervi delle memorie scientifiche, ed ora da più di un anno, non toglie più nemmeno la fascia ai fascicoli di Riviste Mediche che riceve; egli che forse sarebbe riuscito felice umorista anche nella letteratura; ravvolto dall'ambiente è diventato una vera ricchezza di giocondità per l'osteria, cosicché molti ne sono assidui solo per lui, che si è ridotto a trattenimento periodico serale, tanto che potrebbe farsi pagare dall'ostessa il proprio spettacolo. Rivale del dottorino si è il signor Ambrogione, detto per antonomasia il Cottimista; perché è lui che da parecchi anni ha l'appalto dei canali demaniali e la manutenzione delle strade provinciali. Alto e membruto come un camallo genovese, porta sulle spalle prominenti incassato un collo corto che sostiene una testa piccina come di testuggine; veste una giacca e i calzoni di velluto di cotone rigato e qualche volta la blusina azzurra del carrettiere. È veemente in tutto e specialmente nel bere. Entra con furioso affanno nell'osteria, gridando a squarciagola: ? Ghita, un litro! ? quando se l'è ingollato, dice invariabilmente, elevando un sospiro di consolazione: ? Ho ancora sete. Allorché viaggia in ferrovia, egli è lo spasso del vagone di terza classe, su cui sale. Sternuta come un terremoto, e ad ogni stazione si protende fuori dello sportello, chiamando col suo allegro francese di Biella un bisciuar. Nell'ultima festa del paese egli si avvinazzò tanto, ballonzolò tanto, si arrovellò tanto di vino e di movimento che ritornando a casa voleva costringere tutti coloro, cui incontrava per la strada, a ballare con lui: preti, vecchie, ragazze, padri coscritti. O sia che una villanella riluttante, puntandogli contro il ginocchio, gli abbia dato il gambetto, o sia che lo abbia rovinato, come l'impero romano, la propria mole, fatto sta ed è, che stramazzò per terra e si slogò una coscia. Non se ne adontò per nulla e ricusò di essere portato a casa per la fasciatura; volle che il medico venisse a mettergli la gamba a posto nello stesso tratto di strada, in cui egli era ruzzolato. Sdraiatosi nella polvere rizzò la testa e si addossò ad un paracarro per aspettare comodamente il dottore, e intanto per rendere vieppiù comoda l'aspettazione si fece recare dall'osteria un altro doppio litro con bicchieri. Beveva e costringeva a bere la moglie e le figliuole accorse e gli altri assistenti, e offriva da bere a tutti i passanti, dicendo che voleva da buon cottimista fare gli onori dello stradone provinciale. Venuto il medico, non si lasciò toccare da lui, se prima questi non aveva toccato con esso il bicchiere, e quando finalmente gli permise di accingersi alla operazione, pretese a forza che gli applicasse alla gamba slogata alcune doghe di un barile sfasciato, che egli aveva comandato gli recassero da casa. Guarì completamente, ma la cordiale riconoscenza per la bella cura fattagli dal medico non gli tolse dall'animo un'inconscia invidia che gli era trapelata addosso; un'invidia che si potrebbe chiamare del mestiere, se fosse mestiere quello di dire buffonate. Non c'era caso che egli ridesse alle spiritose barzellette del medico; questi per sua parte, pur avendo un'indole così risanciona, diventava serio, quando Ambrogione sferrava i suoi lazzi, e nella superiorità della propria educazione ostentava di non avvertirli neppure. Questi rapporti tesi erano gravidi di una sfida, come li giudicò un uomo politico, il farmacista. Infatti nell'osteria e poi nel paese intiero erano nati quasi due partiti pei due contafavole. La parte più intelligente e la società più fine del paese, le signore, il segretario comunale e il farmacista tenevano pel dottore. Erane specialmente devoto ammiratore il panattiere Gregorio, il più indefesso, mansueto e silenzioso bevitore del Borgo, quegli che senza giuocare accettava di far parte di qualsiasi partita, in cui vi fosse per posta qualche bibita; tantoché chicchessia entrando nell'osteria, e disagiato a bersi una bottiglia intiera, ne proponeva sicuro la società a Gregorio, e questi non diceva mai di no; onde gli capitava magari di avere carature in quattro o cinque tavolini; qua per la gazosa, là per la birra, o per il caffè, o pel vino del bottale, o per il nebiolo imbottigliato; ed egli beveva e pagava da per tutto con una flemma e una soddisfazione ammiranda. Anche i mugnai parteggiavano pel dottore; insomma erano con lui quasi tutti quelli di arte bianca. Invece quelli di arte nera, come il Gran Tommaso carbonaio, Pietro il fuligginoso fabbro ferraio, il maestro cappellano, ecc. erano partigiani del forte Ambrogione. Dicevano le vecchie dell'Opera Pia che anche il diavolo teneva per lui. Però nella sua banda egli prediligeva l'organista Protaso e il bel Rolando, che formavano con lui un terzetto musicale. In effetto egli, famoso lavoratore ed ubbriacone, era anche a tempo avanzato vigoroso suonatore di fisarmonica, e si faceva accompagnare appunto dal vecchio organista che conosceva abbastanza bene il flauto, il violino e il contrabasso, e dal giovinetto Rolando che grattava la chitarra con un'aria ispirata. Anzi quest'ultimo pareva il Ganimede di quel Giove. Il bel Rolando era stato definito dal parroco con proprietà di linguaggio quale scioperato; ma il più mite neologismo degli altri borghigiani lo riteneva per un semplice disimpiegato. Figlio di un particolare (contadino proprietario), aveva fatte le scuole tecniche; ma non si era spinto più in là, tra per la poca voglia che egli aveva di studiare, e per il desiderio della mamma di averlo attaccato ognora alla gonnella e per la stufaggine, che aveva suo padre, di sprecare i denari a fine di mantenergli i vizi in città. Nel villaggio, alieno dai lavori di campagna, senza mestiere, egli consumava il tempo bruciando pipate di tabacco da tre soldi, perseguitando e corrompendo le più belle ragazze del villaggio. Molti matrimoni andarono rotti per cagion sua. Esercitava una languidezza imperiosa, irresistibile da gatta morbida e da tenore brigante, teneva sulla testa due ditate spesse di capelli biondi come l'oro, spartiti in metà come li spartiscono le donne: possedeva un mostaccino rotondo, come nelle maschere da fanciulle, e nelle Sirene da giostra o nelle ballerine per pipe di schiuma: aveva gli occhi grossi, azzurri, di cobalto; la camicia di flanella senza solino gli lasciava libero il collo alto e ben tornito: portava un'elegante cacciatora con bottoni bianchi, orlata di refe rosso. Era un bel vizioso. Persino la nominata Erzegovina, e poscia ribattezzata Krumira, la cortigiana celebre del Borgo, che faceva il servizio di tutte le caserme dei Carabinieri del circuito, sentiva delle debolezze gratuite per lui; ed una volta per amore di lui aveva lasciato bussare invano alla sua porta il deputato capitato in vacanze, quantunque fosse già stato due volte segretario generale del Ministero di Agricoltura e ministro in predicato. Quando, per usare una frase tecnica del paese, qualche ragazza alzava il grembiule prima del tempo, lo si attribuiva al bel Rolando e si attribuivano a lui i gettatelli che si trovavano sulla porta della chiesa. Onde una volta il feroce cottimista gli disse: ? Mio caro! tu pel bilancio degli esposti costi alla provincia più che l'avv. Denticis, che noi cottimisti non possiamo andare a trovare, senza mostrargli il gruzzolo dietro la schiena. Quel satanico fanciullo piaceva, si appoggiava e quasi si maritava al Satana adulto, come la grazia alla forza, l'edera all'olmo. Ambrogione se ne serviva qualche volta per farsi fare i conti del negozio dei bozzoli, su cui speculava e versavasi come un maroso nei mesi di giugno e di luglio, o per l'affitto delle trebbiatrici, nel cui acquisto si era gettato come un veltro ferito, e per fargli conteggiare i mucchi di ghiaia su cui frodava, e lo retribuiva con gite di piacere e merende. Questa era l'unica occupazione lucrosa, cui attendesse il bel Rolando nel suo ozio geniale. Qualche volta d'inverno coltivava ed enunciava l'idea di raccomandarsi poi al deputato, già segretario generale, e futuro ministro dell'Agricoltura, e domandargli qualche impiego. Ma, sopraggiunto l'autunno, egli si sentiva così bene, si gatteggiava così tiepidamente nel suo dolce far niente, che non pensava neppure per sogno di andare ad umiliarsi all'on. ex Segretario Generale e promesso Ministro, e preferiva fargli prendere il fresco di fuori, quando questi col portabiglietti pinzo si degnava di bussare all'uscio della Erzegovina poscia Krumira, e nei pochi casi in cui lo lasciava entrare, si divertiva poi a fumare i sigari d'Avana da 24 soldi. L'organista Protaso, un vecchio sbarbato, vestito di un giubbino nero, corto, lucido, sfuggente, lieve come la fodera di un violino, era servitor devoto di tutti quanti, ma si inchinava premurosamente alla generosità e alla potenza di Ambrogione, ed in una sola parte si riservava ad essere lui stesso intransigente, cioè nel non ammettere ballabili moderni, e nel mantenere, come Vangelo del terzetto, un vecchio cartolaro di danzeria del maestro Caronti, che egli aveva portato da un paesello di montagna, dove aveva fatte le sue prime armi musicali. Quindi né Sangue Viennese, né Labbra di fuoco, né Fiotto di mussola poterono aver mai l'onore d'entrare nel repertorio musicale di Borgo Grezzo, dove trionfavano continuamente le vispe cantilene dell'antico cartolaro, intitolate: Iride ? Cuor contento ? La priora di San Sebastiano ? Pietrina Michisso, ecc., scritte da quel genio ignoto del maestro Caronti certamente per qualche figliuola di castellano; imperocché ad ogni unto fondo di pagina c'era l'avvertenza: L'illustrissima signora damigella è pregata, oppure degnisi di voltare il foglio. Per somma grazia erano state accettate dall'organista alcune canzoni popolari che Ambrogione aveva raccolte nella sua vita d'impresario anche fuori del Piemonte. Il giovane dottore, quantunque egregio dilettante di canto e pianoforte, non poté mai accordarsi col terzetto, avendo egli avuto delle coraggiose velleità di introdurre a Borgo Grezzo un ballabile di Klein, un altro di Capitani e alcune romanze di Tosti e di Rotoli, e sull'organo della Chiesa il Mefistofele di Boito.

IL Santo

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Fogazzaro, Antonio 3 occorrenze

Adesso è ammalato, s'irrita, si esalta, inveisce contro le bigotte del bene, non vuole che sua sorella si occupi di visitare poveri, né di proteggere ragazze, né di raccogliere bambini abbandonati. Dice che tutto questo è clericalismo, è utopia, che il mondo va come vuole andare, che si deve lasciarlo andare e che con questo mescolarsi alle classi inferiori non si fa che metter loro in testa delle idee false e pericolose. Ora è stato detto alla mia amica che deve o mentire a suo fratello facendo di nascosto ciò che prima faceva in palese, o separarsi da lui. Essa ha tanto bisogno di un consiglio sicuro! Mi scrive di domandarlo a Lei. Ha letto nei giornali ch' Ella consiglia qui tanta gente di queste montagne, spera che non rifiuterà." "Poiché suo fratello" rispose Benedetto "è ammalato di corpo e anche di spirito, non le si offre il bene nella sua casa stessa? Diventerà una cattiva sorella per arrivare a conoscere Iddio? Interrompa le sue opere, si dedichi a suo fratello, lo curi come del male del corpo così del male dello spirito, con tutto l'amore che ..." Stava per dire "che gli porta" si corresse per non ammettere così espressamente che conosceva la persona, " ... con tutto l'amore di cui è capace, gli si faccia preziosa, lo vinca poco a poco, senza prediche, solo colla bontà. Farà tanto bene anche a lei di cercar d'incarnare in sé la bontà stessa, la bontà attiva, instancabile, paziente e prudente. E lo vincerà, lo persuaderà, poco a poco, senza discorsi, che tutto quello che fa lei è ben fatto. Allora potrà riprendere le sue opere e le potrà riprendere anche da sola. E vi riuscirà meglio. Adesso le fa per un consiglio avuto, forse non vi riesce tanto bene. Allora le farà per quest'abitudine del bene acquistata con suo fratello, vi riuscirà meglio." "Grazie" disse Noemi. "Grazie per l'amica mia e anche per me, perché mi piace tanto questo che ha detto. E posso io ripetere i suoi consigli, il Suo incoraggiamento in Suo nome?" La domanda pareva superflua poiché incoraggiamento e consigli erano chiesti proprio a Benedetto, proprio per incarico dell'amica. Ma Benedetto si turbò. Era un esplicito messaggio che Noemi gli chiedeva per Jeanne. "Chi son io?" diss'egli. "Che autorità posso avere? Le dica che pregherò." Noemi tremò nel suo interno. Sarebbe stato tanto facile, ora, parlargli di religione! E non osava. Ah perdere una occasione simile! No, bisognava parlare ma non poteva mica pensare per un quarto d'ora a quello che direbbe. Disse la prima cosa che le venne in mente. "Scusi, poiché dice di pregare; vorrei tanto sapere se Lei proprio le approva tutte, le idee religiose di mio cognato?" Appena proferita la domanda, le parve tanto impertinente, tanto goffa, da vergognarne. E si affrettò a soggiungere sentendo di dir cosa ancora più sciocca e dicendola irresistibilmente: "Perché mio cognato è cattolico, io sono protestante e vorrei regolarmi." "Signorina" rispose Benedetto "verrà giorno in cui tutti adoreranno il Padre in ispirito e Verità, sulle cime; oggi è ancora il tempo di adorarlo nelle ombre e nelle figure, in fondo alle valli. Molti possono salire, quale più, quale meno, verso lo spirito e la Verità; molti non possono. Vi hanno piante che oltre una certa zona non fruttificano e, portate ancora più su, muoiono. Sarebbe follia di toglierle al loro clima. Io non La conosco, non posso dirle se le idee religiose di suo cognato possano, portate in Lei così, senza preparazione, dare un frutto buono. Le dico però di studiare molto molto il cattolicismo con l'aiuto di suo cognato, perché non vi è un solo protestante convinto che lo conosca bene." "Lei non verrà a Subiaco?" chiese Noemi timidamente. Qualche nascosta malinconia salì nella sua voce che fece salir nel cuore a Benedetto un senso di dolore dolce, tosto fatto sgomento, tanto era nuovo. "No" diss'egli "non credo." Noemi volle e non volle dire che n'era dolente, pronunciò alcune parole confuse. Si udì gente nell'anticamera. Noemi piegò il viso, Benedetto pure; e il colloquio si sciolse senz'altro saluto. Anche la duchessa volle parlare a Benedetto. Portò con sé compagni e compagne. Non più giovine ma galante ancora, mezzo superstiziosa e mezzo scettica, egoista e non senza cuore, voleva bene alla figliuola tisica di un suo vecchio cocchiere. Udito parlare del Santo di Jenne e de' suoi miracoli, aveva combinata la gita, un po' per divertimento, un po' per curiosità, per vedere se fosse il caso di far venire il Santo a Roma o di mandargli la ragazza. Cugina di un cardinale, aveva conosciuto presso di lui uno dei preti che villeggiavano a Jeanne. Ora colui, incontratala, le aveva già parlato a modo suo del Santo e annunciato il crollo della sua riputazione. Però siccome la duchessa non si fidava di nessun prete ed era curiosa di conoscere un uomo cui si attribuiva un passato romanzesco, e la stessa curiosità avevano i suoi compagni, una compagna in particolare, si risolse di avvicinarlo a ogni modo. Era venuta con lei una vecchia nobildonna inglese, famosa per la sua ricchezza, per le sue toilettes bizzarre, per il suo misticismo teosofico e cristiano, innamorata metafisicamente del Papa e anche della duchessa che ne rideva con i suoi amici. I quali amici, nel vedere Benedetto in quell'arnese, si scambiarono occhiate e sorrisi che per poco non diventarono sghignazzamenti quando la vecchia inglese, prevenendo tutti, prese la parola. Disse, in un cattivo francese, che sapeva di parlare a una persona colta: che lei, con amici e amiche di ogni nazione, lavorava per riunire tutte le Chiese cristiane sotto il Papa, riformando il cattolicismo in alcune parti troppo assurde che nessuno nel suo cuore credeva più buone a niente, come il celibato ecclesiastico e il dogma dell'inferno; che avevano bisogno, per fare questo, di un Santo; che questo Santo sarebbe lui perché uno spirito - ella non era spiritista ma un'amica sua lo era -anzi proprio lo spirito della contessa Blawatzky aveva rivelato questo; ch'era perciò necessaria la sua venuta a Roma e che a Roma egli avrebbe potuto con i suoi doni di santità rendere servigio anche alla duchessa di Civitella, ivi presente. Finì il suo discorso così: "Nous vous attendons absolument, monsieur! Quittez ce vilain trou! Quittez-le bientôt! Bientôt!" Benedetto, girato rapidamente lo sguardo severo per la cerchia delle facce sardoniche o stolide, dall'occhialetto della duchessa alla caramella del giornalista, rispose: "A l'instant, madame!" E uscì della camera. Uscì della camera e della casa, attraversò la piazza camminando male negli abiti disadatti, prese la via della costa senza guardare né a destra né a sinistra, portato dallo spirito più che dalle forze affievolite del corpo, pensando passar la notte sotto qualche albero e l'indomani portarsi a Subiaco e di là, con l'aiuto di don Clemente, a Tivoli dove conosceva un buon vecchio prete solito venire di tanto in tanto a Santa Scolastica. All'ospitalità dei Selva, che gli sarebbe stata cara, non pensava più. Il suo cuore era puro e in pace ma egli non poteva dimenticare che la voce soave di quella signorina straniera e l'accento mesto col quale aveva detto: "Lei non verrà a Subiaco?" gli avevano risuonato dentro in un modo strano, che un minuto secondo era bastato perché gli balenasse in mente questo pensiero: "se Jeanne fosse stata così non mi sarei sciolto." Avevano ragione i mistici: penitenza e digiuno non valgono. A ogni modo tutto era oramai dileguato. Restava solamente l'umile sentimento di una fralezza essenzialmente umana che, uscita vittoriosa da prove difficili, può ricomparire improvvisamente ed essere vinta da un soffio. Il paesello era deserto. La gente di Trevi, di Filettino, di Vallepietra, cessato il temporale, era partita commentando i fatti della mattina, la guarigione dubbia, la guarigione fallita, i moniti seminati alacremente da seconde mani contro il seduttore del popolo, il falso cattolico. All'uscita del villaggio Benedetto fu veduto da due o tre donne di Jenne. L'abito laico le fece allibire, lo credettero scomunicato, lo lasciarono passare in silenzio. Pochi passi più in là fu raggiunto da qualcuno che correva. Era un giovinetto magro, biondo, dagli occhi azzurri, intelligentissimi. "Lei va a Roma, Signore Maironi?" diss'egli. "La prego di non chiamarmi così" rispose Benedetto, spiacente di apprendere che il suo nome, chi sa in qual modo, si era divulgato. "Non so se vado a Roma." "Io La seguo" disse il giovine, impetuoso. "Mi segue? Perché mi segue?" Il giovine gli prese, per tutta risposta, una mano, se la recò alle labbra malgrado la resistenza e le proteste di Benedetto. "Perché?" diss'egli. "Perché ho il disgusto del mondo e non trovavo Dio e oggi mi pare, per Lei, di essere nato alla gioia. Permetta, permetta che La segua!" "Caro" rispose Benedetto, commosso, "non so neppur io dove andrò." Il giovinetto lo supplicò di dirgli almeno quando avrebbe potuto rivederlo, e siccome Benedetto non sapeva veramente come rispondergli, esclamò: "Oh La vedrò a Roma! Lei andrà a Roma, certo!" Benedetto sorrise. "A Roma? E dove trovarmi, a Roma, se ci vado?" Quegli rispose che sicuramente a Roma si parlerebbe di lui, che tutti saprebbero dove trovarlo. "Se Dio vorrà!" disse Benedetto con un affettuoso cenno di saluto. Il giovinetto gentile lo trattenne un momento per la mano. "Sono lombardo anch'io" diss'egli. "Sono Alberti, di Milano. Si ricordi di me!" E seguì Benedetto con lo sguardo intenso finché, a una svolta della mulattiera, disparve. Alla vista della croce dalle grandi braccia, sull'orlo della discesa, Benedetto ebbe un improvviso sussulto di commozione, dovette arrestarsi. Quando si rimise in cammino fu preso da vertigini. Fece pochi passi ancora, barcollando, fuori della via per togliersi dal passaggio della gente e si lasciò cadere sull'erba in un grembo del prato. Allora, chiusi gli occhi, sentì che non era un malessere passaggero, ch'era qualche cosa di più grave. Non smarrì del tutto la conoscenza, smarrì l'udito, il tatto, la memoria, la nozione del tempo. Al primo riaversi, la sensazione, ai dorsi delle mani, del panno grosso, diverso da quello della solita sua veste, gli mise una curiosità non tormentosa, quasi divertente, circa l'identità propria. Si andò tastando il petto, i bottoni, gli occhielli, senza capire. Pensò. Un ragazzo di Jenne che gli passò vicino sul prato, corse a Jenne, raccontò ansante che il Santo giaceva morto sull'erba, presso la croce. Benedetto pensò con quell'ombra di ragione oscura che ci governa nel sogno e al primo svegliarci. Non erano i panni suoi, erano i panni di Piero Maironi. Egli era Piero Maironi ancora. Ne fu sgomentato e rinvenne del tutto. Si levò a sedere, si mirò la persona, girò lo sguardo intorno, per il prato, per i monti velati dalle ombre della sera. Alla vista della grande croce la sua mente si ricompose. Si sentiva male, male assai. Cercò di rimettersi in piedi e vi riuscì a fatica. Si avviò verso la mulattiera domandandosi che potrebbe fare in quello stato. Vide qualcuno venir frettoloso per la mulattiera, da Jenne, fermarglisi in faccia; udì esclamare: "Dio, è Lei!" riconobbe la voce della donna che gli aveva parlato con tanta passione fra i tuoni e i lampi. Ella sola, di tanti che avevano udito a Jenne il racconto del ragazzo, era venuta. Gli altri non avevano creduto o non avevano voluto credere. Era venuta correndo, folle di angoscia. Ora si era fermata di botto, a due passi da lui, incapace di proferir parola. Egli non sospettò che fosse venuta per lui, le diede la buona sera e passò. Ella non gli ricambiò il saluto, affannata, dopo la prima gioia, di vederlo camminare male, non osando seguirlo. Lo vide fermarsi con un uomo a cavallo che saliva, parlargli; fece un balzo avanti per udire. L'uomo era un mulattiere mandato dai Selva in cerca di Benedetto. I Selva erano partiti da Jenne poco dopo quest'ultimo, con due muli per le Signore, credendo raggiungerlo sulla costa. Giunti all' Aniene senza veder nessuno, avevano interrogato un viandante che veniva da Subiaco. Colui non seppe darne notizia. Noemi che doveva prendere l'ultimo treno per Tivoli, era partita con Giovanni, nascondendo il suo rammarico; il mulattiere era stato rimandato a Jenne per cercarvi di Benedetto e anche per riportarne un ombrellino dimenticato all'osteria; Maria era rimasta ad aspettarlo sulle ghiaie dell'Infernillo. La giovine maestra udì Benedetto domandare al mulattiere, per carità, che gli portasse da Jenne un po' d'acqua. I due si parlarono ancora ma lei non attese altro, scomparve. Benedetto aveva accettato, dopo una breve conversazione col mulattiere, di raggiungere, a cavallo, la signora Selva. Rimasto solo, sedette sotto la croce aspettando il ritorno del mulattiere con l'acqua e con l'ombrello. La luna falcata si veniva dorando nel cielo chiaro sopra i monti di Arcinazzo; la sera era senza vento, tepida. Benedetto si sentiva le tempie pulsare e ardere, celere e breve il respiro. Dolore non sentiva; e l'erba odorante del prato, gli alberi sparsi, le grandi montagne ombrose, tutto gli era vivo, tutto gli era pio, tutto gli era dolce di un mistero di amore orante che inclinava la stessa falce della luna verso le cime placide nel cielo di opale. Don Giuseppe Flores gli diceva nel cuore che sarebbe soave di morire così col giorno, pregando insieme alle cose innocenti. Passi frettolosi, dalla parte di Jenne. Si fermarono un po' discosto. Una bambina si avanza verso Benedetto, gli porge timidamente una bottiglia d'acqua e un bicchiere, fugge indietro. Benedetto, meravigliato, la richiama; ella viene lenta, vergognosa. Richiesta del suo nome, tace; dei suoi genitori, tace. Una voce dice: "È la bambina dell'oste." Benedetto riconosce la voce e, al fioco lume della luna, la persona silenziosa rimasta indietro per lo stesso squisito sentimento che le ha fatto prender con sé la bambina. "Grazie" diss'egli. Ella si appressò un poco, tenendo la bambina per mano, sussurrò: "Sa che i preti hanno parlato colla madre del morto? Sa che ora questa donna accusa Lei di averlo fatto morire?" Benedetto rispose con qualche severità nella voce: "Perché mi dice questo?" Ella conobbe di avergli fatto dispiacere accusando alla sua volta, esclamò desolata: "Oh mi perdoni!" E riprese: "Posso farle una domanda?" "Dica." "Ritornerà mai a Jenne?" "No." La donna tacque. Si udirono venire, da lontano, il mulattiere e il suo mulo. Ella disse, a voce più bassa: "Per pietà, una domanda ancora. Come si figura Lei l'altra Vita? Crede che uno possa ritrovare le persone conosciute in questa?" Se il lume della luna non fosse stato così fioco, Benedetto avrebbe vedute due grosse lagrime rigar il viso della giovine. "Credo" rispose gravemente "che fino alla morte del nostro pianeta l'altra Vita sarà per noi un grande continuo lavoro sopra di esso e che tutte le intelligenze aspiranti alla Verità e all' Unità vi si ritroveranno insieme all'opera." Le scarpe ferrate del mulattiere suonano vicine sui ciottoli. La donna dice: "Addio." Stavolta le lagrime suonano anche nella voce. Benedetto le risponde: "A Dio." Egli scende sul mulo, ardendo di febbre, nelle ombre della valle. Andrà dunque a casa Selva. Sa, lo ha saputo dal mulattiere, che non troverà Noemi, ma questo gli è indifferente, non la teme, neppure ricorda quel momento di lieve emozione. Un altro pensiero si agita, infiammato dalla febbre, nell'anima sua. Vi turbinano parole di don Clemente, parole di quel giovine Alberti, parole della vecchia dama inglese, vi lampeggiano dentro immagini rotte della Visione. A casa Selva, sì, ma per poco! Egli scende e la gran voce dell' Aniene gli rugge in profondo, più e più forte: "Roma, Roma, Roma."

Quando abbandonati sovr'esso entrate nelle tenebre della morte, vi è meno dolce la pace che a voi ne spira, perché un Papa è, contrario alla democrazia cristiana? "Amici miei, voi dite: noi abbiamo riposato all'ombra di questo albero, ma ora la sua corteccia si fende, la sua corteccia si dissecca, l'albero morrà, andiamo in cerca di un'altra ombra. L'albero non morrà. Se aveste orecchi udreste il moto della corteccia nuova che si forma, che avrà il suo periodo di Vita, che si fenderà, che si disseccherà alla sua volta perché un'altra corteccia le succeda. L'albero non muore, l'albero cresce. Benedetto sedette spossato e tacque. L'uditorio ebbe un moto e un fremito di onda verso di lui. Egli, lo arrestò alzando le mani. "Amici" riprese con voce stanca e dolce "ascoltatemi ancora. Scribi e Farisei, anziani e principi dei sacerdoti zelanti contro le novità sono in ogni tempo e anche in quest'ora. Non ho a parlar di loro a voi, Iddio li giudicherà. Noi preghiamo per tutti coloro che non sanno quello che fanno. Ma forse nell'altro campo cattolico militante non si è senza peccato. Nell'altro campo si è inebbriati della idea di modernità. La modernità è buona ma l'eterno è migliore. Io temo che colà non si tenga l'eterno nel debito conto. Vi si attende molta salute alla Chiesa di Cristo dall'azione cattolica collettiva nel campo amministrativo e politico, azione di battaglia per la quale il Padre riceverà ingiuria dagli uomini, e non se ne attende abbastanza dalla luce delle opere buone di ciascun cristiano per la quale il Padre è glorificato. Supremo fine delle creature umane è glorificare il Padre. Ora gli uomini glorificano il Padre di coloro che hanno lo spirito di carità, di pace, di sapienza, di povertà, di purità, di fortezza, che adoperano per i fratelli le energie della Vita. Uno di questi giusti che professi e pratichi il Cattolicismo è profittevole alla gloria del Padre, di Cristo e della Chiesa più di molti Congressi, di molti Circoli, di molte vittorie elettorali cattoliche. "Ho inteso testé uno di voi mormorare: "e l'azione sociale?" L'azione sociale, amici miei, è sicuramente buona come opera di giustizia e di fraternità, ma, simili ai socialisti, certi cattolici la marchiano con il marchio delle loro opinioni religiose e politiche, rifiutano di accomunarvi gli uomini di buona volontà se non accettano quel marchio, respingono da sé il buon Samaritano e questo è abbominevole agli occhi di Dio. Improntano col marchio cattolico anche opere che sono strumenti di lucro e questo pure è abbominevole agli occhi di Dio. Predicano la giusta distribuzione della ricchezza ed è bene, ma troppo dimenticano di predicare insieme la povertà del cuore; e se lo ommettono deliberatamente per ragioni di opportunità, questo è abbominevole agli occhi di Dio. Purgate l'azione vostra di questi abbominii. Chiamate alle opere particolari di giustizia e di amore tutti gli uomini di buona volontà, contenti di esserne voi gli iniziatori. Predicate a ricchi e poveri, con la parola e con l'esempio, la povertà del cuore." L'uditorio ondeggiò confusamente, sospinto in parti diverse. Benedetto si raccolse un momento celando il viso fra le mani. "Voi mi avete domandato che fare?" diss'egli, scoprendo il viso. Pensò ancora un poco e riprese: "Io vedo nell'avvenire cattolici laici, zelatori di Cristo e della Verità, trovar modo di costituire unioni diverse dalle presenti. Si armeranno un giorno cavalieri dello Spirito Santo per l'associata difesa di Dio e della morale cristiana nel campo scientifico, artistico, civile, sociale, per l'associata difesa delle legittime libertà nel campo religioso, con certi particolari obblighi, non però di convivenza né di celibato, integrando l'ufficio del clero cattolico dal quale non avranno a dipendere come Ordine, ma solo come persone nella pratica individuale del Cattolicismo. Pregate che la volontà di Dio si manifesti circa quest' Opera nelle anime che la pensano; pregate ch'esse anime si spoglino lietamente della compiacenza di averla immaginata e della speranza di vederla compiuta, se Dio si rivela contrario ad essa. Se Dio si rivela favorevole, pregate che gli uomini la sappiano bene ordinare in ogni parte a gloria di Lui e a gloria della Chiesa. Amen." Egli aveva finito e nessuno si mosse. Tutti gli occhi lo fissavano, ansiosi, avidi di altre parole dopo le inattese ultime di tôno scuro e grande. Molti avrebbero voluto e non osarono rompere quel silenzio. Ma quando Benedetto si alzò e tutti gli si scostarono d'intorno a cerchio riverenti, si alzò pure il vecchio Signore dal viso rosso e dai capelli bianchi, e disse con voce rotta dalla emozione: "Ella riceverà oltraggi e battiture, sarà incoronato di spine e abbeverato di fiele, sarà deriso dai farisei e dai pagani, non vedrà l'avvenire che desidera, ma l'avvenire è per Lei, i discepoli dei discepoli suoi lo vedranno." Abbracciò Benedetto e lo baciò in fronte. Due o tre vicini batterono le mani timidamente, uno scroscio di applausi suonò nella sala. Benedetto, turbatissimo, accennò a un giovinetto biondo che lo aveva accompagnato, e questi corse a lui, proprio lucente in viso di commozione e di gioia. Qualcuno sussurrò: "Un discepolo." Altri soggiunse, piano: "Sì, e il prediletto." Il padrone di casa si prostrò, quasi, davanti a Benedetto con parole di ossequio e di gratitudine. Allora uno dei sacerdoti ardì pure farsi avanti, disse con voce commossa: "E per noi, Maestro, non avrà un consiglio?" "Non mi chiami Maestro" rispose Benedetto, tutto ancora turbato; "preghi luce a questi giovani, ai nostri Pastori e anche a me." Uscito ch'egli fu, si levò nella sala un crepitìo di voci vibrate, brevi e fioche, premendo ancora lo stupore sulle anime commosse. Poi la commozione scoppiò qua e là, forte, ruppe da ogni banda, urtandosi anche le ammirazioni fra loro nell'esaltare queste o quelle parole, queste o quelle idee del discorso, l'accento o lo sguardo dell'oratore, o lo spirito di santità diffuso nel suo volto, spirante anche dalla sua mano. Ma il padrone di casa congedò gli ospiti; con molte scuse, sì, con molte parole di cerimonia, ma con una fretta quasi scortese. Rimasto solo, aperse un uscio ch'era chiuso a chiave, s'inchinò dentro l'apertura. "Signore!" diss'egli. E spalancò l'uscio. Uno sciame di Signore irruppe nella sala vuota. Una signorina matura si slanciò addirittura verso il giovine, a mani giunte, esclamando: "Oh quanto Le siamo grate! Oh che Santo! Non so perché non siamo corse tutte fuori ad abbracciarlo!" "Cara" disse una signora con ironica flemma veneta, sorridendo nei due grandi belli occhi, "perché, fortunatamente per lui, l'uscio era chiuso a chiave." Erano dodici Signore. Il padrone di casa, professore Guarnacci, figlio dell'agente generale di una di queste, la marchesa Fermi, romana, le aveva raccontato della riunione che doveva tenersi in casa sua, del discorso che vi avrebbe pronunciato lo strano personaggio di cui si parlava già in Roma come di un agitatore religioso entusiasta e taumaturgo, popolare nel quartiere del Testaccio. La marchesa si era posta in capo di udirlo non veduta. Presi gli accordi col Guarnacci, aveva tratte nella congiura tre o quattro amiche e ciascuna di queste aveva ottenuto di aggregarsi delle appendici. Era una miscela curiosa, in vista. Molte avevano toilettes da società, due vestivano proprio come quacchere, una sola di nero. Le due quacchere, straniere, parevano impazzite dall'entusiasmo e fremevano contro la marchesa, una vecchia scettica, alquanto sarcastica, che diceva tranquillamente: "Sì, ha parlato bene ma però avrei voluto vedere la sua faccia mentre parlava." E dichiarando di saper giudicare gli uomini dalla faccia meglio che dalle parole, la vecchia marchesa rimproverò il Guarnacci di non aver praticato un buco nell'uscio o almeno levata la chiave dalla toppa. "Sei troppo Santo" diss'ella. "Non conosci le donne." Il Guarnacci rise, si scusò con l'ossequio dovuto alla padrona di suo Padre e affermò che Benedetto era bello come un angelo. Ma una giovine signora insipidetta, venuta, pensavano rabbiosamente le quacchere, Dio sa perché, uscì a dire quieta quieta che lo aveva veduto due volte e ch'era brutto. "Bisognerebbe conoscere la Sua idea di bellezza, signora" disse acremente una quacchera. E l'altra quacchera mise subito fuori, ma sottovoce per acuire la malignità espressamente, un velenoso: "Naturellement!" La signora insipidetta replicò, un poco arrossendo fra l'imbarazzo e il dispetto, ch'era magro, pallido; e le due quacchere si guardarono, si sorrisero con tacito disprezzo. Ma dove lo aveva veduto? Questo volevano sapere le altre dalla Insipidetta. " Eh! Sempre nel giardino di mia cognata" diss'ella. "Sempre nel giardino?" esclamò la marchesa. "È un angelo in piena terra o è un angelo in vaso?" La Insipidetta rise e le quacchere fulminarono la marchesa con gli occhi furiosi. Entrò il thè, compreso nell'invito del professore Guarnacci. "Bella discussione, eh?" disse piano la signora Albacina, moglie dell'onorevole Albacina, sottosegretario di Stato per l'Interno, all'orecchio della signora vestita di nero, che non aveva mai aperto bocca. Colei sorrise tristemente e non rispose. Il thè, servito dal professore e da una sua sorellina, ammorzò per un momento la conversazione che si riaccese sul discorso di Benedetto e diventò un guazzabuglio tale di ragionamenti senza ragione, di giudizi senza giudizio, di dottrine senza dottrina, che la signora silenziosa vestita di nero propose all' Albacina, con la quale era venuta, di andarsene. Ma in quel momento la marchesa Fermi, scovato un campanellino sopra una caminiera, si mise a scampanellare per ottenere silenzio. "Vorrei sapere di questo giardino" diss'ella. Le quacchere e la signorina matura, infervorate a discutere l'ortodossia cattolica di Benedetto, non avrebbero taciuto per dieci campanelli; ma la curiosità della signorina matura, all'udire la parola "giardino" scattò. Scattò fuori tutta intera. Altro che giardino! Il signor professore doveva raccontare tutto che sapeva di questo Padre Hecker italiano e laico. Un po' per sfoggio di cultura, un po' per avventatezza, ella aveva già battezzato Benedetto così. Allora la Insipidetta guardò l'orologio. La sua carrozza avrebbe dovuto trovarsi alla porta. La piccola Guarnacci disse che di carrozze ce n'erano già quattro o cinque. La Insipidetta voleva arrivare al Valle per il terzo atto della commedia. Due altre Signore avevano altri impegni e partirono con lei. La Fermi restò: "Fa presto, però, professore, " diss'ella, "perché stasera mia figlia ci aspetta, me e queste altre Signore di cui vedi le spalle." "Faccia prestissimo" disse, dispettosetta, la signorina matura. "Dopo parlerà per la povera gente che non mostra le spalle." Una forestiera bionda, molto scollata, bellissima, lanciò uno sguardo ineffabile allo povere coperte spallucce magre della dispettosa, che diventò rossa di rabbia come un gambero. "Allora" incominciò il professore "siccome la signora marchesa e forse anche le altre Signore che hanno fretta sanno già quanto so io del Santo di Jenne prima della sua partenza da Jenne, quello lo lascio. Io dunque un mese fa, in ottobre, neanche ricordavo di aver letto nei giornali, in giugno o in luglio, di questo Benedetto che predicava e faceva miracoli a Jenne, quando un giorno uscendo da S. Marcello m'incontrai in un tale Porretti che una volta scriveva nell'Osservatore e adesso non vi scrive più. Questo Porretti mi si accompagna, si parla della condanna dei libri di Giovanni Selva che si aspetta di giorno in giorno e, tra parentesi, non è ancora venuta, e Porretti mi dice che adesso in Roma c'è un amico di Selva, il quale farà parlare di sé più che lo stesso Selva. "Chi è?" faccio io. "II Santo di Jenne" dice. E mi racconta questo. L'uomo è stato cacciato da Jenne per opera di due preti, farisei terribili, che a Roma si conoscono. Si è rifugiato a Subiaco presso i Selva che villeggiano lì e si è ammalato gravemente. Guarito, è venuto a Roma circa alla metà di luglio. Il professore Mayda, amico del Selva anche lui, e che lo aveva conosciuto a Subiaco, lo prese per aiuto-giardiniere nella villa che si è fabbricata due anni sono sull' Aventino, sotto Sant' Anselmo. Il nuovo aiuto-giardiniere che si fa chiamare Benedetto e nient'altro, come a Jenne, è diventato presto popolare in tutto il quartiere del Testaccio. Divide il pane con pezzenti, assiste malati, pare che ne abbia guarito qualcuno con l'imposizione delle mani e la preghiera. È divenuto tanto popolare che la nuora del professore Mayda, benché sia credente e praticante, lo avrebbe licenziato volentieri per non avere la seccatura di tanta gente che viene a cercarlo; ma il suocero, che non è né praticante né credente, non ha voluto. Il suocero gli ha riguardi grandissimi. Se sopporta di vederlo rastrellare i viali, annaffiare i fiori, è solo per rispetto alle sue idee di Santo, e non glielo permette oltre una certa misura di tempo, molto breve. Vuole che attenda liberamente alla sua missione religiosa. Egli stesso scende sovente in giardino a parlare di religione con lui. Benedetto, per compiacergli, ha smesso il regime di pane, erbaggi e acqua che teneva a Jenne, prende carne e vino. E per compiacere a Benedetto il professore ne fa distribuire molto largamente agli ammalati del quartiere. Vi ha chi ride di lui e magari lo ingiuria, ma dal popolino è venerato come, in principio, a Jenne. Ed esercita la carità delle anime più ancora che l'altra. Ha levato certi disordini morali di famiglie, fu minacciato di morte per questo da una mala femmina, ha fatto ritornare in Chiesa gente che non ci aveva più messo piede dalla fanciullezza in poi. Lo sanno i benedettini di Sant' Anselmo. La sera poi, due o tre volte la settimana, parla nelle catacombe." La signorina matura esclamò: "Nelle catacombe?" E si porse, palpitante, verso il narratore. Una delle quacchere mormorò: "Mon Dieu! Mon Dieu!" e un'altra voce, grave di stupore riverente: "Che senso!" "Ecco" riprese il giovine, sorridendo "Porretti ha detto "nelle catacombe" ma intendeva in un luogo privato, conosciuto da pochi. Adesso lo conosco anch'io." "Ah!" fece la signorina matura. "Lei lo conosce? Dov'è?" Guarnacci tacque ed ella sentì la sua indiscrezione. "Scusi, scusi!" disse, frettolosa. "Lo sapremo, lo sapremo" fece la marchesa. "Ma senti un po', figliuolo mio, questo tuo Santo che predica in segreto, non sarebbe una specie di eresiarca? Cosa ne dicono i preti?" "Stasera" rispose il professore Guarnacci "ne avrebbe veduto qui tre o quattro e sono andati via contentissimi." "Saranno preti poco preti, preti mal cotti, pretoidi. Ma cosa dicono gli altri? Vedrai che gli altri, presto o tardi, gli daranno il torcibudella." E con quest'allegra profezia la marchesa se n'andò seguita da tutte le spalle scoperte. La signorina matura e le quacchere, felici che quello spregevole sciame mondano se ne fosse andato, assalirono il professore con domande. Non si poteva proprio sapere il posto delle nuove catacombe? Quante persone vi si radunavano? Anche donne? Quali erano i temi dei discorsi? Cosa dicevano i frati di Sant' Anselmo? E della Vita passata di quest'uomo si era venuti a sapere nulla? Il professore si schermì quanto poté, riferì solamente le parole di un Padre di Sant' Anselmo: "un Benedetto per ogni parrocchia di Roma e Roma diventa davvero la Città Santa." Ma quando, partite tutte le altre Signore, si trovò solo con l' Albacina e con la Silenziosa che aspettavano la loro carrozza, siccome all' Albacina era legato di amicizia, lasciò capire a questa che avrebbe parlato ma che la presenza di una signora sconosciuta lo imbarazzava, pregò l' Albacina di presentarlo. L' Albacina non ci aveva pensato. "Il professore Guarnacci" diss'ella. "La signora Dessalle, mia buona amica." La "catacomba" era proprio la sala stessa dove stavano in quel momento. Prima, le riunioni avevano luogo nell'alloggio dei Selva, in via Arenula. Quel posto non pareva molto adatto, per diverse ragioni. Guarnacci, fattosi discepolo egli pure, aveva offerto la casa propria. Le riunioni vi si tenevano due volte la settimana. Ci venivano i Selva, una sorella della signora, alcuni ecclesiastici, quella stessa signora veneta ch'era partita poc'anzi, alcuni giovani fra i quali certo Alberti, prediletto dal Maestro che quella sera era venuto e partito con lui, e anche un ebreo, certo Viterbo, già prossimo a farsi cattolico e dal quale il Maestro sperava cose grandi; un operaio tipografo, qualche artista, persino due membri del Parlamento. Lo scopo delle riunioni era di far conoscere a persone attratte da Cristo ma ripugnanti al Cattolicismo, ciò che il Cattolicismo è veramente, la essenza vitale, indistruttibile della religione cattolica e il carattere umano di quelle sue diverse forme che la rendono appunto ripugnante a molti, che sono mutabili e mutano e muteranno per una elaborazione dell'interno elemento divino combinata con le reazioni dell'esterno, della scienza e della coscienza pubblica. Benedetto era severissimo nell'ammettere alle riunioni perché nessuno più di lui sapeva trattare delicatamente colle anime, rispettarne i candori, farsi piccino alle piccine, alto alle alte, usare con le timide il linguaggio riguardoso che istruisce e non turba. "La marchesa" continuò il professore "dice: sarà un eresiarca, i preti che lo seguono saranno eretici. No. Con Benedetto non c'è a temere di eresie né di scismi. Proprio nell'ultima riunione egli ha dimostrato che scismi ed eresie, oltre ad essere condannabili per sé, sono funesti alla Chiesa non solamente perché le sottraggono anime, ma perché, anche, le sottraggono elementi di progresso, perché se i novatori restassero nella soggezione della Chiesa gli errori loro perirebbero e quell'elemento di Verità, quell'elemento di bene che quasi sempre è unito, in qualche misura, all'errore, diventerebbe vitale nel corpo della Chiesa." L' Albacina osservò che questo era molto bello e che se le cose stavano a questo modo la sinistra profezia della marchesa non si sarebbe avverata. "La profezia del torcibudella, no!" disse il professore, ridendo. "Queste cose non accadono e io non credo che sieno accadute mai. Sono calunnie. Bisogna essere la marchesa e certa gente come la marchesa che si trova qui a Roma per crederle. Un prete romano, capisce, un prete ha osato avvertire Benedetto che si guardasse! Ma Benedetto gli ha levato il coraggio di parlargliene un'altra volta. Dunque, torcibudella no; ma persecuzione sì. Quei tali due preti di Roma ch'erano a Jenne non hanno mica dormito. Io non volli dirlo prima perché la marchesa non è persona cui raccontare queste cose, ma ci sono in aria dei guai grossi. Si è spiato ogni passo di Benedetto, si è adoperata anche la nuora di Mayda, a mezzo del confessore, per avere informazioni dei suoi discorsi, si è saputo delle riunioni. La sola presenza di Selva dà loro il carattere che quella gente abborre e siccome contro un laico non può far niente, così pare che si cerchi l'aiuto del braccio secolare contro Benedetto, l'aiuto dei carabinieri e dei giudici. Loro si meravigliano? Eppure è così. Finora non c'è niente di positivo, niente di fatto, ma si macchina. Siamo stati avvertiti da un ecclesiastico straniero che un'altra volta ha chiacchierato male ma stavolta ha chiacchierato bene. Si preparano e si fabbricano materiali per un'azione penale." La Silenziosa trasalì, uscì finalmente del suo mutismo. "Come è possibile?" diss'ella. "Signora mia," disse il professore "Lei non sa di cosa sieno capaci alcuni intransigenti in tonaca. Gl'intransigenti laici sono agnelli, in paragone. Si vuol servirsi di un disgraziato caso successo a Jenne. Ora però noi speriamo in un fatto nuovo, che non occorre di raccontare a molti, senza discernimento, ma ch'è importantissimo." II professore tacque un momento, assaporando l'acuta curiosità che aveva destato e che, muta sulle labbra, sfavillava dagli occhi intenti delle due dame. "L'altro giorno" riprese "il segretario del cardinale. ... un giovine prete tedesco, si recò a Sant' Anselmo e parlò coi frati. In seguito a questa visita Benedetto fu chiamato a Sant' Anselmo dove i benedettini gli hanno un grande affetto e un grande rispetto. Gli fu chiesto se non avesse intenzione di rendere omaggio a Sua Santità, di domandare udienza. Rispose ch'era venuto a Roma con questo desiderio nel cuore, che aspettava un cenno dalla Provvidenza, e che questo era il cenno. Allora gli fu detto che Sua Santità lo avrebbe ricevuto certamente volentieri ed egli domandò l'udienza. Questo fu raccontato a Giovanni Selva da un benedettino tedesco." "E quando ci va?" chiese l' Albacina. "Posdomani sera." Il professore soggiunse che da parte del Vaticano la cosa era tenuta segretissima, che si era imposto a Benedetto di non parlare con alcuno, che niente ne sarebbe trapelato senza l'indiscrezione di quel frate tedesco, e che gli amici di Benedetto speravano grandi cose da questa visita. L' Albacina domandò cosa si proponesse Benedetto di dire al Pontefice. Il professore sorrise. Benedetto non se n'era aperto con nessuno e nessuno aveva osato interrogarlo. Secondo il professore, Benedetto parlerebbe a favore di Selva, pregherebbe che i suoi libri non fossero posti all'Indice. "Sarebbe poco" disse l' Albacina, sottovoce;Jeanne ebbe un fremito di consenso. "Pochissimo!" esclamò, quasi pigliandosela col professore che parve sorpreso di quel subito scatto dopo tanto silenzio. Egli si scusò. Non aveva inteso dire che Benedetto non parlerebbe anche di altre cose, al Papa. Aveva inteso dire che, secondo lui, di quell'argomento gli parlerebbe certo. L' Albacina non sapeva spiegarsi il desiderio del Papa di vedere Benedetto. Come lo spiegavano i suoi amici? Come lo spiegava Selva? Eh, nessuno lo sapeva spiegare; né Selva né gli altri. "Io lo spiego!" disse Jeanne, impetuosa, compiacendosi di capire quello che nessuno capiva. "Il Papa, non è stato vescovo a Brescia?" Guarnacci sorrise di un sorriso fra l'ammirativo e l'ironico, rispose. Ah, la signora era molto informata del passato di Benedetto! La signora sapeva con certezza cose che a Roma si dicevano ma che però trovavano anche degli increduli! Solo una cosa non sapeva. Il Papa non era mai stato vescovo a Brescia, aveva coperto due sedi vescovili nel Mezzogiorno. Jeanne irritata con se stessa, vergognosa di essersi quasi tradita, non replicò. L' Albacina voleva sapere quale opinione Benedetto avesse del Papa. "Oh lui" rispose il professore "nel Papa non considera e non venera che l'ufficio. Almeno credo. Della persona non l'ho inteso parlare mai. Dell'ufficio sì. Ne ha discorso una sera magnificamente, contrapponendo il Cattolicismo al Protestantesimo, svolgendo il suo ideale di governo della Chiesa: principato e giusta libertà. Del resto il nuovo Papa non si sa ancora cosa sia. Si dice che sia Santo, intelligente, malato e debole. Nell'accompagnare le Signore alla carrozza, sulla scala buia, il professore uscì a dire sospirando: "Quello che pur troppo si teme è che Benedetto non viva. Almeno Mayda lo teme." L' Albacina, che scendeva a braccio del professore, esclamò senza fermarsi: "Oh poveretto! Di che soffre?" "Ma!" rispose il professore. "Di un male inguaribile, pare; conseguenza della tifoide ch'ebbe a Subiaco e sopra tutto della Vita disagiatissima che ha fatto, delle penitenze, dei digiuni." E continuarono la lunga discesa in silenzio. Soltanto in fondo alla scala si avvidero che la loro compagna era rimasta indietro. Il professore risalì rapidamente e trovò Jeanne ferma sul penultimo pianerottolo, aggrappata alla ringhiera. Sulle prime non si mosse né parlò. Poi mormorò: "Non ci si vede." Guarnacci non sapeva e non fece attenzione né a quel momento di silenzio né al tôno sommesso e incerto della voce. Le offerse il braccio e discese con lei, scusando sé del buio, accusandone l'avarizia del padrone di casa. Jeanne salì nella carrozza dell' Albacina che la portò al Grand Hôtel Nel tragitto l' Albacina parlò con rammarico della notizia che le aveva dato il Guarnacci. Jeanne non aperse bocca. Il suo mutismo dispiacque all'amica. "Lei non è stata contenta del discorso?" diss'ella. Non conosceva affatto le idee religiose di Jeanne. "Sì" rispose questa. "Perché?" "Così. Mi pareva. Allora non Le dispiace di essere venuta?" L' Albacina si sentì, con molta sorpresa, prendere una mano e rispondere: "Le sono tanto grata!" La voce fu sommessa e quieta, la stretta della mano quasi violenta. "Nientemeno!" pensò l' Albacina. "Questa è una futura dama dello Spirito Santo." "Per conto mio" riprese ad alta voce "capisco che mi terrò la mia religione vecchia, quella degl'intransigenti. Saranno farisei, saranno tutto quello che vi piace, ma ho paura che a volerla tanto ritoccare e ristaurare, la religione vecchia, essa crolli e non resti più niente in piedi. E poi volendo seguire i Benedetti bisognerebbe cambiare troppe cose. No no. Però l'uomo m'ispira un interesse straordinario. Adesso bisognerebbe cercare di vederlo. Bisogna che lo vediamo. Molto più se proprio è condannato a morire presto. Non Le pare? E come si fa? Pensiamo." "Io non desidero di vederlo" s'affrettò a dire Jeanne. "Davvero?" esclamò l'amica. "Ma come? Mi spieghi questo enigma." "Così. Non desidero." "Curiosa!" pensò l' Albacina. La carrozza si fermò davanti all'entrata del Grand Hôtel Nell'atrio Jeanne s'incontrò con Noemi e suo cognato, che uscivano. "Finalmente!" disse Noemi. "Va, corri, tuo fratello è arrabbiatissimo con questa Jeanne che non arriva mai. Noi siamo discesi ora perché è venuto il medico." I Dessalle erano a Roma da quindici giorni. Un principio di ottobre umido e freddo, preoccupazioni di salute, il progetto di uno studio sul Bernini seguito al progetto di romanzo, avevano persuaso Carlino ad accontentare la signora Albacina più presto che non avrebbe voluto, a lasciare villa Diedo per i tepori di Roma prima dell'inverno, con molta chiusa gioia di sua sorella. Due o tre giorni dopo l'arrivo fu preso da una leggera bronchite. Si diede per tisico, si tappò in camera con il proposito di starci tutto l'inverno, volle il medico due volte al giorno, tiranneggiò Jeanne con un egoismo spietato, le numerò i minuti di libertà. Ella si fece sua schiava, parve godere di quell'irragionevole soprappiù di sacrificio, che passava la misura del suo affetto fraterno. Lo donava mentalmente, con dolce ardore, a Benedetto. Vedeva spesso i Selva e Noemi, non a casa loro, al Grand Hôtel Anche i Selva erano soggiogati dal suo fascino di donna superiore, bella, gentile e triste. Tutto che aveva udito di Benedetto in casa Guarnacci lo sapeva già da Noemi. Solo non sapeva che Mayda avesse espresso quel giudizio. Noemi, pietosamente e anche per non lasciar trasparire la commozione propria, gliel'aveva taciuto. Carlino l'accolse male. Il medico, che gli aveva trovato il polso frequente, capì subito che era un polso collerico. Scherzò un poco sulla gravità del male e se ne andò. Carlino, burbero, volle sapere dove Jeanne si fosse tanto indugiata ed ella non glielo nascose. Solamente gli nascose il nome vero di Benedetto. "Non ti sei vergognata" diss'egli "di star ad ascoltare alle porte?" E senza lasciarle il tempo di rispondere inveì contro le nuove tendenze che le aveva scoperte. "Domani andrai a confessarti! E posdomani reciterai il rosario!" Sotto la usuale tolleranza cortese del suo linguaggio, la benevolenza che mostrava pure a non pochi ecclesiastici, si nascondeva una vera fobìa antireligiosa. L'idea che sua sorella potesse un giorno accostarsi ai preti, alla fede, alle pratiche, gli faceva perdere il lume degli occhi. Jeanne non rispose, si offerse mansuetamente per la solita lettura serale. Carlino le dichiarò netto di non volerne sapere, pretese di sentire degli spifferi, la tenne un quarto d'ora colla candela in mano a scrutar usci, finestre, pareti, pavimento, e poi la mandò a dormire. Ma Jeanne entrata nella sua camera, non pensò a dormire né a coricarsi. Spense la luce e sedette sul letto. Strepiti di carrozze sonavano nella via, passi e fruscii di vesti femminili nei corridoi; immobile fra le tenebre, ella non udiva. Aveva spento la luce per pensare, per non vedere che il proprio pensiero, l'idea balenatale nello scender la scala di casa Guarnacci al braccio del professore dopo che, udite le parole sinistre "si teme che non viva" aveva quasi smarriti i sensi. In carrozza con l' Albacina, in camera con suo fratello, mentre doveva pur parlare e con l'una e con l'altro, fare attenzione a tante diverse cose, era stato un balenar continuo, nel suo profondo, di quest'idea, di questa proposta offerta dal cuore ardente alla volontà. Adesso non balenava più. Jeanne la contemplava in sé, ferma. Nella figura seduta sul letto, immobile fra le tenebre, due anime si stavano tacite a fronte. Una Jeanne umile, appassionata, persuasa di poter tutto sacrificare all'amore, si misurava con una Jeanne inconsciamente orgogliosa, persuasa di possedere una dura e fredda Verità. Gli strepiti delle carrozze si fecero più radi nella via, i passi e i fruscii più radi nei corridoi. A un tratto le due Jeanne parvero riconfondersi in una che pensò: "Quando mi annuncieranno la sua morte, mi potrò dire: almeno hai fatto questo." Si alzò, accese la luce, sedette alla scrivania, prese un foglietto e scrisse: "A Piero Maironi, la notte del 29 ottobre ... "Credo. "Jeanne Dessalle." Scrisse e guardò a lungo, a lungo, la parola solenne. Più la guardava, più le due Jeanne si venivano lente ridividendo. La Jeanne inconsciamente orgogliosa soverchiò, oppresse l'altra quasi senza lotta. Tutta amara di amarezza mortale, lacerò il foglio macchiato della parola impossibile a mantenere, impossibile a scrivere sinceramente. Spenta da capo la luce, accusò di crudeltà Iddio se mai esistesse, pianse, pianse nelle volontarie tenebre, senza freno.

