Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbandonate

Numero di risultati: 77 in 2 pagine

  • Pagina 1 di 2

Della scultura e della pittura in Italia dall'epoca di Canova ai tempi nostri

251391
Poggi, Emilio 1 occorrenze
  • 1865
  • Tipografia toscana
  • Firenze
  • critica d'arte
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La sacra lira e l'onorata fronda che giacciono abbandonate a lei dappresso, ti dicono abbastanza che tutto per essa è finito.

Pagina 26

La pittura moderna in Italia ed in Francia

252767
Villari, Pasquale 1 occorrenze
  • 1869
  • Stabilimento di Gius. Pellas
  • Firenze
  • critica d'arte
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Discepolo di David, egli vide il nuovo slancio che pigliava la pittura; la vide abbandonare il suo maestro, per gli audaci ardimenti del Géricault e del Delacroix; comprese i tempi mutati, e i nuovi pericoli cui essa andava incontro, lasciata in balia di se stessa, e abbandonate le antiche tradizioni. Si decise quindi a regolare la nuova corrente, non contrastandola; ma dandole una guida, un indirizzo; ponendo un argine al fiume che ingrossava minaccioso. Dotato di quella energia di volontà, con cui si compiono le grandi imprese, andò a Roma e si pose allo studio di Raffaello, di Michelangiolo, di quella scuola italiana che aveva dato all’arte classica una forma nuova; uno spirito moderno. Tutta la sua vita fu’dedicata a questo scopo, ed egli, contrastato da molti, compreso da pochi in sul principio, arrivò finalmente ad una reputazione che, dopo lui, nessuno raggiunse in Francia. Le sue opere dimostrano un ingegno eminente, uno studio profondo, una grande padronanza nel modellare, una singolare energia di disegno, una espressione sicura. In lui manca però quella impronta di spontanea originalità, che costituisce la grandezza del Delacroix. Il suo colore è freddo, e le sue opere accusano troppo il lungo studio e il grande amore. V’è in esse una tendenza costante al grande, al severo, al nobile nell’arte; ma vi sono uniti elementi diversi come a contrasto. Il cinquecento, la statua greca, lo studio del vero che egli proseguì sempre, e lo spirito del suo tempo che egli non poteva non sentir vivamente, son come stretti fra loro da una forte volontà, piuttosto che uniti e composti in una nuova forma. Voi sentite la forza dell’alto intelletto, ammirate la severa sapienza dell’artista; ma egli non sempre vi commuove, e potete più studiarlo ed imitarlo, che esserne dominato. I suoi ritratti sono qualche volta impareggiabili, alcuni suoi quadri, come la Stratonica e la Source, hanno un sentimento tutto moderno, con una nobiltà antica di forme, e sono dei più belli e popolari. Guardandoli dovete accorgervi che la pittura moderna trionferà ancora su questa nuova arte classica; ma riceverà da essa un benefizio grandissimo. Ed invero, l’Ingres fu uno dei più grandi fondatori della scuola moderna in Francia. In mezzo a quel tumultuoso risorgimento, pieno di vita e di giovinezza, ma pur pieno di pericoli; egli venne, collo studio dell’antico, a dare alla pittura francese, direi quasi, una solida ossatura, imo scheletro fermo e determinato. Da lui e dal Delacroix, ebbero origine due tendenze diverse che dettero dei coloristi come il Decamps, dei rinnovatori dell’arte italiana e della pittura religiosa come il Flandrin e molti altri. Dai primi e dai secondi risultò poi la storica, che finalmente ci dette con Delaroche una terza forma dell’arte francese.

Pagina 11

La storia dell'arte

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Pinelli, Antonio 1 occorrenze

Leggi che, come abbiamo già precisato, dopo la prima fase dell’«invenzione della prospettiva», furono di fatto abbandonate negli altri generi artistici, o meglio, furono allentate con opportuni «aggiustamenti» di carattere empirico.

Pagina 192

La tecnica della pittura

253740
Previati, Gaetano 1 occorrenze
  • 1905
  • Fratelli Bocca
  • Torino
  • trattato di pittura
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Perchè ciò avvenga, sempre secondo il celebre chimico che tanto si occupò dei colori, occorrono però alcune condizioni, vale a dire che l’intonaco si asciughi lentamente, perchè essendo troppo rapido l’asciugarsi, il carbonato di calce formatosi irregolarmente lascierebbe abbandonate molte parti di silice togliendo consistenza così al cemento; mentre conservandosi molto tempo umido il cemento esposto all’aria, l’acido carbonico dell’atmosfera agisce continuamente sulla calce ed il carbonato si deposita in forma cristallina gradatamente sulla silice con grandissima solidità dell’intonaco.

Pagina 67

Saggi di critica d'arte

261889
Cantalamessa, Giulio 1 occorrenze
  • 1890
  • Zanichelli
  • Bologna
  • critica d'arte
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Caterina di Saragozza, od erano abbandonate dai suoi discepoli, abbarbagliati dagli splendori dell’arte romana.

Pagina 52

Scritti giovanili 1912-1922

263553
Longhi, Roberto 2 occorrenze

Meglio ancora Guido, sebbene, per aver già abbandonate le belle trovate alla veneta del Sant'Andrea Corsini, uno dei suoi pochi capolavori, non sapesse produrre altro che questo suo vitreo cereo Imbarco di Elena (Louvre), statuino e pellucido, con piccole dotte pretese di costumi, e di antiquaria in genere.

Pagina 245

Nelle due tele abbandonate in S. Domenico di Napoli - il Battista rimprovera Erode, il Battista decollato [figura 14] - richiamandosi alla desolata poesia del Caracciolo, elimina la varietà dei toni al sommo, gl’incenerisce ed impietra in livide assemblee di bronzi dissepolti, di grigi spenti, di verdi subacquei, di asfalti e di torbiere, urlati da un crudelissimo rosso intatto nel centro. Plasticità brunita, pose rattenute e sospese, attonito contatto di membra e di panni, composizione ridotta al minimo delle mezze figure, proiettata allo spettatore nello spazio di una feritoia o d'un abbaino.