Era là, il Pietoso, nel Tabernacolo e spirava l'invito ineffabile: vieni, apriti, abbandonati a me. E Clemente si abbandonò, gli disse quello che non aveva mai confessato neppure a sé stesso. Sentiva nell'antico monastero, tutto, tranne Cristo nel Tabernacolo, morire. Come cellula dell'organismo ecclesiastico, elaboratrice di calore cristiano radiante al mondo, il monastero si ossificava nella vecchiaia inesorabile. Onorandi fochi di fede e di pietà chiuse nelle forme tradizionali, simili alle fiamme dei ceri accesi sugli altari, vi consumavano i loro involucri umani inviandone al cielo il vapore invisibile, senza che una sola onda calorifica o luminosa ne vibrasse al di là delle muraglie antiche. Le correnti dell'aria viva non vi entravano più e i monaci non uscivano più a cercarle come nei primi secoli, lavorando nei boschi e sui prati, cooperando alle vitali energie della natura, nell'atto stesso che magnificavano Iddio col canto. I colloquii con Giovanni Selva lo avevano indirettamente condotto, poco a poco, a sentire così della Vita claustrale nelle sue forme presenti, pure essendo convinto che ha indestruttibili radici nell'anima umana. Ma forse ora per la prima volta gli avveniva di guardare il suo sentimento in faccia. Era da un pezzo suo voto, era sua speranza che Benedetto diventasse un grande operaio del Vangelo; non un operaio comune, un predicatore, un confessore, bensì un operaio straordinario; non un soldato dell'esercito regolare, impedito dall'uniforme e dalla disciplina, bensì un libero cavaliere dello Spirito Santo; ma la Regola monastica non gli si era mai ripresentata in tale antagonismo con il suo ideale di un Santo moderno. E se ora la Volontà Divina si manifestasse a Benedetto proprio diversa dal desiderio suo? Ah non era egli già quasi sull'orlo di un peccato mortale? Non presumeva già egli quasi, polvere tracotante, di giudicare le vie di Dio? Prosternato sull'inginocchiatoio, s'immerse nell' Onnipotente, anelando senza parole al perdono, alla rivelazione, in Benedetto, della Volontà Divina, adorandola da quel momento qualunque fosse. Nell'alzarsi con un naturale defluire dell'onda mistica dal cuore, con gli occhi vôlti ancora all'altare ma non più fissi nel Tabernacolo, non poté a meno di pensare alla Dessalle e al discorso di Benedetto. La mediocre pala di quell'altare rappresenta la martire Anatolia che offre dal paradiso la palma simbolica ad Audax, il giovine pagano che tentò sedurla e ne fu invece condotto a Cristo. La Dessalle aveva sedotto Benedetto; per quanto Benedetto si fosse studiato di scolpare lei e d'incolpare sé, don Clemente non dubitava che le cose fossero andate così. Se ora egli operasse la conversione di lei? Se fosse giusto che la tentasse? Se il sentimento di Benedetto fosse realmente più cristiano che il timore suo e gli spasimi del Padre Abate? Don Clemente si dibatteva in testa questi problemi attraversando a capo basso la Chiesa. Anatolia e Audax! Gli sovvenne che un forestiere scettico, udita da lui la spiegazione del quadro, aveva detto: sì, ma se non li avessero ammazzati, né l'uno né l'altra? E se Audax avesse avuto moglie? E queste beffarde parole gli erano parse una indegna profanazione. Le ripensò e, sospirando, raccattò da terra il lanternino posato nel Capitolo. Invece di avviarsi alla sua cella si recò nel secondo chiostro a guardare il dorso del Colle Lungo, dove forse Benedetto stava in orazione. Alcune stelle brillavano sul roccioso dorso grigio macchiato di nero e il loro lume oscuro mostrava nel chiostro il piazzale, gli arboscelli sparsi, la torre possente dell' Abate Umberto, le arcate, le mura vecchie di nove secoli e, sulla ogiva del portale grande dove don Clemente stava contemplando, la doppia riga dei fraticelli di sasso che vi salgono in processione. Il chiostro e la torre si affermavano nella notte con maestà di potenza. Era proprio vero che stessero morendo? Nel lume delle stelle il monastero pareva più vivo che nel sole, grandeggiava in una mistica comunione di senso religioso con gli astri. Era vivo, era pregno di effluvi spirituali diversi, confusi in una persona unica, come le diverse pietre tagliate e scolpite a comporre la unità del suo corpo, come diversi pensamenti e sentimenti in una coscienza umana. Le vetuste pietre, sature di anime commiste ad esse in amore, sature di desiderii santi e di Santo dolore, di gemiti e di preci, radiavano un che oscuro, penetrante nel subcosciente. A quei lavoratori di Dio che nelle ore aride vi si ritraessero dal mondo a breve riposo, potevano rinfondere forza come d'estate al falciatore in deserti montani una fonte. Ma perché le pietre durassero vive, un continuo fiume di Vita doveva pure trapassar per esse, un fiume di spiriti adoranti, contemplanti. Don Clemente sentì quasi rimorso dei pensieri volontariamente accolti in Chiesa circa la decrepitezza del monastero, pensieri radicati nel suo giudizio personale, piacenti al suo amor proprio, quindi viziati di quella concupiscenza dello spirito che i suoi diletti Mistici gl'insegnavano a discernere e ad aborrire. Giunte le mani, fissò il dorso selvaggio del monte dove si figurava Benedetto pregante, fece un atto mentale di rinuncia, di umile abbandono delle proprie idee circa l'avvenire di quel giovine. Benedisse Iddio se lo voleva laico, benedisse Iddio se lo voleva monaco, se scopriva la Sua volontà e se non la scopriva. "Si vis me esse in luce sis benedictus, si vis me esse in tenebris sis iterum benedictus." E si avviò alla sua cella. Nel grande corridoio dove le due fioche lampade ardevano ancora, passando davanti all'uscio dell' Abate, ripensò la conversazione avuta col vecchio e quelle sue massime circa i mali della Chiesa e la opportunità di operare contro di essi. Ricordò un discorso del signor Giovanni sulle parole "fiat voluntas tua" che il comune dei fedeli intende soltanto come un atto di rassegnazione, e che implicano, invece, il dovere di lavorare con tutte le nostre forze per il prevalere della legge Divina nel campo della libertà umana. Il signor Giovanni gli aveva fatto battere il cuore più forte e l' Abate glielo aveva fatto battere più fiacco. Quale dei due aveva detto la parola di Vita e di Verità? La sua cella era l'ultima a destra, presso il balcone che guarda la conca rigata dall' Aniene, Subiaco e i monti Sabini. Prima di entrar nella sua cella don Clemente si fermò a guardar i lumi lontani di Subiaco, pensò alla villetta rossa, più vicina ma invisibile, pensò a quella donna. Trame, aveva detto l' Abate. Amava ella ancora Piero Maironi? Aveva scoperto, sapeva ch'egli si era rifugiato a Santa Scolastica? Lo aveva riconosciuto? Se sì, che meditava di fare? Probabilmente non aveva preso stanza nel minuscolo quartiere dei signori Selva; probabilmente alloggiava in un albergo di Subiaco. Quei lumi lontani erano fuochi di un campo nemico? Si fece il segno della croce ed entrò nella sua celletta per un breve sonno fino alle due, ora di coro. Benedetto prese la via del Sacro Speco. Oltrepassato, all'altro angolo del monastero, il letto asciutto di un torrentello, raggiunto a destra l'oratorio antichissimo di Santa Crocella, salì per la petraia che ruina giù verso il rombo dell' Aniene di fronte ai carpineti del Francolano, erto e nero fino alla croce del vertice, incoronata di stelle. Prima di toccare l' Arco che mette al bosco del Sacro Speco, uscì di via, si arrampicò a sinistra, cercando il posto dell'ultima sua veglia, alto sui tetti quadrati e sulla torre tozza di Santa Scolastica. La ricerca del sasso dove aveva pregato ginocchioni un'altra dolorosa notte, sviandogli il pensiero dal mistico foco in cui era chiuso, glielo raffreddò. Se ne avvide tosto, ne sentì un rammarico affannoso, una impazienza di ricuperar calore acuita dal timore di non riuscirvi, dal senso di esserne in colpa, dal ricordo di altre aridità tristi. Gelava, gelava sempre più. Cadde ginocchioni, chiamò Iddio con uno spasimo di preghiera. Come piccola fiamma inutilmente apposta ad un fascio di legna verde, lo slancio della volontà gli venne meno senza movere il cuore inerte e mancò in uno stupido ascoltare del rombo eguale dell' Aniene. La mente gli ritornò in un assalto di terrore. Forse la notte passerebbe intera così; forse al gelo arido seguirebbe la tentazione calda! Impose silenzio al fervere delle immaginazioni, si raccolse nel proposito di non smarrirsi d'animo. Allora sorse in lui l'idea chiara che spiriti nemici gli erano sopra. Se avesse veduto intorno a sé fiammeggiare occhi diabolici nei fessi delle pietre, ne sarebbe stato meno certo. Sentiva in sé il vaporare di un veleno, sentiva un'assenza di amore, un'assenza di dolore, un tedio, un peso, l'aggravarsi di un assopimento mortale. Ricadde nello stupido ascoltare il rumore del fiume, fissi gli occhi senza sguardo al bosco nero del Francolano. Gli passò nella visione interna, lento automa, la immagine del prete malvagio vissuto là colla sua corte di peccatrici. Sentì stanchezza di star ginocchioni, si accasciò su sé stesso. Ecco ancora l'automa lento. Si voltò con un faticoso sforzo a sedere, abbandonò le mani sui ciuffi dell'erba soffice, fra sasso e sasso, odorante. Chiuse gli occhi nella dolcezza di quel tocco morbido, dell'odor selvaggio, del riposo; e vide Jeanne pallida sotto l'ala obliqua di un cappello nero, piumato, che gli sorrideva con gli occhi umidi di lagrime. Il cuore gli batté forte, forte, forte; un filo, un filo solo di volontà buona lo tratteneva sulla china dell'abbandono all'invito di quel volto. Spalancò gli occhi, mise, a braccia distese, a mani aperte, un lungo gemito. E subito pensò che qualche viandante notturno potesse averlo udito, trattenne il respiro, stette in ascolto. Silenzio; silenzio di tutte le cose fuorché del fiume. Il cuore gli si venne chetando. "Dio mio, Dio mio" mormorò, inorridito del pericolo corso, dell'abisso intravvisto. Si afferrò con gli occhi, con l'anima, al gran dado sacro, lì sotto, di santa Scolastica, al torrione tozzo, tanto buono, che amava. Trapassò con lo spirito l'ombre e i tetti, attrasse in sé la visione della Chiesa, della lampada ardente, del Tabernacolo, del Sacramento, vi si affisse avido. Si raffigurò con uno sforzo i chiostri, le celle, le grandi croci presso i giacigli dei monaci, il volto serafico del suo Maestro addormentato. Durò nello sforzo quanto poté, reprimendosi dentro con angoscia un balenar frequente dell'obliquo cappello piumato e del viso pallido, fino a che i baleni gli si affiochirono, gli si perdettero giù nelle profondità inconscie dell'anima. Allora sorse faticosamente in piedi e lento come se la maestà di una grandezza pensata governasse gli stessi suoi moti, giunse le mani, vi piegò il mento su. Fermò il pensiero nella preghiera dell'Imitazione: "Domine, dummodo voluntas mea recta et firma ad te permaneat, fac de me quidquid tibi placuerit." Non vi era commozione nel suo interno, pareva che gli spiriti di nequizia se ne fossero allontanati; ma neppure vi erano discesi angeli. La mente stanca gli posò nel senso delle cose esterne, delle vaghe forme, dei fiochi biancori nell'ombra, del lontano ululo di un gufo nei carpineti, del tenue aroma d'erba che le mani giunte odoravano ancora. L'aroma selvaggio gli richiamò il momento in cui aveva posato le mani sull'erba, prima che gli apparisse il sorriso triste di Jeanne. Sciolse le mani impetuoso, tornò con gli occhi avidi al monastero. No no, Iddio non avrebbe permesso ch'egli fosse vinto, Iddio lo serbava alle opere sue. Allora dal profondo dell'anima, senza che il volere vi avesse parte, gli si levarono fantasmi non più evocati, per consiglio del Maestro, da quando era venuto a Santa Scolastica; fantasmi della visione affidata in iscritto alla custodia di don Giuseppe Flores. Egli si vide ginocchioni a Roma in piazza San Pietro, di notte, fra l'obelisco e la fronte del tempio immenso, illuminato dalla luna. La piazza era vuota; il rumore dell' Aniene gli diventò il rumore delle fontane. Dalla porta del tempio si porgeva sulla gradinata un gruppo di uomini vestiti di rosso, di violetto e di nero. Lo fissavano minacciosi, appuntando gl'indici verso Castel Sant'Angelo, come per intimargli di partirsi dal luogo sacro. Ma ecco, questa non era più la Visione, questo era un immaginar nuovo! Egli sorgeva, diritto e fiero, in faccia al manipolo nemico. Gli ruggiva improvviso alle spalle un rombo di moltitudini accorrenti che irrompevano nella piazza dalle bocche di tutte le vie, a fiumi. Un'ondata lo travolgeva con sé acclamando al riformatore della Chiesa, al vero Vicario di Cristo, lo posava sulla soglia del tempio. Di là egli si volgeva come ad affermare autorità sull' Orbe. In quel momento gli folgorò nel pensiero Satana offrente a Cristo il regno del mondo. Precipitò a terra, si stese bocconi sulle pietre, gemendo nello spirito: "Gesù, Gesù, non son degno, non son degno di venir tentato come Te!" E porse le labbra strette, le affisse al sasso, cercando Iddio nella creatura muta, Iddio, Iddio, il sospiro, la Vita, la pace ardente dell'anima. Un soffio di vento gli corse sopra, gli mosse l'erbe intorno. "Sei Tu" egli gemette "sei Tu, sei Tu?" Il vento tacque. Benedetto si stringe i pugni alle guancie, leva il capo puntando i gomiti al sasso, sta in ascolto senza saper di che. Sospira, si ripone a sedere. Iddio non gli parlerà. L'anima stanca tace, vuota di pensiero. Passa il tempo, lento. L'anima stanca richiama a fatica per suo ristoro l'ultima parte della Visione, il suo ascendere, per un notturno cielo tempestoso, incontro ad angeli discendenti. E pensa torbidamente: se questa sorte mi aspetta, perché rattristarmi? Se sarò tentato non sarò vinto e se sarò vinto Iddio mi rialzerà. Neppure è necessario di domandargli cosa voglia da me. Perché non scendo a dormire? Benedetto si alzò, greve il capo di stanchezza plumbea. Il cielo si era tutto coperto di nuvole pesanti fino ai monti di Jenne, dove la valle dell'alto Aniene gira. Appena Benedetto poteva discernere la tenebra nera del Francolano, in faccia, e i lividori, a' suoi piedi, della petraia. Mosse per discendere e al secondo passo si arrestò. Le gambe non lo reggevano, un soffio di sangue gli accese il viso. Era quasi digiuno da trent'ore. Non aveva preso che un tozzo di pane a mezzodì. Si sentì punger la persona da miriadi di spilli, batter forte il cuore, annebbiar la mente. Quali viluppi di serpi gli si attorcigliavano ai piedi simulando la innocenza dell'erba? E qual demonio sinistro lo attendeva lì sotto, carponi sulla pietra, simulando un cespuglio per avventarglisi? Non lo aspettavano i demonii anche nel monastero? Non si annidavano negli occhi del torrione? Non avevano quegli occhi una fiamma nera? No, no, adesso non più; adesso lo fissavano semichiusi e beffardi. Il rombo dell' Aniene, questo? No, il ruggito dell' Abisso trionfante. Non credeva interamente a quello che vedeva, a quello che udiva, ma tremava tremava come una festuca nel vento e le miriadi di spilli gli camminavano per tutta la persona. Cercò svincolar i piedi dai viluppi di serpi, non gli riuscì. Dal terrore alla collera: "devo potere!" esclamò, forte. Dalla gola fosca di Jenne gli rispose il sordo rumor del tuono. Guardò a quella volta. Un lampo aperse le nubi sopra il negrore del monte Preclaro e sparì. Benedetto si provò di levar i piedi dalle serpi e ancora la leonina voce del tuono lo minacciò. "Cosa faccio?" si diss'egli, cercando raccapezzarsi. "Perché voglio scendere?" Non lo sapeva più, ebbe bisogno di uno sforzo mentale per ricordare. Ecco, aveva pensato di scendere a dormire perché la preghiera era inutile a un uomo sicuro di salire al cielo. E un lampo arse anche dentro di lui: "Io tento Iddio!" Le serpi lo stringevano, il demonio strisciava carponi alla sua volta per la petraia tutta infernalmente viva di spiriti feroci, le fiamme nere ardevano negli occhi del torrione, ruggendo sempre l' Abisso a trionfo. Ma il rugghio sovrano del tuono romoreggiò per le nubi: "Non tentare il Signore Iddio tuo." Benedetto levò al cielo il viso e le mani congiunte, adorando, come poté, con l'ultimo lume della offuscata coscienza, vacillò, allargò le braccia, afferrò l'aria, piegò lentamente all'indietro, stramazzò riverso sulla china, giacque senza moto. Il suo corpo giaceva immobile nel vento del temporale, come un tronco schiantato, fra il dibattersi delle ginestre e il mareggiare dell'erba. L'anima dovette chiudersi nel contatto centrale con l' Essere senza tempo e senza spazio, perché Benedetto, al primo ritorno della coscienza, non ebbe senso né del luogo né dell'ora. Sentiva una levità strana delle membra, una spossatezza fisica piacevole, una infinita dolcezza interna; prima sul viso, poi sulle mani tanti minuti titillamenti come di animati atomi amorosi dell'aria: teneri sussurri di voci timide intorno a quello che gli pareva il suo letto. Si rizzò a sedere, guardò smarrito ma in pace; dimentico del dove e del quando, ma tanto in pace, tanto contento della quieta fonte interna di un indistinto amore che gli fluiva in tutti i vasi della Vita e se ne spandeva per le cose intorno, per le dolci piccole vite fatte amorose a lui. Sorridendo fra sé del suo proprio smarrimento, riconobbe il dove e il come. Il quando, no. Neppure ne sentì desiderio, neppure si domandò se dalla caduta fossero trascorse ore o minuti, tanto lo appagava il beato presente. Il temporale era disceso verso Roma. Nel mormorio della pioggia senza vento, piana piana, nella voce grande dell' Aniene, nella riposata maestà dei monti, nell'odore selvaggio della petraia umida, nello stesso proprio cuore, Benedetto sentiva un Divino confuso alla creatura, un'ascosa essenza di paradiso. Sentiva di fondersi con le anime delle cose come piccola voce in un coro immenso, di essere uno con la montagna odorante, con l'aria beata. E così sommerso nel mare della paradisiaca dolcezza, abbandonate le mani sulle ginocchia, socchiusi gli occhi, blandito dalla pioggia piana piana, godeva non senza un vago desiderio che tanta soavità fosse conosciuta dalla gente che non crede, dalla gente che non ama. Nel declinare del rapimento gli ritornarono a mente i perché della presenza sua sul monte deserto nelle tenebre della notte, e le incertezze del domani, e Jeanne, e l'esilio dal monastero. Ma ora incertezze e dubbî erano indifferenti all'anima sua ferma in Dio, come al Francolano immobile i tremolii del suo manto di foglie. Incertezze, dubbî, ricordi della mistica Visione gli si disciolsero nel profondo abbandono alla Divina Volontà, che avrebbe disposto di lui a suo piacimento. La immagine di Jeanne, contemplata quasi dall'alto di una inaccessibile torre, gli moveva solo il desiderio di operare fraternamente per lei. La tranquilla ragione ripigliando intero l'ufficio suo, egli si accorse di esser molle di pioggia fin dentro le vesti; e la pioggia, piana piana, continuava. Che fare? Rientrare all' Ospizio dei pellegrini no perché il vaccaro dormiva; svegliarlo per farsi aprire non avrebbe voluto né sarebbe stato facile. Pensò di riparare sotto i lecci del Sacro Speco. Alzatosi faticosamente, ebbe un assalto di vertigini. Aspettò un poco e poi scese adagio adagio sulla via che da Santa Scolastica mette all' Arco d'ingresso nel bosco. Là nella nera ombra dei grandi lecci chini e protesi, a braccia sparse, sulla china del monte, fra il chiarore fioco, a sinistra, della costa esterna al bosco, cadde a sedere, sfinito. Desiderava un po' di cibo e non osò domandarlo al Signore, parendogli domandare un miracolo. Si dispose ad attendere il giorno. L'aria era tepida, il suolo quasi asciutto, radi goccioloni battevano qua e là dal fogliame dei lecci. Benedetto si assopì di un sopor lieve che appena gli velava le sensazioni, tramutandole in sogno. Si figurò di stare in un sicuro asilo di preghiera e di pace, all'ombra di braccia sante, protese sopra il suo capo; e gli pareva di doverlo abbandonare per ragioni di cui gli era evidente l'impero, benché non avesse coscienza della loro natura. Poteva uscirne per una porta cui metteva capo la via discendente al mondo, poteva uscirne dalla parte opposta, per un cammino ascendente a solitudini sacre. Pendeva incerto. Il batter vicino di una grossa goccia gli fece aprire gli occhi. Dopo un primo momento di torpore riconobbe l' Arco a destra, cui metteva capo il cammino discendente verso Santa Scolastica, Subiaco, Roma; a sinistra il cammino ascendente verso il Sacro Speco. E notò attonito che dall'uno e dall'altro lato, fuori dei lecci, le pietre scoperte erano molto più chiare di prima, che tanti minuti chiarori traforavano il fogliame sopra il suo capo. Giorno? Si fa giorno? Benedetto avrebbe creduto oltrepassata di poco la mezzanotte. Le ore suonano a Santa Scolastica; una, due, tre, quattro. È giorno e sarebbe anche più chiaro se il cielo non fosse tutto una pesante nube dai monti di Subiaco a quelli di Jenne, quantunque non piova più. Un passo da lontano; qualcuno sale verso l'Arco. Era il vaccaro di Santa Scolastica che, per un caso insolito, portava a quell'ora il latte al Sacro Speco. Benedetto lo salutò. Colui all'udir questa voce, tramortì e fu per lasciar cadere il vaso del latte. "Oh, Benedè!" esclamò riconoscendo Benedetto. "Qui, siete?" Benedetto gli chiese un sorso di latte per amor di Dio. "Lo racconterete ai padri" diss'egli. "Direte ch'ero sfinito e che vi ho chiesto un po' di latte per amor di Dio." "Eh sì! eh sta bene! eh pigliate! eh bevete!" fece colui, rispettoso, avendo Benedetto per un Santo. "Che ci avete passato la notte qui? Che ci avete preso tutta quella pioggia? Dio come siete molle! Siete inzuppato come una spugna, siete!" Benedetto bevve. "Benedico Iddio" diss'egli "per la bontà vostra e per la bontà del latte." Lo abbracciò e, anni dopo, il vaccaro, Nazzareno Mercuri, soleva raccontare che mentre Benedetto lo stringeva fra le sue braccia non gli pareva esser lui; che il sangue gli era diventato prima tutto un gelo poi tutto un foco; che il core gli batteva forte forte come la prima volta che aveva ricevuto Cristo in Sacramento; che un gran dolor di capo statogli addosso due giorni gli era sfumato via; che allora egli aveva capito subito di trovarsi nelle braccia di un Santo da miracoli e gli era caduto ginocchioni ai piedi. In fatto non s'inginocchiò ma restò di sasso e Benedetto gli dovette dire due volte: "ora andate, Nazzareno; andate, figliolo caro." Avviatolo amorevolmente così al Sacro Speco, s'incamminò egli stesso verso Santa Scolastica. La petraia chiara era vôta di spiriti buoni e rei. Montagne, nuvole, le stesse fosche mura del monastero e la torre parevano, nella luce scialba, gravi di sonno. Benedetto entrò nell' Ospizio e coricatosi, senza spogliar le vesti bagnate, sul misero giaciglio, si raccolse al petto le braccia in croce, si addormentò profondamente.

ABRAKADABRA STORIA DELL'AVVENIRE

676059
Ghislanzoni, Antonio 1 occorrenze
  • 1884
  • Prima edizione completa di A. BRIGOLA e C. EDITORI
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Abbandonati agli istinti del cuore ... . Poichè mi ami ... poichè hai giurato di esser mia ... . Mia sorella ... mia sposa ... . Tu mi ami: Io sapeva bene che tu non avresti negato questa gioia! ... Le tue fibre sono commosse ... . Allacciami il collo colle tue braccia di neve ... . Che io respiri il fresco alito della tua bocca! ... Le mie labbra erano arse, e la sete di amore mi avrebbe consumato, senza il refrigerio di un tuo ... bacio divino! Così parlando, il Casanova si era impadronito della fanciulla attraendola al proprio petto colla potenza affascinante della volontà. Fidelia, inebbriata da quelle parole, da quelle carezze, si abbandonò a lui come un corpo morto. I dubbi, i terrori erano svaniti. La sua faccia inondata di lacrime era divenuta radiante. In quel momento di suprema illusione, la fanciulla sognava il paradiso. Quel sogno fu un lampo. Nell'amplesso di quella larva adorata, Fidelia si attendeva una inondazione di delizie. Ma appena le labbra dell'avventuriero ebbero sfiorate le sue, la fanciulla arretrò con ribrezzo, mandò dal petto un grido affannoso, e cadde al suolo tramortita. Il bacio di quell'uomo, o piuttosto di quella maschera umana, le era sembrato gelido come il bacio di un morto. Tutta questa scena era passata rapidamente, mentre le sorelle del Circolo, nel compartimento anteriore del palazzo, attendevano che Fidelia ripigliasse la canzone, ovvero ritornasse nella sala per prendere parte al convito. Il grido della fanciulla destò lo sgomento nella piccola comitiva. L'anziana fece allentare il gran ventaglio, e le amiche di Fidelia accorsero tutte verso la gondola. Quand'esse posero il piede nel gabinetto musicale, il Casanova era già scomparso; nessun indizio, nessuna traccia di lui. Fidelia giaceva a terra coll'abbandono della morte. Le sue chiome, le sue vesti scomposte davano a supporre che ella avesse dovuto soccombere ad un assalto violento. Le fanciulle non si perdettero in vane esclamazioni. Improvvisarono una catena magnetica, e scaricando il loro fluido sulla giacente, in men che non si pensi, la ridonarono alla vita. Fidelia si levò in piedi, girò intorno gli occhi smarriti come chi, risvegliandosi da un orribile sogno, tremi di rivedere una larva. Poi sorrise alle amiche, e appoggiandosi al braccio di Speranza uscì con quella dal gabinetto. - Domani ti dirò tutto - disse Fidelia alla sua prediletta. E per quella serata non si tenne più parola del misterioso avvenimento. Durante la cena, le fanciulle ripresero insensibilmente la loro abituale gaiezza. Fidelia sorrideva alle amiche, e pareva dividere i loro ingenui tripudii. Di tratto in tratto ella trasaliva, portava la mano agli occhi come a rimuovere un velo, a dissipare una nube. E subito, dopo quel gesto, la sua fronte tornava serena, e l'occhio riacquistava la sua luce. Ai primi squilli del richiamo delle vergini quella gioconda comitiva uscì dalla villa Paradiso per disperdersi nei varii compartimenti della città. Fidelia baciò le amiche ad una ad una, e salita in una gondola volante si fece ricondurre al palazzo di famiglia. Quella sera, il Gran Proposto era di umore assai lieto. Quell'inesorabile partigiano delle antiche discipline, che non poteva tollerare nella propria famiglia ciò che egli chiamava insubordinazione legale agli ordini della natura; quel padre severo che non aveva mai perdonato a Fidelia le lunghe assenze notturne, mosse ad incontrarla con volto radiante, l'accolse con insolita profusione di amorevolezze. C'era qualche cosa di misterioso, qualche cosa di sinistro nella bonomia di quel vecchio. Le sue carezze parvero a Fidelia una affettazione di cattivo augurio, ond'ella, per sottrarsi a quell'impeto di tenerezza paterna, pose in campo un pretesto e ritirossi nel suo appartamento. Il Gran Proposto, dopo averla accompagnata com'era suo costume, e salutata col bacio del buon sogno rientrò nel suo gabinetto. Sullo scrittoio del primo funzionario dell'Olona stava spiegato un dispaccio portante il timbro del Ministero di Sorveglianza pubblica. Erano poche linee di scrittura, ma il vecchio non si saziava di rileggerle, e pareva che da quel foglio uscisse un riflesso di beatitudine ad irradiargli tutto il volto. Il dispaccio era così concepito: «Onorevole Gran Proposto, «Ho la soddisfazione di annunziarvi che il nostro zelo, le nostre sollecitudini, la nostra pertinacia hanno trionfato di ogni difficoltà. Redento Albani ha violato la legge di dilazione. Questa notte egli era a Milano, ha visitato la Villa Paradiso si è intrattenuto col Custode-direttore, ed ebbe anche un segreto colloquio con vostra figlia nel piccolo gabinetto musicale addetto alla villa stessa. Non è mestieri che io vi aggiunga altre parole; vostra onorevolezza sa troppo bene ciò che le resta a fare. Aggradite, onorandissimo Gran Proposto, gli umili ossequi del vostro subordinato devotissimo, e comandatemi in ogni occasione. «Dato dal primo gabinetto di Sorveglianza pubblica la notte del ventisette settembre 19 ... «TORRESANI DEGLI EX-BARONI.»

Dacia Maraini al Festival Internazionale

678051
Maraini, Dacia 1 occorrenze

La parola con cui si bollavano gli scrittori che ancora si ostinavano a usare la trama era "naturalista" e tanti romanzieri furono dichiarati con disprezzo "naturalisti", e con questo abbandonati alla loro misera sorte. Ma dopo qualche anno di sperimentazione, di rifiuto della psicologia e dell'intreccio, si scoprì che lo spazio letterario era diventato povero e asfittico. E così qualcuno ebbe il coraggio di domandarsi: ma chi ha detto che il romanzo è morto? Il romanzo è semplicemente un modo di raccontare la realtà e finché saremo al mondo avremo bisogno di questo tessere e ritessere di parole che interrogano il nostro stare al mondo. È vero che la realtà è inconoscibile e irrapresentabile, ma i tentativi di fermare sul foglio qualcosa di questa complessità, sapendo della difficoltà a cui si va incontro e dell'imprecisione di ogni descrizione, sono ancora generose dimostrazioni di amore per la vita. Nessuno pensa che Monet, tanto per fare un esempio, descrivesse oggettivamente il suo mondo. E nemmeno che lo facesse Piero della Francesca, o Rembrandt, o Picasso. Ma pure, dalle loro personalissime descrizioni di case, campi, persone, boschi, fiori, frutti, divani e cuscini, noi sappiamo oggi cos'era l'Ottocento o il Cinquecento o il Novecento in Europa e lo sappiamo mettendo in moto i sensi, l'inquietudine e la profondità dei sensi. Mentre in un quadro però basta una mano appoggiata su un piatto, basta un profilo, un ponte, una vela, basta un'onda a definire il mistero della durata, il romanzo, anche il più stilizzato, ha un nodo da sciogliere, intreccia una serie di legami fra i personaggi, e questi legami pretendono un tempo anche cartaceo per svilupparsi, per estendersi, per esplodere o per morire lentamente di consunzione. Una storia chiede la descrizione di rapporti che mutano, di eventi ed enigmi che vanno risolti. Alla fine il moto narrativo si concentrerà su una metamorfosi e, come tale, ripeterà il gesto monotono ma sempre nuovo delle tre Parche che filano, intrecciano e poi recidono con crudeltà celeste tanti destini umani. Dice Virginia Woolf in una lettera: "devo fare morire il mio personaggio, perché la sua morte metterà in evidenza la vita degli altri". Come dire che da una assenza, da un vuoto, può sortire un pieno, un cibo di cui nutrirsi e felicitarsi. Il bambino che appena comincia a parlare, chiede alla madre "mi racconti una storia!", è già entrato nello sgrovigliato rapporto fra passato e futuro. Senza neanche saperlo, ha scoperto che le cose hanno un inizio ovvero un passato, uno svolgimento, ovvero un presente e una fine che è il futuro. Ma ogni fine, se raccontabile, è anche un nuovo inizio. Da questa consapevolezza prende avvio l'iniziazione alla conoscenza del tempo. Che potrà presentarsi come una musica danzante, come una garrotta che stringe sempre più la gola, o come una visione di ali che precipitano o ancora come la minuscola impronta di una formica sulla cenere. Ascoltando storie di altri, che siano vere o inventate, il bambino comincerà a tracciare una rete che lo legherà all'universo degli adulti e dei significati. Il Padre Tempo, con la sua lunga barba riccioluta, farà i suoi scherzi, perché, come tutti i padri, ama giocare e divertirsi alle spalle dei figli inconsapevoli. È un padre che non conosce la fedeltà, indifferente al passato e sordo al futuro. Chiuso nella sua dannazione di padre senza giovinezza, perché noi l'abbiamo voluto volubile e cieco, lontano e spietato, ma forse anche dolcissimo e paterno, privo di autonomia, legato com'è alla fantasia spumosa dei viventi.

Teresa

678463
Neera 1 occorrenze
  • 1897
  • CASA EDITRICE GALLI
  • prosa letteraria
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Non un grido d'uccello, non un fruscìo d'ali, non un canto di villanella; dovunque il silenzio altissimo del mezzogiorno, il silenzio dei campi abbandonati, della natura riposante, dei boschi muti e misteriosi. Teresina rinnovò la sua domanda: - C'è molto? E questa volta la zia rispose: - Poco. Quando, a Marcaria, abbassarono il ponte levatoio, e la carrozza passò l'Oglio su quell'arnese irrugginito, poco mancò che Teresina non gridasse per la meraviglia. Lì veramente ci voleva suo fratello Carlino. Quanto a lei, aveva un'idea molto vaga ed incompleta dei ponti levatoi, né la sua fantasia limitata poteva suggerirle fantasmi medievali; ma le parve tuttavia una cosa strana, degna di essere ricordata quando avrebbe fatto, a casa, il racconto del suo viaggio. Lo zio l'aspettava, immobile, seduto sovra una poltrona, colle gambe distese attraverso una seggioletta di paglia. Era un vecchione alto e robusto, con folti capelli ispidi, occhi furbi e bocca sensuale. Guardò subito la nipote, istintivamente, coll'occhiata rapida e sicura dell'antico donnaiolo. Sua moglie gli si fece dappresso, con molta premura, domandandogli come stava, e se le gambe andavano bene. Egli fece udire un sordo brontolìo, dimenando il capo, intanto che colle mani si palpava le ginocchia. Teresina, con uno slancio di bontà, gli gettò le braccia al collo, e baciandolo, a caso, incontrò le labbra gelide del vecchio; subito si ritrasse ma egli gettò un lieve grido di piacere, guardandola cogli occhi luccicanti, ringraziandola; finché un sordo richiamo del suo male gli fece riportare le mani ai ginocchi, crollando il capo. - Ho fatto bene a condurla? - chiese la zia Rosa, a voce bassa. Accennò di sì. - Prospero è in buona salute; così pure sua moglie e tutti i figli. Mi hanno detto di salutarti. Nuovo accenno del capo. - Questa poverina non ha mai veduto nulla, fa una vita da vecchia in casa sua; sai le idee di Prospero. Il vecchione sollevò il capo, improvvisamente, chiedendo: - Quanti anni ha? - Sedici compiuti. Quelle parole: "sedici anni", si fermarono nell'aria, come sospese sulla testa dei due coniugi, che si guardarono un momento, colpiti dalle stesse riflessioni. La zia Rosa sospirò, placidamente, colle mani abbandonate sul grembo. Suo marito fece una smorfia rabbiosa, e tornò a fregarsi i ginocchi, coll'occhio fisso e le labbra pendenti. Intanto Teresina era corsa all'uscio, che da quella stanza terrena metteva nel giardino. Era uno sprazzo di luce, di verde, di rosai fioriti; un bel bracco dormiva al sole, due gattini novelli scherzavano con un fuscellino. Teresina sorrise, sorrise al sole, ai fiori, alla propria giovinezza che si irradiava su ogni oggetto circostante. Si sentiva forte, aveva appetito, aveva nelle gambe un formicolìo di vita esuberante, i polsi le martellavano deliziosamente, con un ritornello gaio, pieno di promesse. Quando la zia la chiamò, ella corse a salti, come un capriolo, compromettendo la gravità del suo abito a strascico, che portava per la prima volta, tanto felice, tanto felice che se le avessero detto di volare, ne avrebbe fatto subito la prova. - E cosí? Ti annoi? - interrogò la zia Rosa, col suo accento benevolo di vecchia mamma - questa è una casa un po' triste per una giovinetta. - No, no, oh no. Così protestava Teresina, sinceramente, gustando la gioia, nuova per lei, di un riposo assoluto - guardandosi attorno, curiosa, in quella gran stanza vuota, un po' fredda, un po' ammuffita, dove le figure calme dei due vecchi sembravano sopravvivere a una quantità di memorie distrutte. - Questo è il banco, - disse la zia additando un grosso banco di quercia annerito - il banco del negozio. - Ah sì? - Questo è il divano dove il mio penultimo figlio, Giovanni, stette infermo sette mesi. - Poverino! - Quel quadro, vedi, quel quadro ricamato, la Madonna dei dolori? Fu il lavoro per gli esami della mia povera Giudittina, l'ultimo anno che stette in collegio. - Bello! - Osserva le mani; solamente per le mani lavorò due mesi e mezzo. - Ooh! Davvero? E Teresina rimase estatica davanti a tutti quei ricordi, dolcemente commossa; finché lo zio, puntellandosi a stento sui braccioli della poltrona, fece atto di levarsi. - Sarà ora di andare a tavola; il tocco è suonato, e questa ragazza deve aver fame. Poi le gettò un'occhiata indefinibile, borbottando fra le labbra sdentate ... - Sedici anni!

Pagina 60

CAINO E ABELE

678774
Perodi, Emma 1 occorrenze

Telegrafi allora; ma gli dica che il pericolo è scongiurato, - rispose Franco il quale non pensava ad altro che ai suoi interessi che sarebbero rimasti abbandonati se Roberto fosse partito.

LE NOVELLE DELLA NONNA. Fiabe fantastiche

679089
Perodi, Emma 1 occorrenze
  • 1992
  • Newton Compton Editori s.r.l.
  • prosa letteraria
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Venne la domenica, giorno in cui il Romito soleva recarsi a Bibbiena, e gli abitanti, non vedendolo giungere, incominciarono a pensare che egli pure li avesse abbandonati, e, ritenendo inutili le preghiere, si diedero a mormorare contro il cielo e contro i santi. - A che ci è valsa la nostra devozione, se nessuno ci aiuta? - dicevano molti, che avevano veduti spirare i loro cari fra atroci spasimi, in seguito alle morsicature delle vipere. Intanto, nella lotta per non morire di fame, avvenivano risse; gli antichi rancori si riaccendevano e la gente, inferocita dallo spavento, dai dolori e dalle sofferenze, si allontanava dalla via del bene. Satana credé giunto il momento di impossessarsi di tutte le anime, e un giorno bussò alle porte della città. Aveva lasciato l'abito nero e nascondeva il volto maligno sotto il cappuccio di un frate francescano. - Chi è? - domandò l'uomo cui era affidata la guardia della porta. - Sono un francescano, - disse il Diavolo, facendo la voce umile. - Apritemi e vi libererò dal flagello che vi colpisce, Il guardiano della porta corse per il paese, cercando i cittadini più cospicui per riferir loro l'accaduto. Essi deliberarono che era meglio aprir subito, e mossero verso la porta, che si spalancò per lasciar entrare il finto frate. - Io vi prometto, - egli disse, - di liberare Bibbiena in poche ore dal flagello; ma voi dovete promettermi di non fare entrare più il Romito nel recinto della città; è lui che ha attirato sopra questo povero paese tanta maledizione. In quel momento i Bibbienesi dimenticarono i beneficî ricevuti dal pio Romito, e promisero tutto ciò che esigeva colui che si proclamava apportatore di salvezza. Il Diavolo incominciò a girare per le vie, a penetrare per le case e nei giardini pronunziando misteriose parole, che nessuno capiva. Però, a quelle parole, serpi, vipere, ramarri, salamandre, grosse lucertole, rospi e bòtte uscivano dai loro nascondigli, salivano su dai pozzi e dalle cisterne, sbucavano dalle tane, e intorno al frate si formava uno stuolo di quei ributtanti animali. Quando egli ebbe esplorato ogni luogo, mosse, seguìto da quel lurido corteo, verso la parte della città dalla quale era entrato, e, sceso nella pianura, disperse tutti i rettili pronunziando altre magiche parole. Dall'alto delle torri della città i Bibbienesi lo avevano seguìto con lo sguardo, e appena lo videro solo, gli andarono incontro riconducendolo a Bibbiena con grandi onori. Fu mandata subito gente nei paesi vicini a far provvista di vettovaglie, e la sera i signori della città offrirono al loro liberatore un banchetto. Il vino bevuto in grande quantità, dette alla testa a molti; nacquero delle dispute, un uomo fu ucciso, le osterie si ripopolarono, si riprese a giuocare, a bestemmiare, e nessuno pensava più al Romito né alle massime di pace, di rassegnazione e di carità che egli aveva predicato per tanto tempo. Una famiglia sola non partecipò alla baldoria generale. Questa famiglia si componeva di un vecchio padre e di due figli, i quali, prima che il Romito facesse udire la sua voce persuasiva ed ispirata, vivevano in continua discordia, con grande amarezza del vecchio. Un giorno, nel calore di una disputa, il maggiore di essi aveva preso un coltello ed erasi avventato contro il suo secondogenito, ferendolo al viso. La cicatrice di quella coltellata era ancora visibile, e il feroce e barbaro giovane, ora che si era pentito, la guardava di continuo. Appena un lampo di risentimento contro il fratello gli offuscava la ragione, la vista di quella ferita bastava a calmarlo e a suggerirgli sentimenti miti e buoni. Il vecchio e i due fratelli, udendo che il patto della liberazione di Bibbiena dal terribile flagello che li aveva colpiti si era che il Romito non riponesse più piede in città, li aveva indotti a non partecipare alla gioia generale e alle feste che si facevano in onore del liberatore. Essi erano tre poveri e rozzi uomini, ma facevano questi ragionamenti: - Se il frate ha paura del Romito, che aveva convertito tutta Bibbiena alla carità, alla tolleranza e al perdono delle offese, vuol dire che è un nemico del nostro bene, un ribaldo, forse il Diavolo in persona. E mentre tutti i cittadini bevevano, cantavano e giuocavano, padre e figli stavano rinchiusi nella loro casetta, pregando il Cielo di non abbandonare la loro città. E le loro preghiere furono udite in Cielo, dove le preci degli umili e dei buoni vengono trasportate dagli Angeli Custodi. E la Madonna s'impietosì sulla sorte di Bibbiena per l'intercessione di quel padre e di quei figli riconciliati dal Romito, e mandò loro una ispirazione. - Perché, - disse un giorno il padre, - non andiamo noi nel bosco a supplicare il Romito di riprendere le sue prediche? Egli, come quelli che sono mossi da vero spirito di carità, saprà affrontare i pericoli e trionferà del Demonio. Andiamo. E mentre la città era tutta immersa nei tripudî e nei sollazzi, il vecchio e i suoi due figli ne varcarono le mura, e andarono nel bosco. - Santo vecchio, - dissero allorché furono alla presenza del Romito, - perché hai abbandonata la nostra Bibbiena? - Io non avrei altro desiderio che quello di ritornarvi; - rispose il Romito, - ma il Diavolo vi ha stabilito il suo dominio e ogni tentativo per sloggiarlo mi pare inutile. - Vieni e tenta di cacciarlo. La fede non ti può mancare, e la fede opera miracoli. Il Romito pronunziò una breve preghiera, invocando l'aiuto del Cielo sulla impresa sua, e, accompagnato dai tre uomini, salì a Bibbiena. Nessuno guardava più le porte, perché il popolo faceva continua baldoria, e il Romito poté giungere sulla piazza della Pieve, senza che alcuno lo riconoscesse. Ma invano egli fece udire la sua voce dolce e persuasiva. Intorno a lui non vi erano altro che il padre e i due figli; il popolo, adunato nelle osterie e schiamazzante, non poteva afferrare le parole del santo uomo, il quale tornò nel bosco dopo lungo predicare. Però il Diavolo, che sapeva tutto ciò che avveniva in città, fu informato che i Bibbienesi non avevano tenuto il patto, e, adunatili la sera sulla piazza, li rimproverò acerbamente, minacciandoli di una nuova invasione di rettili, e designò i tre colpevoli, i quali vennero legati dal popolo inferocito, e rinchiusi in una prigione sotterranea. Ciò nonostante, il Romito tornò a Bibbiena dopo pochi giorni, attrattovi dalla carità verso quel misero popolo, e si mise di nuovo a predicare in piazza. Questa volta il suo uditorio si componeva di una vecchia, abbandonata nella miseria dai figli, i quali non lavoravan più per andare all'osteria a giuocare e a bere, e della moglie di un uomo ucciso in rissa. Le due povere donne piansero amaramente alle parole del Romito, il quale cercò di consolarle come meglio poteva. Anche questa volta il Diavolo fu informato di tutto, e disse fra sé: - Qui ci vuole un esempio, se no Bibbiena mi sfugge dalle mani. E appena calò la sera fece apparire sulla città tante lingue di fuoco che, abbassandosi, lambirono le mura e i tetti delle case. La gente, impaurita, temendo che l'incendio distruggesse le loro abitazioni, corse nelle vie e nelle piazze urlando e strascicandosi dietro i bambini. Il finto frate s'insinuò tra la folla e incominciò a pronunziare misteriose parole, che i grandi non udivano, ma che i piccini capivano bene. Con quelle parole prometteva loro giuochi, sollazzi, ghiottornie, ogni cosa che alletta la fantasia dei bimbi. E questi gli correvano intorno giulivi e lo seguivano. Quando ebbe radunati tutti coloro che potevano camminare, uscì da Bibbiena e si diresse verso un bosco, dove sapeva che vi era una grotta immensa, praticata nei fianchi di un monte, e ve li rinchiuse. Allora le lingue di fuoco cessarono di lambire le case, e la gente, dopo aver domato alcuni incendi prodotti da quelle, si diede a cercare i bambini. Le donne correvano sgomente per le vie chiamandoli con alte grida, gli uomini si spingevano fuori del paese, frugavano i boschi, urlavano, ma nessuna voce infantile rispondeva al loro appello e soltanto l'eco dei boschi ripeteva quei suoni desolati. Il finto frate, dopo aver compiuto il ratto dei bambini, ritornò in paese fra la gente afflitta e sconsolata. Appena i Bibbienesi lo videro, rammentando che li aveva liberati dai rettili, ricorsero a lui. - Rendeteci i nostri bimbi, - supplicarono essi, - e la nostra gratitudine sarà eterna. Il Diavolo fece un ghigno spaventoso. - Due volte, - egli rispose, - avete calpestati i nostri patti; due volte il Romito ha predicato in piazza. - Abbiamo punito coloro che lo fecero venire la prima volta, - risposero gli afflitti cittadini. - Ma non avete punito le donne che lo hanno ascoltato la seconda; mettetele a morte. - E chi sono? - domandò la folla. Il Diavolo le nominò. - Voi chiedete troppo, - risposero i cittadini, - la prima è una infelice già abbastanza provata dalla sventura; la seconda è una povera vedova; lasciatele dunque vivere, giacché non hanno mai fatto alcun male a nessuno. - Riflettete, - disse il Diavolo. - Se le ucciderete, i vostri bimbi ritorneranno in paese; se le lascerete vivere, non li vedrete più. Il finto frate, dopo aver pronunziate queste parole, sparì. I cittadini rimasero perplessi. Però non potevano risolversi a mettere a morte due innocenti; no, non potevano. - Il loro sangue ricadrebbe su noi in tanta maledizione, - dicevano i più saggi, - lasciamole vivere; Iddio ci renderà i nostri figli. E inteneriti e resi migliori da quella grande sventura, si riversarono nelle chiese, si prostrarono dinanzi agli altari e ripresero a recitare le preci che eran soliti innalzare a Dio allorché il Romito era di continuo in mezzo a loro, sostenendoli con la dolce e persuasiva sua parola. E spinti di nuovo sulla via del bene, liberarono i tre prigionieri che avevano condotto a Bibbiena il Romito, e le preci di questi e delle due donne salvate dalla carità popolare, operarono un vero miracolo. Il Romito, nella sua capannuccia, ebbe un avvertimento nel sonno. Egli si sentì chiamare da una voce celeste, che gli disse: - Va' in città; lassù hanno bisogno di te. Il Romito si alzò nel cuor della notte dal suo giaciglio di foglie secche, e si avviò, in mezzo alle tenebre, verso Bibbiena. Il Diavolo però, che non lo perdeva di vista, gli suscitò contro una quantità di ostacoli. Prima di tutto il sant'uomo fu avvolto da una nebbia impenetrabile, ed egli, in mezzo alle alte piante, non trovava il sentiero battuto tante volte, di modo che dovette fermarsi per non camminare in una direzione opposta alla sua mèta, attendendo che sorgesse il sole. Poi, quando questo ebbe diradata la nebbia, si scatenò all'improvviso un temporale fortissimo. Fulmini spaventosi squarciavano le nubi, il vento turbinoso schiantava gli alberi, l'acqua torrenziale convertiva in fiumi i rigagnoli, la grandine percuoteva il volto del viandante, il quale dovette di nuovo fermarsi. Quando il temporale si fu sfogato, due serpenti, sbucati fuori da un ciuffo di felci, gli si avviticchiarono alle gambe, in modo che egli non poteva più camminare. Allora il Romito, supponendo che tutti quegli ostacoli fossero creati dal Diavolo, toccò con la croce i due rettili spaventosi, e questi si sviticchiarono e fuggirono via. Da quel momento egli poté continuare il cammino senza ostacoli, e giunse a Bibbiena. Il popolo, vedendolo, gli corse incontro esultante, e inginocchiatosi intorno a lui, gli disse: - Rendeteci i nostri figli; noi siamo peccatori indegni di perdono, ma intercedete per noi. E allora il sant'uomo s'inginocchiò in mezzo alla piazza della Pieve, e il popolo unì le sue preci a quelle di lui. Dopo aver lungamente pregato, il Romito volle venti uomini robusti e disse loro: - Seguitemi. Ed essi lo seguirono giù nella valle, ubbidienti ad ogni suo cenno. Mentre camminavano, egli pregava ancora. Allora si vide una bianca colomba staccarsi da un albero e volare prima verso un balconcino dove erasi affacciata una giovanetta e poi volare dinanzi a lui. Il Romito la seguiva, e finalmente ella si fermò sopra un grosso macigno. - Qui sono i vostri figli, - disse il Romito, - qui deve averli celati il finto frate. E i venti uomini si diedero, con quanta forza avevano, a smovere il macigno, ma non riuscirono neppure a scostarlo. - Qui è inutile arrabattarsi, - dissero, - ci vogliono delle corde e diverse paia di manzi! E lasciando il Romito a guardia del luogo, gli altri tornarono al paese a provvedersi dell'occorrente. La colomba intanto non si moveva dal posto ov'erasi posata, come per dire che i piccini di Bibbiena erano lì davvero. E vi rimase finché gli uomini andati in città non furono tornati con cinque coppie di bei manzi alti e poderosi, e muniti di corde e di catene. Avvolsero queste intorno al macigno, vi legarono le corde, e i buoi si misero a tirare; ma tira tira, il sasso non si moveva. Gli uomini sudavano freddo, il Romito era sgomento, e i buoi, stanchi, si rifiutavano di tirare ancora. - Figli miei, - disse il sant'uomo, - mi accorgo che il macigno è sigillato al monte da una forza soprannaturale. Andate, abbiate fede, e se le mie preci saranno ascoltate lassù ove tutto si può, io vi ricondurrò a Bibbiena i vostri figliuoli. Fra i venti uomini andati nel bosco a liberare i bambini, v'erano i due giovani figli del vecchio, quelli, cioè che nonostante il divieto del finto frate, avevano ricondotto il Romito a Bibbiena ed erano stati rinchiusi in prigione. Essi pregarono il santo vecchio di conceder loro di rimanere a fargli compagnia, e il Romito non seppe rifiutare a quei due buoni giovani ciò che gli chiedevano. Gli altri diciotto se ne tornarono dunque in paese a testa bassa, tutti pensosi, disperando quasi di rivedere i loro piccini, e non sapendo come dar la dolorosa notizia, che non erano riusciti a nulla, alle mamme ansiose e piangenti. Il Romito, appena rimasto solo con i due fratelli, disse: - Figli miei, preparatevi a passar una notte angosciosa; il Diavolo cercherà di sgomentarci con ogni mezzo. - Siamo pronti a tutto, - essi risposero. Appena le ombre della sera si allungarono sul bosco, un'aquila gigantesca incominciò a descrivere giri attorno al macigno. La bianca colomba, spaventata, volò via, ma l'aquila la inseguì e la ghermì. Un grido straziante echeggiò nel bosco, indicando che l'innocente uccello era stato vittima del suo poderoso aggressore. Poco dopo il bosco fu pieno di urli di lupo. Pareva che quei famelici animali fossero scesi a branchi dalle vette più alte in cerca di cibo. Uno di essi si accostò ai due fratelli, con la bocca spalancata, pronto ad azzannarli, ma il Romito si fece avanti coraggiosamente e invece di lanciargli contro un sasso, lo toccò con la croce del rosario. L'animale barcollò e diedesi a fuga precipitosa. Allora, sul macigno comparvero due diavoli, che mandavano fuoco dagli occhi e dalla bocca e tenevano a distanza chiunque per il fetore che emanava dai loro corpi. Il Romito alzò la mano e fece tre grandi croci nell'aria, e subito i diavoli sparirono. Ma le prove dei tre uomini non eran terminate, e poco dopo che avevano visto sparire i diavoli, si presentò Satana in persona, non più sotto le sembianze del frate francescano, ma con la sua effigie stessa, spaventosa a vedersi. - Romito, - diss'egli, - tu hai troppo potere sull'animo dei mortali; io non voglio che tu continui a vivere. - Io vivrò finché piacerà al Signore Iddio di tenermi su questa terra e con l'aiuto del Cielo spero che la mia anima non ti apparterrà mai. Il Diavolo pronunziò due parole magiche, due sole, e una schiera di demoni s'impossessò del vecchio e diedesi a soffiargli fuoco sulle carni. Queste bruciavano orribilmente, e il santo vecchio pregava, con lo sguardo rivolto al cielo. A un tratto comparve su quello una stella luminosa che via via si avvicinava alla terra spandendo una luce più mite del sole, ma egualmente bella. Quella stella si fermò di fronte al Romito e lo avvolse tutto nei suoi raggi, come avvolse il macigno, il quale incominciò a liquefarsi come se fosse stato di cera molle esposta al fuoco. Quando il macigno, ridotto liquido, ebbe lasciato aperto l'ingresso della grotta, la stella lentamente si allontanò per andarsi a confondere con le sue sorelle del cielo. Allora il Romito, cessando di pregare, chiamò a sé i compagni e disse loro: - Andiamo, con l'aiuto di Dio. E s'internarono nelle viscere della terra. Giunti che furono a una vôlta bassissima, sotto la quale bisognava andar carponi, la stella ricomparve, e i raggi di lei, invece di battere in faccia al Romito e ai due fratelli, si mossero verso il punto opposto. - Là, là debbono essere i bambini, - disse il santo vecchio, e strisciando il corpo sul terreno si avanzò seguìto dai compagni. Giunto nel punto in cui la vôlta toccava quasi il suolo, il Romito vide una pietra posata in modo da far supporre che al di là vi fosse una grotta, e rimossala fu sorpreso di scorgere una specie di sala che prendeva luce dall'alto, nella quale centinaia di bambini erano distesi per terra come morti. La stella allora li toccò con i suoi raggi, ed essi, stropicciandosi gli occhi, si alzarono e vedendo aperta la porta della prigione, ne uscirono frettolosi, curvandosi per passare. Il Romito li trattenne e disse loro di lasciarlo prima uscire con i due giovani ed essi sarebbero venuti poi; i bimbi si fermarono ubbidienti, poi lo seguirono in silenzio. Giunti che furono all'imboccatura della camera, la stella, che fino allora aveva rischiarate le buie gallerie, s'alzò splendente nel cielo e andò a posarsi sulla città di Bibbiena. Gli abitanti, vedendola, sperarono subito che essa fosse annunziatrice di felicità e mossero incontro al Romito. Questi camminava in mezzo alla turba dei bimbi, esultanti per la ricuperata libertà. Così lo videro i Bibbienesi da lungi. Impossibile descrivere la loro gioia. Ognuno chiamava a nome i figli, ognuno se li prendeva fra le braccia, e quando furono tornati in paese, le grida, le esclamazioni, i pianti delle mamme coprirono ogni altro rumore. Il Romito riprese da quel tempo le sue prediche, e Bibbiena ebbe un lungo periodo di calma dovuta alle parole del santo vecchio. Il Diavolo, per quanto facesse onde combatterne il potere, rimase sempre vinto e scorbacchiato e dovette rinunziare all'impresa, aspettando rabbiosamente che il Romito morisse. E quando questi ebbe chiusi gli occhi nella pace del Signore, tornò a regnare in Bibbiena, come regna in molti paesi, ove non c'è un'anima santa per tenerlo lontano. - E qui la novella è finita, bambini, - disse la Regina, - e forse per qualche settimana non ne racconterò altre. - Perché? - domandarono essi. - Perché la signora Durini mi vuole per un po' di tempo a Camaldoli per insegnarle a conservare le frutta, e io non posso rifiutarle questo favore. I bimbi fecero il broncio, ma tacquero, perché erano assuefatti a rispettare la volontà della nonna.

MEMORIE DEL PRESBITERIO SCENE DI PROVINCIA

679331
Praga, Emilio 1 occorrenze
  • 1881
  • F. CASANOVA. LIBRAIO - EDITORE
  • prosa letteraria
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E abbandonati i fornelli, e accostatasi ad una scranna, la povera creatura cadde ginocchioni. O memoria della mia giovinezza! .... Contemplai per un istante quella testa grigia, e involontariamente piegai un ginocchio al suo fianco. Fu in questa posizione che trovommi in casa sua il curato di Sulzena.

La tregua

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Levi, Primo 5 occorrenze

Perciò tutti i prigionieri sani furono evacuati, in condizioni spaventose, su Buchenwald e su Mauthausen, mentre i malati furono abbandonati a loro stessi. Da vari indizi è lecito dedurre la originaria intenzione tedesca di non lasciare nei campi di concentramento nessun uomo vivo; ma un violento attacco aereo notturno, e la rapidità dell' avanzata russa, indussero i tedeschi a mutare pensiero, e a prendere la fuga lasciando incompiuto il loro dovere e la loro opera. Nell' infermeria del Lager di Buna-Monowitz eravamo rimasti in ottocento. Di questi, circa cinquecento morirono delle loro malattie, di freddo e di fame prima che arrivassero i russi, ed altri duecento, malgrado i soccorsi, nei giorni immediatamente successivi. La prima pattuglia russa giunse in vista del campo verso il mezzogiorno del 27 gennaio 1945. Fummo Charles ed io i primi a scorgerla: stavamo trasportando alla fossa comune il corpo di Sòmogyi, il primo dei morti fra i nostri compagni di camera. Rovesciammo la barella sulla neve corrotta, ché la fossa era ormai piena, ed altra sepoltura non si dava: Charles si tolse il berretto, a salutare i vivi e i morti. Erano quattro giovani soldati a cavallo, che procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati, lungo la strada che limitava il campo. Quando giunsero ai reticolati, sostarono a guardare, scambiandosi parole brevi e timide, e volgendo sguardi legati da uno strano imbarazzo sui cadaveri scomposti, sulle baracche sconquassate, e su noi pochi vivi. A noi parevano mirabilmente corporei e reali, sospesi (la strada era più alta del campo) sui loro enormi cavalli, fra il grigio della neve e il grigio del cielo, immobili sotto le folate di vento umido minaccioso di disgelo. Ci pareva, e così era, che il nulla pieno di morte in cui da dieci giorni ci aggiravamo come astri spenti avesse trovato un suo centro solido, un nucleo di condensazione: quattro uomini armati, ma non armati contro di noi; quattro messaggeri di pace, dai visi rozzi e puerili sotto i pesanti caschi di pelo. Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la stessa vergogna a noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, ed ogni volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio: la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà buona sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa. Così per noi anche l' ora della libertà suonò grave e chiusa, e ci riempì gli animi, ad un tempo, di gioia e di un doloroso senso di pudore, per cui avremmo voluto lavare le nostre coscienze e le nostre memorie della bruttura che vi giaceva: e di pena, perché sentivamo che questo non poteva avvenire, che nulla mai più sarebbe potuto avvenire di così buono e puro da cancellare il nostro passato, e che i segni dell' offesa sarebbero rimasti in noi per sempre, e nei ricordi di chi vi ha assistito, e nei luoghi ove avvenne, e nei racconti che ne avremmo fatti. Poiché, ed è questo il tremendo privilegio della nostra generazione e del mio popolo, nessuno mai ha potuto meglio di noi cogliere la natura insanabile dell' offesa, che dilaga come un contagio. È stolto pensare che la giustizia umana la estingua. Essa è una inesauribile fonte di male: spezza il corpo e l' anima dei sommersi, li spegne e li rende abietti; risale come infamia sugli oppressori, si perpetua come odio nei superstiti, e pullula in mille modi, contro la stessa volontà di tutti, come sete di vendetta, come cedimento morale, come negazione, come stanchezza, come rinuncia. Queste cose, allora mal distinte, e avvertite dai più solo come una improvvisa ondata di fatica mortale, accompagnarono per noi la gioia della liberazione. Perciò pochi fra noi corsero incontro ai salvatori, pochi caddero in preghiera. Charles ed io sostammo in piedi presso la buca ricolma di membra livide, mentre altri abbattevano il reticolato; poi rientrammo con la barella vuota, a portare la notizia ai compagni. Per tutto il resto della giornata non avvenne nulla, cosa che non ci sorprese, ed a cui eravamo da molto tempo avvezzi. Nella nostra camera la cuccetta del morto Sòmogyi fu subito occupata dal vecchio Thylle, con visibile ribrezzo dei miei due compagni francesi. Thylle, per quanto io ne sapevo allora, era un "triangolo rosso", un prigioniero politico tedesco, ed era uno degli anziani del Lager; come tale, aveva appartenuto di diritto alla aristocrazia del campo, non aveva lavorato manualmente (almeno negli ultimi anni), ed aveva ricevuto alimenti e vestiti da casa. Per queste stesse ragioni i "politici" tedeschi erano assai raramente ospiti dell' infermeria, in cui d' altronde godevano di vari privilegi: primo fra tutti, quello di sfuggire alle selezioni. Poiché, al momento della liberazione, era lui l' unico, dalle SS in fuga era stato investito della carica di capobaracca del Block 20, di cui facevano parte, oltre alla nostra camerata di malati altamente infettivi, anche la sezione TBC e la sezione dissenteria. Essendo tedesco, aveva preso molto sul serio questa precaria nomina. Durante i dieci giorni che separarono la partenza delle SS dall' arrivo dei russi, mentre ognuno combatteva la sua ultima battaglia contro la fame, il gelo e la malattia, Thylle aveva fatto diligenti ispezioni del suo nuovissimo feudo, controllando lo stato dei pavimenti e delle gamelle e il numero delle coperte (una per ogni ospite, vivo o morto che fosse). In una delle sue visite alla nostra camera aveva perfino encomiato Arthur per l' ordine e la pulizia che aveva saputo mantenere; Arthur, che non capiva il tedesco, e tanto meno il dialetto sassone di Thylle, gli aveva risposto "vieux dégoûtant" e "putain de boche"; ciononostante Thylle, da quel giorno in poi, con evidente abuso di autorità, aveva preso l' abitudine di venire ogni sera nella nostra camera per servirsi del confortevole bugliolo che vi era installato: in tutto il campo, l' unico alla cui manutenzione si provvedesse regolarmente, e l' unico situato nelle vicinanze di una stufa. Fino a quel giorno, il vecchio Thylle era dunque stato per me un estraneo, e perciò un nemico; inoltre un potente, e perciò un nemico pericoloso. Per la gente come me, vale a dire per la generalità del Lager, altre sfumature non c' erano: durante tutto il lunghissimo anno trascorso in Lager, io non avevo avuto mai né la curiosità né l' occasione di indagare le complesse strutture della gerarchia del campo. Il tenebroso edificio di potenze malvage giaceva tutto al di sopra di noi, e il nostro sguardo era rivolto al suolo. Eppure fu questo Thylle, vecchio militante indurito da cento lotte per il suo partito ed entro il suo partito, e pietrificato da dieci anni di vita feroce ed ambigua in Lager, il compagno e il confidente della mia prima notte di libertà. Per tutto il giorno, avevamo avuto troppo da fare per aver tempo di commentare l' avvenimento, che pure sentivamo segnare il punto cruciale della nostra intera esistenza; e forse, inconsciamente, l' avevamo cercato, il da fare, proprio allo scopo di non aver tempo, perché di fronte alla libertà ci sentivamo smarriti, svuotati, atrofizzati, disadatti alla nostra parte. Ma venne la notte, i compagni ammalati si addormentarono, si addormentarono anche Charles e Arthur del sonno dell' innocenza, poiché erano in Lager da un solo mese, e ancora non ne avevano assorbito il veleno: io solo, benché esausto, non trovavo sonno, a causa della fatica stessa e della malattia. Avevo tutte le membra indolenzite, il sangue mi pulsava convulsamente nel cranio, e mi sentivo invadere dalla febbre. Ma non era solo questo: come se un argine fosse franato, proprio in quell' ora in cui ogni minaccia sembrava venire meno, in cui la speranza di un ritorno alla vita cessava di essere pazzesca, ero sopraffatto da un dolore nuovo e più vasto, prima sepolto e relegato ai margini della coscienza da altri più urgenti dolori: il dolore dell' esilio, della casa lontana, della solitudine, degli amici perduti, della giovinezza perduta, e dello stuolo di cadaveri intorno. Nel mio anno di Buna avevo visto sparire i quattro quinti dei miei compagni, ma non avevo mai subito la presenza concreta, l' assedio della morte, il suo fiato sordido a un passo, fuori della finestra, nella cuccetta accanto, nelle mie stesse vene. Giacevo perciò in un dormiveglia malato e pieno di pensieri funesti. Ma mi accorsi ben presto che qualcun altro vegliava. Ai respiri pesanti dei dormienti si sovrapponeva a tratti un ansito rauco e irregolare, interrotto da colpi di tosse e da gemiti e sospiri soffocati. Thylle piangeva, di un faticoso ed inverecondo pianto di vecchio, insostenibile come una nudità senile. Si avvide forse, nel buio, di un qualche mio movimento; e la solitudine, che fino a quel giorno entrambi, per diversi motivi, avevamo cercato, doveva pesargli quanto a me, poiché a metà della notte mi chiese "Sei sveglio?", e senza attendere la risposta si arrampicò a gran fatica fino alla mia cuccetta, e d' autorità mi sedette accanto. Non era facile intendersi con lui; non solo per ragioni di linguaggio, ma anche perché i pensieri che ci sedevano in petto in quella lunga notte erano smisurati, meravigliosi e terribili, ma soprattutto confusi. Gli dissi che soffrivo di nostalgia; e lui, che aveva smesso di piangere, "dieci anni", mi disse, "dieci anni!": e dopo dieci anni di silenzio, con un filo di voce stridula, grottesco e solenne ad un tempo, prese a cantare l' Internazionale, lasciandomi turbato, diffidente e commosso. Il mattino ci portò i primi segni di libertà. Giunsero (evidentemente precettati dai russi) una ventina di civili polacchi, uomini e donne, che con pochissimo entusiasmo si diedero ad armeggiare per mettere ordine e pulizia fra le baracche e sgomberare i cadaveri. Verso mezzogiorno arrivò un bambino spaurito, che trascinava una mucca per la cavezza; ci fece capire che era per noi, e che la mandavano i russi, indi abbandonò la bestia e fuggì come un baleno. Non saprei dire come, il povero animale venne macellato in pochi minuti, sventrato, squartato, e le sue spoglie si dispersero per tutti i recessi del campo dove si annidavano i superstiti. A partire dal giorno successivo, vedemmo aggirarsi per il campo altre ragazze polacche, pallide di pietà e di ribrezzo: ripulivano i malati e ne curavano alla meglio le piaghe. Accesero anche in mezzo al campo un enorme fuoco, che alimentavano con i rottami delle baracche sfondate, e sul quale cucinavano la zuppa in recipienti di fortuna. Finalmente, al terzo giorno, si vide entrare in campo un carretto a quattro ruote, guidato festosamente da Yankel, uno Häftling: era un giovane ebreo russo, forse l' unico russo fra i superstiti, ed in quanto tale si era trovato naturalmente a rivestire la funzione di interprete e di ufficiale di collegamento coi comandi sovietici. Tra sonori schiocchi di frusta, annunziò che aveva incarico di portare al Lager centrale di Auschwitz, ormai trasformato in un gigantesco lazzaretto, tutti i vivi fra noi, a piccoli gruppi di trenta o quaranta al giorno, e a cominciare dai malati più gravi. Era intanto sopravvenuto il disgelo, che da tanti giorni temevamo, ed a misura che la neve andava scomparendo, il campo si mutava in uno squallido acquitrino. I cadaveri e le immondizie rendevano irrespirabile l' aria nebbiosa e molle. Né la morte aveva cessato di mietere: morivano a decine i malati nelle loro cuccette fredde, e morivano qua e là per le strade fangose, come fulminati, i superstiti più ingordi, i quali, seguendo ciecamente il comando imperioso della nostra antica fame, si erano rimpinzati delle razioni di carne che i russi, tuttora impegnati in combattimenti sul fronte non lontano, facevano irregolarmente pervenire al campo: talora poco, talora nulla, talora in folle abbondanza. Ma di tutto quanto avveniva intorno a me io non mi rendevo conto che in modo saltuario e indistinto. Pareva che la stanchezza e la malattia, come bestie feroci e vili, avessero atteso in agguato il momento in cui mi spogliavo di ogni difesa per assaltarmi alle spalle. Giacevo in un torpore febbrile, cosciente solo a mezzo, assistito fraternamente da Charles e tormentato dalla sete e da acuti dolori alle articolazioni. Non c' erano medici né medicine. Avevo anche male alla gola, e metà della faccia mi era gonfiata: la pelle si era fatta rossa e ruvida, e mi bruciava come per una ustione; forse soffrivo di più malattie ad un tempo. Quando venne il mio turno di salire sul carretto di Yankel, non ero più in grado di reggermi in piedi. Fui issato sul carro da Charles e da Arthur, insieme con un carico di moribondi da cui non mi sentivo molto dissimile. Piovigginava, e il cielo era basso e fosco. Mentre il lento passo dei cavalli di Yankel mi trascinava verso la lontanissima libertà, sfilarono per l' ultima volta sotto i miei occhi le baracche dove avevo sofferto e mi ero maturato, la piazza dell' appello su cui ancora si ergevano, fianco a fianco, la forca e un gigantesco albero di Natale, e la porta della schiavitù, su cui, vane ormai, ancora si leggevano le tre parole della derisione: "Arbeit Macht Frei", "Il lavoro rende liberi".

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Vi trascorsi una sola notte, che ricordo come un incubo; al mattino, i cadaveri nelle cuccette, o abbandonati scomposti sul pavimento, si contavano a dozzine. Il giorno seguente fui trasferito in un locale più piccolo, che conteneva solo venti cuccette: in una di queste giacqui per tre o quattro giorni, oppresso da una febbre altissima, cosciente solo ad intervalli incapace di mangiare, e tormentato da una sete atroce: quinto giorno la febbre era sparita: mi sentivo leggero come una nuvola, affamato e gelato, ma la mia testa era sgombra, gli occhi e gli orecchi come affinati dalla forzata vacanza, ed ero in grado di riprendere contatto col mondo. Nel corso di quei pochi giorni, intorno a me si era verificato un mutamento vistoso. Era stato l' ultimo grande colpo di falce, la chiusura dei conti: i moribondi erano morti, in tutti gli altri la vita ricominciava a scorrere tumultuosamente. Fuori dai vetri, benché nevicasse fitto, le funeste strade del campo non erano più deserte, anzi brulicavano di un viavai alacre, confuso e rumoroso, che sembrava fine a se stesso. Fino a tarda sera si sentivano risuonare grida allegre o iraconde, richiami, canzoni. Ciononostante la mia attenzione, e quella dei miei vicini di letto, raramente riusciva ad eludere la presenza ossessiva, la mortale forza di affermazione del più piccolo ed inerme fra noi, del più innocente, di un bambino di Hurbinek. Hurbinek era un nulla, un figlio della morte un figlio di Auschwitz. Dimostrava tre anni circa, nessuno sapeva niente di lui, non sapeva parlare e non aveva nome: quel curioso nome, Hurbinek, gli era stato assegnato da noi, forse da una delle donne che aveva interpretato con quelle sillabe una delle voci inarticolate che il piccolo ogni tanto emetteva. Era paralizzato dalle reni in giù, ed aveva le gambe atrofiche, sottili come stecchi; ma i suoi occhi persi nel viso triangolare e smunto, saettavano terribilmente vivi, pieni di richiesta, di asserzione, della volontà di scatenarsi, di rompere la tomba del mutismo La parola che gli mancava, che nessuno si era curato di insegnargli, il bisogno della parola, premeva nel suo sguardo con urgenza esplosiva: era uno sguardo selvaggio e umano ad un tempo, anzi maturo e giudice, che nessuno fra noi sapeva sostenere, tanto era carico di forza e di pena. Nessuno, salvo Henek: era il mio vicino di letto, un robusto e florido ragazzo ungherese di quindici anni. Henek passava accanto alla cuccia di Hurbinek metà delle sue giornate. Era materno più che paterno: è assai probabile che, se quella nostra precaria convivenza si fosse protratta al di là di un mese, da Henek Hurbinek avrebbe imparato a parlare; certo meglio che dalle ragazze polacche, troppo tenere e troppo vane, che lo ubriacavano di carezze e di baci, ma fuggivano la sua intimità. Henek invece, tranquillo e testardo, sedeva accanto alla piccola sfinge, immune alla potenza triste che ne emanava; gli portava da mangiare, gli rassettava le coperte, lo ripuliva con mani abili, prive di ripugnanza; e gli parlava, naturalmente in ungherese, con voce lenta e paziente. Dopo una settimana, Henek annunciò con serietà, ma senza ombra di presunzione, che Hurbinek "diceva una parola". Quale parola? Non sapeva, una parola difficile, non ungherese: qualcosa come "mass-klo", "matisklo". Nella notte tendemmo l' orecchio: era vero, dall' angolo di Hurbinek veniva ogni tanto un suono, una parola. Non sempre esattamente la stessa, per verità, ma era certamente una parola articolata; o meglio, parole articolate leggermente diverse, variazioni sperimentali attorno a un tema, a una radice, forse a un nome. Hurbinek continuò finché ebbe vita nei suoi esperimenti ostinati. Nei giorni seguenti, tutti lo ascoltavamo in silenzio, ansiosi di capire, e c' erano fra noi parlatori di tutte le lingue d' Europa: ma la parola di Hurbinek rimase segreta. No, non era certo un messaggio, non una rivelazione: forse era il suo nome, se pure ne aveva avuto uno in sorte; forse ( secondo una delle nostre ipotesi) voleva dire "mangiare", o "pane"; o forse "carne" in boemo, come sosteneva con buoni argomenti uno di noi, che conosceva questa lingua. Hurbinek, che aveva tre anni e forse era nato in Auschwitz e non aveva mai visto un albero; Hurbinek, che aveva combattuto come un uomo, fino all' ultimo respiro, per conquistarsi l' entrata nel mondo degli uomini, da cui una potenza bestiale lo aveva bandito; Hurbinek, il senza-nome, il cui minuscolo avambraccio era pure stato segnato col tatuaggio di Auschwitz; Hurbinek morì ai primi giorni del marzo 1945, libero ma non redento. Nulla resta di lui: egli testimonia attraverso queste mie parole. Henek era un buon compagno, ed una perpetua fonte di sorpresa. Anche il suo nome, come quello di Hurbinek, era convenzionale: il suo nome vero, che era Ko5nig, era stato alterato in Henek, diminutivo polacco di Enrico, dalle due ragazze polacche, le quali, benché più anziane di lui di dieci anni almeno, provavano per Henek una simpatia ambigua che presto divenne desiderio aperto. Henek-König, solo del nostro microcosmo di afflizione, non era né malato né convalescente, anzi, godeva di una splendida sanità di corpo e di spirito. Era di piccola statura e di aspetto mite, ma aveva una muscolatura da atleta; affettuoso e servizievole con Hurbinek e con noi, albergava tuttavia istinti pacatamente sanguinari. Il Lager, trappola mortale, "mulino da ossa" per gli altri, era stato per lui una buona scuola: in pochi mesi aveva fatto di lui un giovane carnivoro pronto, sagace, feroce e prudente. Nelle lunghe ore che trascorremmo insieme, mi narrò l' essenziale della sua breve vita. Era nato ed abitava in una fattoria, in Transilvania, in mezzo al bosco, vicino al confine rumeno. Andava spesso col padre per il bosco, alla domenica, entrambi col fucile. Perché col fucile? per cacciare? Sì, anche per cacciare; ma anche per sparare ai rumeni. E perché sparare ai rumeni? Perché sono rumeni, mi spiegò Henek con semplicità disarmante. Anche loro, ogni tanto, sparavano a noi. Era stato catturato, e deportato ad Auschwitz con tutta la famiglia. Gli altri erano stati uccisi subito: lui aveva dichiarato alle SS di avere diciotto anni e di essere muratore, mentre ne aveva quattordici ed era studente. Così era entrato a Birkenau: ma a Birkenau aveva invece insistito sulla sua età vera, era stato assegnato al Block dei bambini, ed essendo il più anziano e il più robusto era diventato il loro Kapo. I bambini erano a Birkenau come uccelli di passo: dopo pochi giorni, erano trasferiti al Block delle esperienze, o direttamente alle camere a gas. Henek aveva subito capito la situazione, e da buon Kapo si era "organizzato", aveva stabilito solide relazioni con un influente Häftling ungherese, ed era rimasto fino alla liberazione. Quando c' erano selezioni al Block dei bambini era lui che sceglieva. Non provava rimorso? No: perché avrebbe dovuto? esisteva forse un altro modo per sopravvivere? Alla evacuazione del Lager, saviamente si era nascosto: dal suo nascondiglio, attraverso la finestrella di una cantina, aveva visto i tedeschi sgomberare in gran fretta i favolosi magazzini di Auschwitz, e aveva notato come, nel trambusto della partenza, avessero sparso sulla strada una buona quantità di alimenti in scatola. Non si erano attardati a recuperarli, ma avevano cercato di distruggerli passandoci sopra con i cingoli dei loro mezzi corazzati. Molte scatole si erano confitte nel fango e nella neve senza sfasciarsi: a notte, Henek era uscito con un sacco, e aveva radunato un fantastico tesoro di scatole, deformate, appiattite, ma ancora piene: carne, lardo, pesce, frutta, vitamine. Non lo aveva detto a nessuno, naturalmente: lo diceva a me, perché ero suo vicino di letto, e potevo essergli utile come sorvegliante. In effetti, poiché Henek passava molte ore in giro per il Lager, in misteriose faccende, mentre io ero nella impossibilità di muovermi, la mia opera di custodia gli fu abbastanza utile. In me aveva fiducia: sistemò il sacco sotto il mio letto, e nei giorni seguenti mi corrispose una giusta mercede in natura, autorizzandomi a prelevare quelle razioni di conforto che riteneva adatte, come qualità e quantità, alla mia condizione di malato e alla misura dei miei servizi. Non era Hurbinek il solo bambino. Ce n' erano altri, in condizioni di salute relativamente buone: avevano costituito un loro piccolo "club", molto chiuso e riservato, in cui l' intrusione degli adulti era visibilmente sgradita. Erano animaletti selvaggi e giudiziosi, che si intrattenevano fra di loro in lingue che non comprendevo. Il più autorevole membro del clan non aveva più di cinque anni, e si chiamava Peter Pavel. Peter Pavel non parlava con nessuno e non aveva bisogno di nessuno. Era un bel bambino biondo e robusto, dal viso intelligente e impassibile. Al mattino scendeva dalla sua cuccetta, che era al terzo piano, con movimenti lenti ma sicuri, andava alle docce a riempire d' acqua la sua gamella, e si lavava meticolosamente. Spariva poi per tutta la giornata, facendo solo una breve comparsa a mezzogiorno per riscuotere la zuppa in quella stessa sua gamella. Tornava infine per la cena; mangiava, usciva nuovamente, rientrava poco dopo con un vaso da notte, lo collocava nell' angolo dietro la stufa, vi sedeva per qualche minuto, ripartiva col vaso, tornava senza, si arrampicava piano piano al suo posto, sistemava puntigliosamente le coperte e il cuscino, e dormiva fino al mattino senza mutare posizione. Pochi giorni dopo il mio arrivo, vidi con disagio apparire un viso noto; la sagoma patetica e sgradevole del Kleine Kiepura, la mascotte di Buna-Monowitz. Tutti lo conoscevano a Buna: era il più giovane dei prigionieri, non aveva che dodici anni. Tutto era irregolare in lui, a partire dalla sua stessa presenza in Lager, dove di norma i bambini non entravano vivi: nessuno sapeva come e perché vi fosse stato ammesso, e ad un tempo tutti lo sapevano fin troppo. Irregolare era la sua condizione, poiché non marciava al lavoro, ma risiedeva in semiclausura nel Block dei funzionari; vistosamente irregolare, infine, il suo aspetto. Era cresciuto troppo e male: dal busto tozzo e corto sporgevano braccia e gambe lunghissime, da ragno; e di sotto il viso pallido, dai tratti non privi di grazia infantile, balzava in avanti una enorme mandibola più prominente del naso. Il Kleine Kiepura era l' attendente e il protetto del Lager-Kapo, il Kapo di tutti i Kapos. Nessuno lo amava, salvo il suo protettore. All' ombra dell' autorità, ben nutrito e vestito, esente dal lavoro, aveva condotto fino all' ultimo giorno un' esistenza ambigua e frivola di favorito, intessuta di pettegolezzi, di delazioni e di affetti distorti: il suo nome, a torto, come spero, veniva sempre sussurrato nei casi più clamorosi di denunzie anonime alla Sezione politica e alle SS. Perciò tutti lo temevano e lo fuggivano. Ora il Lager-Kapo, destituito di ogni potere, era in marcia verso occidente, e il Kleine Kiepura, convalescente di una leggera malattia, aveva seguito il nostro destino. Ebbe un letto e una scodella, e si inserì nel nostro limbo. Henek ed io gli rivolgemmo poche e caute parole, poiché provavamo verso di lui diffidenza e una pietà ostile; ma quasi non ci rispose. Tacque per due giorni: se ne stava in cuccetta tutto raggomitolato, con lo sguardo fisso nel vuoto e i pugni serrati sul petto. Poi prese ad un tratto a parlare, e rimpiangemmo il suo silenzio. Il Kleine Kiepura parlava da solo, come in sogno: e il suo sogno era di avere fatto carriera, di essere diventato un Kapo. Non si capiva se fosse follia o un gioco puerile e sinistro: senza tregua, dall' alto della sua cuccetta vicino al soffitto, il ragazzo cantava e fischiava le marce di Buna, i ritmi brutali che scandivano i nostri passi stanchi ogni mattina e ogni sera; e vociferava in tedesco imperiosi comandi ad uno stuolo di schiavi inesistenti. _ Alzarsi, porci, avete capito? Rifare i letti, ma presto: pulirsi le scarpe. Tutti adunata, controllo dei pidocchi, controllo dei piedi. Mostrare i piedi, carogne! Di nuovo sporco, tu, sacco di m.: fai attenzione, io non scherzo. Ancora una volta che ti pesco, e te ne vai in crematorio _. Poi, urlando alla maniera dei militari tedeschi: _ In fila, coperti, allineati. Giù il colletto: al passo, seguire la musica. Le mani sulla cucitura dei pantaloni _. E poi ancora, dopo una pausa, con voce arrogante e stridula: _ Questo non è un sanatorio. Questo è un Lager tedesco, si chiama Auschwitz, e non se ne esce che per il Camino. Se ti piace è così; se non ti piace, non hai che da andare a toccare il filo elettrico. Il Kleine Kiepura sparì dopo pochi giorni, con sollievo di tutti. In mezzo a noi, deboli e malati, ma pieni della letizia timida e trepida della libertà ritrovata, la sua presenza offendeva come quella di un cadavere, e la compassione che egli suscitava in noi era commista ad orrore. Tentammo invano di strapparlo al suo delirio: l' infezione del Lager aveva fatto in lui troppa strada. Le due ragazze polacche, che svolgevano ( in realtà assai male) le mansioni di infermiere, si chiamavano Hanka e Jadzia. Hanka era una ex Kapo, come si poteva dedurre dalla sua chioma non rasata, e anche più sicuramente dai suoi modi protervi. Non doveva avere più di ventiquattro anni: era di media statura, di carnagione olivastra e di lineamenti duri e volgari. In quella atmosfera di purgatorio, piena di sofferenze passate e presenti, di speranze e di pietà, passava le giornate davanti allo specchio, o a limarsi le unghie delle mani e dei piedi, o a pavoneggiarsi davanti all' indifferente e ironico Henek. Era, o si considerava, più elevata in grado di Jadzia; ma in verità bastava ben poco per superare in autorità una creatura così dimessa. Jadzia era una ragazza piccola e timida, dal colorito roseo malato; ma il suo involucro di carne anemica era tormentato, lacerato dall' interno, sconvolto da una segreta continua tempesta. Aveva voglia, bisogno, necessità impellente di un uomo, di un uomo qualsiasi, subito, di tutti gli uomini. Ogni maschio che passasse nel suo campo la attirava: la attirava materialmente, pesantemente, come la calamita attira il ferro. Jadzia lo fissava con occhi incantati e attoniti, si alzava dal suo angolo, avanzava verso di lui con passo incerto da sonnambula, ne cercava il contatto; se l' uomo si allontanava, lo seguiva a distanza, in silenzio, per qualche metro, poi, con gli occhi bassi, ritornava alla sua inerzia; se l' uomo la attendeva, Jadzia lo avvolgeva, lo incorporava, ne prendeva possesso, con i movimenti ciechi, muti, tremuli, lenti, ma sicuri, che le amebe manifestano sotto il microscopio. Il suo obiettivo primo e principale era naturalmente Henek: ma Henek non la voleva, la scherniva, la insultava. Tuttavia, da quel ragazzo pratico che era, non si era disinteressato del caso, e ne aveva fatto cenno a Noah, suo grande amico. Noah non abitava nella nostra camerata, anzi, non abitava in nessun luogo e in tutti. Era un uomo nomade e libero, lieto dell' aria che respirava e della terra che calcava. Era il Scheissminister di Auschwitz libera, il Ministro delle latrine e pozzi neri: ma nonostante questo suo incarico da monatto (che d' altronde egli aveva assunto volontariamente) non c' era nulla di turpe in lui, o se qualcosa c' era, era sopraffatto e cancellato dall' impeto del suo vigore vitale. Noah era un giovanissimo pantagruele, forte come un cavallo, vorace e salace. Come Jadzia voleva tutti gli uomini, così Noah voleva tutte le donne: ma mentre la tenue Jadzia si limitava a tendere intorno a sé le sue reti inconsistenti, come un mollusco di scoglio, Noah, uccello d' alto volo, incrociava dall' alba a notte per tutte le strade del campo, a cassetta del suo carro ripugnante, schioccando la frusta e cantando a gola spiegata: il carro sostava davanti all' ingresso di ogni Block, e mentre i suoi gregari, lerci e fetidi, sbrigavano imprecando la loro immonda bisogna, Noah si aggirava per le camerate femminili come un principe d' Oriente, vestito di una giubba arabescata e variopinta, piena di toppe e di alamari. I suoi convegni d' amore sembravano uragani. Era l' amico di tutti gli uomini e l' amante di tutte le donne. Il diluvio era finito: nel cielo nero di Auschwitz Noah vedeva splendere l' arcobaleno, e il mondo era suo, da ripopolare. Frau Vitta, anzi Frau Vita, come tutti la chiamavano, amava invece tutti gli esseri umani di un amore semplice e fraterno. Frau Vita, dal corpo disfatto e dal dolce viso chiaro, era una giovane vedova di Trieste, mezza ebrea, reduce da Birkenau. Passava molte ore accanto al mio letto, parlandomi di mille cose a un tempo con volubilità triestina, ridendo e piangendo: era in buona salute, ma ferita profondamente, ulcerata da quanto aveva subito e visto in un anno di Lager, e in quegli ultimi orribili giorni. Infatti era stata "comandata" al trasporto dei cadaveri, di pezzi di cadaveri, di miserande anonime spoglie, e quelle ultime immagini le pesavano addosso come una montagna: cercava di esorcizzarle, di lavarsene, buttandosi a capofitto in una attività tumultuosa. Era lei la sola che si occupasse dei malati e dei bambini; lo faceva con pietà frenetica, e quando le avanzava tempo lavava i pavimenti e i vetri con furia selvaggia, sciacquava fragorosamente le gamelle e i bicchieri, correva per le camerate a portare messaggi veri o fittizi; tornava poi trafelata, e sedeva ansante sulla mia cuccetta, con gli occhi umidi, affamata di parole, di confidenza, di calore umano. Alla sera quando tutte le opere del giorno erano finite, incapace di resistere alla solitudine, balzava a un tratto dal suo giaciglio, e danzava da sola fra letto e letto, al suono delle sue stesse canzoni, stringendo affettuosamente al petto un uomo immaginario. Fu Frau Vita a chiudere gli occhi a André e ad Antoine. Erano due giovani contadini dei Vosgi, entrambi miei compagni dei dieci giorni di interregno, entrambi ammalati di difterite. Mi sembrava di conoscerli da secoli. Con strano parallelismo, furono colpiti simultaneamente da una forma dissenterica, che presto si rivelò gravissima, di origine tubercolare; e in pochi giorni la bilancia del loro destino diede il tracollo. Erano in due letti vicini, non si lamentavano, sopportavano le coliche atroci a denti stretti, senza comprenderne la natura mortale; parlavano solo fra di loro, timidamente, e non chiedevano soccorso a nessuno. André fu il primo a partire, mentre parlava, a metà di una frase, come si spegne una candela. Per due giorni nessuno venne a rimuoverlo: i bambini lo venivano a guardare con curiosità smarrita, poi continuavano a giocare nel loro angolo. Antoine rimase silenzioso e solo, tutto chiuso in una attesa che lo trasfigurava. Il suo stato di nutrizione era discreto, ma in due giorni subì una metamorfosi struggente, come risucchiato dal vicino. Insieme con Frau Vita riuscimmo, dopo molti tentativi vani, a far venire un dottore: gli chiesi, in tedesco, se c' era qualcosa da fare, se c' erano speranze, e gli raccomandai di non rispondere in francese. Mi rispose in yiddish, con una frase breve che non compresi: allora tradusse in tedesco: "Sein Kamerad ruft ihn", il suo compagno lo chiama. Antoine obbedì al richiamo quella sera stessa. Non avevano ancora vent' anni, ed erano stati in Lager un solo mese. E venne finalmente Olga, in una notte piena di silenzio, a portarmi la notizia funesta del campo di Birkenau, e del destino delle donne del mio trasporto. La attendevo da molti giorni: non la conoscevo di persona, ma Frau Vita, che malgrado i divieti sanitari frequentava anche i malati degli altri reparti, in cerca di pene da alleviare e di colloqui appassionati, ci aveva informati delle rispettive presenze, e aveva organizzato l' illecito incontro, a notte fonda, mentre tutti dormivano. Olga era una partigiana ebrea croata, che nel 1942 si era rifugiata nell' astigiano con la sua famiglia, e qui era stata internata; apparteneva quindi a quella ondata di varie migliaia di ebrei stranieri che avevano trovato ospitalità, e breve pace, nella paradossale Italia di quegli anni, ufficialmente antisemita. Era una donna di grande intelligenza e cultura, forte, bella e consapevole; deportata a Birkenau, vi aveva sopravvissuto, sola della sua famiglia. Parlava l' italiano perfettamente; per gratitudine e per temperamento, si era trovata presto amica delle italiane del campo, e più precisamente di quelle che erano state deportate col mio convoglio. Mi raccontò la loro storia con gli occhi rivolti a terra, a lume di candela. La luce furtiva sottraeva alle tenebre solo il suo viso, accentuandone le rughe precoci, e mutandolo in una maschera tragica. Un fazzoletto le copriva il capo: lo snodò a un tratto, e la maschera si fece macabra come un teschio. Il cranio di Olga era nudo: lo copriva solo una breve peluria grigia. Erano morti tutti. Tutti i bambini e tutti i vecchi, subito. Delle cinquecentocinquanta persone di cui avevo perso notizia all' ingresso in Lager, solo ventinove donne erano state ammesse al campo di Birkenau: di queste, cinque sole erano sopravvissute. Vanda era andata in gas, in piena coscienza, nel mese di ottobre: lei stessa, Olga, le aveva procurato due pastiglie di sonnifero, ma non erano bastate.

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Nessuno li sorvegliava, nessuno li comandava né si prendeva cura di loro: secondo ogni apparenza, erano stati dimenticati, abbandonati puramente alla loro sorte. Erano vestiti di stracci scoloriti, in cui si riconoscevano tuttavia le orgogliose uniformi della Wehrmacht. Avevano visi smunti, abbacinati, selvaggi: avvezzi a vivere, a operare, a combattere entro gli schemi ferrei dell' Autorità, loro sostegno e loro alimento, al cessare dell' autorità stessa si erano trovati impotenti, esanimi. Quei buoni sudditi, buoni esecutori di tutti gli ordini, buoni strumenti del potere, non possedevano in proprio neppure una parcella di potere. Erano svuotati e inerti, come le foglie morte che il vento ammucchia negli angoli riposti: non avevano cercato salute nella fuga. Ci videro, e alcuni fra loro mossero verso noi con passi incerti da automi. Ci chiesero pane: non nella loro lingua, bensì in russo. Rifiutammo, poiché il nostro pane era prezioso. Ma Daniele non rifiutò: Daniele, a cui i tedeschi avevano spento la moglie forte, il fratello, i genitori, e non meno di trenta parenti. Daniele, che della razzia nel ghetto di Venezia era il solo superstite, e che dal giorno della liberazione si nutriva di dolore, trasse un pane, e lo mostrò a quelle larve, e lo depose a terra. Ma pretese che venissero a prenderlo strisciando a terra carponi: il che essi fecero docilmente. Che gruppi di ex prigionieri alleati si fossero imbarcati a Odessa mesi prima, come alcuni russi ci avevano detto, doveva pure essere vero, poiché la stazione di Zmerinka, nostra temporanea e poco intima residenza, ancora ne portava i segni: un arco di trionfo fatto di frasche, ormai appassite, che reggeva la scritta "viva le Nazioni Unite" ed enormi orribili ritratti di Stalin, Roosevelt e Churchill, con motti inneggianti alla vittoria contro il comune nemico. Ma la breve stagione della concordia fra i tre grandi alleati doveva ormai volgere al termine, poiché i ritratti erano stinti e dilavati dalle intemperie, e furono deposti durante il nostro soggiorno. Sopraggiunse un imbianchino: eresse una impalcatura lungo la facciata della stazione, e fece sparire sotto uno strato di intonaco la scritta "Proletari di tutto il mondo, unitevi!" in luogo della quale, con un sottile senso di gelo, lettera dopo lettera ne vedemmo nascere un' altra ben diversa: "Vpere5d na Zapàd", "Avanti verso l' Occidente". Il rimpatrio dei militari alleati era ormai finito, ma altri convogli arrivavano e partivano verso sud sotto i nostri occhi. Erano tradotte russe anche queste, ma ben distinte dalla tradotte militari, gloriose e casalinghe, che avevamo visto transitare per Katowice. Erano le tradotte delle donne ucraine che ritornavano dalla Germania: donne soltanto, poiché gli uomini erano andati soldati o partigiani, oppure i tedeschi li avevano uccisi. Il loro esilio era stato diverso dal nostro, e da quello dei prigionieri di guerra. Non tutte, ma in gran parte, avevano abbandonato "volontariamente" il loro paese. Una volontà coartata, ricattata, distorta dalla menzogna e dalla propaganda nazista sottile e pesante, che minacciava e blandiva dai manifesti, dai giornali, dalla radio: tuttavia una volontà, un assenso. Donne dai sedici ai quarant' anni, centinaia di migliaia, contadine, studentesse, operaie, avevano lasciato i campi devastati, le scuole chiuse, le officine distrutte, per il pane degli invasori. Non poche erano madri, e per il pane avevano lasciato i figli. In Germania avevano trovato il pane, il filo spinato, un duro lavoro, l' ordine tedesco, la servitù e la vergogna: e sotto il peso della vergogna ora rimpatriavano, senza gioia e senza speranza. La Russia vincitrice non aveva indulgenze per loro. Tornavano a casa in carri merci, spesso scoperti, divisi orizzontalmente da un tavolato affinché fosse meglio sfruttato lo spazio: sessanta, ottanta donne per carro. Non avevano bagaglio: solo le vesti logore e stinte che portavano indosso. Corpi giovanili, ancora solidi e sani, ma visi chiusi ed acri, occhi fuggitivi, una conturbante, animalesca umiliazione e rassegnazione nessuna voce usciva da quei viluppi di membra, che si scioglievano pigramente quando i convogli fermavano in stazione. Nessuno le aspettava, nessuno sembrava accorgersi di loro. Di animali umiliati e domati erano la loro inerzia, il loro appartarsi, la loro dolente mancanza di pudore. Noi soli assistevamo con pietà e tristezza al loro passaggio, nuova testimonianza e nuovo aspetto della pestilenza che aveva prostrato l' Europa. Partimmo da Zmerinka alla fine di giugno, oppressi da una greve angoscia che era nata dalla delusione e dalla incertezza del nostro destino, e aveva trovato una oscura risonanza e conferma nelle scene cui a Zmerinka avevamo assistito. Compresi i "rumeni", eravamo millequattrocento italiani. Fummo caricati su una trentina di carri merci, che vennero agganciati ad un convoglio diretto a nord. Nessuno, a Zmerinka, seppe o volle precisarci la nostra destinazione: ma andavamo a nord, via dal mare, via dall' Italia, verso la prigionia, la solitudine, il buio, l' inverno. Malgrado tutto, stimammo buon segno che non ci fossero state distribuite scorte per il viaggio: forse questo non sarebbe stato lungo. viaggiammo infatti per soli due giorni e una notte, con pochissime fermate, attraverso uno scenario maestoso e monotono di steppe deserte, di foreste, di villaggi sperduti, di lente e larghe fiumane. Pigiati nei vagoni merci, si stava scomodi: alla prima sera, approfittando di una fermata, Cesare e io scendemmo a terra, per sgranchirci le gambe e trovare una migliore sistemazione. Notammo che in testa erano vari vagoni passeggeri, e un vagone infermeria: sembrava vuoto. _ Perché non ci saliamo? _ propose Cesare. _ È proibito, _ risposi io insulsamente. Perché infatti doveva essere proibito, e da chi? Del resto, avevamo già potuto constatare in varie occasioni che la religione occidentale (e tedesca in specie) del divieto differenziale non ha radici profonde in Russia. Il vagone infermeria non solo era vuoto, ma offriva raffinatezze da sibariti. Lavatoi efficienti, con acqua e sapone sospensioni dolcissime che attutivano le scosse delle ruote meravigliosi lettini appesi a molle regolabili, completi di lenzuola candide e coperte calde. Al capezzale del letto che avevo scelto, dono supererogatorio del destino , trovai addirittura un libro in italiano: "I ragazzi della via Paal", che non avevo mai letto da bambino. Mentre i compagni già ci dichiaravano dispersi, trascorremmo una notte di sogno. Il treno varcò la Beresina alla fine del secondo giorno di viaggio, mentre il sole, rosso come un granato, calando obliquo fra i tronchi con incantata lentezza, vestiva di luce sanguinosa le acque, i boschi e la pianura epica, cosparsa tuttavia di rottami d' armi e di carriaggi. Il viaggio terminò poche ore dopo, in piena notte, nel culmine di un violento temporale. Fummo fatti scendere sotto il diluvio, in una oscurità assoluta, rotta a tratti dai lampi. Camminammo per mezz' ora in fila indiana, nell' erba e nella melma, ciascuno aggrappato come un cieco all' uomo che lo precedeva, e non so chi guidasse il capofila approdammo infine, bagnati fino alle ossa, in un enorme edificio buio, semidistrutto dai bombardamenti. Continuava a piovere, il pavimento era fangoso e fradicio, e altra acqua cadeva dalle lacune del tetto: attendemmo il giorno in un dormiveglia faticoso e passivo. Sorse un giorno splendido. Uscimmo all' aperto, e solo allora ci accorgemmo di avere pernottato nella platea di un teatro, e di trovarci in un esteso complesso di caserme sovietiche danneggiate e abbandonate. Tutti gli edifici, inoltre, erano stati sottoposti a una devastazione e spoliazione tedescamente meticolosa: le armate germaniche in fuga avevano asportato tutto quanto era asportabile: i serramenti, le inferriate, le ringhiere, gli interi impianti di illuminazione e di riscaldamento, le tubazioni dell' acqua, perfino i paletti del recinto. Dalle pareti era stato estratto fin l' ultimo chiodo. Da un raccordo ferroviario adiacente erano stati divelti i binari e le traversine: con una macchina apposita, ci dissero i russi. Più di un saccheggio, insomma: il genio della distruzione, della controcreazione, qui come ad Auschwitz la mistica del vuoto, al di là di ogni esigenza di guerra o impeto di preda. Ma non avevano potuto asportare gli indimenticabili affreschi che ricoprivano le pareti interne: opere di qualche anonimo poeta-soldato, ingenue, forti e grezze. Tre cavalieri giganti, armati di spade, elmi e mazze, fermi su un' altura, in atto di spingere lo sguardo per uno sterminato orizzonte di terre vergini da conquistare. Stalin, Lenin, Molotov, riprodotti con affetto reverente nelle intenzioni, con audacia sacrilega negli effetti, e riconoscibili precipuamente e rispettivamente per i baffoni, la barbetta e gli occhiali. Un ragno immondo, al centro di una ragnatela grande come la parete: ha un ciuffo nero di traverso fra gli occhi, una svastica sulla groppa, e sotto sta scritto: "Morte agli invasori hitleriani". Un soldato sovietico in catene, alto e biondo, che leva una mano ammanettata a giudicare i suoi giudici: e questi, a centinaia, tutti contro uno, seduti sugli scanni di un tribunale-anfiteatro, sono degli schifosi uomini-insetti, dalle facce gialle e grige, adunche, travolte, macabre come teschi, e si ritraggono l' uno contro l' altro, come lemuri che fuggano la luce, respinti nel nulla dal gesto profetico dell' eroe prigioniero. In queste caserme spettrali, e in parte accampati a cielo aperto nei vasti cortili invasi dall' erba, bivaccavano migliaia di stranieri in transito come noi, appartenenti a tutte le nazioni d' Europa. Il calore benefico del sole incominciava a penetrare la terra umida, e ogni cosa intorno a noi fumava. Mi allontanai dal teatro di qualche centinaio di metri, inoltrandomi in un prato folto dove intendevo spogliarmi e asciugarmi al sole: e nel bel mezzo del prato, quasi mi attendesse, chi vidi se non lui, Mordo Nahum, il mio greco, quasi irriconoscibile per la suntuosa pinguedine e per l' approssimativa uniforme sovietica che indossava: e mi guardava dagli scialbi occhi di gufo, persi nel viso roseo, circolare, rossobarbuto. Mi accolse con cordialità fraterna, lasciando cadere nel vuoto una mia maligna domanda circa le Nazioni Unite che così mal governo avevan fatto di loro greci. Mi chiese come stavo: avevo bisogno di qualcosa? di cibo? di abiti? Sì, non potevo negarlo, avevo bisogno di molte cose. _ Si provvederà, _ mi rispose misterioso e magnanimo: _ io qui conto per qualche cosa _. Fece una breve pausa, e soggiunse: _ Hai bisogno di una donna? Lo guardai interdetto: temevo di non aver capito bene. Ma il greco, in ampio gesto, percorse colla mano tre quarti di orizzonte: e allora mi avvidi che in mezzo all' erba alta, sdraiate al sole, vicine e lontane, giacevano sparse una ventina di vaste fanciulle sonnacchiose. Erano creature bionde e rosee, dalle schiene poderose, dall' ossatura massiccia e dal placido viso bovino, vestite in varie foggie rudimentali e incongrue. _ Vengono dalla Bessarabia, _ mi spiegò il greco: _ sono tutte alle mie dipendenze. Ai russi piacciono così, bianche e spesse. Era una gran pagaille qui prima ma da quando me ne occupo io, tutto va a meraviglia: pulizia, assortimento, discrezione, e nessuna questione per i quattrini. È un buon affare, anche: e qualche volta, moi aussi j' y prends mon plaisir. Mi ritornò a mente, sotto nuova luce, l' episodio dell' uovo sodo, e la sfida sdegnosa del greco: _ Su, dimmi qualche articolo in cui io non abbia mai commerciato! _ No, non avevo bisogno di una donna, o per lo meno non in quel senso. Ci separammo dopo un cordiale colloquio e dopo di allora, essendosi posato il turbine che aveva sconvolto questa vecchia Europa, trascinandola in una contraddanza selvaggia di separazioni e di incontri, non ho più rivisto il mio maestro greco, né ho più sentito parlare di lui.

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Avrebbe dovuto, penso, raccogliere gli esausti: si occupava invece diligentemente di recuperare i bagagli che a mano a mano venivano abbandonati sulla pista da gente che per la stanchezza rinunciava a portarli oltre. Per un poco ci illudemmo che li avrebbe restituiti all' arrivo: ma il primo che provò ad arrestarsi e ad attendere la carretta fu accolto con urla, schiocchi di frusta e minacce inarticolate. In questo modo finirono i due volumi di ostetricia, che costituivano di gran lunga la parte più pesante del mio bagaglio personale. Al tramonto, il nostro gruppo procedeva ormai isolato. Camminavano accanto a me il mite e paziente Leonardo; Daniele, zoppicante ed inferocito dalla sete e dalla stanchezza; il signor Unverdorben, con un suo amico triestino; e Cesare, naturalmente. Ci arrestammo a prendere fiato all' unica curva che interrompeva la fiera monotonia della strada; c' era una capanna scoperchiata, forse l' unico resto visibile di un villaggio spazzato dalla guerra. Dietro, scoprimmo un pozzo, a cui ci dissetammo con voluttà. Eravamo stanchi e avevamo i piedi gonfi e piagati. Io avevo perso da tempo le mie scarpe da arcivescovo, ed avevo ereditato da chissà chi un paio di scarpette da ciclista, leggere come piume; ma mi andavano strette, ed ero costretto a toglierle ad intervalli e a camminare scalzo. Tenemmo un breve consiglio: e se quello ci faceva camminare tutta la notte? Non ci sarebbe stato da stupirsene: una volta a Katowice i russi ci avevano fatto scaricare stivali da un treno per ventiquattr' ore filate, e anche loro lavoravano con noi. Perché non imboscarci? A Staryje Doroghi saremmo arrivati con tutta calma il giorno dopo, il russo ruolini per fare un appello non ne aveva sicuro, la notte si annunciava tiepida, acqua ce n' era, e qualcosa per cena, fra tutti e sei, non molto, ne avevamo. La capanna era in rovina, ma un po' di tetto per ripararci dalla rugiada c' era ancora. _ Benissimo, _ disse Cesare. _ Io ci sto. Per stasera, io mi voglio fare una gallinella arrostita. Così ci nascondemmo nel bosco finché la carretta con lo scheletro non fu passata, aspettammo che gli ultimi ritardatari se ne fossero andati dal pozzo, e prendemmo possesso del nostro luogo di bivacco. Stendemmo a terra le coperte, aprimmo i sacchi, accendemmo un fuoco, e cominciammo a preparare la cena, con pane, "kasa" di miglio e una scatola di piselli. _ Ma quale cena, _ disse Cesare; _ ma quali piselli. Voi non avete capito bene. Io stasera voglio fare festa, e mi voglio fare una gallinella arrostita. Cesare è un uomo indomabile: già me n' ero potuto convincere girando con lui i mercati di Katowice. Fu inutile rappresentargli che trovare un pollo di notte, in mezzo alle paludi del Pripet, senza sapere il russo e senza soldi per pagarlo, era un proposito insensato. Fu vano offrirgli doppia razione di "kasa" purché stesse quieto. _ Voi statevene con la vostra cascetta: io la gallina me la vado a cercare da solo, ma poi non mi vedete più. Saluto voi e i russi e la baracca, e me ne vado, e torno in Italia da solo. Magari passando per il Giappone. Fu allora che mi offrii di accompagnarlo. Non tanto per la gallina o per le minacce: ma voglio bene a Cesare, e mi piace vederlo al lavoro. _ Bravo, Lapé, _ mi disse Cesare. Lapé sono io: così mi ha battezzato Cesare in tempi remoti, e così tuttora mi chiama, per la ragione seguente. Come è noto, in Lager avevamo i capelli rasati; alla liberazione, dopo un anno di rasatura, a tutti, e a me in specie, i capelli erano ricresciuti curiosamente lisci e morbidi: a quel tempo i miei erano ancora molto corti, e Cesare sosteneva che gli ricordavano la pelliccia di coniglio. Ora "coniglio", anzi, "pelle di coniglio", nel gergo merceologico di cui Cesare è esperto, si dice appunto Lapé. Daniele invece, il barbuto e ispido e aggrondato Daniele, assetato di vendetta e di giustizia come un antico profeta, si chiamava Corallì: perché, diceva Cesare, se piovono coralline (perline di vetro) te le infili tutte. _ Bravo, Lapé, _ mi disse: e mi spiegò il suo piano. Cesare è infatti un uomo dai folli propositi, ma li persegue poi con molto senso pratico. La gallina non se l' era sognata: dalla capanna, in direzione nord, aveva svagato un sentiero ben battuto, e quindi recente. Era probabile che conducesse a un villaggio: ora, se c' era un villaggio, c' erano anche le galline. Uscimmo all' aperto: era ormai quasi buio, e Cesare aveva ragione. Sul ciglio di una appena percettibile ondulazione del terreno, a forse due chilometri di distanza, fra tronco e tronco, si vedeva brillare un lumino. Così partimmo, inciampando in mezzo agli sterpi, inseguiti da sciami di voraci zanzare; portavamo con noi la sola merce di scambio di cui il nostro gruppo fosse risultato disposto a separarsi: i nostri sei piatti, comuni piatti di terraglia che i russi avevano a suo tempo distribuiti come casermaggio. Camminavamo nel buio, attenti a non perdere il sentiero, e gridavamo a intervalli. Dal villaggio non rispondeva nessuno. Quando fummo a un centinaio di metri, Cesare si fermò, prese fiato, e gridò: _ Ahò; a russacchiotti. Siamo amici. Italianski. Ce l' avreste una gallinella da vendere? _ Questa volta la risposta venne: un lampo nel buio, un colpo secco, e il miagolio di una pallottola, qualche metro sopra alle nostre teste. Io mi coricai a terra, pianino per non rompere i piatti; ma Cesare era inferocito, e restò in piedi: _ A li morté: ve l' ho detto che siamo amici. Figli di una buona donna, e fateci parlare. Una gallinella, vogliamo. Mica siamo banditi, mica siamo dòicce: italianski siamo! Non ci furono altre fucilate, e già si intravvedevano profili umani sul ciglio dell' altura. Ci avvicinammo cautamente, Cesare avanti, che continuava il suo discorso persuasivo, e io dietro, pronto a buttarmi per terra un' altra volta. Arrivammo finalmente al villaggio. Non erano più di cinque o sei case di legno intorno a una minuscola piazza, e su questa, ad attenderci, stava l' intera popolazione, una trentina di persone, in maggioranza contadine anziane, poi bimbi, cani, tutti in visibile allarme. Emergeva fra la piccola folla un gran vecchio barbuto, quello della fucilata: teneva ancora il moschetto a bilanci-arm. Cesare considerava ormai esaurita la sua parte, che era quella strategica, e mi richiamò ai miei doveri. _ Tocca a te, adesso. Cosa aspetti? Dài, spiegagli che siamo italiani, che non vogliamo far male a nessuno, e che vogliamo comperare una gallina da fare arrostire. Quella gente ci considerava con curiosità diffidente. Sembrava si fossero persuasi che, quantunque vestiti come due evasi, non dovevamo essere pericolosi. Le vecchiette avevano smesso di schiamazzare, ed anche i cani si erano acquietati. Il vecchio col fucile ci rivolgeva delle domande che non capivamo: io di russo non so che un centinaio di parole, e nessuna di esse si attagliava alla situazione, ad eccezione di "italianski". Così ripetei "italianski" diverse volte, finché il vecchio non cominciò a sua volta a dire "italianski" a beneficio dei circostanti. Intanto Cesare, più concreto, aveva cavato i piatti dal sacco, ne aveva disposto cinque bene in vista a terra come al mercato, e teneva il sesto in mano, dandogli stecche sull' orlo con l' unghia per far sentire che suonava giusto. Le contadine guardavano, divertite e incuriosite. _ Tarelki, _ disse una. _ Tarelki, da! _ risposi io, lieto di avere appreso il nome della merce che offrivamo: al che una di loro tese una mano esitante verso il piatto che Cesare andava mostrando. _ Eh, che ti credi? _ disse questi, ritirandolo vivamente: _ Mica li regaliamo _. E si rivolse a me inviperito: insomma, cosa aspettavo a chiedere la gallina in cambio? A cosa servivano i miei studi? Ero molto imbarazzato. Il russo, dicono, è una lingua indoeuropea, e i polli dovevano essere noti ai nostri comuni progenitori in epoca certamente anteriore alla loro suddivisione nelle varie famiglie etniche moderne. "His fretus", vale a dire su questi bei fondamenti, provai a dire "pollo" e "uccello" in tutti i modi a me noti, ma non ottenni alcun risultato visibile. Anche Cesare era perplesso. Cesare, nel suo intimo, non si era mai fatto pienamente capace che i tedeschi parlassero il tedesco, e i russi il russo, altro che per una stravagante malignità; era poi persuaso in cuor suo che solo per un raffinamento di questa stessa malignità essi pretendessero di non comprendere l' italiano. Malignità, o estrema e scandalosa ignoranza: aperta barbarie. Altre possibilità non c' erano. Perciò la sua perplessità andava rapidamente volgendosi in rabbia. Borbottava e bestemmiava. Possibile che fosse tanto difficile capire cosa è una gallina, e che volevamo barattarla contro sei piatti? Una gallina, di quelle che vanno in giro beccando, razzolando e facendo "coccodè": e senza molta fiducia, torvo e ingrugnato, si esibì in una pessima imitazione delle abitudini dei polli, accovacciandosi per terra, raspando con un piede e poi con l' altro, e beccando qua e là con la mano a cuneo. Tra una imprecazione e l' altra, faceva anche "coccodè": ma, come è noto, questa interpretazione del verso gallinesco è altamente convenzionale; circola esclusivamente in Italia, e non ha corso altrove. Perciò il risultato fu nullo. Ci guardavano con occhi attoniti, e certamente ci prendevano per matti. Perché, per quale scopo, eravamo arrivati dai confini della terra a fare misteriose buffonate sulla loro piazza? Ormai furibondo, Cesare si sforzò perfino di fare l' uovo, e intanto li insultava in modi fantasiosi, rendendo così anche più oscuro il senso della sua rappresentazione. Allo spettacolo improprio, il chiacchiericcio delle comari salì di un' ottava, e si trasformò in un brusio di vespaio disturbato. Quando vidi che una delle vecchiette si avvicinava al barbone, e gli parlava nervosamente guardando dalla nostra parte, mi resi conto che la situazione era compromessa. Feci rialzare Cesare dalla sue innaturali positure, lo calmai, e con lui mi avvicinai all' uomo. Gli dissi: _ Prego, per favore, _ e lo condussi vicino a una finestra, da cui la luce di una lanterna illuminava abbastanza bene un rettangolo di terreno. Qui, penosamente conscio di molti sguardi sospettosi, disegnai per terra una gallina, completa di tutti i suoi attributi, compreso un uovo a tergo per eccesso di specificazione. Poi mi rialzai e dissi: _ Voi piatti. Noi mangiare. Seguì una breve consultazione; poi scaturì dal capannello una vecchia dagli occhi scintillanti di gioia e di arguzia: fece due passi avanti, e con voce squillante pronunziò: _ Kura! Kùritsa! Era molto fiera e contenta di essere stata lei a risolvere l' enigma. Da tutte le parti esplosero risate e applausi, e voci "kùritsa, kùritsa!": e anche noi battemmo le mani, presi dal gioco e dall' entusiasmo generale. La vecchina si inchinò, come una attrice al termine della sua parte; sparì e ricomparve dopo pochi minuti con una gallina in mano, già spennata. La fece dondolare burlescamente sotto il naso di Cesare, come controprova; e come vide che questi reagiva positivamente, allentò la presa, raccolse i piatti e se li portò via. Cesare, che se ne intende perché a suo tempo teneva banchetto a Porta Portese, mi assicurò che la curizetta era abbastanza grassa, e valeva i nostri sei piatti; la riportammo in baracca, svegliammo i compagni che già si erano addormentati, riaccendemmo il fuoco, cucinammo il pollo e lo mangiammo in mano, perché i piatti non li avevamo più.

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Avevamo freddo e fame, e ci sentivamo abbandonati e dimenticati. Il sesto giorno, snervato e inferocito più di tutti gli altri, Cesare ci piantò. Dichiarò che ne aveva abbastanza di Curtici, dei russi, del treno e di noi; che non voleva diventare matto, e neanche morire di fame o essere accoppato dai curticesi; che uno, quando è in gamba, se la cava meglio da solo. Disse che, se eravamo disposti, potevamo anche seguirlo: ma patti chiari, lui era stufo di fare della miseria, era pronto a correre dei rischi, ma voleva tagliare corto, far su quattrini alla svelta, e tornare a Roma in aeroplano. Nessuno di noi si sentì di seguirlo, e Cesare se ne andò: prese un treno per Bucarest, ebbe molte avventure, e riuscì nel suo proposito, tornò cioè a Roma in aereo, sebbene più tardi di noi; ma questa è un' altra storia, una storia "de haulte graisse", che non racconterò, o racconterò in altra sede solo se e quando Cesare me ne darà il permesso. Se in Romania avevo provato un delicato piacere filologico nel gustare nomi quali Galati, Alba Julia, Turnu Severin, al primo ingresso in Ungheria ci imbattemmo invece in Békéscsaba, cui fecero seguito Hòdmezo5vasàrhely e Kiskunfélegyhàza. La pianura magiara era intrisa d' acqua, il cielo era plumbeo, ma sopra ogni cosa ci attristava la mancanza di Cesare. Aveva lasciato fra noi un vuoto doloroso: in sua assenza, nessuno sapeva di cosa parlare, nessuno più riusciva a vincere la noia del viaggio interminabile, la fatica dei diciannove giorni di tradotta che ormai ci pesavano sulle spalle. Ci guardavamo l' un l' altro con un vago senso di colpa: perché lo avevamo lasciato partire? Ma in Ungheria, malgrado i nomi impossibili, ci sentivamo ormai in Europa, sotto l' ala di una civiltà che era la nostra, al riparo da allarmanti apparizioni quali quella del cammello in Moldavia. Il treno puntava verso Budapest, ma non vi penetrò: sostò a più riprese a Ujpest e in altri scali periferici il 6 di ottobre, concedendoci visioni spettrali di ruderi, di baracche provvisorie e di strade deserte; poi si inoltrò nuovamente nella pianura, fra scrosci di pioggia e veli di nebbia autunnale. Fermò a Szòb, ed era giorno di mercato: scendemmo tutti, per sgranchirci le gambe e spendere i pochi soldi che avevamo. Io non avevo più nulla: ma ero affamato, e barattai la giacca di Auschwitz, che avevo gelosamente conservata fino allora, contro un nobile impasto di formaggio fermentato e cipolle, il cui aroma acuto mi aveva avvinto. Quando la macchina fischiò, e risalimmo sul vagone, ci contammo, ed eravamo due in più. Uno era Vincenzo, e nessuno se ne stupì. Vincenzo era un ragazzo difficile: un pastore calabrese di sedici anni, finito in Germania chissà come. Era selvaggio quanto il Velletrano, ma di natura diversa: timido, chiuso e contemplativo quanto quello era violento e sanguigno. Aveva mirabili occhi celesti, quasi femminei, e un viso fine, mobile, lunare: non parlava quasi mai. Era nomade nell' anima, inquieto, attratto a Staryje Doroghi dal bosco come da demoni invisibili: e anche sul treno, non aveva residenza stabile in un vagone, ma li girava tutti. Subito comprendemmo il perché della sua instabilità: appena il treno partì da Szòb, Vincenzo piombò a terra, con gli occhi bianchi e la mascella serrata come di sasso. Ruggiva come una belva, e si dibatteva, più forte dei quattro alpini che lo trattenevano: una crisi epilettica. Certamente ne aveva avute altre, a Staryje Doroghi e prima: ma ogni volta, quando ne avvertiva i segni premonitori, Vincenzo, spinto da una sua selvatica fierezza, si era rifugiato nella foresta perché nessuno sapesse del suo male; o forse, davanti al male fuggiva, come gli uccelli davanti alla tempesta. Nel lungo viaggio, non potendo restare a terra, quando sentiva arrivare l' attacco cambiava vagone. Stette con noi pochi giorni, poi sparì: lo ritrovammo appollaiato sul tetto di un altro vagone. Perché? Rispose che di lassù si vedeva meglio la campagna. Anche l' altro nuovo ospite, per diverse ragioni, si rivelò un caso difficile. Nessuno lo conosceva: era un ragazzotto robusto, scalzo, vestito con giacca e pantaloni dell' Armata Rossa. Parlava solo ungherese, e nessuno di noi riusciva a capirlo. Il Carabiniere ci raccontò che, mentre a terra stava mangiando pane, il ragazzo gli si era avvicinato e aveva teso la mano; lui gli aveva ceduto metà del suo cibo, e da allora non era più riuscito a staccarlo: mentre tutti risalivamo in fretta sul vagone, doveva averlo seguito senza che nessuno ci badasse. Fu accolto bene: una bocca in più da sfamare non preoccupava. Era un ragazzo intelligente e allegro: appena il treno fu in moto, si presentò con grande dignità. Si chiamava Pista e aveva quattordici anni. Padre e madre? Qui era più difficile farsi intendere: trovai un mozzicone di matita e un pezzo di carta, e disegnai un uomo, una donna, e un bambino in mezzo; indicai il bambino dicendo "Pista", poi rimasi in attesa. Pista si fece serio, poi fece un disegno di terribile evidenza: una casa, un aereo, una bomba che stava cadendo. Poi cancellò la casa, e disegnò accanto un grosso cumulo fumante. Ma non era in vena di cose tristi: appallottolò quel foglio, ne chiese un altro, e disegnò una botte, con singolare precisione. Il fondo, in prospettiva, e tutte le doghe visibili, a una a una; poi la cerchiatura, e il foro con lo spinotto. Ci guardammo interdetti: quale era il senso del messaggio? Pista rideva, felice: poi disegnò se stesso accanto, col martello in una mano e la sega nell' altra. Non avevamo ancora capito? era il suo mestiere, era bottaio. Tutti gli vollero subito bene; d' altronde, teneva a rendersi utile, spazzava il pavimento tutte le mattine, lavava con entusiasmo le gavette, andava a prendere l' acqua, ed era felice quando lo mandavamo a "fare la spesa" presso i suoi compatrioti delle varie fermate. Al Brennero, si faceva già intendere in italiano: cantava belle canzoni del suo paese, che nessuno capiva, poi cercava di spiegarcele a gesti, facendo ridere tutti e ridendo di gran cuore lui per primo. Era affezionato come un fratello minore al Carabiniere, e ne lavò a poco a poco il peccato originale: aveva bensì ucciso padre e madre, ma in fondo doveva essere un buon figliolo, dal momento che Pista lo aveva seguito. Riempì il vuoto lasciato da Cesare. Gli chiedemmo perché era venuto con noi, che cosa veniva a cercare in Italia: ma non riuscimmo a saperlo, in parte per la difficoltà di intenderci, ma principalmente perché lui stesso sembrava lo ignorasse. Da mesi vagabondava per le stazioni come un cane randagio: aveva seguito la prima creatura umana che lo avesse guardato con misericordia. Speravamo di passare dall' Ungheria all' Austria senza complicazioni di confine, ma non fu così: il mattino del 7 ottobre, ventiduesimo giorno di tradotta, eravamo a Bratislava, in Slovacchia, in vista dei Beschidi, degli stessi monti che sbarravano il lugubre orizzonte di Auschwitz. Altra lingua , altra moneta, altra via: avremmo chiuso l' anello? Katowice era a duecento chilometri: avremmo ricominciato un altro vano, estenuante circuito per l' Europa? Ma a sera entrammo in terra tedesca: il giorno . eravamo incagliati nello scalo merci di Leopoldau, una stazione periferica di Vienna, e ci sentivamo quasi a casa. La periferia di Vienna era brutta e casuale come quelle a noi familiari di Milano e di Torino, e come quelle, nelle ultime visioni che ne ricordavamo, macinata e sconvolta dai bombardamenti. I passanti erano pochi: donne, bambini, vecchi, nessun uomo. Familiare, paradossalmente, mi suonava anche il loro linguaggio: alcuni comprendevano perfino l' italiano. Cambiammo a caso il danaro che avevamo con moneta locale, ma fu inutile: come a Cracovia in marzo, tutti i negozi erano chiusi, o vendevano solo generi razionati. _ Ma che cosa si può comperare a Vienna senza tessera? _ chiesi ad una ragazzina, non più che dodicenne. Era vestita di stracci, ma portava scarpe coi tacchi alti ed era vistosamente truccata: _ Ueberhaupt nichts, _ mi rispose con scherno. Ritornammo alla tradotta per passarvi la notte; durante la quale, con molte scosse e stridori, percorremmo pochi chilometri e ci trovammo trasferiti in un altro scalo, Vienna-Jedlersdorf. Accanto a noi emerse dalla nebbia un altro convoglio, anzi, il cadavere tormentato di un convoglio: la locomotiva stava verticale, assurda, col muso puntato al cielo come se volesse salirvi; tutti i vagoni erano carbonizzati. Ci accostammo, spinti dall' istinto del saccheggio e da una curiosità irridente: ci ripromettevamo una soddisfazione maligna nel mettere le mani sulle rovine di quelle cose tedesche. Ma alla irrisione rispose irrisione: un vagone conteneva vaghi rottami metallici che dovevano avere fatto parte di strumenti musicali bruciati, e centinaia di ocarine di coccio, sole superstiti; un altro, pistole di ordinanza, fuse e arrugginite; il terzo, un intrico di sciabole ricurve, che il fuoco e la pioggia avevano saldato entro i foderi per tutti i secoli avvenire: vanità delle vanità, e il sapore freddo della perdizione. Ci allontanammo, e vagando alla ventura ci trovammo sull' argine del Danubio. Il fiume era in piena, torbido, giallo e gonfio di minaccia: in quel punto il suo corso è pressoché rettilineo, e si vedevano, uno dietro l' altro, in una brumosa prospettiva da incubo, sette ponti, tutti spezzati esattamente al centro, tutti coi monconi immersi nell' acqua vorticosa. Mentre ritornavamo alla nostra dimora ambulante, fummo riscossi dallo sferragliare di un tram, sola cosa viva. Correva all' impazzata sui binari malconci, lungo i viali deserti, senza arrestarsi alle fermate. Intravvedemmo il manovratore al suo posto, pallido come uno spettro; dietro a lui, deliranti di entusiasmo, stavano i sette russi della nostra scorta, e nessun altro passeggero: era il primo tram della loro vita. Mentre gli uni si spenzolavano fuori dei finestrini, gridando "hurrà, hurrà", gli altri incitavano e minacciavano il guidatore perché andasse più in fretta. Su una grande piazza si teneva mercato; ancora una volta un mercato spontaneo e illegale, ma assai più misero e furtivo di quelli polacchi, che avevo frequentato col greco e con Cesare: ricordava invece da vicino un altro scenario, la Borsa del Lager, indelebile nelle nostre memorie. Non banchetti, ma gente in piedi, freddolosa, inquieta, a piccoli crocchi, pronta alla fuga, con borse e valigie in mano e le tasche gonfie; e si scambiavano minuscole cianfrusaglie, patate, fette di pane, sigarette sciolte, spicciolo e logoro ciarpame casalingo. Risalimmo sui vagoni col cuore gonfio. Non avevamo provato alcuna gioia nel vedere Vienna sfatta e i tedeschi piegati: anzi, pena; non compassione, ma una pena più ampia, che si confondeva con la nostra stessa miseria, con la sensazione greve, incombente, di un male irreparabile e definitivo, presente ovunque, annidato come una cancrena nei visceri dell' Europa e del mondo, seme di danno futuro. Sembrava che il treno non potesse staccarsi da Vienna: dopo tre giorni di soste e di manovre, il 10 ottobre eravamo a Nussdorf, un altro sobborgo, affamati, bagnati e tristi. Ma il mattino dell' 11, quasi avesse ritrovato ad un tratto una traccia perduta, il treno puntò decisamente verso ponente: con inconsueta rapidità attraversò St. Po5lten, Loosdorf e Amstetten, e a sera, lungo la strada che correva parallelamente alla ferrovia, apparve un segno, portentoso ai nostri sguardi come gli uccelli che annunciano ai naviganti la terra vicina. Era un veicolo nuovo per noi: un' auto militare tozza e sgraziata, piatta come una scatola, che portava dipinta sulla fiancata una stella bianca e non rossa: una jeep, insomma. Un negro la guidava; uno degli occupanti si sbracciava verso di noi, e urlava in napoletano: _ Si va a casa, guaglioni! La linea di demarcazione era dunque vicina: la raggiungemmo a St. Valentin, a pochi chilometri da Linz. Qui fummo fatti scendere, salutammo i giovani barbari della scorta e il macchinista benemerito, e passammo in forza agli americani. I campi di transito sono tanto peggio organizzati quanto più breve è la durata media del soggiorno: a St. Valentin non ci si fermava che poche ore, un giorno al massimo, ed era perciò un campo molto sporco e primitivo. Non c' era luce né riscaldamento né letti: si dormiva sul nudo pavimento di legno, in baracche paurosamente labili, in mezzo al fango alto una spanna. La sola attrezzatura efficiente era quella dei bagni e della disinfezione: sotto questa specie, di purificazione e di esorcismo, l' Occidente prese possesso di noi. Al compito sacerdotale erano addetti alcuni G.I. giganteschi e taciturni, disarmati, ma adorni di una miriade di aggeggi di cui ci sfuggiva il significato e l' impiego. Per il bagno, tutto andò liscio: erano una ventina di cabine di legno, con doccia tiepida e accappatoi, lusso mai più visto. Dopo il bagno, ci introdussero in un vasto locale in muratura, tagliato in due da un cavo da cui pendevano dieci curiosi attrezzi, vagamente simili a martelli pneumatici: si sentiva fuori pulsare un compressore. Tutti e millequattrocento, quanti eravamo, fummo stipati da un lato della divisione, uomini e donne insieme: ed ecco entrare in scena dieci funzionari dall' aspetto poco terrestre, avvolti in tute bianche, con casco e maschera antigas. Agguantarono i primi del gregge, e senza complimenti infilarono loro le cannucce degli arnesi pendenti, via via, in tutte le aperture degli abiti: nel colletto, nella cintura, nelle tasche, su per i pantaloni, sotto le sottane. Erano specie di soffietti pneumatici, che insufflavano insetticida: e l' insetticida era il DDT, novità assoluta per noi, come le jeep, la penicillina e la bomba atomica, di cui avemmo notizia poco dopo. Imprecando o ridendo per il solletico, tutti si adattarono al trattamento, finché venne il turno di un ufficiale di marina e della sua bellissima fidanzata. Quando gli incappucciati misero le mani, caste ma rudi, su costei, l' ufficiale si pose energicamente di mezzo. Era un giovane robusto e risoluto: guai a chi osasse toccare la sua donna. Il perfetto meccanismo si arrestò netto: gli incappucciati si consultarono brevemente, con inarticolati suoni nasali, poi uno di loro si tolse maschera e tuta e si piantò davanti all' ufficiale coi pugni serrati, in posizione di guardia. Gli altri fecero cerchio ordinatamente, ed ebbe inizio un regolare incontro di pugilato. Dopo pochi minuti di combattimento silenzioso e cavalleresco, l' ufficiale cadde a terra col naso sanguinante; la ragazza, stravolta e pallida, venne infarinata da tutte le parti secondo le prescrizioni, ma senza collera né volontà di rappresaglia, e tutto rientrò nell' ordine americano.