Pagina 34

UGO. SCENE DEL SECOLO X - PARTE PRIMA

656354
Bazzero, Ambrogio 2 occorrenze

- Si volse su un fianco e vide gli uomini che, abbandonate le petriere e le manganelle, accorrevano animosissimi, giungevano alla torre, vi s'arrampicavano come gatti, tentavano di unghiarsi alla muraglia: ma la muraglia restava troppo alta e non dava appicco; piovevano gli olii e la pece, guizzavano d'alto in basso le punte: e chi degli assalitori rifaceva il cammino: chi era incalzato: chi incontrato: e chi piombava nella fossa: e chi, avvinghiato al legname, si spenzolava!... Intanto sopraggiunsero i fanti e i cavalli che erano indietro. - Avanzate le manganelle! Se il ponte c'è, per Dio! fate la breccia! - tuonava Ugo, tentando di rizzarsi dal terreno sul quale lo inchiodavano le doglie. Cominciarono poco più di dodici uomini, incontro alle frecce nemiche, a trascinare le macchine e a caricarle di sassi, e a porle da assestare i colpi. Presero a farle giuocare: un proietto percuoteva nelle mura, l'altro nella torre, sconquassandola e facendola sempre più piegare, e i nemici ridacchiavano e ululavano i troppo presti assalitori così sfracellati dagli amici. Ugo, non sapendosi persuadere che fosse desto, così com'era senza l'elmo, si tormentò fortemente la faccia, poi si rotolò davanti a una pozza d'acqua, e in essa tuffò il capo per averne refrigerio. Accorrevano in quella Oberto ed Ildebrandino, e venivano dall'altro lato del castello, investito dalle petriere e dai trabuchi, a portare la trista notizia che troppo deboli erano le macchine, nulla si era potuto fare, dalla porta deretana avevano dato il passo ad una banda di nemici, combattendoli sì, ma non sperdendoli. Tutti credevano che questa masnada fosse venuta alle spalle di Ugo per distruggere le torri di legno. Oberto incominciò a meravigliare: - Come? Qui non ci sono i nemici? - e vedendo, alla lontana, Ugo disteso bocconi: - Messere, - disse allo zio: - è morto! - Chi? - Ugo. Si storce nell'agonìa. Guardate! Ildebrandino per dolore volse via la faccia esclamando: - Oh la libertà delle nostre castella! - e vivamente: - Ma i nemici non sono venuti per di qua? - Tutto non è perduto, messere. Fate lavorare le scuri al ponte! - Ugo è morto! - Fate in vostro nome! E tutti e due galopparono oltre, per un pezzo, verso le macchie: ad un tratto ecco sul cammino loro incontro il trombetto di Ugo. - Che avete? - domandò Ildebrandino. - Lasciatemi, chè ho grandissima furia! - Che avete? - Devo parlare a lui! - Ugo è morto! Mi riconoscete? - Morto? - Morto di punta - confermò energicamente Oberto. - Santa Madre di Dio! - proruppe il trombetto: - Torno dall'inseguire un traditore accorso di lontano, che poco stette mi mettesse lo scompiglio nei saluzzesi! «Messere! dov'è Ildebrandino?» gridava egli per farci abbandonare l'assalto: «L'ho difeso quanto ho potuto! ho difeso madonna! ma il castello d'Ildebrandino è in mano dei nemici!» Oberto e lo zio furono lì lì per rovesciarlo d'arcioni. E quegli seguitava: - Ma dite! Il capitano è morto? - Pensiamo ai vivi - rispose irosamente Oberto. Lamentò Ildebrandino: - Che si è fatto da Aginaldo? Da Gisalberto? Baldo ancora aspetta coi cavalli! Che aspetta? In quella quattro uomini, gittando l'armi, venivano per la montagna, abbandonate le macchine e lasciati vilmente i compagni. Come videro i cavalieri e il trombetto Aimone, certo si sentirono a mal punto, il perchè due ad alta voce dissero a giustificazione: - Aginaldo e Gisalberto sono morti! Aldigero, Ugonello, Oddone, sono fuggiti alla valle! - e con artifìcio: - Voi che avete tromba, dove siete stato? Il capitano ci mandò in cerca di voi. Presto, suonate! ad avvisare i saluzzesi! - e si dispersero nel bosco. - Dio volesse che fosse come voi dite! - lamentò Aimone. - Pensiamo ai vivi - replicò Oberto con ambizione: - Due dì fa l'impresa fu cominciata da tale che aveva sproni d'argento! - E con quel tale io la compirò! - comandò lo zio: - Vi faccio cavaliere d'arme! Voi sarete tanto valente che sbatterete la testa di Adalberto sul ponte di Rupemala a orrendo giuoco dei mastini! - e così proclamando in atto di solenne promessa volse il capo nella direzione del suo castello. Una nube nerissima, a vortici rigurgitanti, dal sotto in su insanguinata da riflessi guizzanti, si levò dal basso del monte, roteando nella valle. - Oberto! - gridò Ildebrandino, afferrando il nipote per un braccio sì fortemente che quasi lo fece staffeggiare: - E non diemmo le mazze sul capo al malaugurato! Guarda! La masnada era corsa la! Oberto guardò e non riuscì che a dire: - E potemmo lasciare sola Imilda! Il trombetto si toccò la spada, dicendo, come ad ammansarli col pensiero di vendetta: - E affermava dunque il vero quel traditore! Ma gli ho pagato l'ambascerìa quanto valeva: tre stoccate sulla testa tanto vecchia e tanto pelata! E ancora parlava! «Ho difeso!» E voleva dirmi il suo nonme, e lo disse, ed io lo bandirò per vitupero dei traditori: Federigo saluzzese. - Il mio fedelissimo servo! - urlò lldebrandino: e Oberto spronava al suo castello. - Tu l'hai ucciso! Vitupero a te, figlio di bifolchi! Non conosci i forti e i fedeli?... Oberto! Oberto! attendimi al tuo fianco!... Tu l'hai uccìso? E tu mi tradisci?... Oberto! Oberto! Noi due soli? E i nemici quanti saranno? Ah! quelli cui diemmo il passo! E Federigo perchè lasciò Imilda? Forse che tutto era già perduto? Ma quelli che appiccarono il fuoco, non sono nemici di tutti! Dunque su tutti!... Suona la ritirata, o araldo, suona poi a raccolta e muoviamo al castello!... Oberto! Oberto! attendici! Saremo più di cento lance!... Suonate la ritirata, suonate, messer l'araldo! Suonate, per pietà! - Così finiva a supplicare il cavaliere, quasi impazzato, e pregava, alzando la mazza, e minacciava a mani giunte, e strappava le redini al cavallo per raggiungere Oberto e le strappava per accostarsi al trombetto. Aimone avrebbe le mille volte voluto una freccia a forargli le orecchie, piuttosto che quelle parole a straziargli l'anima, e chiamava il capitano che lo conducesse al furore di una zuffa, così: - Messer Ugo! Ditemi che non è morto! Perchè mi partii dal suo fianco? No, fu lui che mi mandò ad Eleardo! Messer Ugo!... - Suonate, la ritirata! E l'araldo dolorosissimo: - Oldrado non mi diede mai questo comando! - Dopo fate a raccolta!... Oberto! Oberto! - E se messer Ugo tornasse? - Anche là al mio castello sono i nemici di tutti! Il trombetto si disse con risoluzione guerresca: - La voce del capitano è la tromba: udite la voce - e squillò, verso il monte. - Che segno è questo? - domandò trepidante il cavaliere. - Quello che avvisa i saluzzesi di accorrere al portone! - disse superbamente l'araldo, e suonò verso la valle, e vide che dopo lo squillo si muoveva un drappelletto di cavalieri... Che? Un'insegna? Un'insegna quadra di comando. Fosse...? - Era l'insegna dì Ugo. Aimone staccò la tromba dalle labbra e guardò. Per una via Ugo veniva. E per un'altra Ildebrandino cacciavasi a rovinosa corsa dietro ad Oberto.... . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Alla mattina di quel giorno, nel castello d'Ildebrandino, partiti i cavalieri, lasciandovi poca scorta, madonna Imilda era scesa nella cappella. Oh sì eh'ella aveva grandissimo bisogno di conforto! - O Signore, o Vergine santissima! Fate che il padre mio mi torni salvo dall'armi! Almeno il padre! Oh come vi prego! Tu che sei interceditrice potente, e tu che tutto ascolti!... Se ci fosse anche la madre mia a pregarvi! Come la vorrei accanto a me! - E Imilda piangeva dirottamente: - Ella m'avrebbe salvata da questo tumulto! Vedi, anch'io vorrei esser tra l'armi, per udire quel grido: - vittoria!... Vergine dolcissima, tu sorridi a me che piango? E tu che sei Dio hai voluto per immenso gaudio avere in eterno la madre! A me l'hai tolta! Salvatemi il padre, che mi protegga!... Che sarebbe d'Imilda deserta nel castello degli avi?... Deserta?... O Signore, per un'altra persona io ti prego, per Oberto... Oh ma sarei deserta senza padre, sola nei lunghissimi giorni dell'abbandono! Oberto, povero Oberto, da tre notti non ho più cucito la tua fascia... Qual tormento, quale dolcezza novissima in me! Tu non sai! E se sapessi!... Ma che ho fatto? Che ha detto? Perché basta uno sguardo, una compassione, una lagrima?... Una vita infelice! - E Imilda fremeva tutta: e taceva, non osando nemmeno a sè stessa confessare il grido dell'anima combattuta: poi - A Oberto m'aveva promessa il padre: ed ero contenta, e sarei stata tranquilla... O Madonna, che voglio dirti? Che vuoi ascoltare? Non so... voglio... vorrei... devo, oh sì devo! come cristiana, pregarti per un altro cavaliero: devo, come nata da liberi castellani, pregarti per il capo dell'impresa! Egli ci rende tutto! Ed è valente, e cortesissimo.... Perchè sorridi, Vergine santissima? Non so, ma mi sorridi, come mai non facesti. Ah perchè anche tu lo scorgi benigna? E fai bene perchè mi fu detto ch'egli è infelice. Io sento che è infelicissimo! Non conobbe la mamma sua. Tu che sei la mamma di lassù fagli conoscere almanco... una sorella del suo dolore! E fammi grazia: disponi sì che ci sia un'altra giovinetta, bella e religiosa più di me, la quale preghi per Oberto. Così tu potrai esaudirla... Io sono... Io non so!.... Mi trovo irrequieta.... Ah tu sai ed esaudisci! Mi trovo tormentata! Amo messer Ugo! «Chi siete?» «Sono il figlio di Guidinga»... Ugo! Imilda era nella cappella da un pezzo e così pregava, quando nella corte ecco un grido spaventato, e un altro! Imilda si fa in piedi tremante, corre sotto un finestrone aperto. - I nemici! - ascolta la voce del vecchio Federigo: - Salvate madonna! - ed ecco ancora: - Fuoco! fuoco! La vergine, come a luogo di rifugio, si butta ai piedi dello altare, scongiurando con fiero rimorso: - O Signore, salvate mio padre! Come vi ho pregato? È il mio castigo dunque così pronto? - ed ode ancora un rumore di pugna, e uno sbattersi fragoroso di porte, e un correre affrettato su nelle stanze, e voci diverse, e tra tutte una irosissima che comandava: - Balestrate fuoco nelle finestre! - e un'altra: - Se tutto arde che ci rimane di bottino? - Combattete! - gridava Federigo agli uomini del castello: - Giuratemi! Alla fantasìa della fanciulla si presentò tutto il castello invaso da una turba di lupi e da un torrente di fuoco: e qua sotto alle scuri si sfasciavano gli usci: e qua si massacravano i servi: qua si sforzavano gli scrigni: dappertutto si portava ruina: e le fiamme divampavano più e più, alimentate dai cadaveri friggenti: e il fumo soffogava assalitori e assaliti. Chi precipitava dalle finestre: e chi dalle finestre entrava: chi si trascinava a morire sulla soglia, per avere fiato: chi impedito nella fuga o nella corsa di conquisto da qualche ferito pregante, gli faceva somma grazia