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L'altrui mestiere

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Levi, Primo 1 occorrenze

Intanto il freddo si era fatto più intenso e la nebbia più fitta; il resto del mondo, nel tepore delle case, si preparava alla festa, e noi ci sentivamo abbandonati. I vigili correvano su e giù come equilibristi sui tubi di gomma dello schiumogeno, perché la miscela che vi era contenuta stava gelando. Il rimorchio ribaltato, coperto di schiuma, aveva assunto l' aspetto di un relitto vecchio di secoli. Arrivò finalmente la gru, poco prima di mezzanotte, ed insieme arrivò dello champagne offerto non so più da chi, se dai vigili o dalla società petrolifera o dalla fabbrica. Il rimorchio fu raddrizzato, ci demmo buone pacche sulla schiena per allegria e per riscaldarci un poco, e brindammo all' anno nuovo, al successo dell' operazione e allo scampato pericolo. Due giorni dopo appresi che il pericolo a cui eravamo scampati era più serio di quanto immaginassimo. In un altro libro, altrettanto poco noto, lessi che gli estintori ad anidride sono ottimi per estinguere incendi in atto, ma non devono assolutamente essere scaricati a scopo preventivo presso solventi incendiabili. L' anidride carbonica, uscendo con violenza dall' ugello, si raffredda e si condensa in aghi di "ghiaccio secco"; essi, sfregando contro l' ugello stesso, si elettrizzano e generano scintille che possono incendiare il solvente prima che l' atmosfera sia diventata inerte, o quando l' estintore è esaurito. Il libro descriveva un rovinoso incendio con esplosione avvenuto in olanda: erano morte decine di persone, ed era stato scatenato dall' uso improprio di un estintore ad anidride. Mi pare che da questi due episodi si ricavi una morale. Il nostro mondo si fa sempre più complicato, e ad ognuno occorre una competenza sempre più affinata e aggiornata. I mestieri pericolosi sono molti, e l' analisi dei pericoli (palesi e occulti) dovrebbe costituire l' alfabeto di ogni formazione professionale. Non si riuscirà mai ad annullare tutti i rischi né a risolvere tutti i problemi, ma ogni problema risolto è una vittoria, in termini di vite umane, salute e ricchezze salvate. La competenza non ha surrogati: lo si è visto di recente nell' episodio terribile del bambino precipitato in un pozzo abbandonato, e morto dopo due giorni di tentativi generosi ma sbagliati. La buona volontà, il coraggio, lo spirito di sacrificio, l' ingegno estemporaneo non servono molto, anzi, in mancanza di competenza possono essere nocivi. Agli uomini di buona volontà è promessa la pace sulla terra, ma, nelle situazioni di emergenza, guai a chi si fida dei soccorritori che dispongono solo di buona volontà.

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Se non ora quando

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Levi, Primo 2 occorrenze

Gli italiani e gli ungheresi li hanno abbandonati; degli slovacchi e dei polacchi bianchi non si fidano più. Tentano di accerchiare queste paludi e di stringere il cerchio a poco a poco; il punto più debole dell' anello è a sud, verso Recitsa e il confine ucraino. Cercheremo di passare, poi proseguiremo separatamente; se riunissimo le due bande non avremmo nessun vantaggio e daremmo troppo nell' occhio. Del resto, l' unità del compagno Gedale ha avuto il riconoscimento e l' appoggio di Mosca .... _ Molto riconoscimento e poco appoggio! _ interruppe qualcuno parlando in jiddisch. _ Zitto, Jòzek! _ disse secco Gedale. _ ... ed è libera dei suoi movimenti. Gli ebrei del campo possono scegliere: restare con noi, forzare l' accerchiamento, e puntare verso est per raggiungere il fronte, oppure .... _ ... oppure venire con noi, _ interloquì Gedale. _ Noi abbiamo altri ordini. Noi non abbiamo fretta di tornare a casa. Se passeremo, andremo ad ovest, a liberare prigionieri, a disturbare le retrovie tedesche e a chiudere conti. Chi vuole venire con noi si metta da questa parte. Ognuno può tenere le armi personali che aveva quando è arrivato da Novoselki. La baracca era sovraffollata, e lo smistamento si svolse con disordine e fracasso. Mendel, Sissl, Line e Leonid scelsero la parte di Gedale senza esitare; intorno a Pavel invece si era formato un focolaio di discussione. Pavel avrebbe voluto andare anche lui con Gedale, ma teneva al suo cavallo; se Ulybin lo avesse trattenuto, sarebbe rimasto anche lui. Gedale non capiva e chiedeva spiegazioni. Si sentì al di sopra del trambusto la voce profonda di Pavel: _ Io ti sono utile perché so il tedesco, ma il mio cavallo non lo sa. Che cosa te ne faresti? Ulybin, senza ridere, fece una smorfia difficile da interpretare, poi disse: _ Va bene, tenetevi il cavallo e il suo padrone _. Si mostrò meno condiscendente quando vide che dalla parte di Gedale si era schierato anche Piotr. _ E tu che c' entri? Che cosa ti viene in mente? Che ci fai, tu, da quella parte? _ Vengono tutti di lontano, _ rispose Piotr, _ nessuno di loro è pratico del terreno. Dopo mezz' ora di cammino sarebbero tutti annegati. _ Sono storie. Nessuno di loro ti ha chiesto come guida. Se la cavano bene da soli. Bada a quello che fai: non vorrai finire come Fedja. _ Mi ha chiesto lui, come guida, _ disse Piotr indicando Dov: ma si vedeva bene che improvvisava. Poi aggiunse: _ ... e non è una diserzione, compagno comandante. Questa è una banda, e quella è una banda _. Tuttavia, mentre parlava, lasciò il gruppo di Gedale e ritornò dalla parte di Ulybin, con la faccia di un bambino messo in castigo. Si era tardato troppo, era ormai notte, era ora di partire. Ulybin fece innescare le mine nascoste nelle baracche e radunò tutti fuori sul piazzale. L' ordine era di tacere, ma si sentiva un mormorio eccitato, un rumorio di voci discordi, come quando gli orchestrali accordano gli strumenti prima dell' ouverture. Discordi, ma un orecchio attento vi avrebbe distinto un motivo, ripetuto in chiavi diverse da russi ed ebrei: Piotr, l' audace e puro Piotr, aveva perso la testa per gli occhi di una donna straniera, come Stienka Razin. Se poi si trattasse degli occhi grigi di Sissl o degli occhi bruni di Line, su questo punto le versioni divergevano. Il pettegolezzo è una forza della natura; rende sopportabili molti disagi, e prospera anche in mezzo ai pantani, alla guerra e alla neve in disgelo. Camminarono tutta la notte, in fila indiana, senza vedere traccia dei tedeschi. Si fermarono all' alba a riposare in un capannone abbandonato, sul confine polacco. Verso mezzogiorno gli uomini di vedetta videro passare forze tedesche lungo la strada maestra; tutti si disposero alla difesa, ma la colonna proseguì senza curarsi di controllare il capannone. Ripresero la marcia a notte, ed in una brughiera le due squadre si separarono; Ulybin e i suoi piegarono a sinistra per rientrare in territorio sovietico, e la squadra di Gedale procedette verso Recitsa per campi incolti. Gedale li rassicurò: _ Il peggio è passato. Ancora una notte di cammino e saremo fuori. Ma Mendel e i suoi amici si sentivano più sicuri prima, nel campo di Turov, dove non si pativa la fame né il freddo, e ciascuno sentiva sopra la testa un tetto di solide travi ed un' autorità: Ulybin stesso, o i messaggeri venuti dal cielo, o un potere più lontano. Questi gedalisti (così chiamavano se stessi) era gente temeraria, randagia e povera. Jòzek, il luogotenente di Gedale, si arrotolò una sigaretta d' erbe in un brandello di carta da giornale, chiese a Leonid un fiammifero, lo spaccò in due per il lungo, accese con una metà e ripose l' altra in tasca. Le due vacche, gli disse, erano preda di guerra; le avevano prese pochi giorni prima, nel corso dell' attacco a Ljuban, "perché nella guerra bisogna anche pensare alla roba". Erano magre e restie, dove trovavano un ciuffo d' erba si fermavano testarde a brucarla resistendo agli strattoni e ritardando la marcia. Dove c' erano ancora chiazze di neve nell' ombra degli alberi, la aravano con gli zoccoli in cerca di licheni. _ Alla prima occasione le vendiamo, _ disse Jòzek in tono concreto. Jòzek non era russo ma polacco di Bialystok, e falsario di professione. Raccontò la sua storia a Mendel durante la prima tappa dopo la separazione; prima no, non sapeva come i russi l' avrebbero presa. _ È un buon mestiere, ma non facile. Io ho incominciato da ragazzo, nel 192.: ero litografo apprendista e falsificavo i francobolli. La polizia polacca, a quel tempo, aveva altro da pensare e non c' era gran pericolo, ma guadagnavo poco. Nel 1937 ho cominciato con i documenti, ero molto bravo nei passaporti. Poi è venuta la guerra, a Bialystok sono arrivati i russi, e nel '41 i tedeschi. Io ho dovuto nascondermi, ma vivevo bene: di documenti c' era richiesta, soprattutto di tessere annonarie per i polacchi e di carte d' identità ariane per gli ebrei. _ Sarei andato avanti tranquillo fino alla fine della guerra, ma un concorrente mi ha denunciato perché le mie tariffe erano troppo basse. Sono rimasto in prigione tre settimane; si capisce che anche i miei documenti personali erano falsi, risultavo cristiano da due generazioni, ma mi hanno fatto spogliare, hanno capito che ero ebreo e mi hanno spedito in Lager, a Sachsenhausen, a spaccare pietre. Jòzek si interruppe ed accese un' altra sigaretta con il mezzo fiammifero che aveva riposto. Era biondiccio, gracile, di media statura, con una lunga faccia volpina e occhi verdi quasi senza cigli, che teneva sempre socchiusi come per aguzzare lo sguardo. La squadra si era fermata in una radura; Jòzek stava sdraiato sull' erba umida di rugiada, fumava e raccontava con gusto. Molti lo circondavano in ascolto: conoscevano già la storia, ma amavano sentirla ripetere; altri dormivano. Leonid si era appartato con Line, e Sissl ascoltava stando un po' in disparte: aveva cavato fuori ago e filo, e rammendava una calza nella luce incerta dell' alba. _ Il mondo è strano, _ riprese Jòzek. _ Un ebreo muore, ma un ebreo falsario si salva. Alla fine del '42 nel Lager hanno affisso un avviso: i tedeschi cercavano tipografi e litografi. Io mi sono presentato, e mi hanno mandato in una baracchetta in fondo al Lager dove ho creduto di sognare. C' era un laboratorio molto meglio attrezzato del mio, e un gruppo di prigionieri polacchi, céchi, tedeschi ed ebrei che fabbricavano dollari e sterline false, e anche documenti per gli agenti dello spionaggio. Non per dire, io ero il più bravo e i lavori delicati li davano a me; ma ho capito presto che la faccenda scottava, era chiaro che nessuno di noi sarebbe uscito vivo. Allora mi sono dedicato a raccogliere oro, che nei Lager non mancava mai, e a fabbricarmi un ordine di trasferimento. _ E perché non un ordine di rilascio? _ chiese Mendel. _ Si vede che tu non sai cos' è un Lager. Non si è mai visto che un ebreo venga rilasciato; specie poi un ebreo come me. Mi sono fatto un ordine di trasferimento al Lager di Brest-Litovsk, perché un polacco è meglio se scappa in Polonia: un ordine in piena regola, su carta delle SS, con timbri e firme, intestato a Jòzef Treistman, n. 67703, Funktionshäftling, Prigioniero Funzionario. Rischiavo molto, ma non aver scelta è una scelta. Mi hanno messo su un treno con due accompagnatori, erano due militari anziani della Territoriale. Li ho corrotti con l' oro, non aspettavano altro; sono scappato poco prima di arrivare a Brest, ho vissuto alla macchia due settimane, poi ho trovato Gedale. Col passare dei giorni e con l' approfondirsi della conoscenza, a Mendel appariva sempre più naturale che fra Gedale e Ulybin non si fosse trovato un accordo. Al di là della secolare divaricazione fra russi ed ebrei, sarebbe stato difficile trovare due uomini più diversi: la sola qualità che avevano in comune era il coraggio, e questo non era strano, perché un comandante senza coraggio non dura a lungo. Ma anche i loro coraggi erano diversi: il coraggio di Ulybin era ostinato e opaco, un coraggio-dovere che sembrava il frutto di uno studio e una disciplina piuttosto che un dono naturale. Ogni sua decisione ed ogni suo ordine arrivavano come dal cielo alla terra, carichi d' autorità e di minaccia inespressa; spesso erano ordini ragionevoli, perché Ulybin era un uomo scaltro, ma anche quando non lo erano suonavano perentori, ed era difficile non obbedirli. Il coraggio di Gedale era estemporaneo e vario, non scaturiva da una scuola ma da un temperamento insofferente dei vincoli e poco propenso a scrutare l' avvenire; dove Ulybin calcolava, Gedale si gettava come in un gioco. Mendel riconosceva in lui, ben fusi come in una lega pregiata, metalli eterogenei: la logica e la fantasia temeraria dei talmudisti; la sensitività dei musici e dei bambini; la forza comica dei teatranti girovaghi; la vitalità che si assorbe dalla terra russa. Gedale era alto e magro, largo di spalle ma con membra esili e petto poco profondo. Il naso era arcuato e tagliente come una prua, la fronte bassa sotto il confine dei capelli neri, le guance incavate e solcate da rughe nella pelle conciata dal vento e dal sole, la bocca larga e piena di denti. Era svelto nei movimenti, ma camminava con una goffaggine che sembrava voluta, come un clown nel circo. Parlava con voce alta e sonora anche quando non occorreva, come se il petto gli facesse da cassa armonica; rideva spesso, anche in momenti poco opportuni. Mendel e Leonid, abituati alla gerarchia dell' Armata Rossa, furono disorientati ed allarmati dalle maniera dei gedalisti. Le decisioni venivano prese alla buona, in assemblee chiassose; altre volte si accettavano spensieratamente disegni temerari di Gedale, di Jòzek o di altri; altre volte ancora nascevano litigi, che però si placavano presto. Non sembrava che entro la banda ci fossero tensioni o disaccordi permanenti. I componenti si proclamavano sionisti, ma di tendenze svariate, con tutte le sfumature che si possono inserire fra il nazionalismo ebraico, l' ortodossia marxista, l' ortodossia religiosa, l' egualitarismo anarchico e il ritorno tolstoiano alla terra, che ti redimerà se tu la redimi. Anche Gedale si dichiarava sionista. Per parecchi giorni Mendel cercò di capire a quale tendenza appartenesse, ma alla fine ci rinunciò: seguiva simultaneamente diverse idee, o nessuna, o cambiava spesso. Certo era più portato all' azione che alla teoria, e i suoi scopi erano semplici: sopravvivere, portare ai tedeschi il massimo danno, e andare in Palestina. Gedale era curioso fino all' indiscrezione. Ai nuovi venuti non chiese alcun dato anagrafico e neppure li prese in forza ufficialmente, ma volle sapere la storia di ognuno, e l' ascoltò con l' attenzione candida dei bambini. Sembrava provare simpatia per tutti, apprezzare le virtù di tutti, ignorare le loro debolezze. _ L-khàyim, _ disse a Pavel dopo aver ascoltato la sua storia, _ alla vita. Benvenuto fra noi, sia benedetta la tua schiena. Abbiamo bisogno di schiene come la tua. Tu sei un bisonte ebreo: un animale raro, ti terremo prezioso. Magari non vorresti esserlo, ma chi nasce ebreo resta ebreo, e chi nasce bisonte resta bisonte. Sia benedetto colui che entra. Era la prima sosta tranquilla che la banda si concedeva dopo essere uscita dall' accerchiamento. Aveva passato la notte nel fienile di una casa colonica abbandonata, avevano trovato acqua limpida nel pozzo, l' aria era leggera e profumata, tutti i visi erano distesi, e Gedale si stava divertendo. Leonid compresse la sua storia nell' arco di due o tre minuti, ma Gedale non se ne adombrò e non volle saperne di più. Gli disse solo: _ Tu sei molto giovane. È una malattia che guarisce presto, anche senza medicine, ma può essere pericolosa ugualmente. Finché ce l' hai addosso, abbiti riguardo. Leonid lo guardò attonito e sospettoso: _ Che cosa hai voluto dire? _ Non mi vorrai prendere alla lettera. Anch' io ho sangue di profeta, come ogni figlio d' Israele, e ogni tanto gioco a fare il profeta. Con Line e Sissl abbandonò il vaticinio e sfoderò maniere da operetta. Le chiamò "mie nobili dame", ma volle sapere quanti anni avevano, se erano ancora vergini e chi erano stati i loro uomini. Sissl rispose intimidita, Line con fierezza chiusa, tutte e due mostrarono fretta di porre fine all' interrogatorio. Gedale non insistette e si rivolse a Mendel. Ascoltò attento la sua narrazione, e gli disse: _ Tu non reciti. Sei rimasto un orologiaio, non hai messo su le penne del pavone e neanche quelle del falco. Benvenuto anche tu, ci sarai utile perché sei un prudente, servirai da contrappeso. Qui tra noi la prudenza è andata un po' dimenticata. Abbiamo anche poca memoria, salvo che per una cosa. _ Quale? _ chiese Mendel. Gedale accostò solennemente l' indice al naso: _ "Ricòrdati quello che ti ha fatto Amalec nel cammino, dopo che voi eravate usciti dall' Egitto. Ti ha assaltato mentre eri in strada, ha ucciso tutti i deboli, i malati e gli affaticati che erano alla tua retroguardia; non ha avuto timore di Dio. Perciò, quando il tuo Dio ti avrà dato requie dai tuoi nemici, tu di Amalec spegnerai perfino la memoria: non lo dimenticare". Ecco, questo noi non lo dimentichiamo. Ho citato a memoria, ma questa volta non a sproposito. A metà maggio la banda di Gedale era accampata sulle rive del Gorin, bianche di mughetti e di margherite frettolose. Uomini e donne, nudi o quasi, si lavavano con gioia nell' acqua lenta del fiume. Jòzek, con due compagni armati, era partito per Recitsa con le due vacche e il cavallo di Pavel: a Recitsa, presso il confine ucraino, c' era mercato. Ritornò poche ore dopo; aveva barattato le vacche contro pane, formaggio, lardo, carne salata, sapone: il resto era in marchi tedeschi d' occupazione. Il Tordo incedeva glorioso e sudato sotto il carico. Sembrava quasi che la guerra fosse finita, comunque era finito l' inverno. Nella cittadina Jòzek non aveva visto traccia di tedeschi: se c' erano, se ne stavano acquattati. Non aveva avuto bisogno di dare spiegazioni né di mercanteggiare, i contadini avevano imparato da un pezzo che con i partigiani (di qualsiasi colore) non si doveva essere né curiosi né avari. Al ritorno, Jòzek vide una buona metà della banda schierata in silenzio sulla sponda del fiume; Gedale seduto su un ceppo, con i piedi nell' acqua e il violino a mezz' aria; ed Izu, uno degli uomini di Blizna, peloso come un orso e tutto nudo, che guadava lentissimo, passo dopo passo, verso uno scoglio in mezzo alla corrente. Tutti lo stavano guardando, e lui faceva cenno a tutti di non muoversi e non parlare. Quando fu ai piedi dello scoglio, si immerse completamente, sempre con estrema prudenza; si vide l' acqua agitarsi per un istante, ed Izu emerse stringendo fra le mani un grosso pesce che si dibatteva. Lo morse dietro la testa, e il pesce si afflosciò: era lungo due palmi, le sue scaglie color bronzo scintillavano al sole. _ Che cosa ha preso, Izu? _ chiese Gedale. _ Credevo che fosse una trota; invece è un sazàn! _ rispose Izu orgoglioso, risalendo la riva. _ È strano, nell' acqua così bassa _. Si accovacciò presso una pietra piatta, sventrò il pesce, lo lavò nell' acqua corrente, lo incise lungo il dorso con il coltello, e prese a staccarne la carne dai fianchi ed a mangiarla. _ Come, non lo fai cuocere? _ Il pesce cotto non ha più vitamine, _ rispose Izu masticando. _ Però è più gustoso. E poi ha più fosforo, e il fosforo fa diventare intelligenti. Si vede che voi di Blizna lo mangiate sempre crudo. Gedale salutò Jòzek da lontano, agitando la mano: _ Bravo, Jòzek, per una settimana siamo a posto _. Poi riprese a suonare il violino: si era spogliato fino alla cintura, ed aveva in viso un' espressione estatica, non si capiva se per la musica o per il pediluvio, ma Bella non gli dava requie. Delle tre donne che erano arrivate a Turov con la banda sembrava che Bella fosse la più vicina a Gedale, che si ritenesse la sua donna legittima e definitiva, e che Gedale fosse di opinione diversa oppure non si curasse di definire la questione. Insieme con altri, Bella stava montando una tenda militare, ma continuamente si interrompeva, ed interrompeva Gedale gridandogli all' orecchio come a un sordo; Gedale le rispondeva pazientemente, riprendeva a suonare, e di nuovo Bella lo interrompeva con le sue doglianze: _ Smettila con quel violino: vieni piuttosto a dare una mano! _ Appendilo ai salici, Gedale! _ gridò Dov di lontano. _ Non siamo ancora a Gerusalemme, ma non siamo più a Babilonia, _ rispose Gedale, e riprese a suonare. Bella era una biondina esile dal lungo viso imbronciato. Dimostrava una quarantina d' anni, mentre Gedale non doveva aver oltrepassato i trenta; distribuiva spesso rimbrotti e critiche, e dava ordini che nessuno eseguiva, ma non mostrava di risentirsene. Gedale la trattava con tenerezza appena tinta di ironia. Nella tarda mattinata le sentinelle avvistarono un uomo solo, che di lontano gridava "Non sparate!"; lo lasciarono avvicinare, ed era Piotr. Gedale lo accolse senza mostrare stupore: _ Bravo, hai fatto bene a venire con noi. Siediti, fra poco si mangia. _ Compagno comandante, _ disse Piotr, _ ho solo la rivoltella, il parabellum l' ho lasciato a quelli di Ulybin. _ Se lo portavi con te era meglio, ma non importa. _ Vedi, io lo so che non ho fatto bene, ma con Ulybin ho litigato. Era troppo duro, non solo con me ma con tutti. E una sera abbiamo avuto una discussione seria ... una discussione politica. _ E avete parlato dei gedalisti, non è vero? _ Come hai fatto a indovinarlo? Gedale non rispose, ma domandò a sua volta: _ Non manderà a cercarti? Guarda che noi con Ulybin non vogliamo questioni. _ Non manderà a cercarmi. È lui che mi ha cacciato via. Mi ha detto di posare il parabellum e di andarmene. Me l' ha detto lui di venire da voi. _ Te lo avrà detto da arrabbiato. O da ubriaco: magari poi ci ripensa. _ Era arrabbiato ma non era ubriaco, _ disse Piotr. _ E poi, adesso loro sono a quattro o cinque giorni di marcia. E io non sono un disertore. Non sono venuto con voi per paura; sono venuto per combattere con voi. Quella sera, senza un motivo preciso, nel campo di Gedale si fece festa: forse perché era stato il primo giorno fuori delle paludi e dei pericoli, e il primo giorno di primavera aperta; forse perché l' arrivo di Piotr aveva rallegrato tutti; o forse soltanto perché, frammezzo agli altri viveri accatastati sulla groppa del Tordo, Jòzek aveva riportato anche un barilotto di vodka polacca. Avevano acceso un fuoco fra due dune di sabbia e tutti sedevano intorno a cerchio; Dov disse a Gedale che forse era un' imprudenza, e allora Gedale spense il fuoco, ma il bagliore delle braci riscaldava gli animi ugualmente. Il primo ad esibirsi fu Pavel. Nessuno lo aveva chiamato, ma si mise fieramente in piedi presso le braci, prese un pezzo di carbone e si tracciò sul labbro superiore due baffetti, si tirò sulla fronte un ciuffo di capelli bagnati, salutò tutti col braccio teso all' altezza degli occhi, e incominciò a concionare. Dapprima parlò in tedesco, con rabbia crescente: il suo era un discorso improvvisato, contava più il tono che il contenuto, ma tutti risero quando lo udirono rivolgersi ai soldati tedeschi incitandoli a combattere fino all' ultimo uomo, e chiamandoli volta a volta eroi della Grande Germania, figli di puttana, cani celesti, difensori del nostro sangue e del nostro suolo, e buchi del culo. A grado a grado, la sua collera si faceva più rovente, fino a soffocargli la parola in un ringhio canino interrotto da accessi di tosse convulsa. Ad un tratto, come se fosse scoppiato un ascesso, lasciò il tedesco e continuò in jiddisch, e tutti si torsero dalle risa: era straordinario sentire Hitler, nel pieno del suo delirio, che nella lingua dei paria incitava qualcuno a massacrare qualcun altro, non si capiva se i tedeschi a massacrare gli ebrei o viceversa. Lo applaudirono con frenesia, gli chiesero il bis, e Pavel dignitosamente, invece di replicare il suo numero (che, spiegò, aveva collaudato nel 1937 in un cabaret di Varsavia) cantò "O sole mio", in una lingua che nessuno comprendeva e che lui sosteneva essere italiano. Poi venne sulla scena Mottel il Tagliagole. Mottel era un ometto dalle gambe corte e dalle braccia lunghissime, agile come una scimmia. Arraffò tre, poi quattro, poi cinque tizzoni, e se li fece volteggiare intorno, sopra la testa, sotto le gambe; sullo sfondo del cielo viola si disegnava un intrico sempre nuovo di parabole rutilanti. Fu applaudito, ringraziò inchinandosi ai quattro punti cardinali, e si ritirò imitando l' andatura sghemba dell' orango. Perché Tagliagole? Spiegarono a Mendel che Mottel non era il primo venuto. Era di Minsk, aveva trentasei anni, ed era tagliagole due volte. Nella prima metà della sua carriera era stato un tagliagole rispettabile: per quattro anni era stato il shokhèt, il macellaio rituale, della Comunità. Aveva superato l' esame prescritto, possedeva la licenza, ed era considerato un esperto nell' arte di mantenere affilato il coltello e di recidere con un solo colpo la trachea, l' esofago e le carotidi dell' animale. Ma poi (per colpa di una donna, si sussurrava) si era messo su una cattiva strada: aveva abbandonato la moglie e la casa, si era intruppato con la malavita locale, e, pur senza dimenticare il suo mestiere precedente e la preparazione teorica, era diventato bravo anche a tagliare le borse e a dare la scalata ai balconi. Aveva conservato il coltello rituale, lungo e con la punta ottusa; tuttavia, ad emblema del suo nuovo indirizzo, ne aveva spezzato obliquamente l' estremità, ricavandone una punta acuminata. Così modificato, il coltello si prestava anche ad altri usi. _ Una donna! Avanti una donna! _ gridò qualcuno con voce rauca di vodka. Si fece avanti Bella pettinandosi i capelli color della stoppa, ma Pavel, barcollando come un orso, la urtò con l' anca rimandandola nel cerchio degli spettatori, e riprese il suo posto. Non aveva ancora finito, e non si capiva se fosse ubriaco o fingesse soltanto. Questa volta era un rabbino chassidico; ubriaco, naturalmente, che snocciolava le preghiere del Sabato in preteso ebraico, di fatto in un russo da postribolo. Pregava a perdifiato, a velocità vertiginosa, perché (spiegò in un a parte) fra una stecca e l' altra non deve passare il porcellino: fra una parola sacra e l' altra non deve potersi far strada il pensiero profano. Questa volta gli applausi furono più moderati. Bella non si era arresa. Si accostò alle braci, levò in gesto grazioso la mano sinistra, pose la destra sul cuore e incominciò a cantare una romanza, "Si me ne andrò lontana"; ma non andò molto lontana, perché dopo poche battute la voce le si fece stridula e scoppiò a singhiozzare. Venne Gedale, la prese per mano e la condusse da parte. Da molte parti si faceva il nome di Dov. _ Vieni fuori, siberiano, _ gli disse Piotr, _ e raccontaci che cosa hai visto nella Grande Terra _. Gli fece seguito Pavel, che si era assunto il ruolo di maestro della festa: _ Ed ora, ecco per voi David Yavor, il più saggio fra noi, il più anziano e il più amato. Avanti, Dov, tutti ti vogliono vedere e ascoltare _. Era sorta la luna, quasi piena, e illuminava i capelli bianchi di Dov, che si avviò malvolentieri al centro dell' arena. Fece un riso timido e disse: _ Che cosa volete da me? Non so né cantare né ballare, e quello che ho visto a Kiev ve l' ho già raccontato troppe volte. _ Raccontaci di tuo nonno nichilista. _ Raccontaci della caccia all' orso al tuo paese. _ Raccontaci di quella volta che sei scappato dal treno dei tedeschi. _ Raccontaci della cometa _; ma Dov si schermì: _ Sono tutte cose che ho già raccontate, e non c' è noia più grande che ripetersi. Facciamo qualche gioco, invece; o qualche gara. _ La lotta! _ disse Piotr. _ Chi vuole misurarsi con me? Per qualche momento nessuno si mosse; poi ci fu una breve discussione fra Line e Leonid. Leonid intendeva accettare la sfida, e Line, per qualche motivo, cercava energicamente di dissuaderlo. Alla fine Leonid si svincolò; i due contendenti si sfilarono la giubba e gli stivali e si posero in guardia. Si afferrarono a vicenda per le spalle, cercando di ribaltarsi col gioco delle gambe; ruotarono più volte attorno, poi Leonid tentò di cingere Piotr alla vita e non ci riuscì. I due cani della banda abbaiavano inquieti, ringhiavano e rizzavano il pelo. Piotr, oltre che più forte di Leonid, era avvantaggiato dalle braccia più lunghe. Dopo una schermaglia confusa e non troppo corretta, Leonid cadde e Piotr gli fu subito sopra, facendogli toccare la terra con le spalle. Piotr salutò il pubblico con le mani levate, e si trovò davanti Dov. _ Che cosa vuoi, zio? _ chiese Piotr: era più alto di Dov di quasi tutta la testa. _ Lottare con te, _ rispose Dov, e si mise in guardia, ma con indolenza, con le mani che pendevano molli dai polsi, nell' atteggiamento che gli era abituale nei momenti di riposo. Piotr attese, perplesso. _ Ora ti insegno una cosa, _ disse Dov, e si fece sotto. Piotr arretrò tenendolo d' occhio. Il movimento di Dov, nel pallido chiarore della luna, non si distinse bene; si vide Dov tendere una mano e un ginocchio, abbassandosi leggermente, e Piotr vacillare sbilanciato e cadere sulla schiena. Si rialzò e si scosse via la polvere: _ Dove hai imparato questi colpi? _ chiese impermalito; _ te li hanno insegnati da militare? _ No, _ rispose Dov, _ me li ha insegnati mio padre _. Gedale disse che Dov avrebbe dovuto istruire tutta la banda in quel modo di lottare, e Dov rispose che lo avrebbe fatto volentieri, specialmente con le donne. Tutti risero, e Dov aggiunse che quella era la lotta dei Samoiedi: nel luogo dove lui era nato erano state deportate diverse famiglie di Samoiedi. _ Sono i russi che li hanno chiamati così, perché credevano che mangiassero carne umana: "Samo-jed" vuol dire "mangia-se-stesso", ma a loro questo nome non piace. Sono brava gente, e da loro si imparano molte cose; ad accendere il fuoco quando c' è il vento, a ripararsi dalla tormenta sotto un cumulo di fascine. Anche a guidare le slitte trainate dai cani. _ Questo, è meno facile che ci venga utile, _ osservò Piotr. _ Ma questo, invece, può servire, _ disse Dov. Dal cinturone che Piotr aveva deposto insieme con la giubba, estrasse il coltello; lo afferrò con le due dita per la punta, lo librò per un momento come per prendere la mira, poi lo scagliò contro il tronco di un acero, lontano otto o dieci metri. Il coltello volò volteggiando e si piantò profondo nel legno. Provarono altri, primo fra tutti Piotr, stupito e ingelosito, ma nessuno riuscì, neppure riducendo a metà la distanza dall' albero: nel migliore dei casi, il coltello colpiva il tronco col manico o di piatto e cadeva a terra. Gedale e Mendel non riuscirono neppure a centrare il tronco. _ Peccato che al posto dell' acero non ci fosse il Dottor Goebbels, _ disse Jòzek, che non aveva preso parte né allo spettacolo né ai giochi. Dov spiegò che per uccidere un uomo non va bene un coltello qualunque; ci vogliono coltelli speciali, sottili ma pesanti, e ben bilanciati. _ Capito, Jòzek? _ disse Gedale, _ tienilo a mente, la prossima volta che vai al mercato. Alcuni dormivano già quando Gedale prese il violino e cominciò a cantare; ma non cantava per essere applaudito. Cantava sommesso, lui che era così chiassoso quando parlava; altri gedalisti si unirono, alcune voci del coro erano armoniose ed altre meno, ma tutte erano convinte e risentite. Mendel e i suoi ascoltarono con stupore il ritmo, che era alacre, quasi di una marcia, e le parole, che erano queste: "Ci riconoscete? Siamo le pecore del ghetto, Tosate per mille anni, rassegnate all' offesa. Siamo i sarti, i copisti ed i cantori Appassiti nell' ombra della Croce. Ora abbiamo imparato i sentieri della foresta, Abbiamo imparato a sparare, e colpiamo diritto. Se non sono io per me, chi sarà per me? Se non così, come? E se non ora, quando? I nostri fratelli sono saliti al cielo Per i camini di Sobibòr e di Treblinka, Si sono scavati una tomba nell' aria. Solo noi pochi siamo sopravvissuti Per l' onore del nostro popolo sommerso Per la vendetta e la testimonianza. Se non sono io per me, chi sarà per me? Se non così, come? E se non ora, quando? Siamo i figli di Davide e gli ostinati di Massada. Ognuno di noi porta in tasca la pietra Che ha frantumato la fronte di Golia. Fratelli, via dall' Europa delle tombe: Saliamo insieme verso la terra Dove saremo uomini fra gli altri uomini. Se non sono io per me, chi sarà per me? Se non così, come? E se non ora, quando?" Finito che ebbero di cantare, tutti si addormentarono avvolti nelle coperte; vegliarono solo le sentinelle, arrampicate sugli alberi ai quattro angoli dell' accampamento. Al mattino Mendel chiese a Gedale: _ Che cosa cantavate ieri sera? È il vostro inno? _ Chiamalo così se vuoi; ma non è un inno, è solo una canzone. _ L' hai composta tu? _ La musica è mia, ma cambia un poco, di mese in mese, perché non sta scritta da nessuna parte. Le parole invece non sono mie. Eccole, guarda, sono scritte qui. Dalla tasca interna della giubba Gedale cavò fuori un plico di tela incerata legato con uno spago. Lo disfece e ne estrasse un foglio quadrettato, sgualcito, intestato 13 Juni, Samstag. Era stato strappato senza garbo da un' agenda, ed era fittamente ricoperto di caratteri jiddisch tracciati a matita. Mendel lo prese, lo guardò con attenzione, poi lo rese a Gedale: _ Leggo a stento i caratteri stampati, e il corsivo non lo leggo affatto. L' ho dimenticato. Gedale disse: _ Io ho imparato a leggerlo tardi, nel '42, nel ghetto di Kossovo: in una occasione è servito come linguaggio segreto. A Kossovo c' era con noi Martin Fontasch. Di mestiere era carpentiere, si è guadagnato da vivere così fino alla fine, ma la sua passione era comporre canzoni. Faceva tutto da solo, le parole e la musica, ed era conosciuto in tutta la Galizia; si accompagnava con la chitarra, e cantava le sue canzoni ai matrimoni e alle feste di paese; qualche volta anche nei caffè concerto. Era un uomo pacifico e aveva quattro figli, ma è stato con noi nella rivolta del ghetto, è scappato con noi ed è venuto nel bosco, lui solo e non più giovane: tutti i suoi erano stati uccisi. Nella primavera dell' anno scorso eravamo dalle parti di Novogrudok e c' è stato un brutto rastrellamento; metà dei nostri sono morti combattendo, Martin è stato ferito ed è caduto prigioniero. Il tedesco che lo ha perquisito gli ha trovato in tasca un flauto: più che un flauto era un piffero, un giocattolo da quattro soldi che Martin si era fatto da sé intagliando un ramo di sambuco. Ora quel tedesco era un suonatore di flauto: ha detto a Martin che un partigiano si impicca e un ebreo si fucila, lui era ebreo e partigiano, e poteva scegliere. Però era anche un suonatore, e allora lui, essendo un tedesco che amava la musica, gli concedeva di esprimere un ultimo desiderio: ma che fosse un desiderio ragionevole. _ Martin chiese di comporre un' ultima canzone, e il tedesco gli concesse mezz' ora di tempo, gli diede questo foglio e lo chiuse in una cella. Trascorso il tempo, ritornò, si fece dare la canzone e lo uccise. È stato un russo che ci ha raccontato questa storia; da principio collaborava coi tedeschi , poi i tedeschi lo sospettarono di fare il doppio gioco e lo chiusero nella cella accanto a quella di Martin, ma riuscì ad evadere e rimase con noi qualche mese. Pare che il tedesco fosse fiero della canzone di Martin; la faceva vedere in giro come una curiosità e si riprometteva di farsela tradurre alla prima occasione. Ma non ha fatto in tempo. Noi lo tenevamo d' occhio, lo abbiamo seguito, lo abbiamo isolato, e una notte siamo entrati scalzi nell' isba requisita dove lui abitava. A me piace la giustizia e avrei voluto chiedergli qual era il suo ultimo desiderio, ma Mottel mi faceva fretta, così io l' ho strozzato nel suo letto. Gli abbiamo trovato addosso il flauto di Martin e la canzone: a lui non ha portato fortuna, ma per noi è come un talismano. Ecco, guarda qui: fin quaggiù è il testo che ci hai sentito cantare, e queste parole in fondo dicono così: "Scritto da me Martin Fontasch, che sto per morire. Sabato 13 giugno 1943". L' ultima riga non è in jiddisch ma in ebraico; sono parole che tu conosci, "Ascolta Israele, il Signore Iddio nostro è unico". _ Aveva composto molte altre canzoni, allegre e tristi; la più famosa l' aveva scritta molti anni prima che in Polonia arrivassero i tedeschi, in occasione di un pogrom: a quel tempo, a fare i pogrom ci pensavano i contadini. Quasi tutti i polacchi la conoscono, non solo gli ebrei, ma nessuno sa che l' ha composta Martin il carpentiere. Gedale rifece il plico e lo rimise in tasca: _ Adesso basta, pensieri come questi non sono per tutti i giorni. Vanno bene ogni tanto, ma se uno ci vive dentro se ne avvelena e non è più un partigiano. E tieni bene a mente che io credo in tre cose soltanto, alla vodka, alle donne e al parabellum. Una volta credevo anche nella ragione, ma adesso non più. Qualche giorno dopo Gedale decise che il riposo era durato abbastanza, ed era tempo di riprendere il cammino: _ ... ma questa è una banda aperta, e chi preferisce rimanere in Russia se ne può andare; senza le armi, s' intende. Può aspettare il fronte, o andare dove gli pare _. Nessuno scelse di lasciare la banda, e Gedale chiese a Piotr: _ Conosci questo paese? _ Abbastanza, _ rispose Piotr. _ Quanto è distante la ferrovia? _ Una dozzina di chilometri. _ Benissimo, _ disse Gedale. _ La prossima tappa la facciamo in treno. _ In treno? Ma tutti i treni sono scortati! _ disse Mendel. _ Ebbene, provare si può sempre. Con le scorte si ragiona _. A Gedale apparve più seria l' obiezione di Pavel: _ E il cavallo? Non vorrai mica abbandonarlo. Oltre a tutto ci serve, metà dei bagagli li porta lui. Gedale si rivolse di nuovo a Piotr: _ Che treni passano su questa linea? _ Treni merci, quasi tutti; a volte c' è a bordo anche qualche passeggero, gente che fa la borsa nera. Se portano materiale per i tedeschi, sono scortati, ma non è mai una grossa scorta: due uomini sulla locomotiva e due in coda. Tradotte militari di qui non ne passano mai. _ Qual è la stazione più vicina? _ È Kolki, quaranta chilometri a sud: è una piccola stazione. _ C' è il piano caricamento? _ Non lo so. Non ricordo. Intervenne Dov: _ Ma perché ci vuoi far prendere il treno? Gedale rispose con impazienza: _ E perché non dovremmo prenderlo? Camminiamo da più di mille chilometri; e la ferrovia è a due passi; e insomma io voglio entrare in terra polacca in una maniera che la gente si ricordi di noi. Ci pensò su un momento e aggiunse: _ Abbordare un treno in stazione è troppo pericoloso. Bisogna fermarlo in aperta campagna, ma allora il cavallo non può salire. Ecco, il grosso dei bagagli li prendiamo noi, tanto la tappa è breve; tu Pavel vai avanti col cavallo e ci aspetti a Kolki. Pavel non era convinto: _ E se non arrivate? _ Se non arriviamo ci vieni incontro col cavallo. _ E se il piano caricamento non c' è? Gedale scosse le spalle: _ E se, e se, e se! Solo i tedeschi prevedono tutto, ed è per questo che perdono le guerre. Se non c' è ci arrangeremo. Vedremo sul posto, il modo non ci mancherà. Parti, Pavel; ricordati che sei un contadino, e non farti vedere troppo nell' abitato. Da queste parti, i tedeschi i cavalli li requisiscono. Pavel partì al trotto, ma era ancora in vista quando il Tordo ricadde nel suo solenne passo abituale. Gedale e i suoi si misero in marcia e in poco più di due ore raggiunsero la ferrovia. Era a un solo binario, e tagliava la prateria da un orizzonte all' altro diritta come un raggio di luce. È facile confondere la speranza con la probabilità. Tutti si aspettavano che il treno venisse da nord e fosse diretto al confine polacco; dopo qualche ora di attesa lo videro invece arrivare da sud. Era un merci e viaggiava lentamente. Gedale fece appostare uomini armati dietro i cespugli ai due lati dei binari, poi, in maniche di camicia e disarmato, si pose fra le rotaie sventolando uno straccio rosso. Il treno rallentò e si fermò, e dalla cabina di guida incominciarono immediatamente a sparare. Gedale scattò via in un lampo e si defilò dietro un nocciolo; tutti gli altri risposero al fuoco. Mendel, mentre anche lui sparava cercando di centrare le feritoie della locomotiva, ammirò la preparazione militare dei gedalisti. Da quanto aveva visto delle loro maniere fino a quel momento, si sarebbe aspettato che fossero spericolati, come infatti erano; ma non aveva previsto la precisione e l' economia del loro fuoco, e la tecnica corretta con cui si erano disposti. Sarti, copisti e cantori, diceva la loro canzone: ma avevano imparato presto e bene il loro nuovo mestiere. L' inesperto e lo spaurito si riconoscono subito, perché cercano il riparo massiccio, la roccia o il grosso tronco, che proteggono sì, ma impediscono di spostarsi e di sparare senza esporre il capo. Invece tutti si erano appiattati dietro cespugli folti, e sparavano attraverso le foglie, spostandosi spesso per disorientare l' avversario. Anche la scorta del treno, al riparo delle lamiere, sparava preciso e fitto: dovevano essere almeno quattro uomini, e non facevano economia di munizioni. Nel vagone di coda, invece, non c' era difesa. Mendel vide a un tratto Mottel balzare fuori ed avventarsi al convoglio. In un attimo si arrampicò sul tetto dell' ultimo vagone; lassù era al riparo, e del resto dalla cabina non lo avevano visto. Aveva appesa alla cintura una granata a mano tedesca, di quelle a forma di clava, che esplodono a tempo, e correva verso la locomotiva di vagone in vagone, saltando le giunzioni. Quando fu sul tetto del primo vagone lo si vide strappare l' innesco della granata e aspettare qualche secondo; poi, con la granata stessa, ruppe il vetro del lunotto della cabina e lasciò cadere la granata nell' interno. Ci fu l' esplosione ed il fuoco cessò. Nella cabina trovarono che i tedeschi della scorta erano solo tre; uno era ancora vivo, e Gedale lo finì senza esitare. Anche il macchinista e il fuochista erano morti; peccato, disse Gedale, loro non c' entravano e ci sarebbero stati utili: beh, chi serve i tedeschi ha dei rischi e lo sa. Faceva il broncio come un bambino. L' iniziativa di Mottel era stata brillante ma aveva guastato i suoi piani: _ E chi la fa muovere, adesso? Chissà la tua bomba che guai ha combinato sulle leve di comando; e oltre a tutto bisogna invertire la marcia. _ Tu, comandante, sei una testa dura e non sei mai contento, _ disse Mottel che si aspettava un elogio. _ Io ti regalo un treno e tu mi critichi. Un' altra volta voi andate all' attacco e io accendo la pipa. Gedale non gli diede ascolto, e disse a Mendel di salire in cabina e di vedere se se la cavava a rimettere la macchina in moto. Altri uomini intanto stavano ispezionando il convoglio. Ritornarono delusi: non portava roba pregiata, solo sacchi di cemento, calce e carbone. Gedale fece sgomberare dal cemento due vagoni coperti, per gli uomini e per il cavallo: non aveva abbandonato l' idea della scampagnata ferroviaria. Era molto eccitato; ordinò di tagliare tutti i sacchi col coltello, poi ci ripensò e ne fece accatastare un buon numero fra i binari davanti alla motrice: _ Con meno fretta si sarebbe potuto fare un buon lavoro; ma anche così, con un po' di pioggia e un po' di fortuna, farà un bel blocco _. Poi salì in cabina da Mendel: _ Allora? Che cosa mi sai dire? _ Una locomotiva non è un orologio, _ rispose Mendel seccato. _ Nu, sempre ingranaggi sono, e la tua non è una risposta. Una locomotiva non è un orologio, e un orologiaio non è un ferroviere, e un bue non è un porco, e uno come me non è un capobanda, ma fa il capobanda e lo fa meglio che può; anzi, fa il capobandito _. Qui Gedale rise, di quel suo riso facile che rischiarava l' aria in un attimo. Rise anche Mendel: _ Adesso scendi, che proviamo. Gedale scese e Mendel armeggiò fra i comandi. _ Attento, ora do il vapore _. Il fumaiolo sbuffò, i respingenti gemettero, e il convoglio si spostò a ritroso di qualche metro; tutti gridarono "urrà", ma Mendel disse: _ C' è ancora pressione in caldaia, ma durerà poco. Non basta il macchinista, ci vuole anche il fuochista _. Quanto erano efficienti i gedalisti nel combattimento, altrettanto erano confusionari nelle scelte di pace. Nessuno voleva fare il fuochista; dopo un' intricata discussione, a Mendel fu assegnata come aiutante una donna, che però era forte come un uomo: Ròkhele Nera, che doveva scontare una punizione perché diversi giorni prima, nel corso della pulizia delle armi, aveva smarrito la molla di un moschetto. Si chiamava Ròkhele Nera per distinguerla da Ròkhele Bianca: era scura in viso come una zingara, magra e svelta. Aveva gambe lunghissime, lungo anche il collo, che reggeva un piccolo viso triangolare illuminato dagli occhi ridenti ed obliqui. Portava i capelli neri raccolti in una crocchia. Era anche lei una veterana di Kossovo, benché avesse poco più di vent' anni. Ròkhele Bianca invece era una creatura semplice e mite, che non parlava quasi mai, e quando parlava lo faceva con voce così bassa che si stentava a capirla. Per questi motivi nessuno sapeva nulla di lei, né lei sembrava desiderosa di far sapere qualcosa a qualcuno: seguiva passivamente il cammino della banda, obbediva a tutti e non protestava mai. Veniva da un remoto villaggio della Galizia ucraina. Mendel mostrò alla Nera come doveva fare per alimentare la caldaia, tutti gli altri salirono sui due vagoni liberi e il treno si mosse, spinto invece che trainato. Mendel bloccò la manetta del vapore su una velocità molto bassa, perché dalla cabina non poteva vedere la via. Jòzek si era installato col mitra nell' abitacolo del frenatore, sull' ultimo vagone che ora era il primo, e faceva da battistrada; ogni tanto si sporgevano entrambi, e Jòzek segnalava a Mendel se la via era libera. La fuochista rideva come a un gioco e impalava carbone con entusiasmo infantile; in breve fu tutta sudata, e nera sul serio, da capo a piedi, tanto che occhi e denti brillavano come fanali nel buio. Mendel, invece, non si divertiva affatto. La soddisfazione per aver domato quel bestione meccanico si spense presto; il sangue sul pavimento di lamiera lo metteva a disagio, si sentiva inquieto per quella marcia fatta quasi alla cieca, e l' intera impresa gli sembrava una follia gratuita e un' imprudenza estrema. Non capiva quali lontane intenzioni avesse Gedale. A metà strada si dovette convincere che Gedale aveva raramente intenzioni lontane, e preferiva improvvisare: si era sporto dal vagone e gli faceva cenno di fermare. Fermò, e scesero tutti e due. _ Senti, orologiaio, mi è venuto in mente che sarebbe bene danneggiare questo treno più che possiamo. Che cosa si può fare? _ Qui, proprio niente, _ rispose Mendel. _ Se andassimo per diritto invece che a rovescio, potremmo sganciare i vagoni e bloccarli in qualche modo, ma così è un altro discorso. Ecco, il solo lavoro che si può fare è di ribaltare le sponde dei vagoni scoperti; così, con le scosse, tutta la calce e il carbone finiranno sparsi sulla scarpata. _ E i vagoni stessi e la locomotiva? _ Ci penseremo dopo, _ disse Mendel. _ Quando tu ne avrai avuto abbastanza. Gedale ignorò la provocazione, mandò tre uomini a ribaltare le sponde, e il treno ripartì seminando allegramente il materiale dai due lati. Arrivarono a Kolki nel primo pomeriggio, e i vagoni erano quasi vuoti: Pavel col cavallo li aspettava sul piano caricamento. Nella stazioncina non c' era nessuno, salvo il capostazione, che però vide il mitragliatore in mano a Jòzek, fece una specie di saluto militare e si ritirò. Mendel frenò, caricò in un istante Pavel e il Tordo, e ripartì. Gedale era felice, e fece segno a Mendel di andare avanti, e più in fretta: "A Sarny! A Sarny!" Al di sopra dello strepito della macchina, dai due vagoni arrivavano fino a Mendel grida e canti, e i nitriti di Tordo spaventato. Poco dopo fu Mendel che prese l' iniziativa di fermare il treno presso un fiumiciattolo che solcava la steppa disabitata. Non solo per riposarsi e per dar modo a Ròkhele di lavarsi un poco, ma anche per avvisare che l' acqua del serbatoio stava per finire. Tutti si misero al lavoro, facendo la spola al fiume con i pochi recipienti disponibili: qualche pentola di cucina e un secchio trovato sulla motrice. L' operazione andava per le lunghe, e Mendel ne approfittò per ascoltare Pavel, che stava raccontando quanto aveva visto a Kolki. _ Non abbiamo corso nessun rischio, né il cavallo né io. Nessuno si è occupato di noi né ci ha rivolto la parola, eppure credo proprio che nessuno mi abbia preso per un contadino. Tedeschi non ne ho visti; ci devono pur essere, perché davanti al municipio c' erano i loro manifesti di propaganda, ma in strada non si fanno vedere. La gente non ha più paura di parlare, o ne ha meno di prima; sono entrato in un' osteria, c' era la radio accesa, e la voce era quella di Radio Mosca: diceva che i russi hanno ripreso la Crimea, che tutte le città tedesche sono bombardate di giorno e di notte, e che in Italia gli alleati sono alle porte di Roma. Ah, come è bello passeggiare nelle strade di un paese, vedere i balconi con i vasi di fiori, le insegne dei negozi, le finestre con le tendine! Guardate che cosa vi ho portato: l' ho staccato io dal muro, ce n' è su tutte le cantonate. Pavel mostrava in giro un manifesto, stampato in grossi caratteri su brutta carta gialliccia, in russo e in polacco. Diceva: "Non lavorate per i tedeschi, non date loro informazioni. Chi fornirà grano ai tedeschi verrà ucciso. Lettore, ti stiamo spiando; se strappi questo manifesto ti spareremo". _ E tu lo hai strappato? _ chiese Mottel. _ Non l' ho strappato, l' ho staccato: è un' altra cosa. L' ho staccato con rispetto, chiunque si sarebbe accorto che lo portavo via per farlo vedere a qualcuno; e difatti non mi hanno sparato. Vedete? è firmato dal Reggimento Stella Rossa: comandano loro. _ Comandiamo anche noi, _ interruppe Gedale con impeto. _ Entreremo a Sarny a modo nostro: in modo da farci ricordare. Chi conosce Sarny? La conosceva Jòzek, che ci aveva fatto il servizio militare nell' esercito polacco: una cittadina modesta, forse ventimila abitanti. Qualche fabbrica, una filanda e un' officina per la riparazione del materiale ferroviario. La stazione? Jòzek la conosceva benissimo perché ci era stato di presidio poco prima che scoppiasse la guerra; Sarny era l' ultima città polacca prima della frontiera, i russi ci erano entrati senza combattere, subito dopo l' inizio delle ostilità. Era una stazione abbastanza importante, perché ci passava la linea per Lublino e Varsavia, e per via dell' officina di riparazioni. C' era un gran capannone e una piattaforma girevole, appunto per avviare le locomotive all' officina. Gedale si illuminò, e disse a Mendel: _ La tua macchina farà una fine gloriosa _. Mendel disse che sperava di non farla anche lui. Gedale fece fermare il treno a notte, all' imbocco dello smistamento, e fece scendere tutti dai vagoni. Il cavallo, impaurito dal buio, si imbizzarrì: rifiutava di scendere, tentava di inalberarsi, nitriva convulso e scalciava contro la parete di fondo del vagone. Lo tirarono e spinsero, alla fine si decise a saltare, ma atterrò malamente rompendosi una zampa anteriore; Pavel si allontanò senza dire parola, e Gedale lo finì sparandogli nella nuca. Anche la stazione di Sarny sembrava deserta: nessuno reagì allo sparo. Gedale disse a Mendel di spingere i vagoni su un binario laterale, e a Jòzek e Pavel di andare avanti cauti, e di deviare gli scambi in direzione della piattaforma; tornarono a lavoro compiuto, e riferirono che il ponte della piattaforma era in posizione trasversale rispetto al binario di arrivo: benissimo, disse Gedale. Avrebbe mandato la locomotiva a fracassarsi nella fossa della piattaforma, l' officina sarebbe rimasta bloccata per almeno un mese. _ Non sei convinto, orologiaio? Ti ci sei affezionato, eh? Un poco anch' io, ma ad andare più avanti non mi fido, e non la voglio regalare ai tedeschi. E ti dirò una cosa che ho imparata nei boschi: le imprese che riescono meglio sono quelle che il tuo nemico non crede che tu possa fare. Su, spingi via i vagoni, metti in moto la macchina e salta giù. Mendel obbedì. La locomotiva senza equipaggio sparì nel buio, visibile soltanto per le faville che scaturivano dal fumaiolo. Tutti aspettarono col fiato sospeso; pochi minuti dopo si udì un fracasso di lamiere sfondate, un rombo di tuono, e un sibilo acuto che andò estinguendosi lentamente. Ululò una sirena d' allarme, si sentirono voci concitate, i gedalisti fuggirono in silenzio verso la campagna. Mentre camminava a tentoni, nel buio dell' oscuramento, inciampando nelle rotaie e nei cavi, ronzavano nella testa di Mendel, incongrue, le parole della benedizione dei miracoli: "Benedetto sii Tu o Signore Dio nostro, re del mondo, che hai fatto per noi un miracolo in questo luogo". In questo modo la banda di Gedale segnò il suo ingresso nel mondo abitato.

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Forse avresti dovuto fare come loro, hanno avuto ragione loro, i due nebech; non hanno fatto come te con Line, hanno chiuso gli occhi e si sono abbandonati e il seme dell' uomo non si è disperso e una donna ha concepito. Passò una suora spingendo un carrello. Line, che sonnecchiava stanca, si riscosse e disse: _ Era un pezzo che non passavamo una notte bianca. _ Era un pezzo che non passavamo una notte insieme, _ rispose Mendel. No, non vivrei una vita insieme con Line, ma non posso lasciarla e non voglio lasciarla. Me la porterò dentro sempre, anche se saremo divisi, come sono stato diviso da Rivke. Si sentiva la città risvegliarsi, stridere i tram, alzarsi le saracinesche dei negozi. Dalla sala uscì un' infermiera, poi uscì il medico stesso e rientrò poco dopo. Isidor, non più arrogante ma supplichevole, fece domande che furono comprese a dispetto della lingua: il medico fece gesti rassicuranti, mostrò l' orologio da polso, fra due ore, fra un' ora. Si udirono grida ripetute, ronzare un motore, poi silenzio. Finalmente, a giorno pieno, uscì un' infermiera dal viso allegro, reggendo un fagottino. _ Maschio, maschio, _ rideva. Nessuno capì, lei si volse in giro, si trovò sottomano Izu l' irsuto, e gli dette uno strattone alla barba: _ Maschio, come lui! Tutti si alzarono in piedi. Mendel e Line abbracciarono Isidor, i cui occhi, arrossati dalla veglia, erano divenuti lucidi. Uscì anche il dottore, batté la mano sulla spalla di Isidor e si avviò per il corridoio, ma si imbatté in un collega che stava avanzando col giornale spiegato e si fermò a discutere con lui. Intorno ai due si raggrupparono altri medici, suore, infermiere. Si avvicinò anche Mendel, e riuscì a vedere che il giornale, costituito da un solo foglio, portava un titolo in corpo molto grande, di cui non capì il significato. Quel giornale era del martedì 7 agosto 1945, e recava la notizia della prima bomba atomica lanciata su Hiroshima.

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Se questo è un uomo

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Levi, Primo 1 occorrenze

Rispose che probabilmente i tedeschi ci avrebbero abbandonati al nostro destino: no, non credeva che ci avrebbero uccisi. Non metteva molto impegno a nascondere che pensava il contrario, la sua stessa allegria era significativa. Era già equipaggiato per la marcia; appena fu uscito, i due ragazzi ungheresi presero a parlare concitatamente fra di loro. Erano in avanzata convalescenza, ma molto deperiti. Si capiva che avevano paura di restare coi malati, deliberavano di partire coi sani. Non si trattava di un ragionamento: è probabile che anche io, se non mi fossi sentito così debole, avrei seguito l' istinto del gregge; il terrore è eminentemente contagioso, e l' individuo atterrito cerca in primo luogo la fuga. Fuori della baracca si sentiva il campo in insolita agitazione. Uno dei due ungheresi si alzò, uscì e tornò dopo mezz' ora carico di stracci immondi. Doveva averli sottratti al magazzino degli effetti da passare alla disinfezione. Lui e il suo compagno si vestirono febbrilmente, indossando stracci su stracci. Si vedeva che avevano fretta di mettersi davanti al fatto compiuto, prima che la paura stessa li facesse recedere. Era insensato pensare di fare anche solo un' ora di cammino deboli come erano, e per di più nella neve, e con quelle scarpe rotte trovate all' ultimo momento. Tentai di spiegarlo, ma mi guardarono senza rispondere. Avevano gli occhi come le bestie impaurite. Solo per un attimo mi passò per il capo che potevano anche aver ragione loro. Uscirono maldestri dalla finestra, li vidi, fagotti informi, barcollare fuori nella notte. Non sono tornati; ho saputo molto più tardi che, non potendo proseguire, furono abbattuti dalle SS poche ore dopo l' inizio della marcia. Anche per me ci voleva un paio di scarpe: era chiaro. Pure ci volle forse un' ora perché riuscissi a vincere la nausea, la febbre e l' inerzia. Ne trovai un paio nel corridoio (i sani avevano saccheggiato il deposito delle scarpe dei ricoverati, e si erano prese le migliori: le più scadenti, sfondate e spaiate, giacevano in tutti i canti). Proprio là incontrai Kosman, un alsaziano. Era, da civile, corrispondente della "Reuter" a Clermont-Ferrand: anche lui eccitato ed euforico. Disse: _ Se dovessi tu ritornare prima di me, scrivi al sindaco di Metz che io sto per rientrare. Kosman aveva notoriamente conoscenze fra i Prominenti, perciò il suo ottimismo mi parve buon indizio e lo utilizzai per giustificare davanti a me stesso la mia inerzia. Nascosi le scarpe e ritornai a letto. A tarda notte venne ancora il medico greco, con un sacco sulle spalle e un passamontagna. Gettò sulla mia cuccetta un romanzo francese: _ Tieni, leggi, italiano. Me lo renderai quando ci rivedremo _. Ancora oggi lo odio per questa sua frase. Sapeva che noi eravamo condannati. E venne finalmente Alberto, sfidando il divieto, a salutarmi dalla finestra. Era il mio indivisibile: noi eravamo "i due italiani", e per lo più i compagni stranieri confondevano i nostri nomi. Da sei mesi dividevamo la cuccetta, e ogni grammo di cibo organizzato extra-razione; ma lui aveva superata la scarlattina da bambino, e io non avevo quindi potuto contagiarlo. Perciò lui partì e io rimasi. Ci salutammo, non occorrevano molte parole, ci eravamo dette tutte le nostre cose già infinite volte. Non credevamo che saremmo rimasti a lungo separati. Aveva trovato grosse scarpe di cuoio, in discreto stato: era uno di quelli che trovano subito tutto ciò di cui hanno bisogno. Anche lui era allegro e fiducioso, come tutti quelli che partivano. Era comprensibile: stava per accadere qualcosa di grande e di nuovo: si sentiva finalmente intorno una forza che non era quella della Germania, si sentiva materialmente scricchiolare tutto quel nostro mondo maledetto. O almeno, questo sentivano i sani, che, per quanto stanchi e affamati, avevano modo di muoversi; ma è indiscutibile che chi è troppo debole, o nudo, o scalzo, pensa e sente in un altro modo, e ciò che dominava le nostre menti era la sensazione paralizzante di essere totalmente inermi e in mano alla sorte. Tutti i sani (tranne qualche ben consigliato che all' ultimo istante si spogliò e si cacciò in qualche cuccetta di infermeria) partirono nella notte sul 1. gennaio 1945. Dovevano essere circa ventimila, provenienti da vari campi. Nella quasi totalità, essi scomparvero durante la marcia di evacuazione: Alberto è fra questi. Qualcuno scriverà forse un giorno la loro storia. Noi restammo dunque nei nostri giacigli, soli con le nostre malattie, e con la nostra inerzia più forte della paura. Nell' intero Ka-Be eravamo forse ottocento. Nella nostra camera eravamo rimasti undici, ciascuno in una cuccetta, tranne Charles e Arthur che dormivano insieme. Spento il ritmo della grande macchina del Lager, incominciarono per noi i dieci giorni fuori del mondo e del tempo. 1. gennaio. Nella notte dell' evacuazione le cucine del campo avevano ancora funzionato, e il mattino seguente fu fatta nell' infermeria l' ultima distribuzione di zuppa. L' impianto centrale di riscaldamento era stato abbandonato; nelle baracche ristagnava ancora un po' di calore, ma a ogni ora che passava, la temperatura si andava abbassando, e si comprendeva che in breve avremmo sofferto il freddo. Fuori ci dovevano essere almeno 20ä sotto lo zero; la maggior parte dei malati non aveva che la camicia, e alcuni nemmeno quella. Nessuno sapeva quale fosse la nostra condizione. Alcune SS erano rimaste, alcune torrette di guardia erano ancora occupate. Verso mezzogiorno un maresciallo delle SS fece il giro delle baracche. Nominò in ognuna un capo-baracca scegliendolo fra i non-ebrei rimasti, e dispose che fosse immediatamente fatto un elenco dei malati, distinti in ebrei e non-ebrei. La cosa pareva chiara. Nessuno si stupì che i tedeschi conservassero fino all' ultimo il loro amore nazionale per le classificazioni, e, nessun ebreo pensò più seriamente di vivere fino al giorno successivo. I due francesi non avevano capito ed erano spaventati. Tradussi loro di malavoglia il discorso della SS; trovavo irritante che avessero paura: non avevano ancora un mese di Lager, non avevano quasi ancora fame, non erano neppure ebrei, e avevano paura. Fu fatta ancora una distribuzione di pane. Passai il pomeriggio a leggere il libro lasciato dal medico: era molto interessante e lo ricordo con bizzarra precisione. Feci anche una visita al reparto accanto, in cerca di coperte: di là molti malati erano stati messi in uscita, le loro coperte erano rimaste libere. Ne presi con me alcune abbastanza calde. Quando seppe che venivano dal Reparto Dissenteria Arthur arricciò il naso: _ Y-avait point besoin de le dire _; infatti erano macchiate. Io pensavo che in ogni modo, dato ciò che ci aspettava, sarebbe stato meglio dormire ben coperti. Fu presto notte, ma la luce elettrica funzionava ancora. Vedemmo con tranquillo spavento che all' angolo della baracca stava una SS armata. Non avevo voglia di parlare, e non provavo timore se non nel modo esterno e condizionale che ho detto. Continuai a leggere fino a tarda ora. Non vi erano orologi, ma dovevano essere le ventitre quando tutte le luci si spensero, anche quelle dei riflettori sulle torrette di guardia. Si vedevano lontano i fasci dei fotoelettrici. Fiorì in cielo un grappolo di luci intense, che si mantennero immobili illuminando crudamente il terreno. Si sentiva il rombo degli apparecchi. Poi cominciò il bombardamento. Non era cosa nuova, scesi a terra, infilai i piedi nudi nelle scarpe e attesi. Sembrava lontano, forse su Auschwitz. Ma ecco un' esplosione vicina, e, prima di poter formulare un pensiero, una seconda e una terza da sfondare le orecchie. Si sentirono vetri rovinare, la baracca oscillò, cadde a terra il cucchiaio che tenevo infisso in una commessura della parete di legno. Poi parve finito. Cagnolati, un giovane contadino, egli pure dei Vosgi, non doveva aver mai visto una incursione: era uscito nudo dal letto, si era appiattato in un angolo e urlava. Dopo pochi minuti fu evidente che il campo era stato colpito. Due baracche bruciavano con violenza, altre due erano state polverizzate, ma erano tutte baracche vuote. Arrivarono decine di malati, nudi e miserabili, da una baracca minacciata dal fuoco: chiedevano ricovero. Impossibile accoglierli. Insistettero, supplicando e minacciando in molte lingue: dovemmo barricare la porta. Si trascinarono altrove, illuminati dalle fiamme, scalzi nella neve in fusione. A molti pendevano dietro i bendaggi disfatti. Per la nostra baracca non pareva ci fosse pericolo, a meno che il vento non girasse. I tedeschi non c' erano più. Le torrette erano vuote. Oggi io penso che, se non altro per il fatto che un Auschwitz è esistito, nessuno dovrebbe ai nostri giorni parlare di Provvidenza: ma è certo che in quell' ora il ricordo dei salvamenti biblici nelle avversità estreme passò come un vento per tutti gli animi. Non si poteva dormire; un vetro era rotto e faceva molto freddo. Pensavo che avremmo dovuto cercare una stufa da installare, e procurarci carbone, legna e viveri. Sapevo che tutto questo era necessario, ma senza l' appoggio di qualcuno non avrei mai avuto l' energia di metterlo in atto. Ne parlai coi due francesi. 19 gennaio. I francesi furono d' accordo. Ci alzammo all' alba, noi tre. Mi sentivo malato e inerme, avevo freddo e paura. Gli altri malati ci guardarono con curiosità rispettosa: non sapevamo che ai malati non era permesso uscire dal Ka-Be? E se i tedeschi non erano ancora tutti partiti? Ma non dissero nulla, erano contenti che ci fosse qualcuno per fare la prova. I francesi non avevano alcuna idea della topografia del Lager, ma Charles era coraggioso e robusto, e Arthur era sagace e aveva un buon senso pratico di contadino. Uscimmo nel vento di una gelida giornata di nebbia, malamente avvolti in coperte. Quello che vedemmo non assomiglia a nessuno spettacolo che io abbia mai visto né sentito descrivere. Il Lager, appena morto, appariva già decomposto. Niente più acqua ed elettricità: finestre e porte sfondate sbattevano nel vento, stridevano le lamiere sconnesse dei tetti, e le ceneri dell' incendio volavano alto e lontano. All' opera delle bombe si aggiungeva l' opera degli uomini: cenciosi, cadenti, scheletrici, i malati in grado di muoversi si trascinavano per ogni dove, come una invasione di vermi, sul terreno indurito dal gelo. Avevano rovistato tutte le baracche vuote in cerca di alimenti e di legna; avevano violato con furia insensata le camere degli odiati Blockälteste, grottescamente adorne, precluse fino al giorno prima ai comuni Häftlinge; non più padroni dei propri visceri, avevano insozzato dovunque, inquinando la preziosa neve, unica sorgente d' acqua ormai per l' intero campo. Attorno alle rovine fumanti delle baracche bruciate, gruppi di malati stavano applicati al suolo, per succhiarne l' ultimo calore. Altri avevano trovato patate da qualche parte, e le arrostivano sulle braci dell' incendio, guardandosi intorno con occhi feroci. Pochi avevano avuto la forza di accendersi un vero fuoco, e vi facevano fondere la neve in recipienti di fortuna. Ci dirigemmo alle cucine più in fretta che potemmo, ma le patate erano già quasi finite. Ne riempimmo due sacchi, e li lasciammo in custodia ad Arthur. Tra le macerie del Prominenzblock, Charles ed io trovammo finalmente quanto cercavamo: una pesante stufa di ghisa, con tubi ancora utilizzabili: Charles accorse con una carriola e caricammo; poi lasciò a me l' incarico di portarla in baracca e corse ai sacchi. Là trovò Arthur svenuto per il freddo; Charles si caricò entrambi i sacchi e li portò al sicuro, poi si occupò dell' amico. Intanto io, reggendomi a stento, cercavo di manovrare del mio meglio la pesante carriola. Si udì un fremito di motore, ed ecco, una SS in motocicletta entrò nel campo. Come sempre, quando vedevamo i loro visi duri, mi sentii sommergere di terrore e di odio. Era troppo tardi per scomparire, e non volevo abbandonare la stufa. Il regolamento del Lager prescriveva di mettersi sull' attenti e di scoprirsi il capo. Io non avevo cappello ed ero impacciato dalla coperta. Mi allontanai qualche passo dalla carriola e feci una specie di goffo inchino. Il tedesco passò oltre senza vedermi, svoltò attorno a una baracca e se ne andò. Seppi più tardi quale pericolo avevo corso. Raggiunsi finalmente la soglia della nostra baracca, e sbarcai la stufa nelle mani di Charles. Ero senza fiato per lo sforzo, vedevo danzare grandi macchie nere. Si trattava di metterla in opera. Avevamo tutti e tre le mani paralizzate, e il metallo gelido si incollava alla pelle delle dita, ma era urgente che la stufa funzionasse, per scaldarci e per bollire le patate. Avevamo trovato legna e carbone, e anche brace proveniente dalle baracche bruciate. Quando fu riparata la finestra sfondata, e la stufa cominciò a diffondere calore, parve che in ognuno qualcosa si distendesse, e allora avvenne che Towarowski (un franco-polacco di ventitre anni, tifoso) propose agli altri malati di offrire ciascuno una fetta di pane a noi tre che lavoravamo, e la cosa fu accettata. Soltanto un giorno prima un simile avvenimento non sarebbe stato concepibile. La legge del Lager diceva: "mangia il tuo pane, e, se puoi, quello del tuo vicino", e non lasciava posto per la gratitudine. Voleva ben dire che il Lager era morto. Fu quello il primo gesto umano che avvenne fra noi. Credo che si potrebbe fissare a quel momento l' inizio del processo per cui, noi che non siamo morti, da Häftlinge siamo lentamente ridiventati uomini. Arthur si era ripreso abbastanza bene, ma da allora evitò sempre di esporsi al freddo; si assunse la manutenzione della stufa, la cottura delle patate, la pulizia della camera e l' assistenza ai malati. Charles ed io ci dividemmo i vari servizi all' esterno. C' era ancora un' ora di luce: una sortita ci fruttò mezzo litro di spirito e un barattolo di lievito di birra, buttato nella neve da chissà chi; facemmo una distribuzione di patate bollite e di un cucchiaio a testa di lievito. Pensavo vagamente che potesse giovare contro l' avitaminosi. Venne l' oscurità; di tutto il campo la nostra era l' unica camera munita di stufa, del che eravamo assai fieri. Molti malati di altre sezioni si accalcavano alla porta, ma la statura imponente di Charles li teneva a bada. Nessuno, né noi né loro, pensava che la promiscuità inevitabile coi nostri malati rendeva pericolosissimo il soggiorno nella nostra camera, e che ammalarsi di difterite in quelle condizioni era più sicuramente mortale che saltare da un terzo piano. Io stesso, che ne ero conscio, non mi soffermavo troppo su questa idea: da troppo tempo mi ero abituato a pensare alla morte per malattia come ad un evento possibile, e in tal caso ineluttabile, e comunque al di fuori di ogni possibile nostro intervento. E neppure mi passava per il capo che avrei potuto stabilirmi in un' altra camera, in un' altra baracca con minor pericolo di contagio; qui era la stufa, opera nostra, che diffondeva un meraviglioso tepore; e qui avevo un letto; e infine, ormai, un legame ci univa, noi, gli undici malati della Infektionsabteilung. Si sentiva di rado un fragore vicino e lontano di artiglieria, e a intervalli, un crepitio di fucili automatici. Nell' oscurità rotta solo dal rosseggiare della brace, Charles, Arthur ed io sedevamo fumando sigarette di erbe aromatiche trovate in cucina, e parlando di molte cose passate e future. In mezzo alla sterminata pianura piena di gelo e di guerra, nella cameretta buia pullulante di germi, ci sentivamo in pace con noi e col mondo. Eravamo rotti di fatica, ma ci pareva, dopo tanto tempo, di avere finalmente fatto qualcosa di utile; forse come Dio dopo il primo giorno della creazione. 20 gennaio. Giunse l' alba, ed ero io di turno per l' accensione della stufa. Oltre alla debolezza generale, le articolazioni dolenti mi ricordavano a ogni momento che la mia scarlattina era lungi dall' essere scomparsa. Il pensiero di dovermi tuffare nell' aria gelida in cerca di fuoco per le altre baracche mi faceva tremare di ribrezzo. Mi rammentai delle pietrine; cosparsi di spirito un foglietto di carta, e con pazienza da una pietrina vi raschiai sopra un mucchietto di polvere nera, poi presi a raschiare più forte la pietrina col coltello. Ed ecco: dopo qualche scintilla il mucchietto deflagrò, e dalla carta si levò la fiammella pallida dell' alcool. Arthur discese entusiasta dal letto e fece scaldare tre patate a testa fra quelle bollite il giorno avanti; dopo di che, affamati e pieni di brividi, Charles ed io partimmo nuovamente in perlustrazione per il campo in sfacelo. Ci restavano viveri (e cioè patate) per due giorni soltanto; per l' acqua eravamo ridotti a fondere la neve, operazione penosa per la mancanza di grandi recipienti, da cui si otteneva un liquido nerastro e torbido che era necessario filtrare. Il campo era silenzioso. Altri spettri affamati si aggiravano come noi in esplorazione: barbe ormai lunghe, occhi incavati, membra scheletrite e giallastre fra i cenci. Malfermi sulle gambe, entravano e uscivano dalle baracche deserte, asportandone gli oggetti più vari: scuri, secchi, mestoli, chiodi; tutto poteva servire, e i più lungimiranti già meditavano fruttuosi mercati con i polacchi della campagna circostante. Nella cucina, due si accapigliavano per le ultime decine di patate putride. Si erano afferrati per gli stracci e si percuotevano con curiosi gesti lenti e incerti, vituperandosi in yiddisch fra le labbra gelate. Nel cortile del magazzino stavano due grandi mucchi di cavoli e di rape (le grosse rape insipide, base della nostra alimentazione). Erano così gelati che non si potevano staccare se non col piccone. Charles ed io ci avvicendammo, tendendo tutte le nostre energie per ogni colpo, e ne estraemmo una cinquantina di chili. Vi fu anche altro: Charles trovò un pacco di sale e ("une fameuse trouvaille!") un bidone d' acqua di forse mezzo ettolitro, allo stato di ghiaccio massiccio. Caricammo ogni cosa su di un carrettino (servivano prima per distribuire il rancio alle baracche: ve n' era un gran numero abbandonati ovunque), e rientrammo spingendolo faticosamente sulla neve. Per quel giorno ci accontentammo ancora di patate bollite e fette di rapa arrostite sulla stufa, ma per l' indomani Arthur ci promise importanti innovazioni. Nel pomeriggio andai all' ex ambulatorio, in cerca di qualcosa di utile. Ero stato preceduto: tutto era stato manomesso da saccheggiatori inesperti. Non più una bottiglia intera, sul pavimento uno strato di stracci, sterco e materiale di medicazione, un cadavere nudo e contorto. Ma ecco qualcosa che ai miei predecessori era sfuggito: una batteria da autocarro. Toccai i poli col coltello: una piccola scintilla. Era carica. A sera la nostra camera aveva la luce. Stando a letto, vedevo dalla finestra un lungo tratto di strada: vi passava a ondate, già da tre giorni, la Wehrmacht in fuga. Autoblinde, carri "tigre" mimetizzati in bianco, tedeschi a cavallo, tedeschi in bicicletta, tedeschi a piedi, armati e disarmati. Si udiva nella notte il fracasso dei cingoli molto prima che i carri fossero visibili. Chiedeva Charles: _ C6a roule encore? _ C6a roule toujours. Sembrava non dovesse mai finire. 21 gennaio. Invece finì. Coll' alba del 21 la pianura ci apparve deserta e rigida, bianca a perdita d' occhio sotto il volo dei corvi, mortalmente triste. Avrei quasi preferito vedere ancora qualcosa in movimento. Anche i civili polacchi erano scomparsi, appiattati chissà dove. Pareva che perfino il vento si fosse arrestato. Avrei desiderato una cosa soltanto: restare a letto sotto le coperte, abbandonarmi alla stanchezza totale di muscoli, nervi e volontà; aspettare che finisse, o che non finisse, era la stessa cosa, come un morto. Ma già Charles aveva acceso la stufa, l' uomo Charles alacre, fiducioso e amico, e mi chiamava al lavoro: _ Vas-y, Primo, descends-toi de là-haut; il y a Jules à attraper par les oreilles .... "Jules" era il secchio della latrina, che ogni mattina bisognava afferrare per i manici, portare all' esterno e rovesciare nel pozzo nero: era questa la prima bisogna della giornata, e se si pensa che non era possibile lavarsi le mani, e che tre dei nostri erano ammalati di tifo, si comprende che non era un lavoro gradevole. Dovevamo inaugurare i cavoli e le rape. Mentre io andavo a cercare legna, e Charles a raccogliere neve da sciogliere, Arthur mobilitò i malati che potevano star seduti, perché collaborassero nella mondatura. Towarowski, Sertelet, Alcalai e Schenck risposero all' appello. Anche Sertelet era un contadino dei Vosgi, di vent' anni; pareva in buone condizioni, ma di giorno in giorno la sua voce andava assumendo un sinistro timbro nasale, a ricordarci che la difterite raramente perdona. Alcalai era un vetraio ebreo di Tolosa; era molto tranquillo e assennato, soffriva di risipola al viso. Schenck era un commerciante slovacco, ebreo: convalescente di tifo, aveva un formidabile appetito. Così pure Towarowski, ebreo franco-polacco, sciocco e ciarliero, ma utile alla nostra comunità per il suo comunicativo ottimismo. Mentre dunque i malati lavoravano di coltello, ciascuno seduto sulla sua cuccetta, Charles ed io ci dedicammo alla ricerca di una sede possibile per le operazioni di cucina. Una indescrivibile sporcizia aveva invaso ogni reparto del campo. Colmate tutte le latrine, della cui manutenzione naturalmente nessuno più si curava, i dissenterici (erano più di un centinaio) avevano insozzato ogni angolo del Ka-Be, riempito tutti i secchi, tutti i bidoni già destinati al rancio, tutte le gamelle. Non si poteva muovere un passo senza sorvegliare il piede; al buio era impossibile spostarsi. Pur soffrendo per il freddo, che si manteneva acuto, pensavamo con raccapriccio a quello che sarebbe accaduto se fosse sopraggiunto il disgelo: le infezioni avrebbero dilagato senza riparo, il fetore si sarebbe fatto soffocante, e inoltre, sciolta la neve, saremmo rimasti definitivamente senz' acqua. Dopo una lunga ricerca, trovammo infine, in un locale già adibito a lavatoio, pochi palmi di pavimento non eccessivamente imbrattato. Vi accendemmo un fuoco vivo, poi, per risparmiare tempo e complicazioni, ci disinfettammo le mani frizionandole con cloramina mista a neve. La notizia che una zuppa era in cottura si sparse rapidamente fra la folla dei semivivi; si formò sulla porta un assembramento di visi famelici. Charles, il mestolo levato, tenne loro un vigoroso breve discorso che, pur essendo in francese, non abbisognava di traduzione. I più si dispersero, ma uno si fece avanti: era un parigino, sarto di classe (diceva lui), ammalato di polmoni. In cambio di un litro di zuppa si sarebbe messo a nostra disposizione per tagliarci abiti dalle numerose coperte rimaste in campo. Maxime si dimostrò veramente abile. Il giorno dopo Charles ed io possedevamo giacca, brache e guantoni di ruvido tessuto a colori vistosi. A sera, dopo la prima zuppa distribuita con entusiasmo e divorata con avidità, il grande silenzio della pianura fu rotto. Dalle nostre cuccette, troppo stanchi per essere profondamente inquieti, tendevamo l' orecchio agli scoppi di misteriose artiglierie, che parevano localizzate in tutti i punti dell' orizzonte, e ai sibili dei proiettili sui nostri capi. Io pensavo che la vita fuori era bella, e sarebbe ancora stata bella, e sarebbe stato veramente un peccato lasciarsi sommergere adesso. Svegliai quelli tra i malati che sonnecchiavano, e quando fui sicuro che tutti ascoltavano, dissi loro, in francese prima, nel mio migliore tedesco poi, che tutti dovevano pensare ormai di ritornare a casa, e che, per quanto dipendeva da noi, alcune cose era necessario fare, altre necessario evitare. Che ognuno conservasse attentamente la sua propria gamella e il cucchiaio; che nessuno offrisse ad altri la zuppa che eventualmente gli fosse avanzata; nessuno scendesse dal letto se non per andare alla latrina; chi avesse bisogno di un qualsiasi servizio, non si rivolgesse ad altri che a noi tre; Arthur particolarmente era incaricato di vigilare sulla disciplina e sull' igiene, e doveva ricordare che era meglio lasciare gamelle e cucchiai sporchi, piuttosto che lavarli col pericolo di scambiare quelli di un difterico con quelli di un tifoso. Ebbi l' impressione che i malati fossero ormai troppo indifferenti a ogni cosa per curarsi di quanto avevo detto; ma avevo molta fiducia nella diligenza di Arthur. 22 gennaio. Se è coraggioso chi affronta a cuor leggero un grave pericolo, Charles ed io quel mattino fummo coraggiosi. Estendemmo le nostre esplorazioni al campo delle SS, subito fuori del reticolato elettrico. Le guardie del campo dovevano essere partite con molta fretta. Trovammo sui tavoli piatti pieni per metà di minestra ormai congelata, che divorammo con intenso godimento; boccali ancor colmi di birra trasformata in ghiaccio giallastro, una scacchiera con una partita incominciata. Nelle camerate, una quantità di roba preziosa. Ci caricammo una bottiglia di vodka, medicinali vari, giornali e riviste e quattro ottime coperte imbottite, una delle quali è oggi nella mia casa di Torino. Lieti e incoscienti, riportammo nella cameretta il frutto della sortita, affidandolo all' amministrazione di Arthur. Solo a sera si seppe quanto era successo forse mezz' ora più tardi. Alcune SS, forse disperse, ma armate, penetrarono nel campo abbandonato. Trovarono che diciotto francesi si erano stabiliti nel refettorio della SS-Waffe. Li uccisero tutti metodicamente, con un colpo alla nuca, allineando poi i corpi contorti sulla neve della strada; indi se ne andarono. I diciotto cadaveri restarono esposti fino all' arrivo dei russi; nessuno ebbe la forza di dar loro sepoltura. D' altronde, in tutte le baracche v' erano ormai letti occupati da cadaveri, rigidi come legno, che nessuno si curava più di rimuovere. La terra era troppo gelata perché vi si potessero scavare fosse; molti cadaveri furono accatastati in una trincea, ma già fin dai primi giorni il mucchio emergeva dallo scavo ed era turpemente visibile dalla nostra finestra. Solo una parete di legno ci separava dal reparto dei dissenterici. Qui molti erano i moribondi, molti i morti. Il pavimento era ricoperto da uno strato di escrementi congelati. Nessuno aveva più forza di uscire dalle coperte per cercare cibo, e chi prima lo aveva fatto non era ritornato a soccorrere i compagni. In uno stesso letto, avvinghiati per resistere meglio al freddo, proprio accanto alla parete divisoria, stavano due italiani: li sentivo spesso parlare, ma poiché io invece non parlavo che francese, per molto tempo non si accorsero della mia presenza. Udirono quel giorno per caso il mio nome, pronunziato all' italiana da Charles, e da allora non smisero di gemere e di implorare. Naturalmente avrei voluto aiutarli, avendone i mezzi e la forza; se non altro per far smettere l' ossessione delle loro grida. A sera, quando tutti i lavori furono finiti, vincendo la fatica e il ribrezzo, mi trascinai a tentoni per il corridoio lercio e buio, fino al loro reparto, con una gamella d' acqua e gli avanzi della nostra zuppa del giorno. Il risultato fu che da allora, attraverso la sottile parete, l' intera sezione diarrea chiamò giorno e notte il mio nome, con le inflessioni di tutte le lingue d' Europa, accompagnato da preghiere incomprensibili, senza che io potessi comunque porvi riparo. Mi sentivo prossimo a piangere, li avrei maledetti. La notte riservò brutte sorprese. Lakmaker, della cuccetta sotto la mia, era uno sciagurato rottame umano. Era (od era stato) un ebreo olandese di diciassette anni, alto, magro e mite. Era in letto da tre mesi, non so come fosse sfuggito alle selezioni. Aveva avuto successivamente il tifo e la scarlattina; intanto gli si era palesato un grave vizio cardiaco, ed era brutto di piaghe da decubito, tanto che non poteva ormai giacere che sul ventre. Con tutto ciò, un appetito feroce; non parlava che olandese, nessuno di noi era in grado di comprenderlo. Forse causa di tutto fu la minestra di cavoli e rape, di cui Lakmaker aveva voluto due razioni. A metà notte gemette, poi si buttò dal letto. Cercava di raggiungere la latrina, ma era troppo debole e cadde a terra, piangendo e gridando forte. Charles accese la luce (l' accumulatore si dimostrò provvidenziale) e potemmo constatare la gravità dell' incidente. Il letto del ragazzo e il pavimento erano imbrattati. L' odore nel piccolo ambiente diventava rapidamente insopportabile. Non avevamo che una minima scorta d' acqua, e non coperte né pagliericci di ricambio. E il poveretto, tifoso, era un terribile focolaio di infezione; né si poteva certo lasciarlo tutta la notte sul pavimento a gemere e tremare di freddo in mezzo alla lordura. Charles discese dal letto e si rivestì in silenzio. Mentre io reggevo il lume, ritagliò col coltello dal pagliericcio e dalle coperte tutti i punti sporchi; sollevò da terra Lakmaker colla delicatezza di una madre, lo ripulì alla meglio con paglia estratta dal saccone, e lo ripose di peso nel letto rifatto, nell' unica posizione in cui il disgraziato poteva giacere; raschiò il pavimento con un pezzo di lamiera; stemperò un po' di cloramina, e infine cosparse di disinfettante ogni cosa e anche se stesso. Io misuravo la sua abnegazione dalla stanchezza che avrei dovuto superare in me per fare quanto lui faceva. 23 gennaio. Le nostre patate erano finite. Circolava da giorni per le baracche la voce che un enorme silo di patate fosse situato da qualche parte, fuori del filo spinato, non lontano dal campo. Qualche pioniere ignorato deve aver fatto pazienti ricerche, o qualcuno doveva sapere con precisione il luogo: di fatto, il mattino del 23 un tratto di filo spinato era stato abbattuto, e una doppia processione di miserabili usciva ed entrava dall' apertura. Charles ed io partimmo, nel vento della pianura livida. Fummo oltre la barriera abbattuta. _ Dis donc, Primo, on est dehors! Era così: per la prima volta dal giorno del mio arresto, mi trovavo libero, senza custodi armati, senza reticolati fra me e la mia casa. A forse quattrocento metri dal campo, giacevano le patate: un tesoro. Due fosse lunghissime, piene di patate, e ricoperte di terra alternata con paglia a difesa dal gelo. Nessuno sarebbe più morto di fame. Ma l' estrazione non era lavoro da nulla. A causa del gelo, la superficie del terreno era dura come marmo. Con duro lavoro di piccone si riusciva a perforare la crosta e a mettere a nudo il deposito; ma i più preferivano introdursi nei fori abbandonati da altri, spingendosi molto profondi e passando le patate ai compagni che stavano all' esterno. Un vecchio ungherese era stato sorpreso colà dalla morte. Giaceva irrigidito nell' atto dell' affamato: capo e spalle sotto il cumulo di terra, il ventre nella neve, tendeva le mani alle patate. Chi venne dopo spostò il cadavere di un metro, e riprese il lavoro attraverso l' apertura resasi libera. Da allora il nostro vitto migliorò. Oltre alle patate bollite e alla zuppa di patate, offrimmo ai nostri malati frittelle di patate, su ricetta di Arthur: si raschiano patate crude con altre bollite e disfatte; la miscela si arrostisce su di una lamiera rovente. Avevano sapore di fuliggine. Ma non ne potè godere Sertelet, il cui male progrediva. Oltre a parlare con timbro sempre più nasale, quel giorno non riuscì più a inghiottire a dovere alcun alimento: qualcosa gli si era guastato in gola, ogni boccone minacciava di soffocarlo. Andai a cercare un medico ungherese rimasto come malato nella baracca di fronte. Come udì parlare di difterite, fece tre passi indietro e mi ingiunse di uscire. Per pure ragioni di propaganda, feci a tutti instillazioni nasali di olio canforato. Assicurai Sertelet che ne avrebbe tratto giovamento; io stesso cercavo di convincermene. 24 gennaio. Libertà. La breccia nel filo spinato ce ne dava l' immagine concreta. A porvi mente con attenzione voleva dire non più tedeschi, non più selezioni, non lavoro, non botte, non appelli, e forse, più tardi, il ritorno. Ma ci voleva sforzo per convincersene e nessuno aveva tempo di goderne. Intorno tutto era distruzione e morte. Il mucchio di cadaveri, di fronte alla nostra finestra, rovinava ormai fuori della fossa. Nonostante le patate, la debolezza di tutti era estrema: nel campo nessun ammalato guariva, molti invece si ammalavano di polmonite e diarrea; quelli che non erano stati in grado di muoversi, o non avevano avuto l' energia di farlo, giacevano torpidi nelle cuccette, rigidi dal freddo, e nessuno si accorgeva di quando morivano. Gli altri erano tutti spaventosamente stanchi: dopo mesi e anni di Lager, non sono le patate che possono rimettere in forza un uomo. Quando, a cottura ultimata, Charles ed io avevamo trascinato i venticinque litri di zuppa quotidiana dal lavatoio alla camera, dovevamo poi gettarci ansanti sulla cuccetta, mentre Arthur, diligente e domestico, faceva la ripartizione, curando che avanzassero le tre razioni di "rabiot pour les travailleurs" e un po' di fondo "pour les italiens d' à côtè". Nella seconda camera di Infettivi, anche essa attigua alla nostra e abitata in maggioranza da tubercolotici, la situazione era ben diversa. Tutti quelli che lo avevano potuto, erano andati a stabilirsi in altre baracche. I compagni più gravi e più deboli si spegnevano a uno a uno in solitudine. Vi ero entrato un mattino per cercare in prestito un ago. Un malato rantolava in una delle cuccette superiori. Mi udì, si sollevò a sedere, poi si spenzolò a capofitto oltre la sponda, verso di me, col busto e le braccia rigidi e gli occhi bianchi. Quello della cuccetta di sotto, automaticamente, tese in alto le braccia per sostenere quel corpo, si accorse allora che era morto. Cedette lentamente sotto il peso, l' altro scivolò a terra e vi rimase. Nessuno sapeva il suo nome. Ma nella baracca 14 era successo qualcosa di nuovo. Vi erano ricoverati gli operati, alcuni dei quali in discrete condizioni. Essi organizzarono una spedizione al campo degli inglesi prigionieri di guerra, che si presumeva fosse stato evacuato. Fu una fruttuosa impresa. Ritornarono vestiti in kaki, con un carretto pieno di meraviglie mai viste: margarina, polveri per budino, lardo, farina di soia, acquavite. A sera, nella baracca 14 si cantava. Nessuno di noi si sentiva la forza di fare i due chilometri di strada al campo inglese e ritornare col carico. Ma, indirettamente, la fortunata spedizione ritornò di vantaggio a molti. La ineguale ripartizione dei beni provocò un rifiorire di industria e di commercio. Nella nostra cameretta dall' atmosfera mortale, nacque una fabbrica di candele con stoppino imbevuto di acido borico, colate in forme di cartone. I ricchi della baracca 14 assorbivano l' intera nostra produzione, pagandoci in lardo e farina. Io stesso avevo trovato il blocco di cera vergine nell' Elektromagazin; ricordo l' espressione di disappunto di coloro che me lo videro portar via, e il dialogo che ne seguì: _ Che te ne vuoi fare? Non era il caso di svelare un segreto di fabbricazione; sentii me stesso rispondere con le parole che avevo spesso udite dai vecchi del campo, e che contengono il loro vanto preferito: di essere "buoni prigionieri", gente adatta, che se la sa sempre cavare; _ Ich verstehe verschiedene Sachen .... _ (Me ne intendo di varie cose ...). 25 gennaio. Fu la volta di Sòmogyi. Era un chimico ungherese sulla cinquantina, magro, alto e taciturno. Come l' olandese, era convalescente di tifo e di scarlattina; ma sopravvenne qualcosa di nuovo. Fu preso da una febbre intensa. Da forse cinque giorni non aveva detto parola: aprì bocca quel giorno e disse con voce ferma: _ Ho una razione di pane sotto il saccone. Dividetela voi tre. Io non mangerò più. Non trovammo nulla da dire, ma per allora non toccammo il pane. Gli si era gonfiata una metà del viso. Finché conservò coscienza, rimase chiuso in un silenzio aspro. Ma a sera, e per tutta la notte, e per due giorni senza interruzione, il silenzio fu sciolto dal delirio. Seguendo un ultimo interminabile sogno di remissione e di schiavitù, prese a mormorare "Jawohl" ad ogni emissione di respiro; regolare e costante come una macchina, "Jawohl" ad ogni abbassarsi della povera rastrelliera delle costole, migliaia di volte, tanto da far venire voglia di scuoterlo, di soffocarlo, o che almeno cambiasse parola. Non ho mai capito come allora quanto sia laboriosa la morte di un uomo. Fuori ancora il grande silenzio. Il numero dei corvi era molto aumentato, e tutti sapevano perché. Solo a lunghi intervalli si risvegliava il dialogo dell' artiglieria. Tutti si dicevano a vicenda che i russi presto, subito, sarebbero arrivati; tutti lo proclamavano, tutti ne erano certi, ma nessuno riusciva a farsene serenamente capace. Perché nei Lager si perde l' abitudine di sperare, e anche la fiducia nella propria ragione. In Lager pensare è inutile, perché gli eventi si svolgono per lo più in modo imprevedibile; ed è dannoso, perché mantiene viva una sensibilità che è fonte di dolore, e che qualche provvida legge naturale ottunde quando le sofferenze sorpassano un certo limite. Come della gioia, della paura, del dolore medesimo, così anche dell' attesa ci si stanca. Arrivati al 25 gennaio, rotti da otto giorni i rapporti con quel feroce mondo che pure era un mondo, i più fra noi erano troppo esausti perfino per attendere. A sera, intorno alla stufa, ancora una volta Charles, Arthur ed io ci sentimmo ridiventare uomini. Potevamo parlare di tutto. Mi appassionava il discorso di Arthur sul modo come si passano le domeniche a Provenchères nei Vosgi, e Charles piangeva quasi quando io gli raccontai dell' armistizio in Italia, dell' inizio torbido e disperato della resistenza partigiana, dell' uomo che ci aveva traditi e della nostra cattura sulle montagne. Nel buio, dietro e sopra di noi, gli otto malati non perdevano una sillaba, anche quelli che non capivano il francese. Soltanto Sòmogyi si accaniva a confermare alla morte la sua dedizione. 26 gennaio. Noi giacevamo in un mondo di morti e di larve. L' ultima traccia di civiltà era sparita intorno a noi e dentro di noi. L' opera di bestializzazione, intrapresa dai tedeschi trionfanti, era stata portata a compimento dai tedeschi disfatti. È uomo chi uccide, è uomo chi fa o subisce ingiustizia; non è uomo chi, perso ogni ritegno, divide il letto con un cadavere. Chi ha atteso che il suo vicino finisse di morire per togliergli un quarto di pane, è, pur senza sua colpa, più lontano dal modello dell' uomo pensante, che il più rozzo pigmeo e il sadico più atroce. Parte del nostro esistere ha sede nelle anime di chi ci accosta: ecco perché è non-umana l' esperienza di chi ha vissuto giorni in cui l' uomo è stato una cosa agli occhi dell' uomo. Noi tre ne fummo in gran parte immuni, e ce ne dobbiamo mutua gratitudine; perciò la mia amicizia con Charles resisterà al tempo. Ma a migliaia di metri sopra di noi, negli squarci fra le nuvole grige, si svolgevano i complicati miracoli dei duelli aerei. Sopra noi, nudi impotenti inermi, uomini del nostro tempo cercavano la reciproca morte coi più raffinati strumenti. Un loro gesto del dito poteva provocare la distruzione del campo intero, annientare migliaia di uomini; mentre la somma di tutte le nostre energie e volontà non sarebbe bastata a prolungare di un minuto la vita di uno solo di noi. La sarabanda cessò a notte, e la camera fu di nuovo piena del monologo di Sòmogyi. In piena oscurità mi trovai sveglio di soprassalto. "L' pauv' vieux" taceva: aveva finito. Con l' ultimo sussulto di vita si era buttato a terra dalla cuccetta: ho udito l' urto delle ginocchia, delle anche, delle spalle e del capo. _ La mort l' a chassé de son lit, _ definì Arthur. Non potevamo certo portarlo fuori nella notte. Non ci restava che riaddormentarci. 27 gennaio. L' alba. Sul pavimento, l' infame tumulto di membra stecchite, la cosa Sòmogyi. Ci sono lavori più urgenti: non ci si può lavare, non possiamo toccarlo che dopo di aver cucinato e mangiato. E inoltre, "... rien de si dégoûtant que les débordements", dice giustamente Charles; bisogna vuotare la latrina. I vivi sono più esigenti; i morti possono attendere. Ci mettemmo al lavoro come ogni giorno. I russi arrivarono mentre Charles ed io portavamo Sòmogyi poco lontano. Era molto leggero. Rovesciammo la barella sulla neve grigia. Charles si tolse il berretto. A me dispiacque di non avere berretto. Degli undici della Infektionsabteilung, fu Sòmogyi il solo che morì nei dieci giorni. Sertelet, Cagnolati, Towarowski, Lakmaker e Dorget (di quest' ultimo non ho finora parlato; era un industriale francese che, dopo operato di peritonite, si era ammalato di difterite nasale), sono morti qualche settimana più tardi, nell' infermeria russa provvisoria di Auschwitz. Ho incontrato a Katowice, in aprile, Schenck e Alcalai in buona salute. Arthur ha raggiunto felicemente la sua famiglia, e Charles ha ripreso la sua professione di maestro; ci siamo scambiati lunghe lettere e spero di poterlo ritrovare un giorno. Qualcuno, molto tempo fa, ha scritto che anche i libri, come gli esseri umani, hanno un loro destino, imprevedibile, diverso da quello che per loro si desiderava e si attendeva. Anche questo libro ha avuto uno strano destino. Il suo atto di nascita è lontano: lo potete trovare in una delle sue pagine, la p. 17. di questa edizione, là dove si legge che "scrivo quello che non saprei dire a nessuno": era talmente forte in noi il bisogno di raccontare, che il libro avevo incominciato a scriverlo là, in quel laboratorio tedesco pieno di gelo, di guerra e di sguardi indiscreti, benché sapessi che non avrei potuto in alcun modo conservare quegli appunti scarabocchiati alla meglio, che avrei dovuto buttarli via subito, perché se mi fossero stati trovati addosso mi sarebbero costati la vita. Ma ho scritto il libro appena sono tornato, nel giro di pochi mesi: tanto quei ricordi mi bruciavano dentro. Rifiutato da alcuni grossi editori, il manoscritto è stato accettato nel 1947 da una piccola casa editrice, diretta da Franco Antonicelli: si stamparono 2500 copie, poi la casa editrice si sciolse e il libro cadde nell' oblio, anche perché, in quel tempo di aspro dopoguerra, la gente non aveva molto desiderio di ritornare con la memoria agli anni dolorosi appena terminati. Ha trovato nuova vita solo nel 195., quando è stato ristampato dall' editore Einaudi, e da allora l' interesse del pubblico non è più mancato. È stato tradotto in sei lingue, ridotto per la radio e per il teatro. È stato accettato dagli studenti e dagli insegnanti con un favore che ha superato di molto le aspettative dell' editore e mie. Centinaia di scolaresche, in tutte le regioni d' Italia, mi hanno invitato a commentare il libro, per iscritto o possibilmente di persona: nei limiti dei miei impegni, ho soddisfatto tutte queste richieste, tanto che ai miei due mestieri ne ho volentieri aggiunto un terzo, quello di presentatore e commentatore di me stesso, o meglio di quel lontano me stesso che aveva vissuto l' avventura di Auschwitz e l' aveva raccontata. Nel corso di questi numerosi incontri coi miei lettori studenti mi è accaduto di dover rispondere a molte domande: ingenue o consapevoli, commosse o provocatorie, superficiali o fondamentali. Mi sono accorto presto che alcune di queste domande ricorrevano con costanza, non mancavano mai: dovevano dunque scaturire da una curiosità motivata e ragionata, a cui in qualche modo il testo del libro non dava una risposta soddisfacente. A queste domande mi sono proposto di rispondere qui. 1. Come mia indole personale, non sono facile all' odio. Lo ritengo un sentimento animalesco e rozzo, e preferisco che invece le mie azioni e i miei pensieri, nel limite del possibile, nascano dalla ragione; per questo motivo, non ho mai coltivato entro me stesso l' odio come desiderio primitivo di rivalsa, di sofferenza inflitta al mio nemico vero o presunto, di vendetta privata. Devo aggiungere che, a quanto mi pare di vedere, l' odio è personale, è rivolto contro una persona, un nome, un viso: ora, i nostri persecutori di allora non avevano viso né nome, lo si ricava da queste stesse pagine: erano lontani, invisibili, inaccessibili. Prudentemente, il sistema nazista faceva sì che i contatti diretti fra gli schiavi e i signori fossero ridotti al minimo. Avrete notato che, in questo libro, si descrive un solo incontro dell' autore-protagonista con una SS (p. 200), e non per caso esso ha luogo solo negli ultimi giorni, nel Lager in disfacimento, quando il sistema è saltato. Del resto, nei mesi in cui questo libro è stato scritto, e cioè nel 1946, il nazismo e il fascismo sembravano veramente senza volto: sembravano ritornati al nulla, svaniti come un sogno mostruoso, giustamente e meritatamente, così come spariscono i fantasmi al canto del gallo. Come avrei potuto coltivare rancore, volere vendetta, contro una schiera di fantasmi? Non molti anni dopo, l' Europa e l' Italia si sono accorti che questa era una ingenua illusione: il fascismo era ben lontano dall' essere morto, era soltanto nascosto, incistato; stava facendo la sua muta, per ricomparire poi in una veste nuova, un po' meno riconoscibile, un po' più rispettabile, più adatta al nuovo mondo che era uscito dalla catastrofe della seconda guerra mondiale che il fascismo stesso aveva provocata. Devo confessare che davanti a certi visi non nuovi, a certe vecchie bugie, a certe figure in cerca di rispettabilità, a certe indulgenze, a certe connivenze, la tentazione dell' odio la provo, ed anche con una certa violenza: ma io non sono un fascista, io credo nella ragione e nella discussione come supremi strumenti di progresso, e perciò all' odio antepongo la giustizia. Proprio per questo motivo, nello scrivere questo libro, ho assunto deliberatamente il linguaggio pacato e sobrio del testimone, non quello lamentevole della vittima né quello irato del vendicatore: pensavo che la mia parola sarebbe stata tanto più credibile ed utile quanto più apparisse obiettiva e quanto meno suonasse appassionata; solo così il testimone in giudizio adempie alla sua funzione, che è quella di preparare il terreno al giudice. I giudici siete voi. Non vorrei tuttavia che questo mio astenermi dal giudizio esplicito fosse confuso con un perdono indiscriminato. No, non ho perdonato nessuno dei colpevoli, né sono disposto ora o in avvenire a perdonarne alcuno, a meno che non abbia dimostrato (coi fatti: non con le parole, e non troppo tardi) di essere diventato consapevole delle colpe e degli errori del fascismo nostrano e straniero, e deciso a condannarli, a sradicarli dalla sua coscienza e da quella degli altri. In questo caso sì, io non cristiano sono disposto a seguire il precetto ebraico e cristiano di perdonare il mio nemico; ma un nemico che si ravvede ha cessato di essere un nemico. 2. Il mondo in cui noi occidentali oggi viviamo presenta molti e gravissimi difetti e pericoli, ma rispetto al mondo di ieri gode di un gigantesco vantaggio: tutti possono sapere subito tutto su tutto. L' informazione è oggi "il quarto potere": almeno in teoria, il cronista e il giornalista hanno via libera dappertutto, nessuno può fermarli né allontanarli né farli tacere. È tutto facile: se vuoi, senti la radio del tuo paese o di qualunque altro paese; vai in edicola e scegli il giornale che preferisci, italiano di qualunque tendenza, o americano, o sovietico, entro un vasto ventaglio di alternative; compri e leggi i libri che vuoi, senza pericolo di venire incriminato di "attività antiitaliane" o di tirarti in casa una perquisizione della polizia politica. Certo non è agevole sottrarsi a tutti i condizionamenti, ma si può almeno scegliere il condizionamento che si preferisce. In uno Stato autoritario non è così. La Verità è una sola, proclamata dall' alto; i giornali sono tutti uguali, tutti ripetono questa stessa unica verità; così pure fanno le radiotrasmittenti, e non puoi ascoltare quelle degli altri paesi, perché in primo luogo, essendo questo un reato, rischi di finire in prigione; in secondo luogo, le trasmittenti del tuo paese emettono sulle lunghezze d' onda appropriate un segnale di disturbo che si sovrappone ai messaggi stranieri e ne impedisce l' ascolto. Quanto ai libri, vengono pubblicati e tradotti solo quelli graditi allo Stato: gli altri, devi andarteli a cercare all' estero, e introdurli nel tuo paese a tuo rischio, perché sono considerati più pericolosi della droga e dell' esplosivo, e se te li trovano alla frontiera ti vengono sequestrati e tu vieni punito. Dei libri non graditi, o non più graditi, di epoche precedenti si fanno pubblici falò sulle piazze. Così era in Italia fra il 1924 e il 1945; così nella Germania nazionalsocialista; così è tuttora in molti paesi, fra cui duole dover annoverare l' Unione Sovietica, che pure contro il fascismo ha eroicamente combattuto. In uno Stato autoritario viene considerato lecito alterare la verità, riscrivere retrospettivamente la Storia, distorcere le notizie, sopprimerne di vere, aggiungerne di false: all' informazione si sostituisce la propaganda. Infatti, in tale paese tu non sei un cittadino, detentore di diritti, bensì un suddito, e come tale sei debitore allo Stato (ed al dittatore che lo impersona) di lealtà fanatica e di obbedienza supina. È chiaro che in queste condizioni diventa possibile (anche se non sempre facile: non è mai agevole violentare a fondo la natura umana) cancellare frammenti anche grossi della realtà. Nell' Italia fascista riuscì abbastanza bene l' operazione di assassinare il deputato socialista Matteotti, e di mettere l' impresa a tacere dopo pochi mesi; Hitler, e il suo ministro della propaganda Joseph Goebbels, si mostrarono di gran lunga superiori a Mussolini in quest' opera di controllo e di mascheramento della verità. Tuttavia, nascondere al popolo tedesco l' esistenza dell' enorme apparato dei campi di concentramento non era possibile, ed inoltre non era (dal punto di vista nazista) neppure desiderabile. Creare ed intrattenere nel paese un' atmosfera di terrore indefinito faceva parte degli scopi del nazismo: era bene che il popolo sapesse che opporsi a Hitler era estremamente pericoloso. Infatti, centinaia di migliaia di tedeschi furono rinchiusi nei Lager fin dai primi mesi del nazismo: comunisti, socialdemocratici, liberali, ebrei, protestanti, cattolici, e tutto il paese lo sapeva, e sapeva che in Lager si soffriva e si moriva. Ciò nonostante, è vero che la gran massa dei tedeschi ignorò sempre i particolari più atroci di quanto avvenne più tardi nei Lager: lo sterminio metodico e industrializzato sulla scala dei milioni, le camere a gas tossico, i forni crematori, l' abietto sfruttamento dei cadaveri, tutto questo non si doveva sapere, ed in effetti pochi lo seppero, fino alla fine della guerra. Per mantenere il segreto, fra le altre precauzioni, nel linguaggio ufficiale si usavano soltanto cauti e cinici eufemismi: non si scriveva "sterminio" ma "soluzione definitiva", non "deportazione" ma "trasferimento", non "uccisione col gas" ma "trattamento speciale", e così via. Non senza ragione, Hitler temeva che queste orrende notizie, se si fossero divulgate, avrebbero compromesso la fede cieca che il paese gli tributava ed il morale delle truppe combattenti; inoltre, sarebbero venute a conoscenza degli Alleati e sfruttate come argomento propagandistico: il che, del resto, avvenne, ma per la loro stessa enormità gli orrori dei Lager, descritti più volte dalle radio degli Alleati, non furono generalmente creduti. Il riassunto più convincente della situazione tedesca di allora l' ho trovato nel libro Der SS Staat (Lo Stato delle SS) di Eugen Kogon, già prigioniero a Buchenwald, poi professore di Scienze Politiche all' Università di Monaco: A mio parere, nessuna di queste affermazioni è falsa, ma un' altra dev' essere aggiunta a completare il quadro: a dispetto delle varie possibilità d' informazione, la maggior parte dei tedeschi non sapevano perché non volevano sapere, anzi, perché volevano non sapere. È certamente vero che il terrorismo di Stato è un' arma fortissima, a cui è ben difficile resistere; ma è anche vero che il popolo tedesco, nel suo complesso, di resistere non ha neppure tentato. Nella Germania di Hitler era diffuso un galateo particolare: chi sapeva non parlava, chi non sapeva non faceva domande, a chi faceva domande non si rispondeva. In questo modo il cittadino tedesco tipico conquistava e difendeva la sua ignoranza, che gli appariva una giustificazione sufficiente della sua adesione al nazismo: chiudendosi la bocca, gli occhi e le orecchie, egli si costruiva l' illusione di non essere a conoscenza, e quindi di non essere complice, di quanto avveniva davanti alla sua porta. Sapere, e far sapere, era un modo (in fondo non poi tanto pericoloso) di prendere le distanze dal nazismo; penso che il popolo tedesco, nel suo complesso, non vi abbia fatto ricorso, e di questa deliberata omissione lo ritengo pienamente colpevole. ". Queste sono fra le domande che mi vengono rivolte più di frequente, e perciò esse devono nascere da qualche curiosità o esigenza particolarmente importante. La mia interpretazione è ottimistica: i giovani di oggi sentono la libertà come un bene a cui non si può in alcun caso rinunciare, e perciò, per loro, l' idea della prigionia è legata immediatamente all' idea della fuga o della rivolta. Del resto, è vero che secondo i codici militari di molti paesi il prigioniero di guerra è tenuto a cercare di liberarsi in qualsiasi modo, per riprendere il suo posto di combattente, e che secondo la Convenzione dell' Aia il tentativo di fuga non deve essere punito. Il concetto dell' evasione come obbligo morale è continuamente ribadito dalla letteratura romantica (ricordate il conte di Montecristo?), dalla letteratura popolare e dal cinematografo, in cui l' eroe, ingiustamente (o magari giustamente) incarcerato, tenta sempre l' evasione, anche nelle circostanze meno verosimili, e questa è invariabilmente coronata dal successo. Forse è bene che la condizione del prigioniero, la non-libertà, venga sentita come indebita, anormale: come una malattia, insomma, che deve essere guarita con la fuga o la ribellione. Però, purtroppo, questo quadro assomiglia assai poco a quello vero dei campi di concentramento. I prigionieri che tentarono la fuga, per esempio, da Auschwitz, furono poche centinaia, e quelli a cui la fuga riuscì qualche decina. L' evasione era difficile ed estremamente pericolosa: i prigionieri erano indeboliti, oltre che demoralizzati, dalla fame e dai maltrattamenti, avevano i capelli rasi, abiti a strisce subito riconoscibili, scarpe di legno che impedivano un passo rapido e silenzioso; non avevano denaro, e in generale non parlavano il polacco, che era la lingua locale, né avevano contatti nella zona, che del resto neppure conoscevano geograficamente. Inoltre, a reprimere le fughe, si adottavano rappresaglie feroci: chi veniva ripreso era impiccato pubblicamente sulla piazza dell' Appello, spesso dopo torture crudeli; quando veniva scoperta una fuga, gli amici dell' evaso venivano considerati suoi complici e fatti morire di fame nelle celle della prigione, l' intera baracca veniva fatta stare in piedi per ventiquattro ore, e talvolta venivano arrestati e deportati nel Lager i genitori del "colpevole". Ai militi delle SS che uccidevano un prigioniero nel corso di un tentativo di fuga veniva concessa una licenza premio: perciò accadeva sovente che una SS sparasse ad un prigioniero che non aveva alcuna intenzione di fuggire, solo allo scopo di conseguire il premio. Questo fatto aumenta artificiosamente il numero ufficiale dei casi di fuga registrati nelle statistiche; come ho accennato, il numero effettivo era invece molto piccolo. Essendo questa la situazione, dai campi di Auschwitz evasero con successo solo alcuni prigionieri polacchi "ariani" (cioè non ebrei, nella terminologia di allora), che abitavano poco lontano dal Lager, e che quindi avevano una meta verso cui dirigersi e la sicurezza di essere protetti dalla popolazione. Negli altri campi le cose si svolsero analogamente. Per quanto riguarda la mancata ribellione, il discorso è un po' diverso. Prima di tutto occorre ricordare che in alcuni Lager delle insurrezioni si sono effettivamente verificate: a Treblinka, a Sobibor, ed anche a Birkenau, uno dei campi dipendenti da Auschwitz. Non ebbero molto peso numerico: come l' analoga insurrezione del ghetto di Varsavia, rappresentano piuttosto esempi di straordinaria forza morale. In tutti i casi, esse furono disegnate e guidate da prigionieri in qualche modo privilegiati, e perciò in condizioni fisiche e spirituali migliori di quelle dei prigionieri comuni. Questo non deve stupire: solo a prima vista può apparire paradossale che si ribelli chi soffre meno. Anche fuori dei Lager le lotte raramente vengono condotte dai sottoproletari. Gli "stracci" non si ribellano. Nei campi per prigionieri politici, o dove i politici prevalevano, l' esperienza cospirativa di questi si dimostrò preziosa, e si giunse spesso, più che a rivolte aperte, ad attività di difesa abbastanza efficienti. A seconda dei Lager e dei tempi, si riuscì ad esempio a ricattare o corrompere le SS, raffrenandone i poteri indiscriminati; a sabotare il lavoro per le industrie di guerra tedesche; ad organizzare evasioni; a comunicare via radio con gli Alleati, fornendo loro notizie sulle orrende condizioni dei campi; a migliorare il trattamento dei malati, sostituendo medici prigionieri ai medici SS; a "pilotare" le selezioni, mandando a morte le spie o i traditori e salvando prigionieri la cui sopravvivenza avesse per qualsiasi motivo importanza particolare; a prepararsi, anche militarmente, a resistere nel caso che, con l' avvicinarsi del fronte, i nazisti decidessero (come infatti spesso decisero) di liquidare totalmente i Lager. Nei campi con prevalenza di ebrei, come quelli della zona di Auschwitz, una difesa attiva o passiva era particolarmente difficile. Qui i prigionieri, in generale, erano privi di qualsiasi esperienza organizzativa o militare; provenivano da tutti i paesi d' Europa, parlavano lingue diverse, e perciò non si capivano fra loro; soprattutto, erano più affamati, più deboli e più stanchi degli altri, perché le loro condizioni di vita erano più dure, e perché spesso avevano già alle spalle una lunga carriera di fame, persecuzione e umiliazione nei ghetti. Come ulteriore conseguenza, la durata del loro soggiorno in Lager era tragicamente breve, erano insomma una popolazione fluttuante, continuamente diradata dalla morte, e rinnovata dagli incessanti arrivi di nuovi convogli. È comprensibile che in un tessuto umano così deteriorato e così instabile non attecchisse facilmente il germe della rivolta. Ci si può domandare perché non si ribellassero i prigionieri appena scesi dai treni, che attendevano per ore (talvolta per giorni!) di entrare nelle camere a gas. Oltre a quanto ho detto, devo aggiungere qui che i tedeschi avevano perfezionato per questa impresa di morte collettiva una strategia diabolicamente astuta e versatile. Nella maggior parte dei casi, i nuovi arrivi non sapevano a cosa andavano incontro: venivano accolti con fredda efficienza ma senza brutalità, invitati a spogliarsi "per la doccia", talvolta veniva loro dato asciugamano e sapone, e promesso un caffè caldo dopo il bagno. Le camere a gas, infatti, erano camuffate come sale di docce, con tubazioni, rubinetti, spogliatoi, attaccapanni, panchine eccetera. Quando invece i prigionieri davano anche il più piccolo segno di sapere o sospettare il loro destino imminente, le SS e i loro collaboratori agivano di sorpresa, intervenendo con estrema brutalità, con urla, minacce, calci, spari, e aizzando contro quella gente perplessa e disperata, macerata da cinque o dieci giorni di viaggio in vagoni sigillati, i loro cani addestrati a sbranare uomini. Stando così le cose, appare assurda ed offensiva l' affermazione che talvolta è stata formulata, che gli ebrei non si siano ribellati per codardia. Nessuno si ribellava. Basti ricordare che le camere a gas di Auschwitz furono collaudate su un gruppo di trecento prigionieri di guerra russi, giovani, allenati militarmente, politicamente preparati, e non impediti dalla presenza di donne e bambini; e neppure loro si ribellarono. Vorrei infine aggiungere una considerazione. La coscienza radicata che all' oppressione non si deve acconsentire, bensì resistere, non era molto diffusa nell' Europa fascista, ed era particolarmente debole in Italia. Era patrimonio di una cerchia ristretta di uomini politicamente attivi, ma il fascismo e il nazismo li avevano isolati, espulsi, terrorizzati o addirittura distrutti: non bisogna dimenticare che le prime vittime dei Lager tedeschi, in numero di centinaia di migliaia, furono appunto i quadri dei partiti politici antinazisti. Essendo venuto a mancare il loro apporto, la volontà popolare di resistere, di organizzarsi per resistere, è risorta molto più tardi, grazie soprattutto al contributo dei partiti comunisti europei, che si gettarono nella lotta contro il nazismo dopo che la Germania, nel giugno 1941, aveva aggredito improvvisamente l' Unione Sovietica rompendo l' accordo Ribbentrop-Molotov del settembre 1939. In conclusione, rimproverare ai prigionieri la mancata ribellione rappresenta oltre a tutto un errore di prospettiva storica: significa pretendere da loro una coscienza politica che oggi è patrimonio pressoché comune, ma allora apparteneva solo ad una élite. 4. Sono ritornato ad Auschwitz nel 1965, in occasione di una cerimonia commemorativa della liberazione dei campi. Come ho accennato nei miei libri, l' impero concentrazionario di Auschwitz non era costituito da un solo Lager, bensì da una quarantina: il campo di Auschwitz propriamente detto era costruito alla periferia della cittadina dello stesso nome (Oswiecim in polacco), aveva una capacità di circa ventimila prigionieri, ed era per così dire la capitale amministrativa del complesso; c' era poi il Lager (o più precisamente il gruppo di Lager: da tre a cinque, a seconda dei momenti) di Birkenau, che giunse a contenere sessantamila prigionieri, di cui circa quarantamila donne, ed in cui erano in funzione le camere a gas ed i forni crematori; ed infine, un numero continuamente variabile di campi di lavoro, lontani anche centinaia di chilometri dalla "capitale": il mio campo, chiamato Mònowitz, era il più grande di questi, essendo giunto a contenere circa dodicimila prigionieri. Era situato a circa sette chilometri ad est di Auschwitz. L' intera zona si trova attualmente in territorio polacco. Non ho provato grande impressione nel visitare il Campo Centrale: il governo polacco l' ha trasformato in una specie di monumento nazionale, le baracche sono state ripulite e verniciate, sono stati piantati alberi, disegnate aiuole. C' è un museo in cui sono esposti cimeli miserandi: tonnellate di capelli umani, centinaia di migliaia di occhiali, pettini, pennelli da barba, bambole, scarpe da bambini; ma è pur sempre un museo, qualcosa di statico, riordinato, manomesso. Tutto il campo mi è sembrato un museo. Quanto al mio Lager, non esiste più; la fabbrica di gomma a cui era annesso, ora in mani polacche, si è talmente ingrandita che ne ha completamente occupato il territorio. Ho provato invece un' impressione di angoscia violenta entrando nel Lager di Birkenau, che non avevo mai visto da prigioniero. Qui niente è cambiato: c' era fango, e c' è ancora fango, o polvere soffocante d' estate; le baracche (quelle che non sono bruciate durante il passaggio del fronte) sono rimaste com' erano, basse, sporche, di tavole sconnesse, col pavimento di terra battuta; non ci sono cuccette ma tavolacci di legno nudo, fino al soffitto. Qui niente è stato abbellito. Era con me una mia amica, Giuliana Tedeschi, superstite di Birkenau. Mi ha fatto vedere che su ogni tavolaccio di m 1,.0 per 2 dormivano fino a nove donne. Mi ha fatto notare che dalla finestrella si vedono le rovine del crematorio; a quel tempo, si vedeva la fiamma in cima alla ciminiera. Lei aveva chiesto alle anziane: "Che cosa è quel fuoco?", e le avevano risposto: "Siamo noi che bruciamo". Di fronte al triste potere evocativo di quei luoghi, ognuno di noi reduci si comporta in un modo diverso, ma si possono delineare due categorie tipiche. Appartengono alla prima categoria quelli che rifiutano di ritornarvi, o addirittura di parlare di questo argomento; quelli che vorrebbero dimenticare, ma non ci riescono, e sono tormentati da incubi; quelli che invece hanno dimenticato, hanno rimosso tutto, ed hanno ricominciato a vivere da zero. Ho notato che in generale tutti questi sono individui che sono finiti in Lager "per disgrazia", cioè senza un impegno politico preciso; per loro la sofferenza è stata una esperienza traumatica ma priva di significato e di insegnamento, come un infortunio o una malattia: il ricordo è per loro un qualcosa di estraneo, un corpo doloroso intruso nella loro vita, ed hanno cercato (o ancora cercano) di eliminarlo. La seconda categoria è invece costituita dagli ex prigionieri "politici", o comunque in possesso di una preparazione politica, o di una convinzione religiosa, o di una forte coscienza morale. Per questi reduci, ricordare è un dovere: essi non vogliono dimenticare, e soprattutto non vogliono che il mondo dimentichi, perché hanno capito che la loro esperienza non è stata priva di senso, e che i Lager non sono stati un incidente, un imprevisto della Storia. I Lager nazisti sono stati l' apice, il coronamento del fascismo in Europa, la sua manifestazione più mostruosa; ma il fascismo c' era prima di Hitler e di Mussolini, ed è sopravvissuto, in forme palesi o mascherate, alla sconfitta della seconda guerra mondiale. In tutte le parti del mondo, là dove si comincia col negare le libertà fondamentali dell' Uomo, e l' uguaglianza fra gli uomini, si va verso il sistema concentrazionario, ed è questa una strada su cui è difficile fermarsi. Conosco molti ex prigionieri che hanno capito bene quale terribile lezione è contenuta nella loro esperienza, e che ogni anno ritornano nel "loro" campo guidando pellegrinaggi di giovani: io stesso lo farei volentieri se il tempo me lo concedesse, e se non sapessi che raggiungo lo stesso scopo scrivendo libri, ed accettando di commentarli agli studenti. 5. Come ho scritto nel rispondere alla prima domanda, alla parte del giudice preferisco quella del testimone: ho da portare una testimonianza, quella delle cose che ho subìte e viste. I miei libri non sono libri di storia: nello scriverli mi sono rigorosamente limitato a riportare i fatti di cui avevo esperienza diretta, escludendo quelli che ho appreso più tardi da libri o giornali. Ad esempio, noterete che non ho citato le cifre del massacro di Auschwitz, e neppure ho descritto i dettagli delle camere a gas e dei crematori: infatti non conoscevo questi dati quando ero in Lager, e li ho appresi soltanto dopo, quando tutto il mondo li ha appresi. Per questo stesso motivo non parlo generalmente dei Lager russi: per mia fortuna non ci sono stato, e non potrei che ripetere le cose che ho letto, cioè quelle che sanno tutti coloro che a questo argomento si sono interessati. È chiaro che tuttavia con questo non voglio né posso sottrarmi al dovere, che ha ogni uomo, di farsi un giudizio e di formulare un' opinione. Accanto ad evidenti somiglianze, fra i Lager sovietici e i Lager nazisti mi pare di poter osservare sostanziali differenze. La principale differenza consiste nella finalità. I Lager tedeschi costituiscono qualcosa di unico nella pur sanguinosa storia dell' umanità: all' antico scopo di eliminare o terrificare gli avversari politici, affiancavano uno scopo moderno e mostruoso, quello di cancellare dal mondo interi popoli e culture. A partire press' a poco dal 1941, essi diventano gigantesche macchine di morte: camere a gas e crematori erano stati deliberatamente progettati per distruggere vite e corpi umani sulla scala dei milioni; l' orrendo primato spetta ad Auschwitz, con 24 000 morti in un solo giorno, nell' agosto 1944. I campi sovietici non erano e non sono certo luoghi in cui il soggiorno sia gradevole, ma in essi, neppure negli anni più oscuri dello stalinismo, la morte dei prigionieri non veniva espressamente ricercata: era un incidente assai frequente, e tollerato con brutale indifferenza, ma sostanzialmente non voluto; insomma, un sottoprodotto dovuto alla fame, al freddo, alle infezioni, alla fatica. In questo lugubre confronto fra due modelli di inferno bisogna ancora aggiungere che nei Lager tedeschi, in generale, si entrava per non uscirne: non era previsto alcun termine altro che la morte. Per contro, nei campi sovietici un termine è sempre esistito: al tempo di Stalin i "colpevoli" venivano talvolta condannati a pene lunghissime (anche quindici o venti anni) con spaventosa leggerezza, ma una sia pur lieve speranza di libertà sussisteva. Da questa fondamentale differenza scaturiscono le altre. I rapporti fra guardiani e prigionieri, in Unione Sovietica, sono meno disumani: appartengono tutti allo stesso popolo, parlano la stessa lingua, non sono "superuomini" e "sottouomini" come sotto il nazismo. I malati, magari male, vengono curati; davanti a un lavoro troppo duro è pensabile una protesta, individuale o collettiva; le punizioni corporali sono rare e non troppo crudeli; è possibile ricevere da casa lettere e pacchi con viveri; la personalità umana, insomma, non viene denegata e non va totalmente perduta. Per contro, almeno per quanto riguardava gli ebrei e gli zingari, nei Lager tedeschi la strage era pressoché totale: non si fermava neppure davanti ai bambini, che furono uccisi nelle camere a gas a centinaia di migliaia, cosa unica fra tutte le atrocità della storia umana. Come conseguenza generale, le quote di mortalità sono assai diverse per i due sistemi. In Unione Sovietica pare che nei periodi più duri la mortalità si aggirasse sul 30 per cento, riferito a tutti gli ingressi, e questo è certamente un dato intollerabilmente alto; ma nei Lager tedeschi la mortalità era del 90-9. per cento. Mi pare molto grave la recente innovazione sovietica secondo cui alcuni intellettuali dissenzienti vengono sbrigativamente dichiarati pazzi, rinchiusi in istituti psichiatrici, e sottoposti a "cure" che non solo provocano crudeli sofferenze, ma distorcono ed indeboliscono le funzioni mentali. Ciò dimostra che il dissenso viene temuto: non è più punito, ma si cerca di demolirlo con i farmaci (o con la paura dei farmaci). Forse questa tecnica non è molto diffusa (pare che questi ricoverati politici, nel 1975, non superassero il centinaio), ma è odiosa, perché comporta un uso abietto della scienza, ed una prostituzione imperdonabile da parte dei medici che si prestano così servilmente ad assecondare i voleri dell' autorità. Essa mette in luce un estremo disprezzo per il confronto democratico e le libertà civili. Per contro, e per quanto riguarda appunto l' aspetto quantitativo, resta da notare che, in Unione Sovietica, il fenomeno Lager appare attualmente in declino. Sembra che intorno al 1950 i prigionieri politici fossero milioni; secondo i dati di "Amnesty International" (un' associazione apolitica che si prefigge di soccorrere tutti i prigionieri politici, in tutti i paesi e indipendentemente dalle loro opinioni) essi sarebbero oggi (1976) circa diecimila. In conclusione, i campi sovietici rimangono pur sempre una manifestazione deplorevole di illegalità e di disumanità. Essi non hanno nulla a che vedere col socialismo, ed anzi, sul socialismo sovietico spiccano come una brutta macchia; sono piuttosto da considerarsi una barbarica eredità dell' assolutismo zarista, di cui i governi sovietici non hanno saputo o voluto liberarsi. Chi legge le "Memorie di una casa morta", scritte da Dostoevskij nel 1.62, non stenta a riconoscervi gli stessi lineamenti carcerari descritti da Solzenicyn cento anni dopo. Ma è possibile, anzi facile, rappresentarsi un socialismo senza Lager: in molte parti del mondo è stato realizzato. Un nazismo senza Lager invece non è pensabile. 6. La maggior parte dei personaggi che compaiono in queste pagine sono purtroppo da ritenere scomparsi già nei giorni di Lager o durante la tremenda marcia di evacuazione di cui si parla a p. 196; altri sono morti più tardi per malattie contratte durante la prigionia, e di altri ancora non sono riuscito a ritrovare le tracce. Alcuni pochi sopravvivono, ed ho potuto conservare o ristabilire il contatto con loro. È vivo, e sta bene, Jean, il "Pikolo" del Canto di Ulisse: la sua famiglia era stata distrutta, ma si è sposato dopo il ritorno, ed ora ha due figli, e conduce una vita molto tranquilla come farmacista in una cittadina della provincia francese. Ci incontriamo talvolta in Italia, dove viene per le vacanze; altre volte sono andato io a trovarlo. Stranamente, ha dimenticato molto del suo anno di Monowitz: in lui prevalgono i ricordi atroci del viaggio di evacuazione, nel corso del quale ha visto morire di estenuazione tutti i suoi amici (fra questi era Alberto). Vedo anche abbastanza sovente il personaggio che ho chiamato Piero Sonnino (p. 66), e che è lo stesso che compare come "Cesare" in La tregua. Anche lui, dopo un difficile periodo di riinserimento, ha trovato un lavoro e si è fatta una famiglia. Vive a Roma. Racconta volentieri, e con grande vivacità, le traversie che ha subìte in campo e durante il lungo viaggio di ritorno, ma nelle sue narrazioni, che spesso diventano quasi monologhi teatrali, tende a mettere in evidenza i fatti avventurosi di cui è stato protagonista piuttosto che quelli tragici a cui ha assistito passivamente. Ho rivisto anche Charles. Era stato preso prigioniero sulle colline dei Vosgi, presso la sua casa, dove era partigiano, solo nel novembre 1944, ed era stato in Lager soltanto per un mese; ma questo mese di sofferenza, ed i fatti feroci a cui aveva assistito, lo avevano segnato profondamente, togliendogli la gioia di vivere e la volontà di costruirsi un avvenire. Rimpatriato dopo un viaggio non molto diverso da quello che io ho raccontato in La tregua, ha ripreso il suo mestiere di maestro elementare nella minuscola scuola del suo villaggio, in cui insegnava ai bambini anche ad allevare le api e a coltivare un vivaio di abeti e pini. Da pochi anni è in pensione; ha sposato di recente una sua collega non giovane, ed insieme si sono costruiti una casa nuova, piccola ma comoda e graziosa. Sono andato a trovarlo due volte, nel 1951 e nel 1974. In quest' ultima occasione mi ha detto di Arthur, che abita in un villaggio non molto lontano: è vecchio e ammalato, e non desidera ricevere visite che possano ridestare in lui antiche angosce. Drammatico, imprevisto, e pieno di gioia per entrambi, è stato il ritrovamento di Mendi, il "rabbino modernista" a cui si accenna in poche righe alle pp. .5 e 132. Ha riconosciuto se stesso leggendo casualmente nel 1965 la traduzione tedesca di questo libro: si ricordava di me, e mi ha scritto una lunga lettera indirizzandola presso la Comunità Israelitica di Torino. Ci siamo scritti a lungo, informandoci a vicenda dei destini dei nostri amici comuni. Nel 1967 sono andato a trovarlo a Dortmund, in Germania Federale, dove allora era rabbino: è rimasto com' era, "tenace, coraggioso e acuto", ed inoltre straordinariamente colto. Ha sposato una reduce da Auschwitz, ed hanno tre figli ormai grandi; l' intera famiglia ha intenzione di trasferirsi in Israele. Non ho più rivisto il Doktor Pannwitz, il chimico che mi aveva sottoposto ad un gelido "esame di Stato", ma ho avuto sue notizie da quel Doktor Müller a cui ho dedicato il capitolo "Vanadio" del mio ultimo libro "ii sistema periodico". Nell' imminenza dell' arrivo dell' Armata Rossa nella fabbrica di Buna, si è comportato con prepotenza e viltà: ha ordinato ai suoi collaboratori civili di resistere a oltranza, ha vietato loro di salire sull' ultimo treno in partenza per le retrovie, ma ci è salito lui all' ultimo momento approfittando della confusione. È morto nel 1946 di un tumore al cervello. 7. L' avversione contro gli ebrei, impropriamente detta antisemitismo, è un caso particolare di un fenomeno più vasto, e cioè dell' avversione contro chi è diverso da noi. È indubbio che si tratti, in origine, di un fatto zoologico: gli animali di una stessa specie, ma appartenenti a gruppi diversi, manifestano fra di loro fenomeni di intolleranza. Questo avviene anche fra gli animali domestici: è noto che una gallina di un certo pollaio, se viene introdotta in un altro, è respinta a beccate per vari giorni. Lo stesso avviene fra i topi e le api, e in genere in tutte le specie di animali sociali. Ora, l' uomo è certamente un animale sociale (lo aveva già affermato Aristotele): ma guai se tutte le spinte zoologiche che sopravvivono nell' uomo dovessero essere tollerate! Le leggi umane servono appunto a questo: a limitare gli impulsi animaleschi. L' antisemitismo è un tipico fenomeno d' intolleranza. Perché una intolleranza insorga, occorre che fra i due gruppi a contatto esista una differenza percettibile: questa può essere una differenza fisica (i neri e i bianchi, i bruni e i biondi), ma la nostra complicata civiltà ci ha resi sensibili a differenze più sottili, quali la lingua, o il dialetto, o addirittura l' accento (lo sanno bene i nostri meridionali costretti ad emigrare al Nord); la religione, con tutte le sue manifestazioni esteriori e la sua profonda influenza sul modo di vivere; il modo di vestire o gesticolare; le abitudini pubbliche e private. La tormentata storia del popolo ebreo ha fatto sì che quasi ovunque gli ebrei manifestasse o una o più di queste differenze. Nell' intrico, estremamente complesso, dei popoli e delle nazioni in urto fra loro, la storia di questo popolo si presenta con caratteristiche particolari. Esso era (ed in parte è tuttora) depositario di un legame interno molto forte, di natura religiosa e tradizionale; di conseguenza, a dispetto della sua inferiorità numerica e militare, si oppose con disperato valore alla conquista da parte dei romani, e fu sconfitto, deportato e disperso, ma quel legame sopravvisse. Le colonie ebraiche che si andarono formando, su tutte le coste del Mediterraneo dapprima, e successivamente in Medio Oriente, in Spagna, in Renania, nella Russia meridionale, in Polonia, in Boemia ed altrove, rimasero sempre ostinatamente fedeli a questo legame, che si era andato consolidando sotto la forma di un immenso corpo di leggi e tradizioni scritte, di una religione minuziosamente codificata, e di un rituale peculiare e vistoso, che pervadeva tutti gli atti della giornata. Gli ebrei, in minoranza in tutti i loro stanziamenti, erano dunque diversi, riconoscibili come diversi, e spesso orgogliosi (a ragione o a torto) della loro diversità: tutto questo li rendeva molto vulnerabili, ed infatti furono duramente perseguitati, in quasi tutti i paesi ed in quasi tutti i secoli; alle persecuzioni gli ebrei reagirono in piccola parte assimilandosi, ossia fondendosi con la popolazione circostante; in maggior parte, emigrando nuovamente verso paesi più ospitali. In tal modo si rinnovava però la loro "diversità", che li esponeva a nuove restrizioni e persecuzioni. Sebbene nella sua essenza profonda l' antisemitismo sia un fenomeno irrazionale di intolleranza, esso, in tutti i paesi cristiani, ed a partire da quando il cristianesimo si andò consolidando come religione di Stato, assunse una veste prevalentemente religiosa, anzi teologica. Secondo l' affermazione di sant' Agostino, gli ebrei sono condannati alla dispersione da Dio stesso, e ciò per due motivi: perché in tal modo essi vengono puniti per non aver riconosciuto in Cristo il Messia, e perché la loro presenza in tutti i paesi è necessaria alla Chiesa cattolica, che essa pure è dappertutto, affinché dappertutto sia visibile ai fedeli la meritata infelicità degli ebrei. Perciò la dispersione e separazione degli ebrei non dovrà mai avere fine: essi, con le loro pene, devono testimoniare in eterno del loro errore, e di conseguenza della verità della fede cristiana. Dunque, poiché la loro presenza è necessaria, essi devono essere perseguitati, ma non uccisi. Tuttavia, non sempre la Chiesa si mostrò così moderata: fin dai primi secoli del cristianesimo fu mossa agli ebrei un' accusa ben più grave, quella di essere, collettivamente ed eternamente, responsabili della crocifissione di Cristo, di essere insomma il "popolo deicida". Questa formulazione, che compare nella liturgia pasquale in tempi remoti, ed è stata soppressa solo dal Concilio Vaticano ii (1962-65), sta all' origine di varie funeste e sempre rinnovate credenze popolari: che gli ebrei avvelenano i pozzi propagando la peste; che profanano abitualmente l' Ostia consacrata; che a Pasqua rapiscono bambini cristiani, col cui sangue impastano il pane azzimo. Queste credenze hanno offerto il pretesto per numerosi e sanguinosi massacri, e tra l' altro, per l' espulsione in massa degli ebrei dapprima dalla Francia e dall' Inghilterra, poi (1492-9.) dalla Spagna e dal Portogallo. Attraverso una serie mai interrotta di stragi e di migrazioni, si arriva al secolo xix, contrassegnato dal risveglio generale delle coscienze nazionali e dal riconoscimento dei diritti delle minoranze: ad eccezione della Russia zarista, in tutta l' Europa cadono le restrizioni legali ai danni degli ebrei, che erano state invocate dalle Chiese cristiane (a seconda dei luoghi e dei tempi, l' obbligo di risiedere in ghetti o in zone particolari, l' obbligo di portare sugli abiti un contrassegno, il divieto di accedere a determinati mestieri o professioni, il divieto dei matrimoni misti, ecc.). Sopravvive però l' antisemitismo, vivace soprattutto nei paesi dove una rozza religiosità continuava ad additare negli ebrei gli uccisori di Cristo (in Polonia e in Russia), e dove le rivendicazioni nazionali avevano lasciato uno strascico di generica avversione contro i confinanti e gli stranieri (in Germania; ma anche in Francia, ed alla fine del XIX secolo, i clericali, i nazionalisti ed i militari si trovano concordi nello scatenare una violenta ondata di antisemitismo, in occasione della falsa accusa di alto tradimento mossa contro Alfred Dreyfus, ufficiale ebreo dell' esercito francese). In Germania, in specie, per tutto il secolo scorso una serie ininterrotta di filosofi e di politici avevano insistito in una teorizzazione fanatica, secondo cui il popolo tedesco, per troppo tempo diviso ed umiliato, era depositario del primato in Europa e forse nel mondo, era erede di remote e nobilissime tradizioni e civiltà, ed era costituito da individui sostanzialmente omogenei per sangue e per razza. I popoli tedeschi avrebbero dovuto costituirsi in uno Stato forte e guerriero, egemone in Europa, rivestito di una maestà quasi divina. Questa idea della missione della Nazione Tedesca sopravvive alla disfatta della prima guerra mondiale, ed esce anzi rafforzata dall' umiliazione del trattato di pace di Versailles. Se ne impadronisce uno dei personaggi più sinistri ed infausti della Storia, l' agitatore politico Adolf Hitler. I borghesi e gli industriali tedeschi porgono orecchio alle sue orazioni infiammate: Hitler promette bene, riuscirà a deviare sugli ebrei l' avversione che il proletariato tedesco tributa alle classi che l' hanno condotto alla sconfitta ed al disastro economico. Nel giro di pochi anni, a partire dal 1933, egli riesce a trarre partito dalla collera di un paese umiliato e dall' orgoglio nazionalistico suscitato dai profeti che l' hanno preceduto, Lutero, Fichte, Hegel, Wagner, Gobineau, Chamberlain, Nietzsche: il suo pensiero ossessivo è quello di una Germania dominatrice, non nel lontano futuro ma subito; non attraverso una missione di civiltà, ma con le armi. Tutto ciò che non è germanico gli appare inferiore, anzi detestabile, ed i primi nemici della Germania sono gli ebrei, per molti motivi che Hitler enunciava con furore dogmatico: perché hanno "sangue diverso"; perché sono imparentati con altri ebrei in Inghilterra, in Russia, in America; perché sono eredi di una cultura in cui si ragiona e si discute prima di obbedire, ed in cui è vietato inchinarsi agli idoli, mentre lui stesso aspira ad essere venerato come un idolo, e non esita a proclamare che "dobbiamo diffidare dell' intelligenza e della coscienza, e riporre tutta la nostra fede negli istinti". Infine, molti fra gli ebrei tedeschi hanno raggiunto posizioni chiave nell' economia, nella finanza, nelle arti, nella scienza, nella letteratura: Hitler, pittore mancato, architetto fallito, riversa sugli ebrei il suo risentimento e la sua invidia di frustrato. Questo seme d' intolleranza, cadendo su di un terreno già predisposto, vi attecchisce con incredibile vigore ma in forme nuove. L' antisemitismo di stampo fascista, quello che il Verbo bandito da Hitler risveglia nel popolo tedesco, è più barbarico di tutti i precedenti: vi convergono dottrine biologiche artificiosamente distorte, secondo cui le razze deboli devono cedere davanti alle forti; le assurde credenze popolari che il buon senso aveva sepolte da secoli; una propaganda senza soste. Si toccano estremi mai sentiti prima. L' ebraismo non è una religione da cui ci si può allontanare col battesimo, né una tradizione culturale che si può abbandonare per un' altra: è una sottospecie umana, una razza diversa ed inferiore a tutte le altre. Gli ebrei sono solo apparentemente esseri umani: in realtà sono qualcosa di diverso: di abominevole e indefinibile, "più lontani dai tedeschi che le scimmie dagli uomini"; sono colpevoli di tutto, del rapace capitalismo americano e del bolscevismo sovietico, della sconfitta del 191., dell' inflazione del 1923; liberalismo, democrazia, socialismo e comunismo sono sataniche invenzioni ebraiche, che minacciano la solidità monolitica dello Stato nazista. Il passaggio dalla predicazione teorica all' attuazione pratica è stato rapido e brutale. Nel 1933, solo due mesi dopo che Hitler ha conquistato il potere, nasce Dachau, il primo Lager. Nel maggio dello stesso anno si accende il primo rogo di libri di autori ebrei o nemici del nazismo (ma più di cento anni prima Heine, poeta ebreo tedesco, aveva scritto: "Chi brucia i libri finisce presto o tardi col bruciare uomini"). Nel 1935 l' antisemitismo viene codificato in una monumentale e minuziosissima legislazione, le Leggi di Norimberga. Nel 193., in una sola notte di disordini pilotati dall' alto, vengono incendiate 191 sinagoghe e distrutti migliaia di negozi di ebrei. Nel 1939 gli ebrei della Polonia testè occupata vengono rinchiusi nei ghetti. Nel 1940 viene aperto il Lager di Auschwitz. Nel 1941-42 la macchina dello sterminio è in piena azione: le vittime saliranno a milioni nel 1944. Nella pratica quotidiana dei campi di sterminio trovano la loro realizzazione l' odio e il disprezzo diffusi dalla propaganda nazista. Qui non c' era solo la morte, ma una folla di dettagli maniaci e simbolici, tutti tesi a dimostrare e confermare che gli ebrei, e gli zingari, e gli slavi, sono bestiame, strame, immondezza. Si ricordi il tatuaggio di Auschwitz, che imponeva agli uomini il marchio che si usa per i buoi; il viaggio in vagoni bestiame, mai aperti, in modo da costringere i deportati (uomini, donne e bambini!) a giacere per giorni nelle proprie lordure; il numero di matricola in sostituzione del nome; la mancata distribuzione di cucchiai (eppure i magazzini di Auschwitz, alla liberazione, ne contenevano quintali), per cui i prigionieri avrebbero dovuto lambire la zuppa come cani; l' empio sfruttamento dei cadaveri, trattati come una qualsiasi anonima materia prima, da cui si ricavavano l' oro dei denti, i capelli come materiale tessile, le ceneri come fertilizzanti agricoli; gli uomini e le donne degradati a cavie, su cui sperimentare medicinali per poi sopprimerli. Lo stesso modo che fu scelto (dopo minuziosi esperimenti) per lo sterminio era apertamente simbolico. Si doveva usare, e fu usato, quello stesso gas velenoso che si impiegava per disinfestare le stive delle navi, ed i locali invasi da cimici o pidocchi. Sono state escogitate nei secoli morti più tormentose, ma nessuna era così gravida di dileggio e di disprezzo. Come è noto, l' opera di sterminio fu condotta molto avanti. I nazisti, che pure erano impegnati in una durissima guerra, ormai difensiva, vi manifestarono una fretta inesplicabile: i convogli delle vittime da portare al gas, o da trasferire dai Lager prossimi al fronte, avevano la precedenza sulle tradotte militari. Non fu condotta a termine solo perché la Germania fu disfatta, ma il testamento politico che Hitler dettò poche ore prima di uccidersi, coi russi a pochi metri, si concludeva così: "Soprattutto, ordino al governo e al popolo tedesco di mantenere in pieno vigore le leggi razziali, e di combattere inesorabilmente l' avvelenatore di tutte le nazioni, l' ebraismo internazionale". Riassumendo, si può dunque affermare che l' antisemitismo è un caso particolare dell' intolleranza; che per secoli ha avuto carattere prevalentemente religioso; che, nel iii Reich, esso è stato esacerbato dalla predisposizione nazionalistica e militaristica del popolo tedesco, e dalla peculiare "diversità" del popolo ebreo; che esso fu facilmente disseminato in tutta la Germania, e in buona parte dell' Europa, grazie all' efficienza della propaganda fascista e nazista, a cui occorreva un capro espiatorio su cui convogliare tutte le colpe e tutti i risentimenti; e che il fenomeno fu condotto al parossismo da Hitler, dittatore maniaco. Tuttavia devo ammettere che queste spiegazioni, che sono quelle comunemente accettate, non mi soddisfano: sono diminutive, non commisurate, non proporzionali ai fatti da spiegare. Nel rileggere le cronache del nazismo, dai suoi torbidi inizi alla sua fine convulsa, non riesco a sottrarmi all' impressione di una generale atmosfera di follia incontrollata che mi pare unica nella storia. Questa follia collettiva, questo sbandamento, viene di solito spiegato postulando la combinazione di molti fattori diversi, insufficienti se presi singolarmente, e il maggiore di questi fattori sarebbe la personalità stessa di Hitler, e la sua profonda interazione col popolo tedesco. È certo che le sue personali ossessioni, la sua capacità d' odio, la sua predicazione di violenza, trovavano sfrenata risonanza nella frustrazione del popolo tedesco, e da questo ritornavano a lui moltiplicate, confermandolo nella sua convinzione delirante di essere lui stesso l' Eroe profetizzato da Nietzsche, il Superuomo redentore della Germania. Sull' origine del suo odio contro gli ebrei si è scritto molto. Si è detto che Hitler riversava sugli ebrei il suo odio contro l' intero genere umano; che riconosceva negli ebrei alcuni suoi stessi difetti, e che odiando gli ebrei odiava se stesso; che la violenza della sua avversione proveniva dal timore di poter avere "sangue ebreo" nelle vene. Ancora una volta: non mi sembrano spiegazioni adeguate. Non mi sembra lecito spiegare un fenomeno storico riversandone tutta la colpa su un individuo (gli esecutori di ordini orrendi non sono innocenti!), ed inoltre è sempre arduo interpretare le motivazioni profonde di un individuo. Le ipotesi che vengono proposte giustificano i fatti solo in misura parziale, ne spiegano la qualità ma non la quantità. Devo ammettere che preferisco l' umiltà con cui alcuni storici fra i più seri (Bullock, Schramm, Bracher) confessano di non comprendere l' antisemitismo furibondo di Hitler e della Germania dietro di lui. Forse, quanto è avvenuto non si può comprendere, anzi, non si deve comprendere, perché comprendere è quasi giustificare. Mi spiego: "comprendere" un proponimento o un comportamento umano significa (anche etimologicamente) contenerlo, contenerne l' autore, mettersi al suo posto, identificarsi con lui. Ora, nessun uomo normale potrà mai identificarsi con Hitler, Himmler, Goebbels, Eichmann e infiniti altri. Questo ci sgomenta, ed insieme ci porta sollievo: perché forse è desiderabile che le loro parole (ed anche, purtroppo, le loro opere) non ci riescano più comprensibili. Sono parole ed opere non umane, anzi, contro-umane, senza precedenti storici, a stento paragonabili alle vicende più crudeli della lotta biologica per l' esistenza. A questa lotta può essere ricondotta la guerra: ma Auschwitz non ha nulla a che vedere con la guerra, non ne è un episodio, non ne è una forma estrema. La guerra è un terribile fatto di sempre: è deprecabile ma è in noi, ha una sua razionalità, la "comprendiamo". Ma nell' odio nazista non c' è razionalità: è un odio che non è in noi, è fuori dell' uomo, è un frutto velenoso nato dal tronco funesto del fascismo, ma è fuori ed oltre il fascismo stesso. Non possiamo capirlo; ma possiamo e dobbiamo capire di dove nasce, e stare in guardia. Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre. Per questo, meditare su quanto è avvenuto è un dovere di tutti. Tutti devono sapere, o ricordare, che Hitler e Mussolini, quando parlavano pubblicamente, venivano creduti, applauditi, ammirati, adorati come dèi. Erano "capi carismatici", possedevano un segreto potere di seduzione che non procedeva dalla credibilità o dalla giustezza delle cose che dicevano, ma dal modo suggestivo con cui le dicevano, dalla loro eloquenza, dalla loro arte istrionica, forse istintiva, forse pazientemente esercitata e appresa. Le idee che proclamavano non erano sempre le stesse, e in generale erano aberranti, o sciocche, o crudeli; eppure vennero osannati, e seguiti fino alla loro morte da milioni di fedeli. Bisogna ricordare che questi fedeli, e fra questi anche i diligenti esecutori di ordini disumani, non erano aguzzini nati, non erano (salve poche eccezioni) dei mostri: erano uomini qualunque. I mostri esistono, ma sono troppo pochi per essere veramente pericolosi; sono più pericolosi gli uomini comuni, i funzionari pronti a credere e ad obbedire senza discutere, come Eichmann, come Ho5ss comandante di Auschwitz, come Stangl comandante di Treblinka, come i militari francesi di vent' anni dopo, massacratori in Algeria, come i militari americani di trent' anni dopo, massacratori in Vietnam. Occorre dunque essere diffidenti con chi cerca di convincerci con strumenti diversi dalla ragione, ossia con i capi carismatici: dobbiamo essere cauti nel delegare ad altri il nostro giudizio e la nostra volontà. Poiché è difficile distinguere i profeti veri dai falsi, è bene avere in sospetto tutti i profeti; è meglio rinunciare alle verità rivelate, anche se ci esaltano per la loro semplicità e il loro splendore, anche se le troviamo comode perché si acquistano gratis. È meglio accontentarsi di altre verità più modeste e meno entusiasmanti, quelle che si conquistano faticosamente, a poco a poco e senza scorciatoie, con lo studio, la discussione e il ragionamento, e che possono essere verificate e dimostrate. È chiaro che questa ricetta è troppo semplice per bastare in tutti i casi: un nuovo fascismo, col suo strascico di intolleranza, di sopraffazione e di servitù, può nascere fuori del nostro paese ed esservi importato, magari in punta di piedi e facendosi chiamare con altri nomi; oppure può scatenarsi dall' interno con una violenza tale da sbaragliare tutti i ripari. Allora i consigli di saggezza non servono più, e bisogna trovare la forza di resistere: anche in questo, la memoria di quanto è avvenuto nel cuore dell' Europa, e non molto tempo addietro, può essere di sostegno e di ammonimento. .. Parlando rigorosamente, non so e non posso sapere che cosa sarei oggi se non fossi stato in Lager: nessun uomo conosce il suo futuro, e qui si tratterebbe appunto di descrivere un futuro che non c' è stato. Ha un certo significato tentare previsioni (del resto sempre grossolane) sul comportamento di una popolazione, ed invece è difficilissimo, o impossibile, prevedere il comportamento di un singolo, anche sulla scala dei giorni. Allo stesso modo, il fisico sa pronosticare con grande esattezza il tempo che impiegherà un grammo di radio a dimezzare la sua attività, ma non sa assolutamente dire quando si disintegrerà un singolo atomo di quel radio. Se un uomo si avvia verso un bivio, e non infila la strada di sinistra, è ovvio che infilerà quella di destra; ma quasi mai le nostre scelte sono fra due sole alternative: poi, ad ogni scelta ne seguono altre, tutte multiple, e così all' infinito; e infine, il nostro futuro dipende fortemente anche da fattori esterni, in tutto estranei alle nostre scelte deliberate, ed anche da fattori interni, di cui però non siamo coscienti. Per questi notori motivi non si conosce il proprio avvenire né quello del nostro prossimo; per gli stessi motivi nessuno può dire quale sarebbe stato il suo passato "se". Una certa affermazione posso però formularla, ed è questa: se non avessi vissuto la stagione di Auschwitz, probabilmente non avrei mai scritto nulla. Non avrei avuto motivo, incentivo, per scrivere: ero stato uno studente mediocre in italiano e scadente in storia, mi interessavano di più la fisica e la chimica, ed avevo poi scelto un mestiere, quello del chimico, che non aveva niente in comune col mondo della parola scritta. È stata l' esperienza del Lager a costringermi a scrivere: non ho avuto da combattere con la pigrizia, i problemi di stile mi sembravano ridicoli, ho trovato miracolosamente il tempo di scrivere pur senza mai sottrarre neppure un' ora al mio mestiere quotidiano: mi pareva, questo libro, di averlo già in testa tutto pronto, di doverlo solo lasciare uscire e scendere sulla carta. Adesso sono passati molti anni: il libro ha avuto molte vicende, e si è curiosamente interposto, come una memoria artificiale, ma anche come una barriera difensiva, fra il mio normalissimo presente e il feroce passato di Auschwitz. Lo dico con esitazione, perché non vorrei passare per un cinico: nel ricordare il Lager oggi non provo più alcuna emozione violenta o dolorosa. Al contrario: alla mia esperienza breve e tragica di deportato si è sovrapposta quella molto più lunga e complessa di scrittore-testimone e la somma è nettamente positiva; nella sua globalità, questo passato mi ha reso più ricco e più sicuro. Una mia amica, che era stata deportata giovanissima al Lager femminile di Ravensbrück, dice che il campo è stata la sua Università: io credo di poter dire altrettanto, e cioè che vivendo e poi scrivendo e meditando quegli avvenimenti, ho imparato molte cose sugli uomini e sul mondo. Devo però affrettarmi a precisare che questo esito positivo è stata una fortuna toccata a pochissimi: dei deportati italiani, ad esempio, solo circa il 5 per cento hanno fatto ritorno, e fra questi, molti hanno perduto la famiglia, gli amici, gli averi, la salute, l' equilibrio, la giovinezza. Il fatto che io sia sopravvissuto, e sia ritornato indenne, secondo me è dovuto principalmente alla fortuna. Solo in piccola misura hanno giocato fattori preesistenti, quali il mio allenamento alla vita di montagna, ed il mio mestiere di chimico, che mi ha concesso qualche privilegio negli ultimi mesi di prigionia. Forse mi ha aiutato anche il mio interesse, mai venuto meno, per l' animo umano, e la volontà non soltanto di sopravvivere (che era comune a molti), ma di sopravvivere allo scopo preciso di raccontare le cose a cui avevamo assistito e che avevamo sopportate. E forse ha giocato infine anche la volontà, che ho tenacemente conservata, di riconoscere sempre, anche nei giorni più scuri, nei miei compagni e in me stesso, degli uomini e non delle cose, e di sottrarmi così a quella totale umiliazione e demoralizzazione che conduceva molti al naufragio spirituale.