o di una stoccata o di una maledizione... Venivano, venivano i furibondi! La camera del padre era deserta: lo scalone, il corritoio, lo stanzone dell'arme... - O Signore! la fanciulla se li imaginò al lume delle torce incendiarie nell'andito lunghissimo che conduceva alla cappella! Venivano, venivano!... Almanco le fossero già alle spalle, l'avessero già afferrata: ella si sarebbe trascinata all'altare, chiamando la Madonna! Ma oh come invece erano lenti e terribili! E che portava quel mostro? Dio! la non vedesse! Portava una testa sanguinosa!... O padre! O Ugo!... La povera vergine, esterrefatta dall'atrocissima visione, si rinversò con abbandono ai piedi dell'altare. - Non sia vero! - Fu scossa. Di nuovo la voce: - Balestrate fuoco nelle finestre! - E un'altra: - Sulle vetriere c'è su dipinta la croce: lì è la cappella. - Ancora la prima: - Sconficcate le inferriate! Imilda non ascoltò più, ed aggrappandosi ai gradini, discinse le chiome, le scompose, con quelle si velò il volto per pudicizia, poi ancora, ma più rassegnata, scongiurò: - E se vuoi mandarmi la morte! fa che non sia vergognosa! In quella al di là della porta del sacro luogo s'udirono due pedate affrettatissime e caute, e queste voci, diverse da quelle prime: - Capitano, qui c'è la cappella. Gli ori e gli argenti sono nostri. Non fate chiasso. Io provvederò - e fu chiusa la porta per di fuori e tolta la chiave. - Voi, Ingo, guarderete le finestre, e l'impresa avrà fruttato qualcosa, vi pare? - Dopo più nulla. Poi nella corte: - Oibò! guardate dal porre mano sulle cose sacre! C'è su scomunica di pontefici sommi. Via, dalle inferriate, marmaglia! Ma più poderosa gridava la voce: - Balestrate fuoco nelle finestre! dappertutto! Madonna Imilda per somma grazia della Vergine santa aveva perduto i sensi. Quando dopo un pezzo risentì l'angoscia della vita, si trovò avvinghiata fra le braccia di un cavaliero. Era suo padre? Era Oberto? Era un nemico?... Il primo pensiero che le si affacciò fu questo tremendo: - Quanto castigo! Almeno Ugo sia morto nella pugna! Ugo tristissimo! La vergine spossata levò la faccia... Oh sì l'angoscia della vita! - Sei tu! Era Ugo il cavaliero. La cappella ardeva tutta: la porta infiammata vedevasi parte cadente, parte squarciata, parte a terra. Al di là ecco la voce d'Ildebrandino: - È qui! È salva! Oberto la tua sposa è salva! - Con queste parole il vecchio credeva aggiungere maggiore gloria al fatto di Ugo: ed adempiva ad una promessa tra la sua donna morta e il morto padre di Oberto. Ugo lanciò uno sguardo alla porta, e parvegli vedere il volto di Oberto, lo vide, e parvegli che le fiamme gli fischiassero il pensiero di quello: - Imilda nelle braccia di Ugo! - Sì! - esultò, come Lucifero, il cavaliero tormentato e tormentatore, in un minuto solo di trionfale passione e di vendetta! La salvata gli avvelenava la faccia coll'alito scottante, e la persona coll'abbandono delle membra, insidioso e annuente. Oberto mosse un passo, ma arretrò soffogato. A quel solo movimento di lui, Ugo addoppiò la stretta al corpo d'Imilda, e fu ventura ch'egli non inciampasse, ubbriacato dalla malìa di quel peso: poi la spinse verso le fiamme, con atroce disegno.... - Di qui passerete un giorno sposa! - lamentò Ugo. - Può essere la porta che conduca al paradiso o all'inferno! - susurrò Imilda. Oberto mosse un secondo passo. - Pietà! - stridette Imilda. - Non sai morire? - tempestò Ugo nell'anima, scagliò a terra l'azza, e rise. E veramente per la prima volta sghignazzò. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Come Ugo era accorso nella cappella? Rifacciamo un po' di cammino, tornando al luogo della battaglia. Lasciammo Ugo, sbalestrato a terra, vicino alla pozza d'acqua, stordito ed ammaccato. Quand'egli ebbe levata la persona e guardato intorno nel bosco folto ed altissimo, vide fanti e cavalli fuggenti per ogni direzione. Non scorse però nè Ildebrandino nè Oberto che volavano a Rupemala per un cammino assai basso e nascosto. Il dolore dell'anima in Ugo la vinse sui dolori del corpo, perch'egli disperatissimo si diede per riannodare tutta quella gente scompigliata, ma invano. Gridavano in cento: - Oh quanti morti! Sarà gran ventura se domani avremo le gole salve dal capestro. Fummo traditi! Messer Baldo e Ildebrandino già lo dissero. Fummo traditi! - E chi il traditore? - Traditrice la poca esperienza degli anni in voi. - Morire domani? Oh non è meglio cercare oggi un ultimo sforzo di vittoria e gloriosa vittoria? Ma i dispersi erano troppo spaurati dalla gravità del fatto commesso e dai casi della mattina... Ugo gridava... A un tratto ode uno squillo di tromba. - Il segnale ai saluzzesi! Suono come questo non può uscire che dalla tromba di Aimone! Demonio! che suoni di là, dall'altra vita? Non è più tornato! E chi mi disse ch'è morto? - sclama Ugo, e sorge sul suo cavallo e rizza l'insegna, e, mostrando la faccia audacissima e disarmata, chiama intorno a se tre o quattro lance accorrenti, Aroldo, Bonifacio, Eustachio, trova Aimone, muove alle macchie, scavalca, solleva i saluzzesi, e solo si precipita al castello.... Che? Nessuno vorrebbe credere, ma è così! il ponte levatoio calato. Ugo, strappata la scure a un tardo soldato e datagliela sul capo, si mette a lavorare contro il portone, con braccia poderosissime, tanto più quanto più dolorose. Accorrono a lui fanti. L'insidia tremenda! ad un tratto si scuotono i catenoni e il ponte si solleva. Ugo, perduto l'equilibrio, piomba all'indietro e per somma sua ventura, siccome non vi era sbarra, rotola nel fossato. I fanti volsero le spalle per fuggire, ma il legno inclinantesi all'insù li fece sdrucciolare giù al portone, ove tutti in un fascio si maledirono orrendamente schiacciati. Ugo si abbranca ad uno dei ritti che sostengono il ponte quando sia calato, e quivi, chiamando e richiamando, giunge a farsi porgere una lancia da Bonifacio. Appena in salvo alla riva, non trovando più il suo cavallo, stramazza d'arcione Aroldo, monta sull'animale di quello, comandando: - Sorprendiamo cogli arcieri dalla parte della valle! Aimone! Aimone! Dov'è Aimone? Cercate di lui e dite che suoni a richiamare tutti i duci vicino a me! Bonifacio osserva: - È troppo tardi! Qui tutto è perduto! - E che? In tutti un impeto solo! - Baldo e Ildebrandino vi diranno.... - Per Dio! obbediranno! Io solo sono il capo dell'impresa! Altissimamente lo grido alle castella, io, io! Aroldo, Bonifacio, Eustachio, non credevo di parlare con gente pari vostra! - Galoppa verso il terreno raso, ed alza la faccia... Vede un fumo sollevarsi di lontano. - Il forte d'Ildebrandino! Chi disse di lasciare sguernite le castella? O Gesù! - e con spronate furiose Ugo lancia il cavallo... In quale direzione? Pareva che cento demoni strappassero il freno all'animale, perchè era tormentato innanzi, indietro, a destra, a sinistra, come una cosa pazza. - Qui tutto è perduto! - ripeteva il cavaliero straziatissimo le parole di Bonifacio. - Ed io voglio vittoria! - Fugge il messere! Il capo dell'impresa! - fischiano dietro ad Ugo Bonifazio ed Eustachio: e poco dopo Baldo accorre dalla valle. Ugo lancia il cavallo così da averne mozzo il respiro, lancia e smania! Eccolo al ponte di Ildebrandino: entra nel castello, balza d'arcioni gridando: - Io voglio combattere i nemici! Qui si raggrupperà una fortissima pugna! Suonate tutte le trombe! Tutti i duci vicino a me! Gli si presenta a terra un ferito, il quale, giungendo le mani: - Per amore della croce, abbiatemi misericordia! - Dov'è madonna? - supplica Ugo: - Ah!... misericordia a me! - Non uccidetemi! - Dico di madonna! Madonna! I nemici! - Misericordia, gran barone! Il traditore è quello che era all'uscio della cappella! Ho risparmiato anche il veleno per voi, gran barone! Ugo si caccia per le scale e nelle camere, trova nemici predatori e li combatte. Scompigliati, gli scarsi che avevano tentato la sorpresa, facile dacchè il castello era poco difeso, sono stretti a sgombrare, gridando: - È qui Ugo con cento cavalli! - Ugo, giù ancora per lo scalone, entra nei corridoi incendiati. Oh ecco! vede Ildebrandino ed Oberto. Incalza Ugo: - Ov'è madonna? Quegli meraviglia spaventato: - I morti tornano! - E questi: - Ugo è risuscitato per mia dannazione! - E tutti e due, facendosi segni di croce, si danno a fuggire, guardandosi alle spalle. Ugo dolorosamente li chiama e li richiama per tutti i santi: poi si mette dietro ad essi, corre, corre... È nella corte ed inciampa. Lo stesso ferito geme: - Abbiate pietà! - Il cavaliero guarda, e vede che quegli ha sul petto lo stemma di Adalberto, e sulla testa sanguinosa la tonsura di chierico. E quello: - Fate da cavaliero cristiano! Sono sul sagrato! - Era Ingo difatti sotto una finestra della cappella. Ugo, con subito pensiero religioso, esclama: - Voto una lampada d'oro alla Vergine di Saluzzo! - e facendo sgabello col corpo del ferito, s'aggrappa all'inferriata di una finestra aperta, si strascina su col petto, e ripete: - In luogo sacro voto due lampade d'oro! - D'improvviso una vampa guizza dal sotto in su ad infuocargli i capegli, e un globo di fumo gli soffoca il respiro... Riapre gli occhi: storce la bocca a ricevere aria dalla corte, fa per balzare... No, prima nell'ardentissimo strazio dell'anima raddoppia il voto alla Vergine del cielo: - Quattro lampade d'oro, per quel che ho falto! per quello che voglio fare! - e fìcca gli occhi dolorosi nella cappella, cercando l'altare a cui drizzare la destra.... Imilda è là dentro arrovesciata ed immota!... Ugo balza a terra, strappa di sotto al corpo del ferito un'azza, precipita dove gli pare debba essere l'ingresso della cappella. L'uscio è in fìamme! Lo squassa terribilmente. È chiuso! Tempesta colla scure. A quell'indiavolare accorrono Ildebrandino ed Oberto. Essi avevano combattuto gli invasori, ma non avevano trovato Imilda per tutto il castello, né alcuna cosa saputa di lei. I servi e le ancelle crano stati uccisi: il povero Federigo più non tornava dal campo di certo. Accorrono dunque Ildebrandino e Oberto, sclamando: - È proprio lui! Gii spiriti hannobraccia di nebbia. Questo no, per Dio! . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Alla sera di quel medesimo giorno, narrano le cronache: Adalberto, andando nella sua camera e buttandosi armato sul letto, trovò al capezzale la fascia che Oldrado aveva riportato nel gioco d'arme, vent'anni prima, e su quella c'era scritto il numero dei morti e dei feriti nemici. Narrano anche che quello sparviero presentato all'omaggio, sorgesse dalle ortiche fra cui fu gettato, e apparisse cogli artigli di ferro e col becco di ferro, vecchio, lontano, lontanissimo, su un monte, ma ancora pronto a spiccare il volo. Queste ciance furono scritte dall'eremita di Malandaggio, un veggente che la sapeva assai lunga!