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Il sistema periodico

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Levi, Primo 1 occorrenze

Date dunque le sue origini plurimillenarie, non è tanto strano che il mestiere di fare vernici trattenga nelle sue pieghe (a dispetto delle innumerevoli sollecitazioni che modernamente riceve da altre tecniche affini) rudimenti di consuetudini e procedimenti ormai da tempo abbandonati. Per ritornare dunque all' olio di lino cotto, raccontai ai commensali che in un ricettario stampato verso il 1942 avevo trovato il consiglio di introdurre nell' olio, verso la fine della cottura, due fette di cipolla, senza alcun commento sullo scopo di questo curioso additivo. Ne avevo parlato nel 1949 col Signor Giacomasso Olindo, mio predecessore e maestro, che aveva allora superato la settantina e faceva vernici da cinquant' anni, e lui, sorridendo benevolmente sotto i folti baffi bianchi, mi aveva spiegato che in effetti, quando lui era giovane e cuoceva l' olio personalmente, i termometri non erano ancora entrati nell' uso: si giudicava della temperatura della cottura osservando i fumi, o sputandoci dentro, oppure, più razionalmente, immergendo nell' olio una fetta di cipolla infilata sulla punta di uno spiedo; quando la cipolla cominciava a rosolare, la cottura era buona. Evidentemente, col passare degli anni, quella che era stata una grossolana operazione di misura aveva perso il suo significato, e si era trasformata in una pratica misteriosa e magica. Il vecchio Cometto raccontò un episodio analogo. Non senza nostalgia, rievocò i suoi bei tempi, i tempi delle coppali: raccontò come una volta l' o5lidlinko5it venisse combinato con queste leggendarie resine per farne vernici favolosamente resistenti e lucenti; la loro fama ed il loro nome sopravvivono ormai soltanto nella locuzione "scarpe di coppale", che allude appunto ad una vernice per cuoio un tempo diffusissima, e caduta in disuso da almeno mezzo secolo: la locuzione stessa è oggi quasi estinta. Le coppali venivano importate dagli inglesi dai più lontani e selvaggi paesi, e ne recavano il nome, che distingueva appunto una varietà dall' altra: la coppale Madagascar, la Sierra Leone, la Kauri (i cui giacimenti, sia detto per inciso, si sono esauriti verso il 1967), la notissima e nobile coppale Congo. Sono resine fossili di origine vegetale, con punto di fusione piuttosto alto, ed allo stato in cui vengono ritrovate e commerciate sono insolubili negli oli: per renderle solubili e compatibili, venivano assoggettate ad una violenta cottura semidistruttiva, nel corso della quale la loro acidità diminuiva (si decarbossilavano) e si riduceva anche il punto di fusione. L' operazione veniva condotta artigianalmente, in modeste caldaie da due o tre quintali riscaldate a fuoco diretto e mobili su ruote; durante la cottura venivano pesate ad intervalli, e quando la resina aveva perduto il 16 per cento del suo peso in fumo, vapore acqueo ed anidride carbonica, la solubilità in olio era giudicata raggiunta. Verso il 1940 le arcaiche coppali, costose e di difficile approvvigionamento durante la guerra, furono sostituite da resine fenoliche e maleiche opportunamente modificate, che, oltre a costar meno, erano direttamente compatibili con gli oli; ebbene, Cometto ci narrò come in una fabbrica di cui tacerò il nome, fino al 1953 una resina fenolica, che sostituiva la coppale Congo in una formulazione, venisse trattata esattamente come la coppale stessa, cioè consumandone il 16 per cento sul fuoco, in mezzo a pestilenziali esalazioni fenoliche, finché non fosse raggiunta quella solubilità in olio che la resina possedeva già. A questo punto io feci osservare che tutti i linguaggi sono pieni di immagini e metafore la cui origine si va perdendo, insieme con l' arte da cui sono state attinte: decaduta l' equitazione al rango di sport costoso, sono ormai inintelligibili, e suonano strambe, le espressioni "ventre a terra" e "mordere il freno"; scomparsi i mulini a pietre sovrapposte, dette anche palmenti, in cui per secoli si era macinato il grano (e le vernici), ha perso ogni riferimento la frase "macinare" o "mangiare a quattro palmenti", che tuttavia viene ancora meccanicamente ripetuta. Allo stesso modo, poiché anche la Natura è conservatrice, portiamo nel coccige quanto resta di una coda scomparsa. Bruni ci raccontò un fatto in cui era stato lui stesso implicato, ed a misura che raccontava, io mi sentivo invadere da sensazioni dolci e tenui che cercherò poi di chiarire: devo premettere che Bruni ha lavorato dal 1955 al 1965 in una grande fabbrica in riva a un lago, la stessa dove io ho imparato i rudimenti del mestiere verniciario negli anni 1946-47. Raccontò dunque che, quando era laggiù responsabile del reparto Vernici Sintetiche, gli era capitata per mano una formulazione di un' antiruggine ai cromati che conteneva un componente assurdo: nulla meno del cloruro d' ammonio, il vecchio ed alchimistico Sale Ammoniaco del tempio di Ammone, assai propenso a corrodere il ferro piuttosto che a preservarlo dalla ruggine. Aveva chiesto ai suoi superiori ed ai vecchi del reparto: sorpresi ed un po' scandalizzati, gli avevano risposto che in quella formulazione, che corrispondeva a venti o trenta tonnellate almeno di prodotto al mese ed esisteva da almeno dieci anni, quel sale "c' era sempre stato", e che lui era un bel tipo, così giovane d' anni e di impiego, a criticare l' esperienza di fabbrica, ed a cercarsi rogne domandando il perché e il percome. Se il cloruro d' ammonio era in formula, era segno che serviva a qualcosa; a cosa servisse, nessuno sapeva più, ma che si guardasse bene dal toglierlo, perché "non si sa mai". Bruni è un razionalista, e c' era rimasto male; ma è anche un uomo prudente, e perciò aveva accettato il consiglio, per cui in quella formulazione, ed in quella fabbrica in riva al lago, a meno di ulteriori sviluppi, il cloruro d' ammonio si mette tuttora; eppure esso è oggi totalmente inutile, come posso affermare con piena coscienza di causa, perché nella formulazione l' ho introdotto io. L' episodio citato da Bruni, l' antiruggine ai cromati e il cloruro d' ammonio, mi scagliarono indietro nel tempo, fino al rigido gennaio 1946, quando ancora la carne e il carbone erano razionati, nessuno aveva l' automobile, e mai in Italia si era respirata tanta speranza e tanta libertà. Ma io ero ritornato dalla prigionia da tre mesi, e vivevo male. Le cose viste e sofferte mi bruciavano dentro; mi sentivo più vicino ai morti che ai vivi, e colpevole di essere uomo, perché gli uomini avevano edificato Auschwitz, ed Auschwitz aveva ingoiato milioni di esseri umani, e molti miei amici, ed una donna che mi stava nel cuore. Mi pareva che mi sarei purificato raccontando, e mi sentivo simile al Vecchio Marinaio di Coleridge, che abbranca in strada i convitati che vanno alla festa per infliggere loro la sua storia di malefizi. Scrivevo poesie concise e sanguinose, raccontavo con vertigine, a voce e per iscritto, tanto che a poco a poco ne nacque poi un libro: scrivendo trovavo breve pace e mi sentivo ridiventare uomo, uno come tutti, né martire né infame né santo, uno di quelli che si fanno una famiglia, e guardano al futuro anziché al passato. Poiché di poesie e racconti non si vive, cercavo affannosamente lavoro, e lo trovai nella grande fabbrica in riva al lago, ancora guasta per la guerra, assediata in quei mesi dal fango e dal ghiaccio. Nessuno si occupava molto di me: colleghi, direttore ed operai avevano altro da pensare, al figlio che non tornava dalla Russia, alla stufa senza legna, alle scarpe senza suole, ai magazzini senza scorte, alle finestre senza vetri, al gelo che spaccava i tubi, all' inflazione, alla carestia, ed alle virulente faide locali. Mi era stata benignamente concessa una scrivania zoppa in laboratorio, in un cantuccio pieno di fracasso e di correnti d' aria e di gente che andava e veniva con in mano stracci e bidoni, e non mi era stato assegnato alcun compito definito; io, vacante come chimico ed in stato di piena alienazione (ma allora non si chiamava così, scrivevo disordinatamente pagine su pagine dei ricordi che mi avvelenavano, ed i colleghi mi guardavano di sottecchi come uno squilibrato innocuo. Il libro mi cresceva tra le mani quasi spontaneamente, senza piano né sistema, intricato e gremito come un termitaio. Ogni tanto, spinto dalla coscienza professionale, mi mettevo a rapporto col direttore e gli chiedevo un lavoro, ma lui era troppo indaffarato per occuparsi dei miei scrupoli: leggessi, studiassi: in fatto di vernici ero ancora, con licenza, un analfabeta. Non avevo un lavoro? Ebbene, lodassi Dio e stessi in biblioteca: se proprio avevo la fregola di rendermi utile, ecco, c' erano articoli da tradurre dal tedesco. Un giorno mi mandò a chiamare, e con una luce obliqua negli occhi mi annunciò che aveva un lavoretto per me. Mi condusse in un angolo del piazzale, vicino al muro di cinta: ammonticchiati alla rinfusa, i più bassi schiacciati dai più alti, c' erano migliaia di blocchi squadrati, di un vivace color arancio. Me li fece toccare: erano gelatinosi e mollicci, avevano una sgradevole consistenza di visceri macellati. Dissi al direttore che, a parte il colore, mi sembravano dei fegati, e lui mi lodò: proprio così stava scritto nei manuali di verniciologia! Mi spiegò che il fenomeno che li aveva prodotti si chiamava in inglese proprio così, "livering", e cioè "infegatamento", ed in italiano impolmonimento; in certe condizioni, certe vernici da liquide diventano solide, con la consistenza appunto del fegato o del polmone, e sono da buttar via. Quei corpi parallelepipedi erano state latte di vernice: la vernice si era impolmonita, le latte erano state tagliate, ed il contenuto buttato nel mucchio delle immondizie. Quella vernice, mi disse, era stata prodotta durante la guerra e subito dopo; conteneva un cromato basico ed una resina alchidica. Forse il cromato era troppo basico o la resina troppo acida: sono appunto queste le condizioni in cui può avvenire un impolmonimento. Ecco, mi regalava quel mucchio di antichi peccati; ci pensassi su, facessi prove ed esami, e gli sapessi dire con precisione perché era successo il guaio, cosa fare perché non si ripetesse, e se era possibile ricuperare il prodotto avariato. Così impostato, mezzo chimico e mezzo poliziesco, il problema mi attirava: lo andavo riconsiderando quella sera (era un sabato sera), mentre uno dei fuligginosi e gelidi treni merci di allora mi trascinava verso Torino. Ora avvenne che il giorno seguente il destino mi riserbasse un dono diverso ed unico: l' incontro con una donna, giovane e di carne e d' ossa, calda contro il mio fianco attraverso i cappotti, allegra in mezzo alla nebbia umida dei viali, paziente sapiente e sicura mentre camminavamo per le strade ancora fiancheggiate di macerie. In poche ore sapemmo di appartenerci, non per un incontro, ma per la vita, come infatti è stato. In poche ore mi ero sentito nuovo e pieno di potenze nuove, lavato e guarito dal lungo male, pronto finalmente ad entrare nella vita con gioia e vigore; altrettanto guarito era ad un tratto il mondo intorno a me, ed esorcizzato il nome e il viso della donna che era discesa agli inferi con me e non ne era tornata. Lo stesso mio scrivere diventò un' avventura diversa, non più l' itinerario doloroso di un convalescente, non più un mendicare compassione e visi amici, ma un costruire lucido, ormai non più solitario: un' opera di chimico che pesa e divide, misura e giudica su prove certe, e s' industria di rispondere ai perché. Accanto al sollievo liberatorio che è proprio del reduce che racconta, provavo ora nello scrivere un piacere complesso, intenso e nuovo, simile a quello sperimentato da studente nel penetrare l' ordine solenne del calcolo differenziale. Era esaltante cercare e trovare, o creare, la parola giusta, cioè commisurata, breve e forte; ricavare le cose dal ricordo, e descriverle col massimo rigore e il minimo ingombro. Paradossalmente, il mio bagaglio di memorie atroci diventava una ricchezza, un seme; mi pareva, scrivendo, di crescere come una pianta. Nel merci del lunedì seguente, pigiato fra la folla insonnolita e imbacuccata nelle sciarpe, mi sentivo ilare e teso come mai prima né dopo. Ero pronto a sfidare tutto e tutti, allo stesso modo come avevo sfidato e sconfitto Auschwitz e la solitudine: disposto, in specie, a dare battaglia allegra alla goffa piramide di fegati arancioni che mi attendeva in riva al lago. È lo spirito che doma la materia, non è vero? Non era questo che mi avevano pestato in testa nel liceo fascista e gentiliano? Mi buttai nel lavoro con lo stesso animo con cui, in un tempo non lontano, attaccavamo una parete di roccia; e l' avversario era sempre ancora quello, il non-io, il Gran Curvo, la Hyle: la materia stupida, neghittosamente nemica come è nemica la stupidità umana, e come quella forte della sua ottusità passiva. Il nostro mestiere è condurre e vincere questa interminabile battaglia: è molto più ribelle, più refrattaria al tuo volere, una vernice impolmonita che un leone nel suo impeto insano; però, via, è anche meno pericolosa. La prima scaramuccia si svolse in archivio. I due partner, i due fornicatori dal cui amplesso erano scaturiti i mostri aranciati, erano il cromato e la resina. La resina era fabbricata sul posto: trovai gli atti di nascita di tutti i lotti, e non presentavano nulla di sospetto; l' acidità era varia, ma sempre inferiore a 6, come prescritto. Un lotto trovato con acidità 6,2547 era stato doverosamente scartato da un collaudatore dalla firma fiorita. In prima istanza, la resina era fuori questione. Il cromato era stato acquistato da diversi fornitori, ed anch' esso debitamente collaudato lotto per lotto. Secondo la Prescrizione di Acquisto PDA 4.0-0 avrebbe dovuto contenere non meno del 2. per cento di ossido di cromo totale; ed ecco, avevo sotto gli occhi l' interminabile elenco dei collaudi dal gennaio 1942 all' oggi (una delle letture meno appassionanti che si possano immaginare), e tutti i valori soddisfacevano alla prescrizione, anzi, erano uguali fra loro: 39,5 per cento, non uno di più, non uno di meno. Sentii le mie fibre di chimico torcersi davanti a quell' abominio: bisogna infatti sapere che le naturali oscillazioni nel metodo di preparazione di un cromato come quello, sommate con gli inevitabili errori analitici, rendono estremamente improbabile che molti valori trovati su lotti diversi ed in giorni diversi coincidano così esattamente. Possibile che nessuno si fosse insospettito? Ma già, a quel tempo non conoscevo ancora lo spaventoso potere anestetico delle carte aziendali, la loro capacità di impastoiare, smorzare, smussare ogni guizzo d' intuizione e ogni scintilla d' ingegno. Del resto, è noto ai dotti che tutte le secrezioni sono nocive o tossiche: ora, in condizioni patologiche non è raro che la carta, secreto aziendale, venga riassorbita in misura eccessiva, e addormenti, paralizzi, o addirittura uccida l' organismo da cui è stata essudata. La storia di quanto era avvenuto incominciava a delinearsi: per qualche motivo, un qualche analista era stato tradito da un metodo difettoso, o da un reattivo impuro, o da un' abitudine scorretta; aveva incolonnato con diligenza quei risultati così palesemente sospetti, ma formalmente irreprensibili; aveva puntigliosamente firmato ogni analisi, e la sua firma, ingrossandosi come una valanga, era stata consolidata da quella del capo-laboratorio, del direttore tecnico e del direttore generale. Me lo raffiguravo, il tapino, sullo sfondo di quegli anni difficili: non più giovane, poiché i giovani erano militari; forse braccato dai fascisti, o magari anche fascista ricercato dai partigiani; certamente frustrato, perché l' analista è mestiere di giovani; arroccato in laboratorio nella fortezza della sua minuscola sapienza, poiché l' analista è per definizione infallibile; deriso e malvisto fuori del laboratorio proprio per le sue virtù, di guardiano incorruttibile, di piccolo minosse pignolo e senza fantasia, di bastone fra le ruote della produzione. A giudicare dalla scrittura anonima e forbita, il suo mestiere lo doveva avere logorato ed insieme condotto ad una rozza perfezione, come un ciottolo di torrente voltolato fino alla foce. Non c' era da stupirsi se, col tempo, aveva sviluppato una certa insensibilità per il significato vero delle operazioni che eseguiva e delle note che scriveva. Mi ripromisi di indagare sul suo conto, ma nessuno sapeva più niente di lui: le mie domande suscitavano risposte sgarbate o distratte. Del resto, cominciavo a sentire intorno a me ed al mio lavoro una curiosità canzonatoria e malevola: chi era questo ultimo venuto, questo pivello a 7000 lire al mese, questo scribacchino maniaco che disturbava le notti della foresteria scrivendo a macchina chissà che, per intrigarsi degli errori passati e lavare i panni sporchi di una generazione? Ebbi perfino il sospetto che il compito che mi era stato assegnato avesse avuto lo scopo segreto di condurmi ad inciampare contro qualcosa o qualcuno: ma ormai la faccenda dell' impolmonimento mi aveva assorbito corpo ed anima, tripes et boyaux, e insomma me ne ero innamorato quasi come di quella ragazza che dicevo, la quale infatti ne era un po' gelosa. Non mi fu difficile procurarmi, oltre alle PDA, anche le altrettanto inviolabili PDC, Prescrizioni di Collaudo: in un cassetto del laboratorio c' era un pacchetto di schede bisunte, scritte a macchina e più volte corrette a mano, ognuna delle quali conteneva il modo di eseguire il controllo di una determinata materia prima. La scheda del Blu di Prussia era macchiettata di blu, quella della Glicerina era appiccicosa, e quella dell' Olio di Pesce puzzava di acciughe. Estrassi la scheda del cromato, che per il lungo uso era diventata color dell' aurora, e la lessi con attenzione. Era tutto abbastanza sensato, e conforme alle non lontane nozioni scolastiche: solo un punto mi apparve strano. Avvenuta la disgregazione del pigmento, si prescriveva di aggiungere 23 gocce di un certo reattivo: ora, una goccia non è una unità così definita da sopportare un così definito coefficiente numerico; e poi, a conti fatti, la dose prescritta era assurdamente elevata: avrebbe allagato l' analisi, conducendo in ogni caso ad un risultato conforme alla specifica. Guardai il rovescio della scheda: portava la data dell' ultima revisione, 4 gennaio 1944; l' atto di nascita del primo lotto impolmonito era del 22 febbraio successivo. A questo punto si cominciava a vedere la luce. In un archivio polveroso trovai la raccolta delle PDC in disuso, ed ecco, l' edizione precedente della scheda del cromato portava l' indicazione di aggiungere "2 o 3" gocce, e non "23": la "o" fondamentale era mezza cancellata, e nella trascrizione successiva era andata perduta. Gli eventi si concatenavano bene: la revisione della scheda aveva comportato un errore di trascrizione, e l' errore aveva falsato tutte le analisi successive, appiattendo i risultati su di un valore fittizio dovuto all' enorme eccesso di reattivo, e provocando così l' accettazione di lotti di pigmento che avrebbero dovuto essere scartati; questi, essendo troppo basici, avevano scatenato l' impolmonimento. Ma guai a chi cede alla tentazione di scambiare una ipotesi elegante con una certezza: lo sanno anche i lettori di libri gialli. Mi impadronii del magazziniere sonnacchioso, pretesi da lui i controcampioni di tutte le partite di cromato dal gennaio '44 in avanti, e mi asserragliai dietro al bancone per tre giorni, per analizzarli secondo il metodo sbagliato e secondo quello corretto. A mano a mano che i risultati si incolonnavano sul registro, la noia del lavoro ripetitivo si andava trasformando nell' allegria nervosa di quando da bambini si gioca a rimpiattino, e si scorge l' avversario goffamente acquattato dietro la siepe. Col metodo sbagliato, si trovava costantemente il fatidico 9,5 per cento; col metodo giusto, i risultati erano ampiamente dispersi, ed un buon quarto, essendo inferiore al minimo prescritto, corrispondeva a lotti che avrebbero dovuto essere respinti. La diagnosi era confermata e la patogenesi scoperta: si trattava adesso di definire la terapia. Questa fu trovata abbastanza presto, attingendo alla buona chimica inorganica, lontana isola cartesiana, paradiso perduto per noi pasticcioni organisti e macromolecolisti: occorreva neutralizzare in qualche modo, entro il corpo malato di quella vernice, l' eccesso di basicità dovuto all' ossido di piombo libero. Gli acidi si dimostrarono nocivi per altri versi: pensai al cloruro d' ammonio, capace di combinarsi stabilmente con l' ossido di piombo dando un cloruro insolubile ed inerte, e liberando ammoniaca. Le prove in piccolo diedero risultati promettenti: presto, reperire il cloruro (nell' inventario era designato come "cloruro demonio"), mettersi d' accordo col caporeparto di Macinazione, infilare in un piccolo mulino a palle due dei fegati disgustosi a vedersi e a toccarsi, aggiungere una quantità pesata della presunta medicina, dare il via al mulino sotto gli sguardi scettici degli astanti. Il mulino, di solito così fragoroso, si mise in moto quasi malvolentieri, in un silenzio di cattivo augurio, inceppato dalla massa gelatinosa che impastava le palle. Non rimaneva che ritornare a Torino ed aspettare il lunedì, raccontando vorticosamente alla paziente ragazza le ipotesi fatte, le cose capite in riva al lago, l' attesa spasmodica della sentenza che i fatti avrebbero pronunciata. Il lunedì seguente il mulino aveva ritrovato la sua voce: scrosciava anzi allegramente, con un tono pieno e continuo, senza quel franare ritmico che in un mulino a palle denuncia cattiva manutenzione o cattiva salute. Lo feci fermare, ed allentare cautamente i bulloni del boccaporto: uscì fischiando una folata ammoniacale, come doveva. Feci togliere il boccaporto. Angeli e Ministri di Grazia! la vernice era fluida e liscia, in tutto normale, rinata dalle sue ceneri come la Fenice. Stesi una relazione in buon gergo aziendale, e la Direzione mi aumentò lo stipendio. Inoltre, a titolo di riconoscimento, ricevetti l' assegnazione di due "côrasse" (due copertoni) per la bicicletta. Poiché il magazzino conteneva parecchi lotti di cromato pericolosamente basici, che dovevano pure essere utilizzati perché erano stati accettati al collaudo e non si potevano più restituire al fornitore, il cloruro venne ufficialmente introdotto come preventivo anti-impolmonimento nella formulazione di quella vernice. Poi io diedi le dimissioni, passarono i decenni, finì il dopoguerra, i deleteri cromati troppo basici sparirono dal mercato, e la mia relazione fece la fine di ogni carne: ma le formulazioni sono sacre come le preghiere, i decreti-legge e le lingue morte, e non un iota in esse può venire mutato. Perciò, il mio Cloruro Demonio, gemello di un amore felice e di un libro liberatore, ormai in tutto inutile e probabilmente un po' nocivo, in riva a quel lago viene tuttora religiosamente macinato nell' antiruggine ai cromati, e nessuno sa più perché.

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La stampa terza pagina 1986

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Levi, Primo 1 occorrenze

Sono, in maggioranza, ex ospiti degli ospedali psichiatrici: se non sono pericolosi, vengono dimessi e abbandonati a se stessi. All' estremo opposto, al vertice della civiltà occidentale, stanno le fonti della cultura: musei, biblioteche, scuole, teatri. L' offerta di cultura è terrific:si dice così, il termine è positivo. È terrifica per qualità e quantità, e desta reverenza. L' amico americano me ne dà una spiegazione diminutiva, che non mi appaga: al ricco, fondare un istituto culturale conviene, può detrarne l' importo dalla dichiarazione delle imposte. Non credo che ci sia solo questo. C' è sete di cultura e rispetto per la cultura; a lungo termine, la cultura viene sentita come un buon investimento. Meritano lode, gli incolti miliardari texani e californiani che investono in cultura i loro dollari; ma per ora, a termine breve, i frutti sembrano scarsi. La cultura americana ha punte altissime, produce eccellenti specialisti, ma la sua media è più bassa di quella europea. Come l' humus del sottobosco, la cultura richiede i secoli: surrogati rapidi, instant, non esistono.

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Lilit

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Levi, Primo 1 occorrenze

Era diventato la mascotte della caserma, in cui tuttavia non era il solo: come lui vivevano una dozzina di altri ragazzi o bambini che erano rimasti abbandonati, senza parenti, senza casa e senza mezzi. Erano ebrei e cristiani; per gli italiani sembrava che questo non facesse alcuna differenza, del che Avrom non finiva di stupirsi. Venne nel gennaio 1943 la rotta dell' Armir, la caserma si riempì di sbandati e poi fu smobilitata. Tutti gli italiani ritornavano in Italia, e gli ufficiali lasciarono capire che se qualcuno si voleva portare dietro quei ragazzi figli di nessuno loro avrebbero chiuso un occhio. Avrom aveva fatto amicizia con un alpino del Canavese: attraversarono il Tarvisio nella stessa tradotta, e il governo fascista li relegò insieme a Mestre, in un campo di quarantena. Di nome era una quarantena sanitaria, e del resto tutti avevano i pidocchi; di fatto era una quarantena politica, perché Mussolini non voleva che quei reduci raccontassero troppe cose. Ci restarono fino al 12 settembre, quando arrivarono i tedeschi, come se rincorressero proprio lui Avrom, stanandolo in tutti i nascondigli d' Europa. I tedeschi bloccarono il campo e caricarono tutti sui vagoni merci per portarli in Germania. Avrom, nel vagone, disse all' alpino che lui in Germania non ci sarebbe andato, perché i tedeschi li conosceva e sapeva di che cosa erano capaci: era meglio buttarsi giù dal treno. L' alpino rispose che anche lui aveva visto che cosa avevano fatto i tedeschi in Russia, ma che lui di buttarsi non aveva il coraggio. Saltasse giù Avrom, lui gli avrebbe fatto una lettera per i suoi in Canavese, con su scritto che quel ragazzo era un suo amico, che gli dessero il suo letto e lo trattassero preciso come se fosse lui. Avrom si buttò dal treno con la lettera in tasca. Era in Italia, ma non nell' Italia lucida e patinata delle cartoline illustrate e dei testi di geografia. Era solo, sulla massicciata della ferrovia, senza soldi, in mezzo alla notte e alle pattuglie tedesche, in un paese sconosciuto, da qualche parte fra Venezia e il Brennero. Sapeva soltanto che doveva raggiungere il Canavese. Tutti lo aiutarono e nessuno lo denunciò: trovò un treno per Milano, poi uno per Torino. A Porta Susa prese la Canavesana, scese a Cuorgné, e prese a piedi la strada per il paesino del suo amico. A questo punto Avrom aveva diciassette anni. I genitori dell' alpino lo accolsero bene, ma senza tante parole. Gli diedero dei vestiti, da mangiare e un letto, e poiché due braccia giovani servivano, lo misero a lavorare in campagna. In quei mesi l' Italia era piena di gente sbandata, fra cui c' erano anche inglesi, americani, australiani, russi, che erano scappati all' . settembre dai campi per prigionieri di guerra, e perciò nessuno fece molto caso a quel ragazzino forestiero. Nessuno gli fece domande; ma il parroco, parlandogli insieme, si rese conto che era sveglio, e disse ai genitori dell' alpino che era un peccato non farlo studiare. Così lo misero alla scuola dei preti. A lui, che ne aveva viste tante, andare a scuola e studiare piaceva; gli dava una impressione di tranquillità e di normalità. Però trovava buffo che gli facessero studiare il latino: che bisogno avevano i ragazzi italiani di imparare il latino, dal momento che l' italiano era quasi uguale. Ma studiò tutto con impegno, ebbe ottimi voti in tutte le materie, e in marzo il prete lo chiamò a servire messa. Questa faccenda, di un ragazzo ebreo che serve messa, gli sembrava anche più buffa, ma si guardò bene dal dire in giro che era ebreo, perché non si sa mai. A buon conto, aveva subito imparato a farsi il segno della croce e tutte le preghiere dei cristiani. Ai primi d' aprile piombò sulla piazza del paese un camion pieno di tedeschi, e tutti scapparono. Ma poi si accorsero che quelli erano tedeschi strani: non urlavano ordini né minacce, non parlavano tedesco, parlavano una lingua mai sentita, e cercavano gentilmente di farsi capire. Qualcuno ebbe l' idea di andare a cercare Avrom, che appunto era forestiero. Avrom arrivò sulla piazza, e lui e quei tedeschi si intesero benissimo, perché non erano tedeschi per niente: erano dei cecoslovacchi che i tedeschi avevano arruolato di forza nella Wehrmacht, e adesso avevano disertato portandosi via un camion militare e volevano andare coi partigiani italiani. Loro parlavano ceco e Avrom rispondeva in polacco, ma si capivano ugualmente. Avrom ringraziò gli amici canavesani e andò coi cechi. Non aveva idee politiche ben definite, ma aveva visto che cosa i tedeschi avevano fatto al suo paese, e gli sembrava giusto combattere contro di loro. I cechi furono aggregati ad una divisione di partigiani italiani che operava nella valle dell' Orco, e Avrom rimase con loro come interprete e staffetta. Uno dei partigiani italiani era ebreo e lo diceva a tutti; Avrom ne rimase stupito, ma continuò a non dire a nessuno che era ebreo anche lui. Ci fu un rastrellamento, e il suo reparto dovette risalire la valle fino a Ceresole Reale, dove gli raccontarono che si chiamava Reale perché ci veniva il Re d' Italia a cacciare i camosci, e glieli fecero anche vedere col cannocchiale, i camosci, sui costoni del Gran Paradiso. Avrom rimase abbagliato dalla bellezza delle montagne, di quel lago e dei boschi, e gli sembrava assurdo venirci per fare la guerra: infatti, a quel punto avevano armato anche lui. Ci fu combattimento coi fascisti che venivano su da Locana, poi i partigiani ripiegarono nelle valli di Lanzo attraverso il Colle della Crocetta. Per il ragazzo, che veniva dall' orrore del ghetto e dalla Polonia monotona, quella traversata per la montagna scabra e deserta, e le molte altre che seguirono, furono la rivelazione di un mondo splendido e nuovo, che racchiudeva in sé esperienze che lo ubriacavano e lo sconvolgevano: la bellezza del Creato, la libertà e la fiducia nei suoi compagni. Si susseguirono combattimenti e marce. Nell' autunno del 1944 il suo gruppo discendeva la Val Susa, di borgata in borgata, fino a Sant' Ambrogio. Ormai Avrom era un partigiano finito, coraggioso e robusto, disciplinato per profonda natura ma svelto col mitra e con la pistola, poliglotta ed astuto come una volpe. Venne a saperlo un agente del Servizio Segreto americano, e gli affidò una radiotrasmittente: stava in una valigia, lui doveva portarsela dietro spostandola continuamente perché non venisse individuata col radiogoniometro, e tenere i contatti con le armate che risalivano l' Italia dal Sud, e in specie coi polacchi di Anders. Di nascondiglio in nascondiglio, Avrom arrivò a Torino. Gli avevano dato l' indirizzo della parrocchia di San Massimo e la parola d' ordine. Il 25 aprile lo trovò annidato con la sua radio in una cella del campanile. Dopo la Liberazione, gli Alleati lo convocarono a Roma per regolarizzare la sua posizione, che in effetti era piuttosto imbrogliata. Lo caricarono su di una jeep, ed attraverso le strade sconnesse di allora, attraverso città e villaggi gremiti di gente sbrindellata che applaudiva, giunse in Liguria, e per la prima volta nella sua breve vita vide il mare. L' impresa del diciottenne Avrom, candido soldato di ventura, che come tanti remoti viaggiatori nordici aveva scoperto l' Italia con occhio vergine, e come tanti eroi del Risorgimento aveva combattuto per la libertà di tutti in un paese che non era il suo, finisce qui, davanti allo splendore del Mediterraneo in pace. Adesso Avrom vive in un kibbutz in Israele. Lui poliglotta non ha più una lingua veramente sua: ha quasi dimenticato il polacco, il ceco e l' italiano, e non ha ancora una padronanza piena dell' ebraico. In questo linguaggio per lui nuovo ha messo giù le sue memorie, sotto la forma di appunti scarni e dimessi, velati dalla distanza nello spazio e nel tempo. È un uomo umile, e li ha scritti senza le ambizioni del letterato e dello storico, pensando ai suoi figli e nipoti, perché resti ricordo delle cose che lui ha viste e vissute. È da sperare che trovino chi restituisca loro il respiro ampio e pulito che potenzialmente contengono.

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ATTRAVERSO L'ATLANTICO IN PALLONE

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

"La fortuna che prima ci proteggeva ci ha ora abbandonati, ma siamo uomini dotati di una certa dose di energia, e lotteremo fino all'estremo delle nostro forze." "Quanti giorni rimarremo ancora in aria?" "Coi mezzi di cui disponiamo e che ci rimangono quasi intatti, non avendo gettato finora che cento chilogrammi di zavorra, io calcolo di prolungare la vita del Washington di altri sette o otto giorni." "È impossibile che in tanto tempo non riusciamo ad attraversare quest'oceano. In dodici ore sole abbiamo percorso circa mille miglia: in sette giorni, procedendo anche lentamente, possiamo ben varcare la distanza che ci separa dalle coste africane." "Ma le calme dei Tropici durano talvolta delle settimane." "Diavolo!" "E un altro pericolo ci minaccia: la mancanza d'acqua. Durante la giornata di ieri la nostra provvista è scemata di altri venticinque o trenta litri." "Che salasso! E non si vede una nube! Il barometro segna qualche prossimo cambiamento di tempo?" "No, O'Donnell; indica calma perfetta." "Confidiamo in Dio e nel nostro coraggio." L'irlandese dopo queste parole si sdraiò presso Simone e s'immerse in profondi pensieri, mentre l'ingegnere si sedeva a prua della scialuppa con gli sguardi volti verso l'est. Il Washington che era risalito di duemila metri, s'avanzava lentamente verso oriente, trasportato da un filo d'aria che soffiava irregolarmente. Era molto se riusciva a percorrere sette otto miglia all'ora. L'Atlantico era sempre deserto. Non si scorgeva che la nave dei morti, la cui massa nera spiccava nettamente sulla tinta azzurra dell'acqua. Perfino i fetonti, gli uccelli del Tropico, erano scomparsi, e non si udivano più le loro grida, che rallegravano l'animo degli aeronauti. In quella sterminata distesa d'acqua e nelle profondità incommensurabili della volta celeste regnava un silenzio assoluto, un silenzio di tomba, che impressionava l'irlandese e l'ingegnere, accrescendo la loro tristezza. A mezzodì il termometro segnava 39o di calore; all'una toccò i 40o e alle due i 43o. L'aria era diventata tanto ardente, che agli aeronauti sembrava di respirare quella che esce da un gigantesco forno appena viene aperto. Quale salasso doveva fare quel calore intenso nella loro provvista d'acqua, che era già tanto scarsa! Alle tre il pallone cominciò a discendere lentamente. Fu una vera fortuna però, poiché a milleottocento metri incontrò una corrente d'aria più fresca, la quale lo trascinò verso l'est con la velocità di dodici o tredici miglia all'ora. Un'ora dopo, i due aeronauti, che si erano messi in osservazione sul dinanzi della scialuppa, scorsero una leggera nube che si estendeva verso l'est, a circa tre chilometri dal Washington e che pareva si dirigesse verso il sud. Se si potesse entrare fra quella nebbia, si troverebbe un po' di frescura?" chiese l'irlandese. "Ne dubito, O'Donnell," rispose l'ingegnere. E poi siamo più alti di almeno quattrocento metri." "Che quella nube indichi un cambiamento di tempo?" "Forse, ma quel cambiamento può essere molto lontano." Alle cinque il Washington che faceva sempre le sue dieci miglia all'ora, si librava su quelle nebbie. Esse formavano dei grandi cumuli, sospesi a varie altezze e separati gli uni dagli altri da spazi considerevoli. I due aeronauti, quando si trovarono sopra a quei banchi, assistettero a un fenomeno sorprendente. L'ombra dei due immensi fusi, proiettata su quelle nebbie apparve circondata da un'aureola coi sette colori dell'iride, la quale cambiava, ad ogni istante, dimensione e forma. Ora si allargava immensamente, avvolgendo l'ombra intera dei due grandi fusi, che pareva immersa in un cerchio di luce dagli splendidi colori; ora rimpiccioliva e impallidiva; poi si rompeva, si ricostituiva e cingeva solamente l'ombra dell'uno o dell'altro fuso o della sola navicella. Alle otto, nel momento in cui il sole precipitava sotto l'orizzonte, l'aerostato entrò in una nuova corrente d'aria, che scendeva dal nord. La temperatura si abbassò bruscamente, come se quella corrente fosse prima passata sopra una regione assai fredda. In dieci soli minuti il termometro, caso veramente strano, si abbassò di 24o! L'idrogeno si condensò rapidamente, e il Washington non discese, precipitò, come se volesse cadere nell'oceano. Si arrestava alcuni minuti, poi scendeva di colpo di tre o quattrocento metri, poi tornava ad arrestarsi, indi ricadeva di altrettanti. O'Donnell aveva preparato un sacco di zavorra per fermarlo a tempo, ma non ne ebbe bisogno, poiché l'aerostato, giunto a duecento metri dalla superfìcie dell'oceano, riprese il suo equilibrio. "Si respira!" esclamò O'Donnell. "Era tempo che questo calore d'inferno si mitigasse. Se fosse continuato ancora tre giorni, ci avrebbe disseccati. Ma a che cosa si deve questo brusco abbassamento di temperatura?" "Forse a qualche grande uragano che si è scatenato nelle regioni settentrionali." rispose l'ingegnere. "Non durerà molto, O'Donnell e domani tornerà a fare caldo." "Lo credete?" "Sì, questa corrente non tarderà a scaldarsi sotto questi climi ardenti" "Che il pallone scenda ancora? " "Non lo credo; tuttavia veglieremo a turni." Cenarono con un po' di carne conservata e una scatola di tonno, misurandosi l'acqua. Poi O'Donnell si sdraiò presso Simone, che continuava a russare, mentre l'ingegnere vegliava, seduto sul suo materasso, che si trovava a prua. Durante quel primo quarto d'ora di guardia non accadde nulla. Solamente il pallone, il cui idrogeno continuava a condensarsi perché la corrente d'aria restava sempre fredda, discese ancora di oltre cento metri. A mezzanotte O'Donnell rilevò l'ingegnere. Diede uno sguardo intorno, un altro all'oceano, che brontolava a soli trenta metri di distanza, poi si sedette a prua, fumando una sigaretta. Erano già trascorse le due ore, e cominciava a socchiudere gli occhi invitato dal leggero dondolamento dell'aerostato, quando tutto ad un tratto la navicella subì una scossa violenta. Si volse rapidamente e ritto sulla poppa vide il negro, coi capelli irti, gli occhi luccicanti come quelli degli animali notturni, le braccia in aria. "Simone!" esclamò "Che cosa fai?" Il pazzo emise un grido rauco: "II mostro! ... il mostro!" esclamò con voce strozzata. L'irlandese si avventò su di lui, ma era troppo tardi. Il povero pazzo preso chissà da quale terrore, fece atto di fuggire e mise i piedi nel vuoto. O'Donnell emise un grido: "Mister Kelly!" Poi mentre il pallone, scaricato del peso di Simone, s'innalzava, egli, senza badare al pericolo che stava per affrontare, si precipitò nell'oceano dietro al pazzo. L'ingegnere, svegliato di soprassalto, udì due gridi e due tonfi, poi più nulla. L'aerostato, bruscamente alleggerito di quei due corpi, che pesavano centoquaranta chilogrammi, trascinava Kelly con rapidità vertiginosa attraverso le alte regioni dell'atmosfera!

Malgrado siano di natura vulcanica e l'acqua scarseggi, sono assai fertili e, oltre al vino, producono in abbondanza biade, patate, canna da zucchero, ma questi prodotti a poco a poco vengono abbandonati, essendo meno remunerativi delle viti. Danno altresì castagne del legno detto sangue di drago, e aranci, e l'oceano che le circonda è ricco di pesci, specialmente sardine, che si prendono in grande quantità. La scoperta di queste isole, quantunque così vicine alle coste africane ed europee, si deve puramente al caso. È probabile che gli antichi fenici e i Cartaginesi, che visitarono le Canarie, le abbiano vedute molti e molti secoli prima, ma al pari di queste ultime rimasero ignote fino al 1344. Fu in quell'epoca che Roberto Macham, gentiluomo inglese, fu spinto dai venti sulle spiagge di Madera, mentre fuggiva su di una nave con alcuni amici e la figlia del duca di Dorset, che dal padre era stata costretta a sposare forzatamente un alto dignitario del regno, mentre essa aveva giurato eterno amore al giovane gentiluomo. La notizia della scoperta venne recata in Europa dai compagni di Macham, dopo che questi e la sua amante erano morti. Gli aeronauti, senza bisogno di cannocchiali, distinguevano nettamente le due isole maggiori e le altre minori, essendo l'orizzonte limpidissimo. Quantunque fossero lontani oltre ottanta miglia, l'ingegnere additò ai suoi compagni il monte Ruino, che è il più elevato di tutti. "È laggiù che si raccoglie quel vino squisito, Mister Kelly?" chiese l'irlandese. "Sì, amico mio." "Ne producono molto quelle isole?" "Quando le annate sono buone, quei vigneti danno circa 5000 pipe(2), ossia 2.685.000 litri. Nel 1852 quelle isole corsero il pericolo di perdere interamente i loro raccolti a causa della comparsa dell'oidium tuckeri, ma gli abitanti vi posero riparo piantando i vitigni americani." "Richiede delle cure speciali quel vino per riuscire così squisito?" "Quasi nessuna, O'Donnell. Basta esporlo per qualche tempo a un'alta temperatura per renderlo più delizioso, e aggiungervi poi una certa dose di alcool, circa dieci litri in ogni pipa. Anticamente anzi, perché prendesse meglio il caldo, che non dev'essere inferiore ai 50o, s'imbarcavano le botti piene di madera e si trasportavano al di là dell'equatore, e su quelle botti gli inglesi, che hanno sempre esercitato l'esportazione di quel prezioso nettare, applicavano un cartellino su cui era scritto: "Twice passed the line" per indicare che aveva passato due volte la linea dell'equatore e che quindi era perfettamente stagionato." "Che sia il terreno che rende così buono quel vino?" Così deve essere, e pare che la sua fertilità derivi da un terribile incendio che durò sette anni." "Ma chi lo accese?" "I primi navigatori portoghesi: Zarco, Fechevra e Pestrello, per distruggere i grandi boschi che coprivano Madera. Quelle ceneri bastarono per concimare immensamente quei terreni." "E a chi venne in mente di piantare delle viti su quelle isole?" "Ai portoghesi, che piantarono nel 1425 alcune talee fatte venire dall'isola di Cipro. In seguito ne piantarono altre di specie diversa, ottenendo così parecchi tipi di vino." "Ma non sono molti anni che questi vini sono diventati celebri." "Tutt'altro, caro amico. Fin dal 1445 il navigatore veneziano Ca'da Mosto li fece conoscere, vantandone le squisitezze, e Francesco I, re di Francia, che fu il primo che lo bevette in Europa e confermò la sua straordinaria bontà, rendendolo di colpo famoso." In quell'istante l'aerostato virò bruscamente di bordo, descrivendo mezzo giro su se stesso e imprimendo alla navicella un largo dondolìo. "Cadiamo?" chiesero O'Donnell e il mozzo. "No," rispose l'ingegnere; "ma ... " "Cambia la corrente?" L'ingegnere rispose con un gesto disperato. Si precipitò verso la bussola e impallidì. "Torniamo al sud!" esclamò con voce sorda. "Al sud!" esclamò O'Donnell. "Si è rotta la corrente?" "Peggio ancora." "Che avviene dunque?" "Una cosa assai grave: i venti alisei ci hanno afferrato e ci respingono nell'Atlantico!" "Per centomila corna di cervo! ... Siamo perseguitati dal destino?" Per parecchi minuti un cupo silenzio regnò sull'aerostato, che il vento trascinava con grande rapidità verso le regioni equatoriali. L'ingegnere e l'irlandese si sentivano vinti e si chiedevano con angoscia quale sorte doveva a loro serbare il destino, che pareva avesse giurato la loro perdita, dopo aver fatto balenare in loro la speranza di condurli verso le coste europee. Se non sopraggiungeva un miracolo, la loro situazione si poteva considerare disperata. La grande corrente degli alisei, che fino ad allora avevano cercato di evitare, non li avrebbe più lasciati, e doveva respingerli in mezzo all'Atlantico, per poi gettarli sulle lontane coste dell'America centrale e forse su quelle del continente meridionale. Si sarebbero mantenuti in aria tanto tempo da riattraversare l'oceano? Non era possibile, coi mezzi limitati che ormai possedevano. Una caduta in mezzo all'Atlantico ora sembrava inevitabile, e quale disastro allora, privi quasi di acqua come erano! L'ingegnere vinto dalla tristezza che lo invadeva, si era lasciato cadere a prora della scialuppa, con la testa stretta fra le mani; O'Donnell gettava sguardi disperati alle isole che sparivano a poco a poco fra le tenebre calanti rapidamente come un branco di corvi; il solo Walter, il povero mozzo raccolto morente sull'oceano, era tranquillo e pareva chiedersi il motivo della disperazione che accasciava i suoi salvatori. "Mister O'Donnell," mormorò timidamente, "è forse il peso della mia persona che ha prodotto il cambiamento di direzione dell'aerostato?" "No, povero ragazzo," disse l'irlandese, sforzandosi di sorridere. "È il vento che, invece di avvicinarci alle coste africane o europee, ci trascina verso l'America." "Non possiamo fermarci, gettando l'ancora, e attendere un vento più favorevole?" "A quest'altezza è impossibile, Walter. Tutte le nostre funi riunite non giungerebbero a toccare la superficie dell'oceano. Più tardi, quando l'idrogeno si sarà condensato, cercheremo di fermarci." "Volete che annodi le funi?" "Sì," disse l'ingegnere scuotendosi. "Bisogna fermarci e non lasciarci trascinare in mezzo all'Atlantico." "Sperate in un cambiamento di vento, Mister Kelly?" chiese O'Donnell. "Spero in un uragano." "Segna una vicina perturbazione il barometro?" "L'ho notato stamane." "E romperà la grande corrente?" "Lo spero, O'Donnell: se non sulla superficie dell'oceano, forse in alto, a tremila, quattromila, a seimila metri, o più sopra." "Possiamo abbassarci subito e gettare le àncore, sacrificando un po' di gas?" "Ora? Sarebbe un'imprudenza, amico mio, perdere dell'idrogeno, mentre forse il vento ci spingerà attraverso l'Atlantico invece di portarci verso l'Africa. Voglio conservare tutte le forze del Washington per cercare in alto una nuova corrente." "Ma scendiamo al sud con grande rapidità, Mister Kelly." "Non importa: l'Africa l'abbiamo alla nostra sinistra e per lungo tempo non l'abbandoneremo. Che approdiamo qui o più al sud, sulle coste del Sahara o della Senegambia o della Sierra Leone, cosa importa, ora che l'Europa ci sfugge? Quando il Washington si abbasserà, getteremo le àncore e attenderemo la burrasca per innalzarci più che potremo." "E se quell'uragano ci spingesse invece all'ovest?" "Siamo nelle mani di Dio: accadrà ciò che Egli vorrà." "Ritenete che il Washington non possieda forze sufficienti per riattraversare l'Atlantico?" "Lo dubito, O'Donnell. È vero che i venti, durante gli uragani, acquistano delle rapidità incredibili e che sole 1500 miglia separano le coste della Sierra Leone e il capo brasiliano di San Rocco, ma i nostri mezzi sono ormai scarsi, e cadremmo in mezzo all'oceano, a meno che qualche nave non ci raccogliesse." "To'! E i nostri amici, li abbiamo dimenticati? Chissà che non ci cerchino a quest'ora, se i piccioni messaggeri sono giunti all'Isola Brettone. "Magra speranza, O'Donnell. L'Atlantico è immenso e i miei amici non possono sapere dove il vento ci ha spinto. Non dobbiamo contare che sulle nostre forze." "Ma mi sembra, Mister Kelly, che il nostro idrogeno si condensi molto lentamente questa sera. perché non abbiamo ancora cominciato la discesa." "Ci troviamo in una corrente d'aria assai calda, e il nostro Washington è stato rinvigorito poche ore fa, ma cadremo, O'Donnell, ve lo assicuro. Intanto annodiamo tutte le funi disponibili e prepariamoci a calare i nostri coni." Il Washington come aveva giustamente notato O'Donnell, non accennava a scendere, quantunque la temperatura si fosse abbassata di alcuni gradi. Si manteneva ancora a 2500 metri di altezza, filando verso il sud con una rapidità di ben sessantadue chilometri all'ora. Se quel vento non rallentava, il Washington doveva perdere l'intero vantaggio acquistato durante la giornata e ritrovarsi nei paraggi delle Canarie, che aveva lasciato verso le undici del mattino. Alle dieci però la discesa dell'aerostato cominciò, ma era assai lenta. Calava in ragione di trecento o trecentocinquanta metri all'ora, mentre invece la rapidità del vento aumentava. A mezzanotte l'ingegnere segnalò ai suoi compagni un punto luminoso, che si scorgeva verso l'est. "Una nave?" chiese O'Donnell. "No," rispose Mister Kelly, che aveva puntato un cannocchiale in quella direzione. "È un bagliore lampeggiante, sarà il faro di Teneriffa o dell'isola del Ferro." "Di già alle Canarie? E la corsa aumenta!" Alle tre del mattino l'aerostato si trovava a soli duecento metri dalla superficie dell'oceano. L'ingegnere fece gettare i due coni, che si riempirono subito d'acqua, immobilizzando il vascello aereo. "Riposiamo," disse poi. "Non corriamo alcun pericolo." I tre aeronauti, che avevano vegliato fino ad allora e che cadevano dal sonno, si coricarono sui loro materassi e si addormentarono profondamente, cullati dolcemente dalla grande corrente degli alisei.

IL FIGLIO DEL CORSARO ROSSO

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

Abbandonati a se stessi, non piú protetti dalle nazioni nemiche della Spagna, privi di patenti di corso che accordavano loro il diritto di belligeranti, un gran numero di loro avevano deciso di portare la guerra sull'Oceano Pacifico, memori della famosa conquista di Panama compiuta alcuni anni prima da Morgan. Ormai sulle coste del golfo del Messico avevano rovinate tutte le piú importanti città spagnuole ed avevano ridotto gli abitanti alla miseria. Sulle coste del Pacifico invece, Panama era risorta piú fiorente e piú ricca che mai, e numerose città vivevano dei fiumi d'oro che le inesauribili miniere del Messico e del Perú rovesciavano verso l'America centrale. Conoscevano già l'Oceano Pacifico e sapevano, per l'esperienza che avevano fatta in alcune spedizioni, come colà gli spagnoli stavano in poco sospetto e non molte erano le forze che si trovavano nelle varie città costiere. E cosí, verso il principio del 1684 i filibustieri della Tortue cominciarono a lasciare il golfo del Messico, impazienti di mettere le mani sui galeoni provenienti dal Chili, dal Perú e dalla California. La prima partita si componeva di ottocento inglesi, ai quali tennero poi dietro duecento francesi, poi altre piú piccole, che forse non riuscirono a vedere le onde dell'Oceano, poiché nessuno udí mai più parlare di queste ultime. Quei filibustieri, come abbiamo detto, erano inglesi, danesi, francesi e non mancavano avventurieri di Genova e di Venezia fra di loro. I primi montavano nove legni, i francesi e gli altri uno solo, ed erano sotto la direzione d'un famoso corsaro inglese chiamato Davis. Quando leggiamo nelle storie dei navigatori del 1700, Cook, Bougainville, La Perouse, Krusenster e tanti altri, e le grandi difficoltà che essi incontrarono veleggiando dall'Atlantico al Pacifico, non si può che rimanere meravigliati al piú alto grado dell'audacia di quei corsari che, con scarsissime nozioni geografiche, con pochi mezzi, con legni semiguasti, coi quali prudentemente oggidí un marinaio anche valente non ardirebbe tentare un tragitto di duecento leghe, poterono effettuare il loro disegno di g irare il capo Horn per penetrare nel Pacifico. Eppure è storia vera: dopo immense tribulazioni, dopo tempeste spaventevoli, nel Marzo del 1685 quella piccola squadra girava la Terra del Fuoco e metteva arditamente le prore verso le coste del Perú, bramosa di abbordaggi e di prede spagnuole. Il primo incontro fatto da quei mille e cento uomini, i quali montavano due fregate, una da trentasei cannoni e l'altra da sedici, cinque legni minori senza grossa artiglieria e tre miserabili barcaccie, fu un veliero spagnuolo, che tosto predarono. Avendo inteso dal prigionieri caduti nelle loro mani come tutti i legni mercantili avessero ricevuto l'ordine dal viceré del Perú di non abbandonare i porti della costa, fino a tanto che una squadra non avesse purgato l'Oceano dai filibustieri, il cui disegno di portarsi nelle acque occidentali dell'America era ormai già trapelato, Davis guidò la sua flotta verso il settentrione, facendo di quando in quando delle prede. Fu uno sgomento generale fra tutti gli spagnuoli dell'America centrale, quando videro la flotta corsara apparire improvvisamente, in vista di Panama, ormai risorta piú fiorente dopo la distruzione compiuta da Morgan. La comparsa di quei terribili uomini aveva subito svegliata la memoria dei disastri in addietro sofferti da simili ladroni e Davis perciò non osò dare l'attacco alla città e andò a gettare le sue âncore all'isola di Taroga, dopo d'aver incrociato per ben quattro settimane dinanzi alla baia, in attesa che dei legni uscissero. Il viceré, chiesti aiuti al Perú ed al Messico, forma una squadra e la manda verso l'isola per sterminare quei pericolosi ladroni. Si componeva di sette navi da guerra, due delle quali contavano settanta cannoni ciascuna. Il mare era tempestoso e niuna proporzione vi era fra gli uni e gli altri. Per di piú i filibustieri non conoscevano i fondi e non avevano artiglierie sufficienti per far fronte a quelle degli spagnuoli che erano potentissime. Non potevano quindi questi ultimi non lusingarsi di ridurre al niente, in una sola giornata, quella temuta ciurmaglia. Già avevano circondata una delle due fregate e l'opprimevano con un fuoco terribile, quando gli altri legni corsari che si trovavano al largo e che avrebbero potuto facilmente evitare di venire alle prese, voltano le prore e corrono in aiuto della loro compagna. Il pericolo parve avesse dato ai filibustieri di Davis una forza piú che umana. Investono con impeto le fregate ed i galeoni spagnuoli e, quantunque per la troppa superiorità delle forze nemiche, non potessero in quel conflitto accanito e sanguinosissimo ottenere la vittoria, la disputarono cosí accanitamente che per il valore meritarono giustamente la palma. Quello che piú stupisce è che in tale combattimento non perdettero che una sola barcaccia di prigionieri spagnuoli. Quella barca era stata cosí crivellata dalle palle spagnuole che, trovandosi i filibustieri sul punto di annegarsi, l'avevano abbandonata coi prigionieri che conteneva. Questi ultimi, vedendosi cosí liberi, non avevano indugiato a prendere i remi per farsi raccogliere dai loro compatriotti. L'ammiraglio spagnuolo invece, avendola presa per un brulotto nemico, mosse ad incontrarla sul vascello e vi fece far fuoco sopra piú presto che poté, affondandola; e cosí fu, senza saperlo, lo sterminatore di quei disgraziati. Essendo, durante il combattimento, aumentata la furia del vento e delle onde, la flottiglia dei filibustieri fu in breve dispersa. Parecchi legni scomparvero dopo quella fatale giornata, né si ebbe di loro piú alcuna nuova. Gli altri, riunitisi finalmente, si rifugiarono all'isola di S. Giovanni, lontana solamente cinque leghe dal continente. Ma la discordia, dopo quel disastro, non tardò a nascere specialmente fra inglesi e francesi, essendo i primi protestanti ed i secondi cattolici. Sembrerà strano, eppure quei ladroni di mare ci tenevano alle loro religioni, singolarmente poi gl'inglesi in quei tempi del furore delle sette che tenevano il loro paese diviso. Essi mal soffrivano i loro camerati quando li vedevano salvare, nei saccheggi, i simboli della chiesa romana. Centotrenta francesi si stabiliscono sull'isola di S. Giovanni, ingrossati con altri duecento, che aveva condotto un capitano chiamato Grogner, il quale aveva pure girato il capo Horn; gl'inglesi invece riprendono la via dello stretto per far ritorno al golfo del Messico. Erano pochi eppure risoluti e quanto mai audaci. Dall'isola lanciano le loro navi in tutte le direzioni, prendendo quanti velieri incontrano, poi portano la guerra sull'istmo. Prendono d'assalto la piccola città di Leon e di Esparso e abbruciano Ralejo, spargendo ovunque un terrore immenso. Siccome ladroni di tale specie non se ne erano mai veduti in quei paraggi, gli abitanti fuggono dovunque spaventati, credendoli in buona fede demoni in carne umana. Invece di combatterli, li fanno maledire dai loro sacerdoti con esorcismi e contro di loro fanno alzare le cose piú sacre che abbia la religione, non diversamente che se avessero combattuto l'inferno. Gli spagnuoli, pressati da tanta rovina, cercano di temperare il flagello mandando a Grogner una lettera del vicario generale di Costarica, colla quale lo avvertivano essersi fatta la pace fra la Spagna e le potenze di Francia e d'Inghilterra e che il viceré di Panama metteva a loro disposizione parecchie navi per ricondurli in Europa. I filibustieri, che non erano cosí ingenui da accettare una simile proposta, che li avrebbe messi in balìa del nemico, per tutta risposta assaltano la città di Nicoya e la mettono a sacco e la bruciano, non salvando dalla distruzione che le chiese e tutti gli oggetti del culto cattolico. Le cose erano giunte a questo punto quando un mattino, mentre i filibustieri stavano allestendo alcune vecchie barcaccie per intraprendere qualche altra audace scorreria, videro approdare alla loro isola, che era diventata una piccola Tortue, sette scialuppe montate da un centinaio e mezzo d'uomini. Erano i corsari del conte di Ventimiglia e di Raveneau de Lussan. Quei valorosi, dopo aver conquistata e saccheggiata Pueblo-Viejo, avevano fatto una marcia rapidissima verso l'Oceano Pacifico, per portarsi a quell'isola dove erano sicurissimi di trovare dei soccorsi. Evitando con cura le città ed i villaggi, marciando sempre attraverso le boscaglie per non imbattersi nei corpi spagnuoli che il viceré di Panama, allarmato da quei continui attacchi, aveva lanciato in tutte le direzioni, risoluto a ricacciare in mare quei pericolosissimi nemici, erano giunti felicemente sulle sponde del grande Oceano, impadronendosi per sorpresa di un numero abbastanza rilevante d'imbarcazioni tolte ai pescatori della costa. Non giungevano però a San Giovanni di Pueblo in un momento felicissimo. Pochi giorni prima, una flotta composta di quindici legni spagnuoli aveva fatto la sua comparsa in quelle acque, costringendo Grogner ed i suoi uomini ad abbruciare piú che in fretta la loro fregata e gli schifi che possedevano, perché non cadessero nelle mani dei loro nemici. Fortunatamente gli spagnuoli si erano contentati di portar via le ferramenta del vascello e di distruggere quanto era rimasto di esso, senza osare di inoltrarsi nell'isola. La notizia dell'arrivo del figlio del Corsaro Rosso con Raveneau de Lussan, reduci dalla presa di Pueblo-Viejo, non aveva mancato di produrre una profonda emozione e anche di rialzare immensamente il morale dei filibustieri i quali, distrutta la loro flottiglia, non si trovavano piú in grado di riprendere le loro scorrerie verso il continente. Grogner, avvertito dell'approdo del nipote del famoso Corsaro Nero e cugino del non meno famoso Morgan, il conquistatore di Panama, si era affrettato a muovergli incontro. Già la notizia che un parente dei piú celebri filibustieri del Golfo del Messico veleggiava in quelle acque, era giunta fino all'isola. Grogner non era un gentiluomo come Raveneau de Lussan, tuttavia godeva fama di essere uno dei piú arditi corsari di quell'epoca. Aveva esordito, come quasi tutti i filibustieri, come mozzo; aveva combattuto in Francia, in Inghilterra ed in Olanda, poi era passato in America, desideroso di fare una rapida fortuna. Era giunto però troppo tardi, quando ormai le città del golfo del Messico erano state completamente rovinate dall'Olonese, da Montbars, dai tre corsari, da Grammont, da Wan Horn, da Morgan e da tanti altri non meno famosi. Aveva quindi seguito le tracce di Davis, girando il capo Horn ed era giunto ancora in tempo per fare dei bei colpi contro le cittaduzze dell'America centrale, aiutato da trecento disperati, che non avevano paura né degli archibugi, né delle artiglierie spagnuole e tanto meno delle loro squadre. Narrano le cronache di quel tempo che rassomigliava un po' a Morgan e che quantunque di statura mediocre possedeva una forza muscolare straordinaria ed un coraggio a tutta prova. Come abbiamo detto, udendo che il capo dei filibustieri sbarcato a San Giovanni di Pueblo era il figlio del Corsaro Rosso, si era affrettato a muovergli incontro, dicendogli: - Signor conte, vi si aspettava qui. Tutti i vecchi filibustieri hanno conosciuto e hanno combattuto sotto il comando dei tre corsari che hanno portato, sia pure per una loro vendetta privata, un terribile colpo alla potenza spagnuola del Golfo del Messico. Ecco la mia mano, ed ecco i miei uomini pronti a seguirvi dove voi vorrete. - Era appunto di voi che io avevo bisogno, - rispose il corsaro. lo sono venuto qui per proporvi una terribile impresa. - Voi sapete, signor conte, che nessuna impresa ha spaventato mai i Figli della Costa, come ci hanno chiamato noi per tanti lustri. Che cosa volete da noi? ... - La conquista di Nuova Granata, - rispose il signor di Ventimiglia. - Diamine, - disse Grogner. - È come domandare la testa del governatore di Panama o la presa di Messico o di Cuzco. Nuova Granata è una delle città piú fortificate del Nicaragua, signor conte. - Avreste paura? La prenderemo io ed il signor di Lussan. - Diamine, non correte tanto, signor conte. Là vi sono dei tesori favolosi da raccogliere ... - Che io sono pronto a rinunciare a beneficio dei vostri uomini e di quelli del signor di Lussan. - Si sa che i tre famosi corsari erano ricchissimi, - rispose Grogner. Che cosa chiedete per vostra parte? - Un uomo. - Un prigioniero? - chiese con stupore il filibustiere. - Niente di piú. - Che diavolo! ... Un uomo prezioso senza dubbio. - Il marchese di Montelimar. - Il governatore di Pueblo-Viejo? - Precisamente. - Vi è scappato? Mi hanno detto che voi avete presa d'assalto quella città, signor conte. - Ma ho avuto il torto di giungere troppo tardi, signor Grogner. - Quanti uomini avete? - Centocinquanta, con quelli di Raveneau de Lussan. - Ed altrettanti ne ho io, - rispose Grogner. - Se Pietro l'Olonese con un terzo delle nostre forze ha espugnato Maracaibo e poi Gibraltar, io sarei ben sorpreso se non si potesse prendere d'assalto Nuova Granata, prendere il marchese, molte piastre e fare anche parecchi prigionieri, signor conte. Voi avete sette schifi, mi hanno detto. - Sí, signor Grogner. - Il marchese è in quella città? - Ne sono sicuro. - Via - disse il filibustiere, dopo qualche istante di silenzio. Andremo a vedere se i cannoni che difendono il forte di Nuova Granata saranno carichi con ferro o con acqua calda. Al figlio del Corsaro Rosso un filibustiere che si rispetta non può rifiutare nulla. Signor conte, vi offro ospitalità nella mia povera tenda e domani partiremo. - Ecco un uomo, - disse don Barrejo, il quale aveva assistito al colloquio, tenuto sulla spiaggia, rivolgendosi verso i due inseparabili amici: il fiammingo e Mendoza. - Un vero filibustiere, - rispose il basco. - Siete mai stato in quella città, signor Mendoza? - Siccome non ho mai avuto alcuna premura di prendere un passaporto per l'altro mondo, cosí mi sono sempre ben guardato di mettere i piedi nelle città difese da troppi cannoni. - Troveremo delle taverne, io spero! ... - Che i granatini bevano dell'acqua? - disse il fiammingo. Io non lo crederò mai. - E nemmeno io, don Barrejo, - aggiunse Mendoza. - Là troveremo forse delle botti migliori di quelle che abbiamo assaggiato a Pueblo-Viejo. Granata fornisce di vini Panama e, siccome a Panama si trovano un viceré e degli altissimi funzionari, sono piú che certo che troveremo delle cantine meravigliosamente fornite. Mi stupite però, signor guascone. - Perché? - chiese lo spadaccino. - Si direbbe che voi siete diventato un filibustiere piú pel desiderio di assaggiare i vini spagnuoli che per avidità di guadagno. Eppure i dobloni non vi spiacciono, mi pare. - Quelli verranno piú tardi, - rispose il guascone. - Cerchiamo un posto dove si possa mangiare e bere. Qualche doblone passeggia ancora per le mie tasche e se si può berlo e mangiarlo, niente di meglio. Diamine! ... Un guascone è sempre generoso. Non era difficile all'isola di S. Giovanni di Pueblo spendere dei denari, poiché i filibustieri che vi si erano rifugiati ne avevano fatto, come abbiamo detto, una piccola Tortue. Malgrado le continue minacce degli spagnuoli, quei formidabili scorridori del mare si divertivano allegramente, profondendo le ricchezze guadagnate nei saccheggi, con una prodigalità da nababbi. Dei meticci, giunti dal continente ben provvisti di viveri e soprattutto di vini e di liquori, avevano piantate le loro baracche, vendendo a prezzi esorbitanti i loro generi. I filibustieri, da veri ladroni, non badavano a pagare. Che cosa costava d'altronde a loro il denaro? E come ne erano sempre ben provvisti! ... I tre compagni si cacciarono quindi sotto una immensa tenda, dove molti uomini bevevano allegramente o giuocavano o danzavano con alcune prigioniere spagnuole al suono di alcune chitarre suonate da negri. - Questo è il paese della cuccagna, - disse don Barrejo, sedendosi all'estremità d'una lunghissima tavola. - Io scommetto che le donne spagnuole non si sono mai divertite tanto, come quando si sono trovate con questi briganti. - Adagio, signor guascone, - rispose il basco. - Talvolta questi divertimenti costano cari alle prigioniere ed ai prigionieri. - Perché? Non si rispettano quelle signore? - Anzi si rispettano moltissimo e guai al corsaro che osasse comportarsi da villano contro le prigioniere. Talvolta però giungono i giorni tristissimi ed i sorrisi di quelle disgraziate si tramutano in lagrime di sangue. - Che cosa volete dire? - Che quando i loro parenti ed i governatori non mandano i riscatti, i filibustieri non esitano a far estrarre ai prigionieri, siano uomini o donne, la sorte. - E cosí? - Quello o quella che ha avuto la sfortuna di levare una palla nera, si decapita e la testa si manda al governatore per costringerlo a pagare. - Ciò è brutto. - Che cosa volete? È la guerra. Gli spagnuoli d'oltremare non sono piú generosi e quando riescono a prendere qualcuno di noi l'appiccano senza misericordia. - Guardiamo dunque di non farci prendere, - disse il fiammingo. Si fecero portare delle bottiglie e del prosciutto salato e si misero a bere ed a mangiare. Avevano però appena vuotata qualche tazza, quando un rimbombo assordante li fece balzare in piedi. - Il cannone! - aveva gridato don Barrejo. Tutti i filibustieri che si trovavano sotto la tenda si erano precipitati fuori, prendendo i loro archibugi, mentre le donne strillavano ed i chitarristi scappavano, gettando via gli istrumenti. - Che cosa succede dunque? - chiese il guascone, snudando la sua draghinassa. - Queste sono cannonate spagnuole, - rispose Mendoza. A loro volta erano corsi fuori, slanciandosi verso la piccola baja dove trovavasi ancorata la flottiglia dei filibustieri, la quale si componeva d'un vascello e d'una mezza dozzina di barcaccie. Una grande confusione regnava sulle sponde del porticino, dove si erano radunati tutti i filibustieri dell'isola. Vi erano anche il conte di Ventimiglia, Grogner e di Lussan. In lontananza il cannone continuava ancora a tuonare. Quindici vascelli muovevano lentamente verso l'isola, disposti su due colonne. Era la flotta spagnuola del Pacifico, incaricata di impedire il passo ai corsari che provenivano dal Capo Horn o dallo stretto di Magellano, flotta imponente che avrebbe potuto purgare per sempre quei mari da quegli audaci ladroni, se l'avessero voluto. - Signor conte, - disse Grogner al figlio del Corsaro Rosso, con voce un po' alterata. - Siete giunto in un cattivo momento. - Non mi pare, - rispose il signor di Ventimiglia, - poiché vi ho condotto dei rinforzi. - Non potremo resistere ad una squadra cosi potente. Non ho che un vascello e delle barcaccie. - Fate tirare a terra le barcaccie e gli schifi e nascondeteli sotto le foreste. - Ed il vascello? - Incendiatelo perché non venga preso dagli spagnuoli. Spicciatevi, signor Grogner e poi ritiriamoci nell'interno dell'isola. Se vorranno assalirci, sapremo difenderci. Gli ordini furono subito dati. Mentre una partita di corsari saliva a bordo della nave, radunando quanto catrame si trovava nella stiva e lo incendiava, gli altri s'affannavano a mettere in salvo le migliori barcaccie e le scialuppe, per non rimanere sprovvisti completamente di mezzi di trasporto, capaci più tardi di far loro raggiungere il continente. La squadra spagnuola, sicura del fatto suo, aveva intanto incominciato a sparare tremende bordate, specialmente contro il vascello il quale già era stato sgombrato rapidamente. - Perdinci! - esclamò il guascone. - Questa volta gli spagnuoli fanno sul serio. Signor basco, giacché i nostri compagni scappano, lavoriamo di gambe anche noi. I colpi di spada li ricevo volentieri, ma non ho provato mai alcuna affezione per le grosse palle che tagliano in due senza nemmeno dirvi: guarda che ti ammazzo, imbecille! I filibustieri infatti, messe in salvo le imbarcazioni, scappavano da tutte le partì, mentre i proprietarii delle baracche, aiutati dai loro negri, cercavano di portare via il meglio che possedevano, per non lasciarlo cadere nelle mani degli spagnuoli. Le cannonate intanto non cessavano. Le palle cadevano come una fitta gragnuola sulla spiaggia e sul vascello, il quale già avvampava rapidamente, eruttando dai boccaporti spalancati immense nuvole di fumo. Era una squadra veramente imponente, composta di galeoni, di fregate e di grosse caravelle e montata da duemila marinai. I filibustieri, guidati dal signor di Ventimiglia, da Grogner e da Raveneau de Lussan, si erano intanto affrettati a mettersi in salvo su una collina situata quasi nel mezzo dell'isola e perciò fuor di portata dalle artiglierie della flotta; artiglierie, che come abbiamo detto, in quei tempi avevano una portata molto limitata. Erano tuttavia assai inquieti, temendo un poderoso assalto da parte degli equipaggi. Fortunatamente nulla di grave accadde. La squadra, dopo aver cannoneggiate le baracche, sbarcò alcune centinaia d'uomini per raccogliere le ferramenta del vascello corsaro distrutto dall'incendio, e qualche ora dopo riprendeva la sua rotta veleggiando verso Panama. - Corpo di un bue! - esclamò il guascone, il quale osservava tutte quelle navi maestose, dall'alto della collina. - Avrebbero potuto distruggerci e hanno preferito invece andarsene. Buon viaggio, signori e che Dio vi guardi dalle tempeste. Si levò il feltro e salutò la squadra, facendo nel medesimo tempo un inchino cosí profondo da far scoppiare dalle risa non solamente il basco, bensí anche il conte di Ventimiglia e Grogner che gli stavano presso.

Forse è per quello che, abbandonati i loro nomi primitivi, ne usavano altri presi a capriccio. Non abbandonavano invece totalmente la loro religione, fossero francesi, inglesi od olandesi; ma questa consisteva soltanto nel nominare Dio e nel farsi di Lui un'idea quale giovava alle loro abitudini. Strano era in essi il modo con cui si univano talvolta in matrimonio colle donne, per la maggior parte indiane o prigioniere europee, comperate come schiave alla Tortue. - Mi dovrai rendere ragione di quanto farai d'ora innanzi con me, - dicevano quei fieri uomini. Poi, battendo sulla canna del loro infallibile archibugio, aggiungevano con voce minacciosa: - Ecco quella che mi vendicherà, se tu non mi ubbidirai! I bucanieri partivano ordinariamente per la caccia allo spuntare del giorno, preceduti dai loro cani e seguiti dall'arruolato. Un bracco camminava dinanzi alla muta e, scoperto il toro o il cinghiale, dava segno agli altri, i quali correndo ed abbaiando, gli si mettevano intorno finché giungesse il padrone. Il colpo era quasi sempre sicurissimo e la prima cosa che faceva il cacciatore, se riusciva a gettare a terra la selvaggina, era quella di tagliarle il garretto. Se la ferita era leggera e la bestia infuriava e caricava, il bucaniere, agilissimo, sapeva mettersi sempre in salvo, arrampicandosi su d'un albero. Di lassú poi finiva facilmente a colpi d'archibugio la bestia, la quale non aveva mai tempo di scappare. Essa veniva subito scorticata, poi il bucaniere ed il suo arruolato ne traevano uno degli ossi maggiori, lo spezzavano e ne succhiavano il midollo ancora caldo e quella era ordinariamente la loro colazione! Mentre l'arruolato s'incaricava di tagliare i pezzi migliori da seccare o affumicare e li trasportava nella capanna, il bucaniere continuava la sua caccia, aiutato dai cani, né smetteva finché calava la notte. Quando poi aveva messo all'ordine quella quantità di pelli sufficiente per costituire un piccolo carico, lo portava alla Tortue o in qualche altro porto tenuto dai filibustieri. Una esistenza condotta con siffatti esercizi e sostenuta col genere di alimenti che abbiamo accennati, salvava quei terribili cacciatori dalle tante malattie alle quali altri andavano soggetti. Tutt'al piú li colpiva talvolta una febbre effimera, che spariva prestissimo con semplici profumi di foglie di tabacco. A lungo andare però le fatiche eccessive e le intemperie dovevano a poco a poco esaurirli. Gli spagnuoli, inquieti per la presenza di quei cacciatori tutti stranieri, per un po' di tempo li lasciarono cacciare, ma quando li videro fondare degli stabilimenti nella penisola di Samana al porto di Margot, nella Savana bruciata, verso i Goniaives, nell'imbarcadero di Mirfolais ed in fondo all'isola Avaches, presero il partito di cacciarli dalla grande isola, dichiarando a quei disgraziati una vera guerra di esterminio. La guerra scoppiò ferocissima. Gli spagnuoli si erano facilmente lusingati di fare una vera strage di quei miserabili, i quali, dopo tutto, non avevano mai recata a loro alcuna offesa. Li sorprendevano spesso quando si trovavano in piccolo numero nelle loro corse, oppure di notte nelle loro abitazioni e, quanti ne prendevano, altrettanti ne trucidavano o li tenevano come schiavi, quasi fossero negri od indiani, facendoli lavorare duramente nelle piantagioni a colpi di sferza. Certamente i bucanieri in tal guisa sarebbero stati a poco a poco distrutti, dalle tante cinquantine lanciate attraverso i boschi, se con miglior consiglio i cacciatori non si fossero finalmente decisi a raccogliersi in corpo, per difendersi. Il bisogno di caccia portava che di giorno si sbandassero, ma alla sera si univano tutti in un luogo stabilito e se qualcuno mancava, argomentando che fosse stato ucciso, sospendevano le loro scorrerie fino a che o l'avessero trovato o vendicato. E cominciò allora una lotta a tutta oltranza, I bucanieri fino allora si erano lasciati trucidare; da quel momento cominciarono a prendersi cosí spaventose rivincite, che tutta l'isola fu inondata di sangue e molti luoghi ricordano anche oggidí coi loro nomi le stragi avvenute. Temendo però i bucanieri di non poter tenere testa alle innumerevoli cinquantine spagnuole, si decisero di trasportare, dopo una lunga lotta, i loro stabilimenti sulle isolette che circondano San Domingo. Non andavano piú ormai alla caccia che in grosse partite, combattendo fieramente quando incontravano il nemico. Alcuni stabilimenti salirono in fama, come quello di Bayaba, il quale aveva un porto vastissimo molto frequentato da navi inglesi, francesi ed olandesi. Appunto da Bayaba, essendo mancati un giorno quattro bucanieri, i loro compagni organizzarono una grossa spedizione per liberarli o vendicarli. Avendo appreso, strada facendo, che erano stati condotti a Santiago ed appiccati, trucidarono gli informatori che erano spagnuoli, poi assalirono furiosamente la città, prendendola d'assalto e massacrando quanti uomini si trovavano rinchiusi fra le mura. Non mancavano però gli spagnuoli di rifarsi di tratto in tratto delle sconfitte che subivano, ma era ben difficile di snidare, come essi desideravano, tutti i bucanieri che scorazzavano per le foreste dell'isola. Col tempo però vi riuscirono, distruggendo tutti i tori e tutti i porci selvatici che infestavano le foreste e le paludi, e quel colpo fu cosí fatale ai bucanieri, da deciderli a rivolgersi al mare per trovare nuovi alimenti e alla terra per ottenere raccolti da trafficare. Gli spagnuoli però si erano ingannati sulle loro speranze, perché i bucanieri, da cacciatori di terra si erano trasformati in scorridori del mare, diventando quei terribili filibustieri che dovevano recare tanti danni alle colonie spagnuole del golfo del Messico e dell'Oceano Pacifico. ... ... ... Il bucaniere, come abbiamo detto, udendo le parole del figlio del Corsaro Rosso, aveva lasciato cadere l'archibugio e si era fatto innanzi, col cappellaccio in mano, salutando rispettosamente con un profondo inchino. - Signore, - disse. - Che cosa desiderate da me? Sarebbe per me un grandissimo onore poter essere utile in qualche cosa al nipote del grande Corsaro Nero. - Non vi chiedo che un asilo sicuro per riposarmi qualche ora ed una colazione, se è possibile averla, - rispose il conte. - Io vi offrirò delle bistecche quante vorrete ed una superba lingua di bue, - rispose il bucaniere. - Tengo in serbo sempre qualche bottiglia di aguardiente per le visite inaspettate e sarò ben felice di offrirvela. - Buttafuoco - rispose il bucaniere sorridendo. - Un nome di battaglia, non è vero? - Il mio l'ho dimenticato - disse il cacciatore, corrugando la fronte. - Varcando l'Oceano, perdiamo i nostri nomi, ma vi posso dire che ero figlio di una buona famiglia della Linguadoca. Che cosa volete? La gioventú talvolta fa commettere delle cattive azioni ... Orsú, non parliamo di questo. È un mio segreto. - Che io non desidero affatto conoscere - rispose il conte. Il bucaniere si passò tre o quattro volte la mano callosa e macchiata di sangue sulla fronte, come se volesse scacciare lontani e dolorosi ricordi, poi disse: - Mi avete domandato un ricovero ed una colazione, ed io sarò orgoglioso di offrire l'uno e l'altra al nipote del grande corsaro. Accostò una mano alle labbra, si mise due dita in bocca e mandò un lungo fischio. Pochi momenti dopo un giovanotto di venti o ventidue anni, biondo, magro, con gli occhi azzurri, vestito come il bucaniere, accompagnato da sette od otto grossi cani, uscí dalla foresta. - Leva la pelle a questa bestia - gli disse ruvidamente Buttafuoco - e portaci al piú presto la lingua e delle costolette. Potranno servire per questa sera. Poi, volgendosi verso il corsaro con una gentilezza strana in un uomo di apparenza cosí rozza, disse: - Signore, seguitemi. La mia povera capanna e la mia misera dispensa sono a vostra disposizione. - Non vi chiedo di piú - rispose il conte. Il bucaniere raccolse il suo grosso archibugio e si mise in cammino, osservando attentamente le macchie, forse piú per abitudine che per altro, poiché i cani non davano alcun segno di inquietudine. - E il bufalo che avete ucciso, lo lasciate là? - chiese ad un certo momento il conte. - Il mio amico non dev'essere lontano - rispose il bucaniere. Incaricherò lui di scorticarlo e di togliergli le parti migliori. - E il resto? - Lo lasciamo ai serpenti e agli avvoltoi, signore, quello che a noi importa sono le pelli che si vendono vantaggiosamente a Porto Bayada agli inglesi o ai francesi che vi approdano in buon numero ogni sei mesi. - Senza venire disturbati dagli spagnuoli? - Oh! guai se ci lasciamo prendere! Ma noi siamo furbi, e poi siamo protetti dai filibustieri della Tortue, nostri buoni alleati. - Avete conoscenti alla Tortue? - Molti, signor conte. - Quando vi siete stato? - Appena tre mesi fa. - Grogner e Davis si trovano ancora colà? Ho delle lettere di raccomandazione per loro e anche per Tusley. Sono i filibustieri piú noti al giorno d'oggi, non è vero? - Sí, signor conte; ma dovreste correr molto, prima di presentargliele. - Perché? - Perché in questo momento lavorano sul continente o, meglio, sull'istmo di Panama, verso il Pacifico. Le loro ultime notizie, recate da un gruppo di filibustieri, sono giunte dall'isola di San Giovanni. Pare che si siano stabiliti colà per dare la caccia ai galeoni che il Perú manda di quando in quando a Panama. - Sicché sarò costretto ad attraversare l'istmo se vorrò trovarli? disse il signor di Ventimiglia, il quale sembrava non troppo lieto di quelle risposte. - Capitano, - disse Mendoza, il quale si era accorto del malumore del corsaro - Pueblo-Viejo si trova sull'istmo e non potremmo giungervi con la nostra fregata. Visiteremo quella graziosa città per andare a stringer la mano al marchese di Montelimar; poi andremo a cercare i famosi filibustieri, senza dei quali nulla potreste fare. - Tu hai sempre ragione, amico - rispose il conte rasserenandosi un poco. - Ecco la mia capanna - disse in quel momento il bucaniere, mentre i cani si slanciavano innanzi, latrando festosamente. Sotto un gruppo di splendide e altissime palme e di cavoli palmisti, sorgeva una miserabile abitazione formata da rami malamente intrecciati e da poche pertiche, con alcune pelli gettate al di sopra per riparare alla meglio il suo proprietario e il suo servo dagli acquazzoni diluviali che, di quando in quando, si rovesciavano sull'isola con furia inaudita. Sotto una piccola tettoia, innalzata a pochi metri di distanza, si trovava la cucina che consisteva in tre o quattro sassi, che dovevano servire da camino, da un paio di spiedi e da un vaso di terra pieno d'acqua. Tutto all'intorno vi erano pelli di bufali stese a seccare e ammassi di carne affumicata e seccata, coperti da gigantesche foglie di banano. - Ecco il mio palazzo! - disse il bucaniere ridendo. - Avrebbe bisogno di molte riparazioni, ma non trovo mai il tempo di diventare un boscaiuolo. Entrate, signor conte. L'interno della catapecchia non valeva piú dell'esterno. Uno strato di foglie secche serviva da letto, ed era tutto il mobilio di quel cacciatore, il quale forse un tempo era abituato al lusso raffinato della capitale della Francia. Appesi ai pali vi erano dei coltellacci imbrattati di sangue fino alle impugnature; dei corni immensi contenenti probabilmente della polvere da sparo; dei sacchetti di cuoio per il piombo e delle zucche che servivano da fiasche. - Un'abitazione da indiani! - disse il conte. - Peggio, signore! - rispose il bucaniere. - Quei selvaggi sanno fabbricarsi delle capanne assai piú comode delle nostre ... Accomodatevi, signori, mentre io vi preparo la colazione. Ecco il mio arruolato che giunge ben carico. Il giovane, lordo di sangue dal viso alle scarpe, avanzava penosamente, portando sulle spalle dei lunghi pezzi di carne che aveva allora levati dal bufalo, ed una magnifica lingua. - Spicciati, Cortal - disse il bucaniere ruvidamente. - Abbiamo delle persone a pranzo e offriremo loro un bell'arrosto di lingua. Vi è del maiale freddo avanzato da ieri? - Sí - rispose il giovanotto. - E la pelle del bufalo? - Andrai a raccoglierla piú tardi. Nessuno ce la porterà via. L'arruolato gettò in mezzo alle erbe la carne, diede uno sguardo di sfuggita agli ospiti, toccandosi con la destra grondante di sangue la tesa del suo cappellaccio scolorito e bucato almeno in dieci punti; poi alimentò il fuoco, mentre il padrone preparava la lingua e la infilava nello spiedo. - Non invidio di certo la vita di quel povero garzone - disse il guascone, indicando l'arruolato. - E forse anche lui appartenne un giorno a qualche buona famiglia. - Quanto dura il loro arruolamento? - chiese il conte. - Tre anni, ordinariamente - disse Mendoza. - Dopo passano a loro volta bucanieri; ma sono tre anni di tribolazioni, poiché vengono trattati come schiavi, e non sono loro risparmiate né percosse, né sofferenze d'ogni specie. I bucanieri, abituati a vivere sempre in mezzo al sangue, diventano ben presto brutali, e per loro, uccidere un toro o un uomo è la stessa cosa. Hanno una sola qualità buona: sono leali e ospitalissimi. - Sicché quando l'arruolato sarà diventato bucaniere, non tratterà meglio il garzone che prenderà al suo servizio. - È cosí, capitano - rispose Mendoza. - Si direbbe anzi che vogliano vendicarsi a loro volta delle busse prese e dei patimenti subiti durante la loro schiavitú. Mentre chiacchieravano, Buttafuoco e il suo servo si facevano in quattro per allestire il pranzo, molto abbondante, è vero, ma anche molto modesto, poiché non consisteva che in un pezzo di maiale freddo, nella lingua del bufalo malamente arrostita e in un cavolo palmista che, bene o male, surrogava il pane che mancava assolutamente. Quei poveri cacciatori soltanto qualche rarissima volta potevano ottenere un po' di grano, e allora era una vera festa per loro. L'arrosto fu presto pronto e fu servito dall'arr uolato su una foglia di banano, insieme con alcune enormi ossa già spezzate per poterne succhiare piú comodamente il midollo crudo e ancora tiepido. - Mi rincresce, signor conte, di non potervi offrire di piú - disse Buttafuoco, il quale cercava di mostrarsi amabile. - Se possedessi ancora il mio castelluccio in Normandia, avrei fatto ben altra accoglienza al nipote del grande Corsaro Nero ... Bah! - aggiunse poi, mentre la sua fronte si aggrottava ed una profonda emozione si dipingeva sul suo volto abbronzato - non vale la pena di risvegliare dei lontani ricordi. Il passato è morto per me, dopo che ho varcato la linea ... Mangiamo, signori! Tagliò la lingua e l'arrosto di maiale, servendosi d'un enorme coltellaccio; spaccò in vari pezzi il cavolo palmista con degli scatti d'ira che tradivano una profonda agitazione, poi con un gesto fece segno ai convitati di servirsi. Mangiarono in silenzio. Il conte di quando in quando fissava il bucaniere e questi, quasi temesse che egli indovinasse la causa della sua profonda emozione, si affrettava ad abbassare lo sguardo o a volgere altrove il viso, con la scusa di dare al suo arruolato qualche ordine. Quando il pranzo fu terminato, Buttafuoco offrí ai suoi ospiti dei grossissimi sigari da lui stesso fatti con tabacco probabilmente rubato nelle piantagioni spagnuole; poi disse a Cortal, che aveva mangiato fuori della capanna accanto al fuoco: - La fiasca d'onore: vi è un conte fra noi, amico. L'arruolato frugò sotto un banano e ne trasse un'enorme zucca, parecchi bicchieri di corno di bufalo e portò l'una e gli altri nella catapecchia. - Signor conte, - disse il bucaniere con una certa amarezza - io non posso offrirvi né dello champagne, né del Borgogna, né del Medoc, perché non siamo in Francia. Qui non abbiamo che meschina aguardiente o del megeol, perché l'isola non ci dà niente di meglio. È la mia provvista che talvolta cerco a prezzo della mia vita che se ne va ... quella provvista che certe notti mi è necessaria per dimenticare il passato, per non piangere ... Signor conte, accettate. - Voi siete commosso, Buttafuoco! - gli disse il signor di Ventimiglia. - Si può esser forti, signor conte, - rispose il bucaniere - si può aver varcata la linea equatoriale; si può aver giurato di aver dimenticato il proprio paese ... la mia Normandia ... il mio castello ... una sorella amata e che per me è ormai morta per sempre ... il padre gentiluomo che riposa laggiú accanto a mia madre sotto le zolle dell'abbazia ... Morte dell'inferno! Bevete, signor conte ... berrò anch'io! Afferrò rabbiosamente la tazza di corno e la vuotò d'un fiato, gridando poi: - Ancora, Cortal, ancora! Bisogna che affoghi i ricordi lontani! Ah, la triste sorte che mi ha colpito! Il viso del fiero bucaniere si era spaventosamente alterato. Non piangevano i suoi occhi, eppure s'indovinava che faceva degli sforzi supremi per trattenere le lacrime, vergognoso forse di tradire il segreto delle sue pene. - Bevete, signor conte, - riprese dopo qualche istante, vuotando un'altra tazza. - Non avrei mai creduto di dover ospitare sotto questa miserabile capanna un gentiluomo della lontana Europa. L'avevo sperato un giorno, era una follia certamente ... un uomo che fosse venuto qui a trovare me per caso o per combinazione. - Continuate, Buttafuoco, - disse il conte - siete fra amici. Il bucaniere vuotò il terzo bicchiere di aguardiente, poi, facendo un gesto di ira terribile, riprese con voce strozzata: - Parigi maledetta! Sirena infame che mi hai stretto fra le tue spire! Meglio sarebbe stato che io non ti avessi mai veduta! Le tue mille e mille seduzioni hanno fatto di me un miserabile bucaniere, un macellaio delle foreste di San Domingo! ... Maledetto giuoco! Sei stato la mia rovina! - Ma chi siete voi? - chiese il conte, profondamente commosso dall'intenso dolore che traspariva sul viso del bucaniere. - Lo vedete, - rispose Buttafuoco, ridendo nervosamente - un cacciatore di buoi ... un miserabile avventuriero. Da quando ho passata la linea, io non ho piú patria, non ho piú famiglia, non ho piú nobiltà, piú nulla fuorché il mio archibugio che tutti i giorni uccide per non uccidere il mio cuore. Per la quarta volta vuotò la tazza che l'arruolato gli aveva riempita. - Gli anni sono passati, - riprese il disgraziato, serrando la fronte fra le mani, come se cercasse di comprimere i pensieri che lo tormentavano - Eppure vedo ancora il mio castello, là, sulle rive dello stagno, ergersi superbo con i suoi pinnacoli e le sue torri; vedo ancora in certe notti passeggiare sulle terrazze quella dolce fanciulla che era mia sorella e per la quale avrei dato la vita pur di vederla felice ... Un barone della Bretagna la fece sua sposa ... Sia felice, ed ignori per sempre la sorte del suo disgraziato fratello ... Cortal, dammi ancora da bere. Ho sete, una terribile sete! Rimase alcuni istanti silenzioso, fissando il bicchiere colmo con gli occhi dilatati, cupo, fremente, poi disse: - Eh, la vita talvolta è cosí, se si è preda d'un genio maligno. Eppure quanto è stata terribile la discesa! Meglio sarebbe stato che sui vent'anni un colpo di spada m'avesse finito fra i pometi della Normandia! Cosí non avrei veduta mai Parigi, almeno non sarei disceso, di gradino in gradino, fino nel fango d'una prigione ... non avrei macchiato il blasone dei miei avi ... non avrei dimenticata la mia Francia ... non avrei cambiato nome ... non sarei diventato un avventuriero ... non sa rei fuggito come un ladro ... e non avrei fatto piangere mia sorella, povera creatura! - Buttafuoco! - gridò il conte. Il bucaniere si era alzato di scatto, con gli occhi dilatati, il viso bagnato di sudore. Staccò da un palo della capanna il suo archibugio, poi uscí rapidamente, scomparendo fra gli alberi. - È sempre cosí il tuo padrone? - chiese il conte all'arruolato che stava fermo sulla soglia della capanna. - Io non l'ho mai veduto sorridere - rispose Cortal. - È sempre triste - E non sarà il solo - disse il guascone. - Quanti uomini, che un giorno furono ricchi e stimati, si trovano fra questi bucanieri! - E quanti gentiluomini ha rovesciato l'Europa in America! - rispose il corsaro. - È vero, signor conte - rispose il guascone con un sospiro. Io peraltro ho dimenticato presto Pau e il mio castelluccio semidistrutto. Io non ho veduto Parigi, né ho provato le sue seduzioni fatali. - Rovina di tanta gente dabbene! - disse il conte. - Vale meglio la Provenza! A sua volta si era alzato ed era uscito dalla capanna, cercando il bucaniere. Il cacciatore era scomparso, ma udí parecchi colpi di fucile tra le macchie. Aveva appena terminato il sigaro e stava per rientrare nella capanna, quando vide giungere Buttafuoco piú tetro che mai. Osservandolo attentamente, s'accorse che il fiero cacciatore aveva gli occhi rossi; come se avesse lungamente pianto. - È passata la tempesta? - gli chiese il signor di Ventimiglia con voce dolce. - Gli uragani durano poco a San Domingo - rispose il bucaniere con un triste sorriso. - Bah, tutto è passato, tutto è stato dimenticato! Ho ucciso due maiali selvatici, laggiú sul margine delle paludi ... è il mio mestiere. Il conte gli porse la destra: - Stringetela! - disse. - No, signor conte, io non sono piú degno di porgere la mano ad un onesto gentiluomo. Qui non siamo in Normandia. - Stringetela, vi dico. - Sí, non ora però. Quando noi ci lasceremo per sempre e vi dirò chi sono stato io un giorno ... forse allora ... Signor conte, fra quattro ore il sole tramonterà e la villa della marchesa di Montelimar è lontana. Volete che ci mettiamo in cammino? Non giungeremo a San Josè prima dell'alba, ed in questo paese è meglio marciare di notte. Le cinquantine di quando in quando perlustrano queste foreste e se non sono pericolose le loro alabarde, sono terribili i cagnacci che le accompagnano. - Sono pronto a seguirvi e ad obbedirvi - rispose il corsaro. - Siete ben sicuro che la marchesa non vi tradirà? Io conosco quella bella signora, avendola qualche volta incontrata nei dintorni della sua fattoria. - È una perfetta gentildonna che mi ha già salvato una volta. - Allora basta - rispose il bucaniere. - Chiamate i vostri compagni, signor conte, e dite che si prendano degli archibugi. Ne ho sempre tre o quattro di riserva e tutti di buon calibro, con palle di un'oncia. Mendoza ed il guascone, udendo il comando del conte, erano accorsi, seguiti dall'arruolato, il quale, come se avesse indovinato il pensiero del suo padrone, portava dei fucili e delle munizioni. - In marcia, amici - disse il signore di Ventimiglia. - Buttafuoco ci servirà da guida. Il bucaniere s'accostò all'arruolato, il quale lo interrogava con lo sguardo. - Tu rimarrai qui - gli disse con ruvida bonarietà - e aspetterai il mio ritorno. Che io stia lontano una settimana od un mese, non ti dar pensiero di me. Se gli spagnuoli ti minacciano, rifugiati nella colonia del capo Tiburon e là ci ritroveremo. Guardati dalle cinquantine, e abbi cura dei miei cani. Addio! Chiamò con un fischio stridente il suo bracco favorito e si mise in cammino a fianco del conte e seguito dal guascone e da Mendoza, calandosi il cappellaccio sulla fronte per meglio ripararsi dagli ardentissimi raggi del sole. Attraversò la macchia che serviva a nascondere la sua capanna e dopo essersi orientato con l'astro diurno, si cacciò risolutamente tra le immense boscaglie che si prolungavano verso occidente. Il bracco lo procedeva, fiutando di quando in quando il terreno, e volgendo la testa come per chiedere se era sulla buona via. - Avete la vostra nave, signor conte? - chiese il bucaniere, dopo aver percorso qualche miglio. - Deve attendermi al capo Tiburon - rispose il corsaro. - La villa della marchesa di Montelimar non si trova che a breve distanza dalla rada. La potrete scorgere dalle finestre della fattoria. - Non verranno a cercarci colà, le cinquantine? - Chi lo sa? Battono l'isola in lungo ed in largo, e non si sa mai dove si fermano. La marchesa però è troppo potente a San Domingo per non proteggervi. - Ne ho avuto la prova. - Allora potrete attendere tranquillamente la vostra nave, senza correre il pericolo di farvi prendere - rispose il bucaniere, sorridendo. - So quanto vale quella signora. - La conoscete? - L'ho veduta una sola volta, mentre attraversava a cavallo una foresta e le ho reso, anzi, in quell'occasione, un piccolo servigio. Se non mi fossi trovato sulla sua strada e non le avessi ammazzato il cavallo con un buon colpo di archibugio, non so se la signora di Montemilar sarebbe ancora viva, e se ... Il bucaniere si era interrotto, mentre il suo bracco scuoteva gli orecchi e puntava. - Che cosa c'è? - chiese il corsaro. - Nulla per ora - rispose Buttafuoco la cui fronte si era leggermente aggrottata. - Mi sembrate inquieto. - Posso essermi ingannato - Anche il vostro cane? Il Bucaniere stette un momento silenzioso, osservando attentamente il suo bracco il quale si era fermato e non cessava di alzare e di abbassare le orecchie. - Mi è sembrato d'aver udito un lontano latrato. - Che qualche cinquantina ci dia la caccia? - Può darsi, signor conte. Lasciamo i terreni scoperti e gettiamoci nella foresta. Là saremo piú sicuri.