Morti Aginaldo e Gisalberto: abbandonate le macchine sul campo: lasciativi i cadaveri insepolti e i feriti inutilmente imploranti pietà per lo strazio del Calvario: molti uffìziali fuggiti, e moltissimi soldati corrotti dall'oro e dalle promesse: incendiato il castello d'Ildebrandino: le cose rotolarono giù con maledetta rapidità di male. Ugo fu ad una voce accusato. Aveva mostrato certo ardimento in principio: ma quale esperienza in lui? I tempi per ricorrere all'armi non erano proprio quelli: bisognava aspettare, e Aginaldo già da cinque anni aveva fìsso un pensiero d'impresa che doveva essere sicura, Aginaldo sì, sperimentato, risoluto, tenacissimo! Ma il vecchio aveva saputo aspettare, e ancora avrebbe aspettato, se la storia di quello sparviero stecchito sul cuscino nero non fosse venuta a metter le febbre in tutti i polsi. E poi Ugo era fuggito dal campo, lui proprio che aveva detto a Bonifacio: - Io solo sono il capo dell'impresa! Altissimamente lo grido alle castella, io, io! - Ildebrandino e Oberto bastavano soli a liberare Rupemala. Ugo che aveva fatto? Quante cose sconciate! Quante armi e quanti uomini perduti! Come aizzato Adalberto! Per Ugo anche l'impresa da farsi fra dieci anni da quella, l'impresa che doveva proprio riuscire, era guasta ed anche resa impossibile. - Ma perchè l'avevano ammirato, ed ubbidito e acclamato capo? Ugo dunque fu accusato: il castello di Aginaldo due notti dopo sorpreso dagli armati di Adalberto, i quali violarono la fierissima vedova rimasta e poi la serrarono in un monistero a fare penitenza: assediato il forte di Gisalberto che lasciava due figliuoletti ed unica guida un maestro d'armi: Baldo ringhiò che sapeva e doveva resistere da sè, che i suoi capegli bianchì non aveva mai creduto gli avessero a dare la vergogna somma, e Baldo alzò il ponte levatoio giurando di voler uccidere Adalberto e il traditore dell'impresa. Adalberto, illustrissimo ed eccelso signore dalle torri del suo castello, con trombe militari, ai gentiluomini dell'inclita signoria pubblicò un bando con cui poneva prezzo d'oro sulla testa di Ugo, promettendo perdono a quello o a quelli dei soggetti che gliela recassero su un bacile vilissimo, nella chiesetta d'Auriate, senza scorta d'armi, con tonache dì penitenza e corda al collo. Ciò a commemorare l'omaggio reso tanto bene nel giorno di Pasqua di Resurrezione. Ed Ugo? Ugo, chiuso nel suo castello, ad occhi aperti sognava sempre di lanciarsi in una cappella ardente, come una fornace, sognava tutti i supplizi del corpo e dell'anima. Una donna strideva, brancolando, tra il fumo e le vampe: la cappella era lunga lunga, e più egli avanzava, più cresceva il lamento.... Giungeva a lei, l'afferrava, l'alzava: ella chinava il capo sulla spalla, abbandonatissima: egli si sentiva legato alle gambe, inciampava, rompeva potenti lacci: ella supplicava: - Strappami da questo fuoco eterno! - E. da quel fuoco neppure egli poteva uscire. Crescevano gli strazi: - Strappami! - ella lo supplicava: - Pietà! pietà del mio tormento del cuore! - Ah! è così ch'ella domandava pietà? Si! Ugo, che voleva abbandonarla alle fiamme, nulla più vedeva, nulla sentiva, sentiva solo un bacio rovente... un bacio di Imilda! - T'amo, t'amo, Imilda! In qual momento te lo dico! M'hai ascoltata? Sei viva? Chi ti strappò a me? Io ti allentai le mie braccia? Non so quello che accadde! Ma tu non sei morta? Supplico Dio, no, no! Quale incertezza! - Ed Ugo, così torturato, sentiva corrersi per tutte le fibre una potenza di nuova vita: e sorrideva! Allora ecco alla fantasia il padre, in un tratto, che rampognava orrendamente: - Perchè ti diedi speroni d'oro? Perche tu fossi vinto? Già troppo affanno fu nella famiglia di Oldrado per il serpente della donna! Guardati, Ugo, guardati! - Ed Ugo piangeva: - Padre, se ella è viva ancora, come si tormenta! Io non posso odiarla! Allora Ugo vedeva l'acqua stagnante di un fossato, tutta sozza di sangue, putrefatta e fangosa: alla superfìcie venivano a scoppiare con flaccido gorgoglio e con lentissimi cerchi alcune bolle d'aria: sotto qualcosa si moveva all'insù: ecco una testa coi capegli impegolati sul volto da una melma verdiccia. Che? si chinava salutando. Sulla nuca era aperta e scheggiata: si drizzava e boccheggiava, come quella di un ferito e di un annegato. Era messer Gisalberto! Quel morto affondava: qualcosa ancora si dondolava all'insù. Messer Aginaldo quest'altro! E i due cavalieri a vece di pupille avevano un globo bavoso che colava, il naso pesto, alle labbra cascanti penzolate le irrequiete code dei vermi. E i due borbogliavano: - Traditore tu? - .... Ecco Manfredo e Bello, i figliuoletti di Gisalberto, affamati disperatamente nel pattume di un sotterraneo e disperatamente imprecanti: - Traditore! - E madonna Marzia, la vedova, sbattuta a terra da due sozzi ferocissimi, chiamava la Vergine, e si rannicchiava ululando: - Per te traditore! - E il vecchio Baldo si armava e ringhiava: - Muoverò al tuo castello! - Poi Ildebrandino e Oberto: Oberto era il dimonio della gelosìa; lividissimo, furente, toglieva una ciotola ai cani, in quella sputava, e in quella poneva la testa di Ugo. Il conte d'Auriate ridacchiava.... - Madonna di Saluzzo, voto dieci lampade d'oro! - gridava Ugo. Allora di nuovo ecco una cappella ardente, ecco una donna.... - S'io non l'avessi veduta - gridava Ugo: - non l'avrei conosciuta, non sarei fuggito per lei! E chi è lei? S'io non l'avessi conosciuta? Cavaliero che combatte senza pensiero di dama è vulgare mercenario! Se io non l'avessi amata? Ma se era destino, se è destino ch'ella riaccenda la vendetta! E la vendetta sarà atrocissima su tutti! S'io non fossi fuggito dal campo? Ma quelli che erano al suo castello non erano nemici, e non volevo io raggruppare la pugna decisiva?... Se non ci fosse stata lei! Ma se così era, chi sarebbe ora dinnanzi alla mia fantasìa orrenda a misurarmi nei deliri dell'affanno? Non la rabbuffata larva del padre! Non la oscena di Guidinga!... No, no, voglio vivere e vivere di guerra! Sono vinto, e ancora voglio sostenere il peso vituperante della vita! Sono disonorato, e non mi schianto per mia volontà d'abbominio! Sono abbandonato da tutti, e voglio meditare fortissimi fatti! E impreco colla voluttà della sfida: «Dammi ancora maggiore tormento!»... Oh se non ci fosse stata lei! Ella mi supplica nel giorno, nella notte: «Vieni, cercami, fammi giurare, precipitati e vinci!» La voglio! La voglio mia fosse pure in mezzo ad un fuoco che per secoli non si spegna! Imilda, dimmi che sei viva! Ti supplico! . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . E Imilda? Ritorniamo a Rupemala. Imilda, in quel momento in cui Ugo aveva riso, senza più una coscienza al mondo, fu afferrata e salvata da Oberto, spinta fuori della cappella. Ildebrandino, a cui le vampe vividissime e sibilanti avevano impedito di vedere gli atti e di ascoltare i gemiti di quelle povere anime disperate, Ildebrandino abbracciò Ugo, uscito lentamente dalle fiamme, e volle che Oberto l'abbracciasse, gridando: - Gran mercè! Nipote mio, questo è un esempio! - Imilda fu trasportata in una camera e soccorsa. Ugo s'involò dal portone: e nulla a Rupemala si seppe di lui. Il dì dopo, continuando l'incendio, per quanti sforzi si fossero usati a vincerlo, Ildebrandino decise risolutamente di resistere ad Adalberto, contendendogli mattone per mattone dell'irreparabile ruina: e disse ad Oberto: - Qui dobbiamo morire con esempio non unico certo nella nostra famiglia. Avesti gli sproni d'argento: dunque sii contento, e ricordati che la ubbidienza agli esperti è grande virtù di guerra. Oberto era tetro. E a quelle parole rise amaramente. - So che vuoi dirmi, Oberto. Ti paiono pochi gli sproni? Sii contento: non a tutti è data l'audacia delle cose fortissime. Hai parlato con Imilda stamattina? - No. - No? - Ha domandato di me? - Sì: e ringrazia Iddio.... - Ringrazi messer Ugo. - A tutte l'ore! - Dannato sia! - imprecò Oberto. - Come? Come? Quanto fu valente per noi! Sì! - affermò Ildebrandino. - Per la impresa? - rise Oberto, invelenito: guardando lo zio con degnazione, quasi gli dicesse: - Mi accontenterò io dei vostri giudizi? - Oberto, l'hai veduto nelle fiamme? - Troppo ho veduto! - E per la impresa, tu dici? Ugo ha pugnato, come un forte, e l'amo! Ma Dio ci maledisse. - Perchè c'era lui! - Oberto, che hai? La tua ira mi piace! Contro chi? - si accese Ildebrandino. - Contro di voi - ardì Oberto. - Ti sono amare queste parole? - Zio! - rispose Oberto ad un tratto: - Voglio sposare Imilda, anche oggi! - Quando Ildebrandino consenta - rimproverò lo zio. Allora Oberto con astio e con ironìa: - Ah volete combattere voi? Ugo sarà con noi? - E, meditando una offesa verso Ildebrandino e una vendetta contro Ugo, domandò tra sè stesso: - Venti anni fa, quando Adalberto mosse qui, come combattè lo zio?... Che gloria!... E voi, messer Ugo, perchè avete spezzato l'uscio della cappella sacra? Era meglio che Imilda morisse, là, sola! Volete ch'io parli al vescovo di Saluzzo? - E Oberto, dopo un silenzio beffardo collo zio, si espresse così: - Fate che, morendo voi, io abbia un castello, o la memoria di un castello: e voi le esequie da cristiano. - Duri la guerra un mese, duri un anno! - rispose Ildebrandino, offeso più che mai e più che mai dignitoso: - Perchè mio nipote parla così? Ch'io non sappia combattere? Ch'io non conosca i valenti? Ebbene, senza messer Ugo io sfiderò Adalberto. Oberto fu contento. - Senza Ugo, sì: e mio nipote ascolti: - Ildebrandino andò al fondo di torre dove sapeva che era stato chiuso Guidello: lo trovò rabbioso di fame, lo trasse su, lo fece rifocillare, poi lo accommiatò così: - Va, araldo del malanno, tromba di vergogna. Io ti lascio e ti comando questo: torna al tuo signore e digli che con Ildebrandino c'è Oberto. Digli che Oberto vuole un castello per sè e per i suoi: il castello può essere quello di Adalberto. Madonna Marzia, Manfredo e Bello domandano vendetta. Che pensi Baldo non so: so che i vili e i traditori non sono più sotto il suo tetto. Io ti lascio e ti ho comandato. E Ildebrandino e Oberto s'apparecchiarono a disperatissima difesa e a furioso conquisto. Oberto un giorno disse: - Zio, lasciate ch'io vada a domandar benedizione al vescovo di Saluzzo. Ildebrandino crollò la testa: ma Oberto volle proprio uscire dal castello. Tornato di lì a poco tempo, con volto soddisfattissimo, domandò: - Ov'è madonna Imilda? - come se dicesse: - La mia! Voglio sposarla oggi, col piacere suo e con quello di Ugo! . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Madonna Imilda non era più con Ildebrandino. Questi, per toglierla dai pericoli dell'armi, l'aveva segretamente affidata alla custodia dei figliuoli del povero Federigo e della vecchia Agnese, e fatta partire per una casetta di boscaiuoli, lontano, su una delle montagne, che, con quelle su cui sorgevano le castella dei cavalieri e del signore Adalberto, formava il contrafforte che si spicca dal Monviso. Questo contrafforte coll'altro staccatosi dal monte Meidassa chiude la valle ove nasce il Po: al di qua la valle di Varaita, di là quella del Pelice, all'apertura Saluzzo. Là su stette madonna Imilda, un giorno, e due, e tre... Le diceva la vecchia Agnese: - Madonna, oggi si combatte. Preghiamo. Imilda rispondeva: - C'è un cavaliero che vince sempre e tutto. Alla sera venivano sulla montagna i figliuoli di Agnese a portare le nuove: e le donne domandavano: - Nessuno sa niente? che Imilda è qui? - Nessuno. - E quel cavaliero? I boscaiuoli intendevano di Oberto e rispondevano: - Coll'usbergo è un san Giorgio. Ma sa niente! Oh come pregava Imilda in tutti i momenti! - Madonna del cielo, non dovevi mandarmelo! Sarei morta su i tuoi gradini e tu mi avresti dato il paradiso! Non avrei conosciuto l'inferno in questa vita! Amare come amo io! Come volle Dio che amassi!... E non so nulla di lui! E non oso domandare di più.... Ma è questo l'amore?... E che mi disse egli perch'io abbia diritto ad amarlo? Che fece! Vinse il fuoco!... E che era morire a confronto di questo vivere? Ugo, Ugo cavaliero, Ugo infelicissimo! Perchè non vieni? Forse che t'hanno ucciso? Forse che m'hai dimenticata?... Ucciso!... Chi può avere alzato la mano su di te?... L'anima mia non sa combattere l'incertezza tremenda! Così disse: «Sono il figlio di Guidinga!» E chi era Guidinga? Un'innamorata? Ma ella forse fu un angiolo. Io sono condannata in questa vita e nell'altra.! L'amore cominciò tra le fiamme, e tra le fiamme inestinguibili sarà eterno tormento!... Pietà, madre dei pentiti: io non so quello che dico! E tu m'avresti dato il paradiso! Ma se già mi hai condannata, questo è troppo strazio: e lo spezzarmi così è indegno di te che tutto puoi. Puoi volere anche in me la bestemmia.... Non sono io che parlo: è Ugo in me! No, no, Ugo sarebbe perduto, ed io voglio invece la sua eterna salvazione! Non è Ugo, ti giuro, ti scongiuro! È il cuore straziato! E la vergine una sera si fece raccontare da Agnese i casi di Guidinga. E Agnese concludeva: - Dite, se la conobbi! Come conosco voi. Giusto, come voi, la piangeva sempre quando il suo Adalberto era lontano. Voi perchè piangete? - Ho paura! - rispondeva Imilda. - Conoscete la fantasma fiammante di bianco? - La madonna perduta - È l'anima di Guidinga fino al dì del giudizio. - È così disperato l'amore! Chi ci resiste? - lamentava Imilda. - Come reggerò al rimanermi quassù? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Ugo da quattro giorni, sempre chiuso nel suo castello, si combatteva atrocemente. E così: - Ildebrandino ed Oberto ieri vinsero. I servi prigionieri nel castello di Aginaldo l'altra notte uccisero il capitano di Adalberto. Baldo con Manfredo e Bello s'apparecchia a muovere qui per guadagnare la taglia.... E tu che fai, Ugo? Tu capo dell'impresa, tu redentore, tu giovanissimo conte!... Se Dio ci faceva vincere! se i morti di là avessero supplicato coll'ardore delle fiamme! E tu hai pensato ad essi? Oh i morti ora si levano ferocemente ad imprecarti! E la viva sorride!... Il padre già dalla culla ti condannava alla vergogna e al furore, e tu che avresti dovuto maledire la donna, tu per la donna sei maledetto!... Temi la taglia? Ma che vale la tua testa? Vale oro, non onore. Temi la morte? Ma che vale la tua vita? Fu già carica d'onte. Speri la vittoria? Speri l'amore? C'è la morte! Oh questo sì ch'è strazio ineffabile! E anch'io supplico: «Pietà!» come supplicò Imilda. Pietà della mia vita! Ecco la vilissima preghiera! Preghiera di donna!... Sì, ti sogno ancora nella cappella avvampante: giungo a te, ti stringo: e tu chini il capo sulla mia spalla, ed io ti dico: «Ti odio!» Ecco l'anima mia, ecco il mio dovere!... Che faccio ora? Io che mi sento la forza e la ruina dei turbini. Io che voglio uccidere, e crollare le torri, e sghignazzare fra il suono di cento trombe, e morire pur che Dio mi ascolti!... Dio non ascolta mai!... È così muto il sepolcro del padre! È così trista l'ironia del nulla!... Voglio vita, vita strapotente, ed ogni vita è in queste parole: «Ti odio! Femmina, ti odio!» O viva, o morta, sii detestata!