I PESCATORI DI BALENE

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

Abbandonati precipitosamente i canotti, si slanciarono a terra portando con loro i fucili e la scure. L'orso non era lontano che trenta passi e raddoppiava gli sforzi temendo che l'agognata preda fosse per sfuggirgli. Vedendo i due uomini prendere terra e puntare i fucili, armi che senza dubbio non gli erano nuove, subito si tuffò. - Fugge forse? - chiese Koninson, che contava di regalarsi uno zampone d'orso per pranzo. - Non lo credo - rispose il tenente, tenendo il fucile sempre puntato. - Simili animali non abbandonano così facilmente una preda, quando sono affamati. Cercherà di avvicinarsi tenendosi sott'acqua per poi gettarsi contro di noi all'improvviso. - Bah! Avrà l'accoglienza che si merita. - Eccolo, Koninson! Mira giusto! Infatti l'orso era repentinamente riapparso a pochi passi dall'isolotto. Con un solo balzo si slanciò sulla riva tentando di risalirla. - Fuoco! - gridò il tenente. Le due detonazioni dei fucili si fusero in una sola. La belva, ferita, mandò un lungo nitrito che parve anzi un vero urlo e tornò a sommergersi, lasciando alla superficie un cerchio di sangue che rapidamente si allargava. - È morto! - gridò Koninson slanciandosi innanzi. - Non ti fidare! - disse il tenente. - Sta in guardia! L'avvertimento giungeva troppo tardi. Koninson si era già immerso nella corrente fino alle ginocchia, quando si sentì violentemente atterrare. L'orso, che spiava il nemico tenendosi sott'acqua, repentinamente si rialzò e urtò violentemente il fiociniere che non resse al colpo. - Aiuto, signor Hostrup! - gridò il disgraziato, tentando, ma invano, di rimettersi in gambe. - Non temere, ragazzo! - tuonò il tenente. L'orso, con una agilità che si sarebbe creduta impossibile in quel corpo tutt'altro che ben formato, stava per gettarsi sul fiociniere per dilaniarlo coi potenti artigli, ma il tenente gli si gettò coraggiosamente dinanzi. S'udì un colpo secco, seguito da un sordo grugnito. La belva, colpita mortalmente alla testa, si rovesciò nel fiume perdendo un torrente di sangue misto a brani di cervella, e sparve in mezzo ai gorghi. - Grazie, mio tenente! - disse Koninson con voce commossa. - Non dimenticherò mai questo colpo maestro. - Mi ringrazierai a pericolo finito! - rispose Hostrup, raccogliendo prontamente il fucile e disponendosi a caricarlo. - Come? Non è morto dunque? - Non è lui che ci darà ancora da fare, ma i suoi compagni. Guarda, mio povero amico, guarda sulla riva che ci sta di fronte. Koninson guardò nella direzione indicata e non potè trattenere un gesto di spavento. Da una collinetta che scendeva dolcemente nel fiume, tre forme biancastre scivolavano rapidamente sulla neve mandando dei grugniti punto rassicuranti. Erano tre altri orsi bianchi i quali, forse attirati dalle urla del compagno e dalle detonazioni, accorrevano a prendere parte alla lotta. - Corpo d'una balena! - esclamò il fiociniere impallidendo. - Ma questo è il paese degli orsi! Ci assaliranno? - Se son affamati come quello che abbiamo ucciso, non si accontenteranno di guardarci - rispose il tenente che cominciava a diventare inquieto. - Si potrebbe tentare la fuga? - Se la loro intenzione è quella di assalirci, l'acqua non li arresterà. Qui si tratta di mirare giusto e di picchiare sodo. Carica il tuo fucile e stiamo attenti. I tre orsi erano allora giunti sulla riva del fiume, ma non parevano avere molta fretta. Andavano innanzi e indietro lentamente, guardando i due uomini più con curiosità che con ferocia, senza decidersi a entrare nel fiume. Finalmente uno, il più grosso, s'immerse e nuotò in direzione degli isolotti, ma procedendo cautamente. Koninson e il tenente lo mirarono e gli scaricarono contro i fucili. La lezione parve sufficiente, poichè il carnivoro s'arrestò un momento, poi raggiunse i compagni zoppicando e perdendo sangue. Si fermarono ancora alcuni minuti sulla riva, indi s'allontanarono per la stessa via di prima, scomparendo dietro le rocce. - Buon viaggio! - gridò il fiociniere. - E tarda guarigione all'ammalato! - aggiunse il tenente. - Che il diavolo si porti questi affamati abitanti delle regioni artiche! - Fortunatamente che non erano di cattivo umore, quei signori dalla bianca pelliccia. E quello che abbiamo ucciso, dove è andato a finire? - La corrente l'ha portato chi sa mai dove, Koninson. - Che disgrazia che tanta carne sia andata perduta! - Bah! Ne troveremo dell'altra. - Ma le munizioni scarseggiano, signor Hostrup. Non ho più di quaranta colpi. - Ti basteranno per giungere al forte. Orsù, imbarchiamoci e proseguiamo il viaggio. Rimisero a galla i canotti, vi si cacciarono dentro e abbandonarono il gruppo d'isolette colla maggior sollecitudine, temendo di vedere ritornare gli orsi bianchi che forse si tenevano celati dietro le rocce. Fortunatamente i tre carnivori non si fecero vedere, sicchè poterono proseguire tranquillamente il loro viaggio costeggiando la sponda opposta che si manteneva così dirupata da non permettere la discesa ad alcun animale per quanto fosse fornito di solidi artigli. A mezzogiorno fecero una breve sosta dentro un profondo "fiord" che li teneva riparati dai ghiacci che la corrente continuava a trascinare, mangiarono alla meglio un pezzo d'orsacchiotto, poi ripartirono. Il viaggio fu però di breve durata, poichè ben presto si alzò sul fiume un nebbione così denso da non permettere più di discernere i ghiacci anche a pochi passi di distanza. Le due rive in breve scomparvero ai loro occhi. - Approdiamo - disse il tenente, che temeva pei fragili canotti. - Vedo dinanzi a noi un isolotto boscoso che ci offrirà un buon fuoco e un riparo contro il freddo della notte. - Non faremo cattivi incontri, spero. - No, ma veglieremo per turno. Hai veduto come nuotano gli orsi bianchi? Se qualcuno si aggira sulle rive e si accorge della nostra presenza, non ci penserà su due volte a farci una visita durante il nostro sonno. Presero terra all'estremità dell'isolotto che non aveva una estensione maggiore di trenta metri, tirarono a secco i canotti e si accamparono fra due alti pini. Koninson, dopo aver acceso il fuoco, fece una corsa attraverso quel brano di terra per assicurarsi che nessun animale fosse celato fra le piante, poi allestì la cena. Alle 10 di sera, quando il nebbione era più fitto, il tenente sì coricò accanto al fuoco sotto la guardia del compagno, cui spettava il primo quarto. Nessun incidente venne a interrompere il suo sonno. Alle due del mattino surrogò Koninson che cadeva dalla stanchezza. Nessun rumore fino allora era stato avvertito, all'infuori del gorgoglio della corrente che si rompeva contro l'isolotto e gli urti dei ghiacci. Ma verso le quattro, quando il nebbione cominciava ad alzarsi, il tenente, che si teneva seduto accanto al fuoco col fucile in mano, avvertì dei vaghi rumori che venivano dalla riva destra. Si alzò rapidamente e s'avvicinò al fiume curvandosi verso la corrente. Ben presto udì in mezzo al nebbione un lungo fischio che si ripetè parecchie volte. - Che animale è mai questo? - si chiese egli. - Un orso no di certo. Stette in ascolto e gli parve di udire degli scoppi di risa che era si avvicinavano ed ora si allontanavano. - Se non mi trovassi sul Makenzie, direi che sulla riva ci sono delle jene, ma le terre della Baia d'Hudson non hanno mai ospitato questi animali dei climi caldi. - Signor Hostrup! - disse in quell'istante il fiociniere che si era svegliato. - C'è della gente allegra, a quanto pare. Chi ride in questo brutto paese? - È ciò che io sto chiedendomi - rispose il tenente. - Sono persone o animali? - Persone senza dubbio. - Forse siamo giunti al forte senza accorgercene? - Io credo che sia ancora molto lontano. - Provate a chiamare. - Olà, chi ride? - gridò il tenente. Una specie di grugnito vi rispose, seguito tosto da risa sgangherate e un vociare di persone. - Senza dubbio ci sono degli Indiani - disse il fiociniere raggiungendo il tenente. - Ci saranno amici o nemici? - In questo paese non si può dire mai nulla, poichè le tribù indiane oggi rispettano i bianchi e domani sono capaci di assassinarli a tradimento. - Provatevi a interrogarli. Che lingua parlano gli abitanti di questa regione? - Una lingua che ben pochi conoscono, ma avendo essi frequenti comunicazioni coi forti della Compagnia comprenderanno l'inglese o almeno il russo. - Proviamoci. - Olà, chi siete e da dove venite? - chiese egli in inglese. - Co-yuconi, - rispose una voce forte e distinta. - Corpo d'un vascello sventrato! - esclamò Koninson, facendo un salto. - Io conosco questa voce! - È quella ... - Del capo Tanana che ci ha derubati. - Se è proprio lui che ha parlato, gli farò pagar caro il tradimento. Arma il fucile e teniamoci pronti a tutto.

I due balenieri, abbandonati i canotti dopo di averli ben assicurati ad uno scoglio, s'arrampicarono su per quello scabroso passaggio e raggiunsero la cima di una rupe dalla quale si poteva dominare un vasto tratto di paese. Dinanzi a loro si estendeva una vastissima pianura, chiusa verso sud, ma a molte leghe di distanza, da una grande catena di montagne che probabilmente si staccava dalla grande catena delle Montagne Rocciose che forma l'ossatura principale dell'America del Nord. Qua e là, specialmente lungo il corso del fiume, apparivano boschi di pini, di abeti, di betulle e di altissimi pioppi. Il luogotenente, che guardava attentamente verso est, non tardò a scorgere un gruppo di tende che si appoggiava ad un bosco e dalle cui cime coniche uscivano delle nuvolette di fumo - Ecco l'accampamento - disse il fiociniere. - Ma mi sembra molto grande, signor Hostrup. Quali indiani saranno? - Forse dei Denè o dei Loschi, oppure dei Chippewyans. - E il forte, lo vedete in nessun luogo? - È molto lontano, fiociniere, forse qualche centinaio e anche più di chilometri. Forza alle gambe e avanti. Si gettarono in spalla i fucili e partirono di buon passo, fiancheggiando un bosco che seguiva il corso del fiume ed entro il quale si udivano numerosi ululati di lupi. La neve che ancora copriva la pianura, essendosi gelata durante la notte, rendeva la marcia facile. In meno di un'ora giunsero a poche centinaia di passi dall'accampamento composto di una quindicina di tende. L'abbaiare di numerosissimi cani, che avevano fiutato le vicinanza di stranieri, fecero uscire dieci o dodici uomini, i quali avanzarono senza diffidenza verso i due naufraghi. Erano tutti di statura piuttosto inferiore alla media, dalla pelle olivastra e lucente, forse perchè unta di recente con grasso, cogli occhi un pò obliqui e i capelli neri, grossi e lunghi. Portavano vesti di pelle di foca e di orso, munite di cappucci orlati di pelle di volpe, ed avevano lunghi stivali cuciti con nervi di animali. Le loro armi consistevano in certe fiocine di denti di narvalo munite d'una punta di rame, e in archi. - Sono eschimesi - disse il tenente che li aveva subito riconosciuti. - Possiamo fidarci? - chiese Koninson. - Godono fama di essere molto ospitali, ma assai vendicativi. Credo che non avremo da temere. Un eschimese, che doveva essere certamente un capo, a giudicarlo dalle vesti che erano più ricche di quelle degli altri, s'avvicinò ai naufraghi e, dopo averli salutati in inglese, strofinò energicamente il proprio naso contro il loro in segno di amicizia. - I bianchi nulla hanno da temere dalle tribù degli Innoit! - disse poscia. - Siano i benvenuti nella mia tenda. - Siamo pronti a seguirti, - rispose il tenente - e non avrai a pentirti di averci ospitati. - I bianchi si recano al forte Speranza? - Sì, ma noi non conosciamo la via venendo dalle lontane regioni dell'ovest. - Kumiath la insegnerà! - rispose il capo. - Seguitemi nella mia tenda. Il capo li condusse nell'accampamento dove vennero circondati da una trentina di eschimesi fra uomini e donne accorsi da tutte le parti ai furiosi abbaiamenti dei cani. Il tenente e il fiociniere notarono che fra i curiosi si trovavano anche alcuni individui che per la loro statura più elevata, per le loro vesti e per i loro lineamenti parevano appartenere ad un'altra razza. Non vi fecero però molto caso e seguirono il capo il quale, dopo averli fatti passare attraverso un vero labirinto di bastoni sostenenti gran numero di pezzi di carne messi a seccare, li condusse in una piccola tenda dove, in mezzo a mucchi di pelli, marcivano, fra odori pestilenziali, ma che sembravano invece apprezzati dagli eschimesi che si cibano volentieri di carni corrotte, salmoni, lucci, trote, gadus, coreganus ed altri pesci del Makenzie. Benchè non si trovassero troppo bene fra quei miasmi, si accomodarono su una gran pelle d'orso distesa per terra e fecero come meglio poterono onore al cavallo marino conservato in olio di balena e ad una grossa trota, un pò troppo passata, offerta loro dal capo. Per tema di fare un affronto all'eschimese, furono anche costretti a sorbire una certa quantità di olio di morsa che fu loro gentilmente offerto, con quante smorfie ognuno lo può immaginare. Terminato quel diabolico pasto, sontuoso per un eschimese gran bevitore d'olio e mangiatore di carne cruda, corrotta o malamente affumicata sulla fiamma di una lampada, ma quanto mai disgustoso per un europeo, il capo intavolò una conversazione narrando che da soli pochi giorni aveva lasciato il forte Speranza, dove aveva fatto moltissimi scambi di pelli contro tabacco, conterie, armi, ecc., e che ora stava per raggiungere le sponde dell'oceano a cacciarvi la balena. - Dista molto il forte? - chiese il tenente, quando il capo ebbe finito. - Tre giorni di marcia e niente di più! - rispose l'eschimese. - Basta seguire questo bosco che si stende lungo le rive del Makenzie per non smarrire la via. - Ci sono altre tribù che si dirigono al forte? - Sì, una che è venuta dalle lontane regioni dell'ovest, come voi e che si è accampata nel bosco. - Appartiene alla vostra razza? - No. - È molto numerosa? - Lo è diventata in questi giorni. Conta almeno quattrocento uomini. - Il suo nome? - Il suo nome è ... Tò, ecco alcuni dei suoi uomini, senza dubbio qui giunti per vedere gli uomini bianchi e che ... Non aveva ancora finito che il fiociniere, alzatesi di colpo, si precipitava fuori urtando furiosamente contro un grosso attruppamento di persone radunatesi dinanzi alla tenda. Il suo robusto pugno piombò con secco rumore su di un uomo il quale stramazzò a terra mandando un urlo di dolore. Gli eschimesi si divisero precipitosamente, lasciando alle prese i due avversari che lottavano con pari accanimento. Il tenente, che non sapeva ancora di che si trattasse, accorse in aiuto di Koninson, il quale ad ogni pugno che lasciava cadere gridava: - Questo per la polvere! Questo per le palle! E questo per la carne che ci hai rubato! Solo allora si accorse che l'avversario era un indiano, anzi il capo Tanana che li aveva indegnamente traditi e derubati sulle rive del Porcupine. Stava per piombare anche lui sul traditore, quando questi sgusciando con una agilità sorprendente fra le mani del fiociniere, riuscì a rimettersi in piedi. - Ti ucciderò! - gridò minaccioso. Poi fuggì a rompicollo verso la foresta dove si trovava il suo accampamento. Il tenente, che aveva perduta la sua flemma abituale, stava già per armare il fucile e inviargli una palla nel dorso, ma il capo eschimese gli abbassò l'arma dicendogli: - Sii prudente! Essi sono molti e molto vendicativi. - Ma quell'uomo ci ha derubati, dopo aver chiesto il nostro aiuto per rifornirsi di viveri - disse il tenente. - Meriterebbe la morte, ma tu qui sei straniero e non hai che un compagno, mentre i Tanana sono numerosi. Vieni nella mia tenda e cercheremo di accomodare ogni cosa. - È troppo tardi! - disse il fiociniere. - Si tratta ora di far parlare i fucili. E non s'ingannava. Dalla foresta uscivano allora due o trecento guerrieri, mandando grida assordanti. I più erano armati di fiocine e di coltelli, ma taluni portavano dei fucili, assai vecchi, ma non del tutto in cattivo stato. - Che uragano sta per scoppiare? - si chiese Koninson che si preparava però a vendere cara la vita. - Non so come la finirà, se quei pagani si gettano tutti uniti contro di noi. - Fuggite! - disse l'eschimese che aggrottava la fronte e che era diventato pensieroso. - I Tanana sono valorosi e non si arresteranno dinanzi ai vostri fucili. - Ma dove fuggire? - chiese il tenente. - I nostri canotti sono lontani e saremo raggiunti prima di trovarli. - Dietro la mia tenda ho una slitta tirata da una muta di robusti cani. Montatela e fuggite verso il forte. - Ma si vendicheranno contro di te, mio buon eschimese. - I Tanana non ardiranno alzare le mani contro di me - rispose con fierezza l'eschimese. - Questa è la terra degli Eschimantik (mangiatori di pesce crudo), come loro ci chiamano, e sanno che una offesa fatta alla mia tribù la pagherebbero cara, poichè i miei compatrioti non la lascerebbero impunita. Presto fuggite, o sarà troppo tardi. Il tenente si levò l'orologio e lo diede al bravo eschimese dicendogli: - Conservalo in memoria della tua buona azione. Ed ora alziamo i tacchi. Si slanciò dietro la tenda seguito da Koninson, ma si arrestò subito mandando una sonora imprecazione. Sette od otto Tanana, che si erano avvicinati tenendosi nascosti dietro le tende degli eschimesi, sbarravano la via. Alla loro testa, armato d'un vecchio fucile, si trovava il capo, il cui naso schiacciato dal potente pugno del fiociniere, mandava ancora sangue. - Ah, brigante! - gridò il tenente. - Non si passa di qui - disse il capo con tono minaccioso. - E cosa pretenderesti tu? - Che tu mi consegni il tuo compagno perchè io vendichi l'affronto fattomi. - Bene, prendi questo, giacchè lo vuoi. Il tenente puntò rapidamente il fucile e fece fuoco. Il Tanana, colpito alla fronte, stramazzò al suolo fulminato, mentre i suoi guerrieri fuggivano disordinatamente gettando urla di rabbia e di vendetta. - Presto, Koninson, salviamoci! - disse il tenente. - Andiamo, signore, e filiamo dritti al forte. La slitta era pronta. Dodici robusti cani, somiglianti ai lupi, dalle gambe nervose, erano attaccati due a due, pronti a partire al primo segnale. I due naufraghi balzarono nel veicolo e si slanciarono attraverso la pianura trascinati in una rapidissima corsa. Dalla parte dell'accampamento scoppiarono alcune fucilate, le cui palle attraversarono gli strati d'aria sibilando; poi si videro i Tanana dirigersi correndo verso il bosco mandando clamori assordanti. - Tò! Fuggono forse? - chiese Koninson al tenente che animava i cani colla voce e colla correggia. - Ne dubito, fiociniere. - Che ci diano la caccia? - Lo temo, ma i nostri cani corrono come il vento e abbiamo già un notevole vantaggio. - Terranno duro questi corridori? - Per parecchie ore e senza rallentare. Basta che la neve non ceda sotto il peso della slitta. - Vedo che la pianura è tutta bianca. Ma oh! La matassa s'imbroglia! - Che cosa vedi? - Delle slitte che escono dal bosco. - Sono i Tanana che ci danno la caccia. Quante sono? - Ne ho contate sette e, se non corrono più di noi, certo non rimangono indietro. II tenente volse un rapido sguardo verso il bosco e vide infatti sette slitte correre con fantastica rapidità sulla nevosa pianura, trascinate da lunghe file di cani. Quattordici uomini le montavano e i più erano armati di fucili. - Diamine! Sono proprio decisi a vendicare il loro capo, - disse. - Bah! Avranno pane per i loro denti, se riescono a raggiungerci. Tu sorveglia i loro movimenti, mentre io cerco di far correre i nostri cani. - E gli eschimesi? Mi spiacerebbe che quei buoni diavoli la pagassero per noi. - Il capo mi sembrò quieto; è segno che non avrà nulla da temere. S'avvicinano? - Vorrei ingannarmi, signor Hostrup, ma mi pare che guadagnino su di noi. - Avanti, miei piccini! - gridò il tenente, sferzando i piccoli trottatori. - Se vi comportate bene, avrete doppia razione di carne stasera. - Non ne abbiamo un pezzettino grande come un soldo. - Ne troveremo al forte. Se continuiamo a correre così, vi giungeremo in poche ore. Guadagnano i Tanana? - Sì, signor Hostrup. Non sono che a un chilometro da noi. - Quante cariche ci restano? - Una cinquantina. - Ci bastano per abbatterli tutti quattordici! - disse il tenente con voce tranquilla. - Avanti, miei piccini, lesto il passo e tu, bianco, fatti più sotto. Là, così va bene. Un colpo di fucile echeggiò al largo, ma la palla non giunse fino ai fuggiaschi. - Troppo lontano, mio caro! - disse Koninson ridendo. - Quando sarete a tiro lo darò io il segnale e vi garantisco, brutti pagani, che lo assaggierete, il mio piombo. Altri due colpi di fucile rimbombarono, ma non con miglior effetto. I Tanana compresero che non era ancor giunto il momento di far parlare la polvere e raddoppiarono le grida e le scudisciate per far correre di più i loro cani, i quali parevano più robusti e più veloci di quelli regalati dall'eschimese. Ben presto non furono che a seicento metri di distanza. Koninson, che non li perdeva di vista un sol momento, stava per puntare il fucile quando vide le sette slitte fare un rapido voltafaccia e fuggire precipitosamente verso l'accampamento, di cui si scorgevano appena appena le tende. - Tò! - esclamò il fiociniere al colmo della sorpresa. - Battono in ritirata! - Come? I Tanana fuggono? - Sì signor Hostrup. Che abbiano avuto paura dei nostri fucili? - Io non lo credo. - E allora? Che siamo vicini al forte? - Dinanzi a noi non vedo che un bosco e anche molto lontano. - Che ci minacci qualche pericolo? - Lo temo, Koninson, anzi ne sono certo. - E da che io arguite? - I nostri cani da qualche minuto corrono più rapidi e mi sembrano inquieti. Infatti il tenente non si ingannava. Le povere bestie non parevano più tranquille e divoravano la via con crescente rapidità, senz'essere eccitate. Avevano cessato i loro allegri abbaiamenti, il loro pelo era diventato irto e volgevano frequentemente la testa verso i padroni, come se invocassero la loro protezione. - Hum! - mormorò Koninson. - C'è qualche cosa di grave in aria. - O meglio in terra. Guarda laggiù, guarda! Koninson guardò nella direzione indicata e vide una linea oscura estendersi dinanzi ad un bosco e poi slanciarsi attraverso la pianura con fantastica rapidità. Quantunque dotato di una buona dose di coraggio, impallidì. - I lupi! - esclamò. - Che giungono a centinaia - aggiunse il tenente. - Ecco perchè i Tanana sono fuggiti. Sfuggire al palo di tortura degli Indiani per cadere sotto i denti dei lupi, mi sembra che sia un pò dura. Vi confesso, signor Hostrup, che comincio ad aver paura. - Calma e sangue freddo, fiociniere. Se possiamo giungere a quel bosco che chiude l'orizzonte, siamo salvi. - Contate di trovare colà dei difensori? - No, ma troveremo degli alberi sui quali potremo trovare un comodo rifugio. Prepara le armi e lascia a me la cura di guidare i cani. I lupi arrivavano di gran corsa mandando delle urla brevi, come strozzate e mostrando le loro potenti mascelle armate di acuti e bianchissimi denti. Erano almeno duecento e parevano molto affamati e perciò decisi a tutto. Giunti presso la slitta, che continuava a filare colla velocità di una freccia, formarono un ampio semicerchio. Non assalivano ancora, forse tenuti in rispetto dalla presenza dei due uomini, ma le loro urla parevano volessero dire: Vi mangeremo! Vi mangeremo! - Devo aprire il fuoco? - chiese Koninson con un leggero tremito. - No, finchè si accontentano di seguirci - rispose il tenente che era tutto intento a far correre i cani, nella cui rapidità stava la salvezza di tutti. - Aspetta che ci assalgano. Per un paio di miglia i lupi, quantunque la fame attanagliasse il loro stomaco, continuarono a seguire e a fiancheggiare la slitta, ma poi il loro semicerchio si restrinse e uno di loro, più ardito o più affamato degli altri, si precipitò addosso ai cani che si gettarono violentemente da una parte. Pronto come il lampo Koninson fece fuoco e l'aggressore cadde stecchito nella neve. Alcuni carnivori, spaventati dalla detonazione, si sbandarono, ma gli altri raggiunsero la slitta. Pochi minuti dopo un altro lupo tentò l'assalto, ma ebbe egual sorte del primo. La slitta si trovava allora a due soli chilometri dal bosco e filava con una velocità vertiginosa. Tre o quattro altri l'assalirono per di dietro tentando di balzarvi dentro. - Aiuto, signor Hostrup! - gridò Koninson. - Io non basto più. Il tenente abbandonò la correggia affidandosi all'istinto dei cani e afferrò il fucile. Era tempo, poichè i feroci carnivori avanzavano sempre più, pronti ad un assalto generale. Due detonazioni rimbombarono, poi altre due, poi due altre ancora abbattendo altrettanti lupi. I due balenieri continuarono così, mentre i cani li trascinavano verso il bosco. I lupi, che ormai avevano assaggiato il sangue, non retrocedevano più. Urlando furiosamente assalivano la slitta per di dietro e ai lati tentando di strangolare i cani e di saltare alla gola degli nomini i quali si difendevano disperatamente. Ad un tratto Koninson gettò un grido di disperazione. - Non ho più polvere! - Maledizione! - urlò il tenente. - E questo è il mio ultimo colpo! I lupi, come se avessero compreso che la vittoria era ormai sicura, si precipitarono confusamente all'assalto della slitta, circondandola da ogni parte. I cani sparvero sotto il numero degli assalitori e dopo breve lotta furono fatti a brani, ma i due balenieri non erano ancora vinti. Ritti sul sedile, si difendevano con sovrumana energia respingendo l'orda incalzante coi calci dei fucili, spaccando teste, fracassando dorsi, scavezzando gambe, schiacciando musi. Ma quella lotta di due contro centocinquanta e più non poteva durare a lungo. Già il fiociniere e il tenente si sentivano impotenti di più oltre resistere, già le loro forze venivano meno, i più feroci balzavano contro le loro gambe, quando una scarica violenta rintronò sotto il bosco che era lontano soli trecento passi. Quindici o venti uomini, apparsi improvvisamente, balzarono in mezzo all'orda urlante disperdendola a colpi di scure e di fucile e accolsero nelle loro braccia i due balenieri, così miracolosamente salvati. - Signore, - disse un di loro volgendosi verso il tenente che non si reggeva più - non abbiate più timore: siete fra i cacciatori del forte Speranza.

I PREDONI DEL SAHARA

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

"I vostri padri li hanno abbandonati ai Tuareg e noi li abbiamo occupati. Volete bere? Sia, ma l'acqua la dovrete pagare." "Che cosa chiedi?" "Le vostre armi e la metà dei vostri cammelli." "Ladro!" gridò il marchese, che non poteva più frenarsi. "Ecco la mia risposta!" Con un rapido gesto aveva alzato il fucile, mirando il capo. Già il colpo stava per partire quando El-Melah, che era giunto guidando il cammello di Esther, si precipitò innanzi, gridando: "Amr-el-Bekr, non mi conosci più? Pace! Pace!"

"Monterò il mehari e andrò a cercarli, giacché quel bravo animale non ci ha abbandonati. Mi aspetterete senza timore?" "Andate, marchese; ma non dimenticate che io vi attendo fra mille angosce." Il marchese le fece un gesto d'addio accompagnato da un sorriso, poi si lasciò scivolare lungo la parete rocciosa, raggiungendo il mehari. Vedendolo, l'intelligente animale s'inginocchiò per invitarlo a salire in sella. "Avanti, mio bravo," disse. "Bisogna cercare gli altri." Il mehari s'alzò, fiutò per alcuni istanti l'aria infuocata del deserto, poi si slanciò a corsa rapidissima attraverso le dune e le bassure con quell'andatura bizzarra, che fa sembrare quegli animali zoppicanti. Dove si dirigeva? Il marchese lo ignorava, ma aveva completa fiducia in quell'animale dotato d'un istinto meraviglioso e d'un odorato finissimo che gli permettono di fiutare una sorgente e gli uomini a distanze incredibili. La corsa si accelerava sempre più, diventando così vertiginosa che il marchese penava a respirare. Salì un cumulo enorme di sabbia, si cacciò fra le dune, discese alcune bassure, poi tornò a rimontare altri cumuli, tenendo il collo teso e respirando fragorosamente. Correva da una buona mezz'ora, sempre più allontanandosi dall'enorme ammasso di rupi giganteggianti verso il sud, quando s'arrestò quasi di colpo dinanzi ad una duna, mandando un grido acuto. Quasi subito altre grida consimili risposero ed il marchese, con suo stupore, vide sorgere improvvisamente fra le sabbie parecchie teste di cammelli. "La carovana!" esclamò. "E Ben? ... E Rocco?" si chiese poi impallidendo. Le sabbie si agitavano in tutti i sensi e i cammelli ed i cavalli s'alzavano gridando e nitrendo sonoramente, poi anche una tenda, che pareva fosse stata abbattuta, si sollevò ed il moro ed i due beduini comparvero, scuotendosi di dosso la polvere. "Voi, signore!" esclamò El-Haggar, scorgendo il marchese. "Solo! ... E gli altri? ... " "Non sono tornati qui Ben e Rocco?" chiese il signor di Sartena, tornando ad impallidire. "Non li abbiamo veduti, signore." "Che siano stati sepolti dalle sabbie?" "Non erano con voi?" "Sì, ma poi non li ho più riveduti. Le trombe di sabbia ci avevano divisi." "E la signorina Esther? Perduta anch'essa?" "È al sicuro." "Avete raggiunto le caverne della roccia?" "Sì, El-Haggar; io ed Esther siamo stati anche rinchiusi dalle sabbie." "Forse ugual sorte è toccata anche a Ben Nartico ed al vostro servo," disse il moro, dopo un momento di riflessione. "Conoscete quelle caverne?" "Mi ci sono rifugiato parecchie volte, signore." "Quante sono?" "Quattro." "Vicine l'una all'altra?" "No, signore." "Lasciamo che i beduini s'incarichino della carovana. Prendete delle corde, montate un cavallo e seguitemi senza indugio." Un momento dopo, l'uno sul mehari e l'altro sul miglior cavallo, lasciavano la carovana, dirigendosi verso l'enorme ammasso di rocce. Quando scalarono la piattaforma e si curvarono sullo squarcio, trovarono la coraggiosa fanciulla seduta in mezzo alla caverna, col fucile sulle ginocchia. Due solide funi unite alle due estremità da una traversa di legno furono calate, e l'ebrea fu felicemente innalzata fino sulla rupe, assieme ai due otri, troppo preziosi per lasciarli nella caverna. "Marchese," diss'ella, quando rivide la luce, "a voi devo la vita." Il signor di Sartena non rispose, ma le sorrise guardandola a lungo negli occhi.

IL VENTRE DI NAPOLI (VENTI ANNI FA - ADESSO - L'ANIMA DI NAPOLI)

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Serao, Matilde 1 occorrenze
  • 1906
  • FRANCESCO PERRELLA EDITORE
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Ma se io penso che, in quel tempio, dovrebbero entrare tutti coloro che essa ha beneficati, esso è piccolo, troppo piccolo, infinitamente piccolo: la folla dei poveri, degli infelici, degli infermi, degli abbandonati, cui ella provvide di dignitosa elemosina, di ricovero, di sanità recuperata, di cure materne, la folla, a cui ella dette il suo amore e la sua fortuna, il suo tempo e la sua anima, la folla a cui ella dette sè stessa, in un lungo ed entusiasta olocausto, è immensa. Niun tempio la potrebbe contenere e ognuno di costoro, poichè gli oscuri, i derelitti non dimenticano, certo, ogni volta che il suo spirito si effonde nella preghiera, rammenterà il nome di Teresa Ravaschieri. Ed è, forse, più giusto domandare a Lei, dal suo eterno riposo che ella ci preghi pace: assai più giusto che noi, combattuti, trafitti, stanchi, oppressi, senza più guida nell'esistenza, chiediamo pace a Lei. Ella lottò e vinse, nel nome di Dio e nel nome della virtù d'amore che raccoglie tutta l'umanità. Assai prima di morire, ella era in pace. Ella aveva detto a Dio le parole estreme, assai prima di morire: e aveva avuto il dono della pace. È alla nostra nave pericolante, in gran tempesta, nella notte, che bisogna chiedere l'aiuto di uno spirito orante, nella beatitudine celeste: è al nostro naufragio che l'anima eletta deve dar soccorso, dal misterioso mondo delle anime. La grande anima aveva la consuetudine dei miracoli, per la forza della preghiera, e della bontà. Preghiamo che Ella continui! Napoli, autunno 1904

Vita intima

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Vertua Gentile, Anna 2 occorrenze

Spesso abbandonati alle bambinaie nella prima infanzia; poi in balia di governanti e precettori o in collegio. Padre, madre, figliuoli, si ritrovano a l'ora dei pasti; e non c'è tempo nè voglia e nè pure si sente la necessità di una mutua continua sorveglianza, d' uno scambio di intime idee, di quel continuo calore di affettuosità e di confidenza, senza il quale nella famiglia i sentimenti non possono fare a meno di raffreddarsi. E il matrimonio fra gli operai ? In generale l'operaio sposa una donna perchè l'ama. Ma nè pure nell'operaio è raro il caso del calcolo nell'unione matrimoniale; egli pensa al vantaggio del lavoro della sua donna e vede nei figli appena grandicelli strumenti di un lavoro che basterà al loro sostentamento. E quante impreviste e improvvise vicende sorgono a turbare la pace del matrimonio fra i poveri ! Vi sono le crisi commerciali e industriali, le guerre, gli scioperi, le nascite dei nuovi figli, che diminuiscono e tolgono il lavoro del padre di famiglia e mettono la madre nell'impossibilità di occuparsi fuori di casa. E tutto ciò inasprisce il carattere e influisce tristamente su la vita domestica, dove la cruda necessità entra per scacciare la modesta agiatezza, la mutua tolleranza, la generosità e spesso la virtù. Non di rado allora l'uomo disperato cerca conforto e oblio nel vino e nei liquori; a l' osteria finiscono gli ultimi risparmi; la casa diventa un doloroso luogo di querele, pianti, rimproveri. E la ruina del matrimonio e della vita di famiglia si compie. Grazie a Dio, non sempre succede così. Vi sono famigliuole fra operai che resistono agli urti della male sorte e con la forza della volontà, l' economia, il buon senso e l'amore, si salvano dalla ruina. E quando il lavoro c'è, e il padre e la madre possono guadagnare la loro giornata ? I figli piccoletti che non possono ancora essere accolti negli asili infantili, sono lasciati in custodia dei fratelli e delle sorelle più grandicelli, che non li possono educare per la ragione che non sono educati. Padre e madre tornano a mezzogiorno per il pasto affrettato; ma non sempre nè tutti tornano; mangiano fuori, per necessità di tempo. Il pasto solo della sera riunisce la famiglia. La madre non ha che la serata per accudire alle faccende domestiche, per badare ai vestiti, a la biancheria, a l'ordine della casa. E il da fare la rende inquieta, irascibile, attrabiliare. I fanciulli fanno il chiasso ed essa li manda bruscamente a letto; poi si dà attorno per le povere stanze; ripulisce, prepara, cuce, rattoppa fino ad ora tarda; e intanto disfoga in mal umore, in lagnanze e in maledizioni, la sua vitaccia faticosa e grama. Il marito, che ha sgobbato il dì intiero, sente il bisogno di un'ora di svago ed esce di casa. Nei momenti di grande lavoro, l'operaio non ha libera neppure la festa; anche quel giorno è tolto a la vita della famiglia ! Spesso deve lavorare delle ore in più assentandosi da casa il poco tempo che di solito vi passa. La sua abitazione è lontana dall'officina ? Si alza il mattino quando i figli dormono ancora sodamente, e torna la sera quando già sono a letto. Alle volte l'officina è così lontana, che l'operaio è costretto a starvi tutta la settimana, non tornando a casa che il sabato sera. Il lavoro della donna e dei fanciulli accresce sempre più, sopra tutto nelle industrie tessili. E donne e fanciulli passano l'intera giornata lontani dalla famiglia. A Colmar verso la fine del novembre 1873, sopra 8109 operai impiegati nell'industria tessile, vi erano 3509 donne, 3416 uomini e 1184 fanciulli. Nei cotonifici inglesi, nel 1875, su 479,515 operai vi erano 258,667 donne, 38,558 giovinetti e giovinette dai 13 ai 18 anni, 66,900 fanciulli al disotto dei 13 anni, e 115,391 uomini. Quale doveva essere la vita di famiglia di quella povera gente ? Qual è la vita di famiglia di molti operai e operaie della nostra Italia Nei centri industriali il padre è a l'officina, la madre nelle filande, nei filatoi nelle fabbriche tessili; i figli piccoli nelle scuole, i grandi al lavoro; e questo tutto il giorno ed ogni giorno. Il pane in casa non manca, e nè pure il companatico; quello che manca è la vita della famiglia. Scrive Herbert Spencer: « Quando con la legge sui poveri i provvide pubblicamente ai bambini che igenitori non potevano o non volevano sostentare adeguatamente , la società assunse funzioni familiari, come fece pure. allorquando prese in qualche modo cura dei genitori non aiutati dai figli. La legislazione ha di recente rallentati i legami famigliari dispensando i genitori dalla cura intellettuale dei figliuoli e sostituendo l'educazione pubblica a la paterna. Ed ha sostituita maggiormente la responsabilità dei genitori con quella nazionale, quando le autorità deputate a ciò, hanno provvisto in parte al vestiario dei fanciulli abbandonati prima che siano in età di poter apprendere, ed han fatto anche frustare, per mezzo degli agenti di polizia, i ragazzi renitenti ad andare a scuola. Questo riconoscere come unità sociale l'individuo piuttosto che la famiglia, è davvero giunto adesso al punto che i doveri paterni dello stato, sono ritenuti da molti indiscutibili. A disgiungere, e sperdere quindi a rallentare gli affetti della famiglia, nel secolo XIX, contribuisce anche l'emigrazione. La popolazione dei paesi inciviliti, nel nostro secolo, si è tanto aumentata, che ha cominciato a trovarsi troppo fitta in Europa. Nello stesso tempo i mezzi di trasporto si andarono perfezionando al punto da facilitare assai l'emigrazione. Nei tempi andati erano pochissimi gli emigranti; solamente nel secolo XIX cominciò la grande emigrazione che porta ciascun anno gli Europei a centinaia di migliaia nei paesi tuttora deserti del Nuovo Mondo. Durante la carestia dell'Irlanda, causata dalla malattia nelle patate, dal 1847 al 1853, emigrarono tre milioni d'Irlandesi. Tedeschi, Norvegesi, Inglesi, Irlandesi, Italiani, Francesi, tutti emigrano. Qualche volta le famiglie intiere vanno a cercar fortuna oltremare. Ma più, spesso sono gli uomini soli o anche le donne sole, che se ne vanno. Gli uomini lasciando moglie e figli o i vecchi genitori ; le donne staccandosi dalla loro famiglia. E la lontananza illanguidisce i ricordi e scema o annulla gli affetti più sacri. Vi sono famiglie di contadini ove al focolare non sono che i vecchi genitori. I figli e le figlie se ne sono andati tutti; messe le ali, diventati forti al volo, hanno lasciato il nido deserto. Non manca del tutto il gradito spettacolo della famiglia come il cuore e la ragione la vorrebbero. Ma sono ancora le famiglie ideali. Si trovano là dove la ricchezza non ha introdotto fra le mura domestiche troppe esigenze: troppo lusso, troppa ambizione e vanità. Si trovano là ove il padre di famiglia guadagna abbastanza con il suo impiego e la madre può darsi tutta alle cure domestiche, a l'educazione di figli; si trovano fra i campaguoli agiati, fra i contadini che lavorano la terra propria; fra i piccoli commercianti; fra gli operai che hanno una fucina, una bottega propria. Queste famiglie che il bisogno non disgiunge, che la smania dell'apparire non tocca, che l'emigrazione non diminuisce, sono come verdi oasi nel deserto. L'occhio e il sentimento si fissano in esse e riposano e si confortano. Ma sono molte queste famiglie in questa fine del secolo XIX.? Nel secolo XIX tutto è stato trasformato. La società moderna più non riconosce il diritto d'un uomo sopra un altro uomo; del padrone sul servo, del ricco sul povero; l'uomo, in qualunque condizione si trovi, è libero. Vi ha libertà di coscienza di culto, di parola, di andare e venire dove meglio pare e piace, di scegliere il domicilio, di regolare il proprio modo di vivere; libertà di industria e di commercio; la società contemporanea riposa su la libertà individuale. Dell'antico non sussistono che la famiglia e la proprietà. Ma la famiglia sussiste in modo differente dall'antico. Siamo noi più felici dei nostri avi ? Chi potrebbe affermarlo. ? Per certo la nostra vita è meglio organizzata di quella dei nostri padri Ma come i fanciulli abituati a ogni comodità, agli agi, agli spassi, al lusso, noi ci siamo abituati al meglio e più non ne sentiamo il diletto. L'educazione ha forse indebolito in noi il senso del piacere. Il lusso adesso non è privilegio di pochi; è entrato più o meno in ogni famiglia. I facili e poco costosi prodotti dell'industria e del commercio sono adesso a la portata di tutti e in ogni casa è entrato il bisogno di un certo benessere dorato detto dagli inglesi « comfort ». Un piccolo borghese di adesso, ha maggiori esigenze di un gran signore dei tempi andati. La vita materiale, l'intellettuale, la sociale : tutto è cambiato. Più la civiltà progredisce e più la sua corsa si fa rapida. Dobbiamo sgomentarci per ciò ? L'umanità ha subito trasformazioni che manco si sarebbero immaginate, e non ha perito. La storia della civiltà insegna ad avere confidenza nell'avvenire: confidiamo!

Oltre agli ospedali quali e quanti altri istituti di beneficenza non apre la società, ai poveri, agli abbandonati, agli orfani, ai pericolanti, a l'infanzia, soccorrendo a ogni bisogno della famiglia, con illuminata previdenza ! .. . Sono istituti che dicono altamente il generale sentimento di umanità, il desiderio del progresso morale, l'amore che é il solo legame, la sola religione universale; l'amore, principio di unione , di fratellanza, che Dio ha messo nel cuore, non nello spirito dell'uomo; l'amore, fonte inesauribile di carità. Un amore, una carità previdenti, provvidenziali, che danno la smania di aiutare i disgraziati, di migliorare la condizione del povero, di impedire il male, di diminuire il dolore e avviare al bene ogni classe di persone. Questo amore, questa carità, che pure, salvano da tanti guai, riparano a tante miserie, possono indebolire il sentimento di affetto fra i membri della famiglia; ma come fare altrimenti ? La società è così costituita che è indispensabile provvedere ai mille bisogni di tanti e tanti soffocando forse nella grande opera pietosa gli affetti più naturali. Come provvedere ai bisogni morali e materiali dei bambini e dei fanciulli poveri, dei giovinetti discoli , dalle fanciulle pericolanti , dei ciechi e dei sordomuti, di adulti spostati e incapaci di lavorare, dei vecchi affraliti che sarebbero di spesa alle famiglie ? .. E ci sono, perciò varie specie di ospizi; quello dell'allattamento dei neonati, gli asili d'infanzia, gli orfanotrofi, i ricoveri per i discoli, le case provvidenziali per le giovinette in pericolo , per gli adulti che hanno bisogno di lavoro, per tutti i disgraziati o quasi. Che sarebbe di questa moltitudine di poveretti se la società non pensasse a provvedere ai loro bisogni ? . . . Basterebbe l'affetto della famiglia a soccorrerli, a salvarli dal male ?... . Il cuore, il buon senso, il desiderio della famiglia, logicamente e santamente costituita, fanno pensare con una certa incresciosità agli istituti — per esempio — dell'allattamento dei neonati. Addolora l'idea che una madre deva assoggettarsi a la necessità di staccarsi dal seno la propria creatura, di affidarla per l'intera giornata alle cure degli altri ! E chissà quante poverette rinuncieranno con angoscia, quasi con gelosia, al dovere di allattare i loro piccini, di circondarli delle delicate cure richieste dalla loro debolezza! E vi rinuncieranno per mancanza di mezzi materiali, di tempo, magari Chi sa quante poverette dovranno sacrificare al lavoro nelle casi industriali, nei negozii, nelle famiglie, il piacere di tenersi presso i propri bambini in fasce. Ma come fare se il lavoro è necessario al pane della famiglia ? Sicuro; tutti lo sentono, tutti lo sanno: l'allattamento materno è desiderabile, come quello che offre, oltre molti altri vantaggi, quello di rafforzare i legami della famiglia, di mantenere le affezioni domestiche. La vista della culla eccita l'attività, insegna la previdenza, compensa la moderazione, impone rispetto all'uomo per la donna, comanda il sentimento della protezione. E il bimbo riceve cure, se non più igieniche, certo più tenere; e in tanto gli si figge nel cervello la rappresentazione della madre che lo allatta, del padre che lo accarezza, degli oggetti che lo colpiscono; e le prime impressioni che riceve dal mondo esteriore sono quelle della casa e dell'ambiente nel quale è destinato a vivere. L'alattare i proprii figli è uno dei più santi e cari doveri della madre. « Partorire con dolore — dice Mantegazza — è della femmina. Allattare il proprio figlio, riscaldarlo del calore del proprio petto, dargli un altra volta la vita con l'alimento del seno, è della madre ». Ma pur troppo ci sono delle madri che non sentono questo santo dovere e rinunciano con un sospiro di sollievo a l'incomodo di curarsi dei loro bimbi in fasce, e fanno impegni per affidarli, anche senza bisogno, agli istituti di allattamento. E che dire delle altre molte appartenenti alle classi agiate, che con tutta indifferenza affidano le loro creature alle balie, rinunciando al dolcissimo piacere di allattarle per schivare seccature, per non avere impicci, per non recar danno a la fresca bellezza ?.. Il sentimento della famiglia non può certo trovarsi nel cuore di queste madri: nè per esse gli istituti di allattamento saranno una prova di affievolimento nelle affezioni più intime. Vi sono bambini che passano i giorni della prima infanzia via di casa sempre o quasi. Sono mandati a balia, in campagna, o affidati per l'intero giorno a l'istituto di allattamento; a l'età di due, tre anni, li accolgono i giardini d'infanzia, da mattina a sera. Dai giardini d' infanzia passano alle scuole elementari, e nelle ore che corrono fra la fine della scuola e la sera, sono raccolti nella scuola e famiglia, ove la generosità pubblica li sorveglia mentre fanno i compiti o studiano le lezioni, procura loro svaghi sani e innocenti e quasi sempre del pane per la merenda. Questi fanciulli non si trovano in casa propria che la sera, quando i genitori sono tornati dal lavoro, e stanchi e spesso inaspriti, specie le donne, dalla continua obbligata assenza dalla casa, dalla necessaria mancanza dei doveri di madre di famiglia e di massaia, non sentono altro bisogno, altro desiderio che quello del riposo e del nutrimento non sempre corrispondente alle fatiche sostenute. Quel ritrovo della famiglia non è certo sempre allegro nè allietato dalla pace serena. In simili condizioni di cose come possono rafforzarsi i legami fra genitori e figli, fra sorelle e fratelli ?.. Poi che la società è costituita in modo che in molte classi, i genitori devono disertare la casa per il lavoro, e la donna non ha tempo o pochissimo di occuparsi della famiglia, conviene benedire agli asili, agli ospizii, alle scuole ed ai riareatori laici o religiosi, che nel miglior modo possibile, cercano di supplire a la famiglia raccogliendo i bambini, i fanciulli, gli adolescenti, per proteggerli contro la inerzia, l'abbandono, il malo esempio, per distoglierli dalla via del male che conduce a perdizione, che si oppone al morale progresso, a la economica floridezza della società. Un'altra istituzione che si deve benedire come provvida e pietosa è quella dell'ospizio dei vecchi. Non sono più capaci di lavorare, sono, acciaccosi, e dopo di avere cresciuto i figli, sentono che i figli non possono senza grave sacrificio sostenerli nei loro ultimi giorni di stanchezza, che dovrebbero per molti essere giorni di riposo meritato. L'ospizio li raccoglie, la carità li strappa a la miseria, offre loro tetto, vesti, vitto. La necessità li stacca dalla famiglia; non più vecchi o ben pochi nelle case del povero, non più la saggia voce dell'esperienza, la scuola del rispetto, l'affezione santa fra nonni e nepoti!... Un altro crudele, necessario strappo alle affezioni della famiglia !... Strappo crudele che ferisce il cuore e fa pensare. Ma non sorgerà dunque mai, mai una società abbastanza ricca e devota al dovere, che permetta al vecchio povero di morire dove ha vissuto, fra la gente che ama, seguendo le abitudini incontrate, circondato dall'affetto dei suoi ?.. Perchè la società non è costituita in modo da lasciare il vecchio povero nel posto che Dio gli ha assegnato, là dove l'uomo giovane e forte dovrebbe aiutarlo, la donna averne cura, i fanciulli sorridergli ed ascoltarne riverenti le parole ? E’ così dolce vedere la debolezza sorretta dalla forza, la infermità alleviata dalla salute fiorente, il capo canuto curvo su i riccioli biondi !... E’ invece triste l'ospizio ove sono raccolte tante vecchiaie, ove giacciono sepolti i ricordi, i desiderii, le languide speranze, non di rado il rammarico, qualche volta la sorda, impotente ribellione contro l'ingiustizia. E pure che sia mille volte benedetto l'ospizio che toglie il vecchio povero al freddo, a la fame e pur troppo anche a l'ingratitudine ! Ma che si possa sperare in un tempo in cui la famiglia sia costituita in modo che cessi d'essere necessaria questa pietosissima e grandiosa opera di beneficenza, in un tempo in cui le condizioni sociali sieno tali che l'amore e la gratitudine possano unirsi insieme, per offrire un posto d'affetto e di riconoscenza in seno della famiglia, ai vecchi affievoliti e impotenti al lavoro ! In Danimarca si concedono pensioni ai vecchi poveri. Per ciò fu approvata una legge il 9 aprile 1891: legge che andò in vigore il primo luglio dello stesso anno per tutto il regno, salvo Copenhagen e il suo sobborgo Frederiksberg, in cui andò in vigore nel 1892. Scopo della legge è di accordare pensioni, su fondi pubblici, ai poveri che hanno superati i 60 anni e che possono dimostrare come la miseria non sia per essi cagionata da vizi, o da condotta irregolare o dall' essersi privati di tutto a vantaggio dei figli o di altri. Gli aspiranti a la pensione, espongono lo stato loro e le rendite di cui godono, i debiti se ne hanno, gli aiuti che già hanno ricevuto ecc; e queste loro dichiarazioni devono essere attestate da due persone minacciate da severe pene se dicono il falso. Allora si fa un'inchiesta e si accorda la pensione se ne è il caso. Si può però appellare contro la risoluzione dell'autorità che ha applicato la legge. Nell'anno 1897 furono date in tutto il regno, 52,930 ensioni. Nel 1893, sopra 220 ersone, che avevano varcati i 60 anni, ve n'erano 30 he rice- vevano la pensione e dodici che da loro dipendevano (figli, mogli, ecc.); ma al principio del 1897, il numero dei pensionati era cosi cresciuto, che solamente su 180 persone sopra i 60 anni si trovava la stessa quantità di pensionati. In alcuni luoghi i pensionati sono alloggiati in case, alcune delle quali sono specialmente assegnate a loro soli, e nel 1896 ve n'erano 426 che ricevevano questo trattamento a Copenhagen, e 339 nelle altre parti del regno. Soccorrere con una pensione i vecchi, i quali se hanno famiglia possono vivere con essa senza essere di peso e soffrire avvilimento, cosa che prova il progresso nel sentimento filantropico. Come in tutto, anche qui c'è qualche inconveniente. Per esempio; molti che hanno o stanno per avere i 60 anni, cambiano di residenza per andare in luoghi dove sperano di poter ottenere una pensione più grande di quella che avrebbero liquidato se fossero rimasti nel luogo di origine, e ciò avviene principalmente dalle campagne a la città. Nè mancano questioni e difficoltà che debbono ancora essere risolute, come per esempio: se chi possiede una piccola proprietà possa godere della pensione accordata su i fondi pubblici, o se debba restare a l'autorità il diritto di rivalsa su la proprietà lasciata da un pensionato dopo la morte di costui. Li ogni modo questa legge ha un'azione benefica anche in riguardo ai suoi effetti morali. Il primo di tali effetti è quello di accordare al vecchio la possibilità di passare i suoi ultimi anni con le persone della famiglia; di evitare uno strappo crudele di abitudini e di affetti. Un altro quello di influire su la condotta. Il pensiero, il desiderio, la speranza della pensione, non possono a meno di essere di sprone al ben condursi, al meritare la stima pubblica, e insieme con la stima una sincera testimonianza di regolarità per il momento opportuno. Nel secolo XIX la famiglia del povero fu soccorsa e istruita; ma i vincoli fra i membri che la compongono non vennero rafforzati. E pure non mancò il desiderio di educare negli animi il sentimento della famiglia. Molti sono gli esempi che lo dimostrano, e fra questi il seguente, che si riferisce agli orfanelli. L'istituzione degli orfanotrofi é antichissima. La sorte dei poveri fanciulli privi dei genitori, ha sempre impietosito, ha sempre destato un sentimento generoso. Ma gli antichi orfanotrofi non miravano ad altro che a dare agli sventurati fanciulli senza difesa, un asilo ed una protezione, contro i pericoli d'ogni genere che li minacciavano, senza curarne l'educazione, se si toglie la religione, grossolanamente impartita. Al genio della moderna carità era riserbato di risguardare sotto un aspetto più largo e più filantropico questo genere di benefici stabilimenti. Gli orfanotrofi si propagarono rapidamente in Italia più che negli altri paesi. L'ospizio degli orfanelli fondato in Roma nel secolo XVI, destinava e preparava ad utili professioni i ragazzi ricettati, e il cardinale Salviati vi unì un collegio per i fanciulli che a dodici anni, mostrassero di avere attitudine a l'istruzione letteraria. Papa Innocenzo XII fondò poi un secondo orfanotrofio annesso al grande ospizio apostolico, di S. Michele, nel quale si insegnano le arti meccaniche e le liberali. I due grandi stabilimenti per gli orfanelli di Milano, i Martinetti e le Stelline rivaleggiano con quelli di Roma, Tutte le città ormai hanno il loro orfanotrofio. E i ricoverati ormai non sono tutti obbligati a star reclusi il giorno intero nello stabilimento. Si trovò che nell'officina dell'ospizio, il fanciullo compie per lo più senza passione il suo dovere. Non vi è nulla che ecciti il suo ardore; nulla che lo divaghi e con la divagazione gli rafforzi la volontà. Si è quindi pensato di disseminarli nelle botteghe e nei negozi privati. Così gli orfani possono scegliere il mestiere o l'arte verso cui si sentono inclinati ; la speranza del lucro e l'emulazione servono loro di stimolo; imparano non solo l'arte o il mestiere, ma anche il modo di vivere in società; quindi a fare frequenti e utili osservazioni sul proprio carattere; e sopra tutto a farsi un'idea della famiglia, ne respirano l'aura vitale e educano nel loro cuore quei sentimenti d' affetto che non possono essere svegliati e sviluppati in un ospizio.