Vietato ai minori

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Bonanni, Laudomia 2 occorrenze

Quei biglietti ornati da un teschio, con compiacimento ripetuto sui libri di scuola, e il fumo alle cave abbandonate, condussero a scoprire la banda. III B ginnasiale. Inoltre il mucchio delle bombe e armi varie "trovate in giro". Ragazzata definì l'avvocato quella che la pubblica accusa doveva fermamente sostenere autentica delinquenza. Associazione per delinquere. La stoffa di uno che voglia forzare la vita a mantenere le sue appassionanti promesse _ l'avventura, la punizione dell'avido adulto _ nello studente c'è ed è stoffa di qualità pregiata. Tutto dipende dall'uso che se ne fa, o si è indotti a farne. M'accorgo che manca nel gruppo il contino. Se n'era stato accanto al censore in abito borghese e il censore me l'aveva quasi presentato. Il suo buffo tendere la mano con l'atto mondanamente insufficiente di posare le labbra sulla mia. Si tiene appartato dagli altri. (Truffa e denunce del conte padre. Puttaniere, lo chiama il figlio. Va bene, tu mi tagli i viveri, io entro al cinema e mi trovo un frocio. Dal fascicolo processuale.) Grazie a Bilotte che ha rotto il ghiaccio (il dentifricio mai visto prima lo credeva sul serio roba da mangiare) posso ormai introdurmi nella sezione giudiziaria di un carcere minorile come in qualsiasi altro luogo dove si trovino riuniti, e sia pure costretti, dei ragazzi. Allora, non mettersi a scrutare in essi qualcosa d'ignoto temibile e repulsivo _ solo quel tanto di bene e di male esplosivamente mescolati nella natura umana _ piuttosto riconoscerli vittime. E ragazzi. Ricordarsi che sono ragazzi. Cioè esseri colmi d'un incoercibile slancio vitale e con quel tanto in sé d'intatto che è sempre, quasi sempre, nell'estrema giovinezza. Bisogna rifiutarsi comunque di ritenerli perduti, nutrire l'incrollabile fede che ognuno possa essere salvato. E sentirsi responsabili per ciascuno di essi. Avrò parlato con la mia parte di retorica, temo. Con entusiasmo e proponimenti da neofita. Lo leggo in faccia al censore mentre, io accalorandomi e lui annuendo docile, mi accompagna verso l'uscita. Attraverso una quantità di porte e il primo cancello interno, schiavardati via via da premurosi agenti. Agenti, un po' come angeli, di custodia. Oltre il cancello siamo ancora nell'ingresso che da sul cortile esterno, con la stanza di guardia a sinistra, a destra un altro uscio, chiuso. Ne proviene una sorta di pigolio, soffocato ma irreprimibile. I bambini, ecco dove sono i bambini. Sapevo che dovevano esserci: Istituto di Osservazione. Come si apre l'uscio c'investe un tanfo di polvere e pipì (alle camerate era di bugliolo). Ve ne sono, ristretti nella stanza angusta, con un solo custode, ventitré. Dai minori di quattordici anni a uno di sei. Si azzittiscono immobilizzati come topi alla vista del gatto. Con una strizzata al cuore riconosco il mio scolaro Augustino, paternità enne enne, prima elementare. Lui non mostra di riconoscermi. Guarda in terra. Lo chiamo, non risponde, fugge. Ma che ha fatto? Figlio unico di madre prostituta, è la risposta che vorrebbe essere spiritosa. Era venuta, quella madre, a scuola per giustificare l'assenza del bambino che entrava "in collegio". Mancano i locali e il personale è insufficiente, questo buco passa per l'Osservazione, c'è sopra la targa. Ma la verità è che, essendo il cortile l'unico posto per la ricreazione, li tengono tutti insieme, osservati corrigendi detenuti. Per riguardo alla visita... Prego di liberarli. Signor censore (e rex) non faccia complimenti con me, ormai sarò di casa. Prorompendo a mucchio s'attaccano alle sbarre del cancello come uccellini, non ancora abituati alla prigionia, ai ferri della gabbia. Nuovo schiavardamento fragoroso, le chiavi sono grosse, di ferro. E invasione del cortile claustrale. Assassini stupratori e rapinatori accolgono gli uccellini spennati coi quali giornalmente convivono, e non solo a ricreazione. Vedo il muscoloso Milli tirarsi su in braccio il mio Augustino rattrappito e piangente. "Sa, si spingono, sono tanti." Sono, per la precisione, al momento, centoventisette "ospiti", nello spazio per cinquanta frati del tempo antico di minuscole celle e sterminati corridoi, Potrebbero perfino ammutinarsi.

Ho ritegno a insistere sul padre vivo, le avrà abbandonate. Giovane doveva essere la morta, questa figlia era l'unica. E mamma cercava, è la spontanea conclusione. Capisco che non dice elemosina perché le manca il linguaggio, non per vergogna. Il bambino della povertà non si vergogna, non se ne rende conto. (Quando entra nelle classi l'addetta al patronato scolastico e, ad alta voce: chi è povero alzi la mano, l'alzano tutti tranquilli e premurosi, anche quelli che saranno esclusi dall'assistenza perché non abbastanza poveri.) Maria torna alla spilla. "La tiene nonna e anche l'altra roba." Ha l'aria di sentirsi prodigiosamente ricca. Mi fa brillare quel poco oro a dodici carati come un sole. Senza sollecitazioni incomincia un lungo discorso, a brani di memorie confuse, non più sensibili, sulla madre. Che ogni anno doveva andare a T. dai medici dell'ospedale, la visitavano e facevano le iniezioni, ogni anno devi ritornare, e una volta non ci andò, così stette male, se lo sentiva e diceva lo so che debbo morire e infatti ci tornò e morì. Domando di che è morta. È stata la Zefìle, risponde con sicurezza. Sono certa che vi ha messo la maiuscola, un nome femminile, come se fosse stata uccisa da una donna. Non capisco. Stento a formulare altre domande. "E tuo padre?" Gliel'avessi chiesto prima senza tanti scrupoli, non avrebbe avuto difficoltà a dirmelo. Si trova al manicomio di T. Lei sa tutta la storia e può parlarne con docile tranquillità, perfino con un'ombra di vanagloria (come sempre quando si parla di sé). Date non ne ricorda _ le so io _ ma sa che tornò dalla guerra si sposò e impazzì. Prima faceva il lavoro di campagna, andava a giornata, bracciante agricolo. Quando la figlia nacque era ricco, ricco di pecore mandrie campi, fermava la gente e diceva: è tutto mio. Non volle più lavorare. Questo per Maria significa essere pazzi. Mi guarda compiaciuta e fiduciosa, aspettando. Dico: Ti ci hanno portata? Gliela portarono, una volta sola, a lutto. Com'è non sa dire ma cerca. L'ha visto giovane e bianco bianco _ chissà che pallida sparutezza in confronto alle facce cotte della parentela contadina _ un giovane magro vestito da militare, che voleva abbracciarla. Ma essa non conoscendolo s'era tirata indietro. Aveva paura e sua nonna a spingerla. Poi l'ha riconosciuto perché diceva: ho una grande disgrazia, ho perduto la moglie. Capiva tutto. S'accosta ancora, col visino lungo e il naso tirato alle pinne da quel vezzo di alzare e stringere le sopracciglia. Uno strabismo d'attenzione. O è a causa della crosta che da mesi rimane lì sotto la spalmatina d'unguento. "A mamma la malattia gliel'ha ridata lui." Mi guarda intensamente. Riflette un po', di nuovo pronuncia quel nome femminile accompagnando ogni sillaba con una contrazione sopraccigliare: Zefìle. A un tratto afferro la parola storpiata. Sifilide. Deve aver sentito dalla nonna, dai paesani, in ospedale, avranno parlato davanti a lei senza badare. Mi chiedo se l'abbia raccontato alle monache. (Il medico dell'ambulatorio non ha fatto domande.) Una donna. Una macabra donna col nome senza maiuscola, che davvero uccise sua madre. Mi rendo conto che ancora per la bambina sono parole, non tanto senza senso quanto senza peso. Già il padre è una labile immagine di soldatino giovane (diosaperché sempre vestito così) nella cornice di un parlatorio che a mano a mano si confonde con quello del convento, e la madre sembra svanire in un passato senza rilievo. L'anima è leggera. Il corpo no. Poso le mani sull'imbottitura delle spalle, vi cerco sotto la smilza carne. La carne è pesante, porta il carico di quel sangue. Ora la bimba è pallidina e graziosa. Le tonsille sono a posto, la sua scheda sanitaria è bianca. Bisognerà riempirla con l'anamnesi familiare. L'accompagnerò da un medico dell'ambulatorio meno frettoloso. Per questa crosticina ostinata occorre l'ospedale. Ridice: Mi ha lasciato la spilla d'oro. Anche lei innocentemente crede di essere ricca.

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GIACINTA

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Capuana, Luigi 2 occorrenze

Siete giovani, e abbandonate il campo? Trent'anni fa, o Gerace non avrebbe avuto quella buona fortuna, o essa sarebbe già finita da un pezzo. Trent'anni fa, gli avremmo dato il gambetto in quindici giorni. Ed ora tocca a me, a me che strascico le gambe, servir di sprone alla gioventú! Ma non capite che uno, uno solo, farebbe la vendetta di tutti? - Viva sempre i veterani! - esclamò il Ratti entusiasmato. E quel primo mercoledí si trovarono tutti in casa Grippa, come tanti diplomatici venuti lí ognuno per conto del proprio governo, per dare un'occhiata di ricognizione, senza destar sospetti l'uno nell'altro, preoccupati della rivincita. Mentre la baronessa Sturini era riuscita a raggranellare appena una dozzina di vecchie carcasse e pochi giovani che, per dovere di casta, non si eran potuti esimere dall'andare a sbadigliare discretamente fra loro, in casa Grippa, invece, era accorsa in folla la ricchezza, la magistratura, l'esercito, l'amministrazione, la stampa (rappresentata dal direttore e dall'unico redattore della Gazzetta popolare, la gioventú, le belle donne; insomma quanto la piccola città possedeva di meglio. Il palazzo Sturini, da un lato, con le cariatidi del portone, coi mostri che si contorcevano nelle mensole dei terrazzini, e la palazzina fresca e svelta della contessa Grippa, dall'altro, avevano l'aria, diceva l'ingegner Villa, di guardarsi in cagnesco con le finestre illuminate. Andrea si sentiva come in casa propria, aggirandosi a testa alta fra tutta quella gente, che ora salutava e gli stringeva la mano, per non romperla con la padrona di casa e con la signora Marulli diventata una vera potenza - Infine - avevano riflettuto - a loro che gliene importava? Doveva badarci quell'imbecille di marito, che andava attorno per le stanze come una mosca senza capo. La contessa era una donnina gentile, buona, allegra. Faceva tanto piacere il ritrovarsi radunati insieme in casa di lei! Le signore trovavansi di accordo nel chiudere gli occhi. E se, per caso, quella cattiva lingua del Ratti veniva a metter fuori in mezzo a loro certe allusioni troppo aperte, prendevano l'aria di non capire. La Maiocchi, anzi, protestava indignata, con la Pagani e con la Clerici. E la signora Clerici non protestava meno energicamente, quantunque osservasse, in confidenza con la Maiocchi, che la Pagani aveva dei grossi peccati da farsi perdonare per proprio conto; per questo andava ora spacciando la storiella, messa in giro dalla Teresa, di non so che lascito piovuto a Gerace da un parente lontano, che gli permetteva di vivere del suo e di fare il signore. La Pagani non ne credeva, senza dubbio, neppure una sillaba, ma l'andava ripetendo insistentemente, come se ci avesse creduto, per debito di consorteria femminile! Sul tardi, Giacinta si era accostata ad Andrea, porgendogli una tazza di caffè nel vano della finestra, dov'egli se ne stava col Gessi ad osservare le finestre del palazzo Sturini, che si oscuravano ad una ad una. - Sono morti tutti, di noia! - ripeteva Andrea ridendo. - I carrozzoni dei trasporti funebri già li portano via. - So che preferisce il caffè - gli disse Giacinta. Gessi si allontanava prudentemente, diventando un po' rosso. - M'ingannavo? Vedi, si sono stancati! - soggiunse Giacinta. E si affrettò a raggiungere il Gessi: - Vuol thè o caffè? - Grazie, preferisco queste - egli rispose, stendendo la mano alle chicche del vassojo che Elisa Maiocchi gli presentava in quel punto. - Ah! vi servite tra voi altri! Sta bene - replicò Giacinta con malizia. Gessi diventò piú rosso di prima. Elisa, magrissima, diritta come se avesse inghiottito il manico della granata, lo guardava con civetteria e gli domandava, per imbarazzarlo: - Perché diventa cosí rosso?

Giacinta era rimasta, tutta la nottata, seduta a piè del letto, con il capo rovesciato sulla sponda, le braccia abbandonate, agonizzante sotto i colpi di quel dolore che tardava ad ucciderla. Di tanto in tanto alzava la testa, apriva gli occhi smarriti, si passava le mani sulla fronte. - Non era dunque un orribile sogno? ... E ricadeva nella prostrazione che la teneva lí senza moto, quasi senza pensiero, da tante ore; da un'infinità di anni, le pareva! Dalle stecche rialzate della persiana, il sole accendeva strisce e punti di luccicanti riflessi sui mobili, sugli oggetti di cristallo e di porcellana, lasciando in penombra uniforme tutto il resto dove non frangevasi la viva punta dei suoi raggi. E a un tratto, in quel silenzio e in quel tepore, che sembrava tenessero in deliziosa sonnolenza anche gli oggetti inanimati, arrivava, da la via, la stridula voce d'un organino suonante una melodia del Ruy Blas. - No, non era un sogno! Era la verità! Aveva parlato lui! Proprio lui le aveva ingratamente rinfacciata la sua passione ... e le si era rivoltato contro ... Uno sbuffo di pazzia tornava a montarle al cervello. Oh! ... Avrebbe voluto meritarselo almeno! Avrebbe voluto meritarselo con qualcosa di spregevole, di ributtante, dove la sua coscienza, la sua volontà fossero intervenute deliberatamente! ... Quel suo miserabile cuore diceva di no, quelle sue vilissime carni fremevano di ripugnanza, avrebbe dovuto buttarle in preda al primo capitato, per sbarazzarsi d'ogni scrupolo, d'ogni pudore! A che le servivano pudore, scrupoli, cuore? Solo a renderla infelice! ... E poiché non poteva, no, no! ... e poiché non sapeva ... ! L'organino aveva ripreso da capo: Oh dolce voluttà! Desio d'amor gentil! Uno scherno, in quel punto. E le pareva che il letto, le poltrone, i mobili della camera le danzassero attorno una ridda infernale, gridando confusamente, gettandole in faccia tutte le gioie da lei godute in quel santuario d'amore, quando la loro felicità era al colmo ed ella non chiedeva più nulla né alla terra, né al cielo! E le pareva che quei testimoni di tante dolcezze ora ghignassero, irridendola, in una perversa esultanza: e facessero volar per aria, a folate, tutte le sue parole d'affetto, tutte le sue carezze, tutti i suoi baci, come inutili cenci, a ludibrio contraffacendola, sbertandola fra ringhi e fischi, quasi volessero chiudere con tal chiasso indecente quell'ultima scena del suo dramma. - E poiché non poteva! ... E poiché non sapeva ... Ah! meglio morire! La testa le scoppiava. La bocca era riarsa. Ella aveva già avvertite delle interruzioni nella sua intelligenza, lungo la nottata, quando il passato e il presente le erano, a poco a poco, spariti dinanzi; quando, stupidamente fissa verso un punto luminoso, un oggetto vicino, un fiore della tappezzeria, era rimasta a guardare a lungo, a lungo, senza vedere, senza capire, proprio come una pazza ... - Meglio morire! Il castello incantato della sua passione era crollato, da cima a fondo, alle terribili parole di Andrea. Perché piú vivere, dunque? - Meglio morire! Cessò di piangere, s'asciugò il volto. Aperti i cristalli, aspirò avidamente l'aria fresca che invadeva la camera: poi corse all'armadietto d'ebano. - Dev'essere qui - mormorava, rovistando i cassetti. - Deve essere qui. Frugava, disfaceva gl'involtini che le capitavano tra le mani, ributtando indietro oggetti e carte, impazientissima. Non trovava nulla. Arrivata all'ultimo cassetto, lo vuotò intieramente; dal fondo un boccettina ruzzolò. - Eccola! Ella sorrideva tristemente, scotendo il capo. Il cuore le batteva forte. Una lassezza dolcissima, simile a quella provata alcune volte nei piú bei momenti di felicità, le rammollava gambe e braccia, e mentre non sapeva staccar gli occhi dal chicco nerastro chiuso nella boccettina, sentivasi lentamente invadere da una pace profonda. Finalmente era prossima a staccarsi dalla vita e da ogni vanità di essa! Finalmente si sarebbe addormentata per sempre nel fatale sonno del curare! ... - Grazie! Grazie! - mormorava, baciando la boccetta, rivolgendosi verso a un assente, a cui non era mai stata cosí grata come in quel momento. Si sentiva forte. Durante la terribile notte, l'energia del suo carattere, che la passione e il dolore avevano negli ultimi mesi alcun poco infiacchita, erasi destata con la vigoria di una volta. Pure, ella stava in guardia contro sé stessa, a quel vivo ripullulare di ricordi, di sensazioni e di sentimenti che pareva cercasse di stornarla dal tristo proposito. - No; voleva morire ... Doveva morire! Era vita la sua? Una continua agonia! Ma i ricordi insorgevano, la spingevano indietro, fino a quella stanza ingombra di arnesi smessi, dove le ore solitarie della sua fanciullezza eran trascorse in un monotono interminabile soliloquio. Vent'anni volati via in un baleno! - Com'era stata felice allora, nell'ignoranza di tutto! Chiuse la finestra. La tepida giornata primaverile, smagliante di luce, che i passeri salutavano col loro cinguettío dalle grondaie e dai tetti, la commoveva troppo. La vocina limpida e allegra d'un'operaia che cantava Giulia gentil nella casetta dirimpetto, fra il grido dei ragazzi, dei rivenditori, il rumore dei carri e delle carrozze che passavano per la via, già cominciava a turbarla. - No; meglio morire! - ella disse ad alta voce. E suonò. Marietta a vederla straordinariamente pallida, domandò: - La signora contessa ha passato una cattiva nottata? - Anzi! Ho dormito troppo. Nel camerino, seduta davanti allo specchio, tutta avvolta nel bianco accappatoio, Giacinta osservava il suo viso squallido e disfatto, dalle occhiaie livide, dalle labbra contratte. La testa, con i capelli disciolti sulle spalle e gli occhi stralunati, aveva una cosí strana espressione, ch'ella n'ebbe quasi paura. Marietta le raccontava intanto la piccola avventura capitatale al veglione la sera innanzi. Il Ratti, scambiatala sotto il domino, chi sa per chi, dopo averle detto un mondo di grullerie, l'aveva invitata anche a cena. - Cenasti con lui? - Sempre in maschera. Poi insistette per accompagnarmi a casa ... - E ti lasciasti accompagnare? - Dovevo affliggerlo? Quando mi vide fermare al portone ... Povero signor Ratti! Giacinta sorrise. Piú tardi, venne il dottor Follini. Chiedeva qualche soccorso per una sua ammalata. - È giovane? - domandò Giacinta. - Giovanissima e bella. Il lavoro la uccide. Giacinta gli diede un biglietto da cento lire. - Grazie! ... È anche troppo. Come sarà contenta quella infelice! - Guarirà? - riprese Giacinta, dopo una breve pausa. - Oh, no! E vorrebbe vivere! - Con una vita cosí piena di stenti? - La sua povera mamma, cieca e paralitica, perirà di fame senza di lei. Trista cosa il mondo! Nessuno può saperlo quanto noi medici, che vediamo miserie e dolori incredibili, non possiamo alleviarli. Che sono mai in confronto, i dolori quasi artificiali delle persone ricche, della gente elevata? - Come s'inganna! - Può darsi. L'immediato contatto con la miseria ci fa perdere ogni filosofia. Il cuore non ragiona. E lei, sta bene? - ... Benissimo! - ella rispose, distrattamente. - Va via? - Vado da quella disgraziata. Il dottor Follini, in piedi, trattenuto per la mano da Giacinta, sorrideva imbarazzato. Ella comprese l'intimo linguaggio di quel sorriso, e di quella calda stretta di mano: - Mi perdoni! - gli disse con voce tremante. - Che cosa? - Forse le ho fatto del male ... senza volerlo. - Mi ha fatto un gran bene. - Quanto è generoso! - Sono stato un fanciullo! - soggiunse quasi subito il dottore, diventando un po' rosso in viso. - Noi che viviamo nel pantano della piú schifosa realtà, sentiamo assai piú degli altri il bisogno d'alzar gli occhi a un cielo dove la realtà si purifica, senza punto smarrirsi in vaporose idealità. Sono stato un fanciullo ... Avrei dovuto tacere anch'oggi; avrei dovuto contentarmi soltanto del delicato profumo delle anime nostre, aspirato quasi di nascosto ... Non importa. Fra tre giorni sarò a Parigi. La lontananza terrà sempre vivo un sentimento che noi, probabilmente, uccideremmo da vicino. - Ha ragione! Come gli era grata d'esser venuto a vederla per l'ultima volta! La vita le dava con lui l'estremo sorriso! Fino a quel momento la figura d'Andrea era rimasta rannicchiata nell'ombra, tenuta in disparte dal sentimento d'odio e disprezzo, scoppiatole nel cuore la sera avanti, quando egli aveva detto: "Se mento, è per te, unicamente per te! ... ". - Ingrato! ... Vigliacco! ... Ma ecco, ella cominciava a provare una strana inquietudine, un bisogno di vederlo arrivare da lei alla solita ora. Sul punto di staccarsene per sempre, la stringeva una tenerezza piena di compassione per colui ch'era stato tutto, proprio tutto, per lei. - Perché accusarlo? Una forza superiore ci preme tutti e due! ... M'amava davvero, senza secondi fini, con lo stesso ardore con cui m'ero gettata fra le sue braccia! Se ora non m'ama piú, se il nostro amore, creduto tale da dover durare eterno, è stato piú corto d'un sogno, che colpa n'ha lui? ... E tarda a venire appunto oggi! ... Oh! Vorrei morire perdonandogli, dicendogli che muoio per averlo troppo amato! Indugiava, con una specie di crudele piacere, piú non temendo che la volontà e il coraggio le fallissero nel punto di metter in atto la sua decisione, o che l'istinto della conservazione le arrestasse in mano lo spillo avvelenato. Provava un'intensa serenità; si teneva già morta. Le pareva già di vivere quella seconda vita, di cui aveva parlato una sera il Mazzi, procuratore del re, uomo grave e spiritista convinto. - E poi, morire come quell'indiano rammentato dal Follini, tranquillamente, senza soffrire, forse senza che nessuno possa sospettare un suicidio ... A un tratto s'accostò alla gabbia del canarino e l'aprí. L'uccellino, addomesticato, uscí fuori, saltandole sul dito, beccandoglielo delicatamente. Quando Giacinta lo punse con lo spillo avvelenato, ei mostrò appena di risentirsene. Beccò il pezzettino di zucchero immollato nell'acqua ch'ella gli porgeva; e, rientrato nella gabbia, continuò a saltellare qua e là, irrequietamente, dopo aver intinto il becco nel beverino e levato il collo per sorbire l'acqua. Giacinta, pallida, strizzandosi le mani ghiacce, attendeva. Dopo alcuni minuti, il canarino non saltellò piú. Appollaiato sulla stecca, volgeva la testina attorno, come preso da stupore e da stanchezza. Stirò una zampina, si frugò col becco tra le piume del petto, nascose la testa sotto un'ala ... e cadde in fondo alla gabbia. Immobile col cuore che batteva forte, gli occhi pieni di lagrime, Giacinta quasi credeva di aver assistito alla propria agonia: - Oh! ... Morire in quel modo era quasi un addormentarsi!

PROFUMO

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

Eugenia, un po' chinata verso di lei, la guardava con lieve sorriso d'invidia e le mani abbandonate in grembo, piena d'ammirazione per tanta gaiezza, tanta spensieratezza e tanta fortezza di carattere. Era stata forte di carattere anche lei se non allegra a quel modo; ma ora si sentiva fiaccata! "Che cosa ha? Non sta bene?" domandò Giulia. "Il dottore ha detto all'Agente: "La signora è impensierita". Per lui, come crede il dottore? Lo lasci sfogare. Si tratta della madre. Deve sentire un gran vuoto, povero Agente! Anche lei, suppongo ..." Eugenia la fissò, quasi non avesse inteso bene. Un gran vuoto anche lei per la morte della suocera? Le pareva uno scherno. "Parliamo di cose allegre" riprese Giulia. "Ho qui, in gola, qualcosa che mi fa groppo: mi confiderò con lei. È così buona, e può intendermi; deve aver sentito anche lei il gran bisogno di mettere un'altra persona a parte della propria contentezza. Non si annoierà?" "Ma le pare?" "Mi dia del tu; è più spiccio." "Anche lei ... anche tu, allora." "Non ci riesco. Quando sarò maritata, forse" soggiunse dopo breve pausa, ridendo. "Chi sa che si figura!" esclamò Eugenia. "Maritata! Siamo tutte così. C'immaginiamo il paradiso." "Oh, non parli come la mamma!" "Lo so; se non si prova da sè, non ce ne sappiamo persuadere. Di' intanto ... Questa volta ho detto: di'!" "Brava! Son venuta sola a posta. Con le mie sorelle, sto in guardia; mi spiano. Sono furibonde; pretendono che la minore deve sposare dopo di loro. Se non c'è un cane che le voglia! Se dovessi attendere, starei fresca. Piene di super- bia, si credono tante principesse: "Quello è brutto! Questo non è di buona famiglia! Quest'altro è senz'arte nè parte!". Perché abbiamo delle terre? Papà, quando pensa che deve dare la dote, strilla, quasi sentisse strapparsi un'ala di fegato. La mamma, peggio. Corrado si contenta di poco, per ora ... Infine la roba non si può portar via nell'altro mondo; appartiene a chi appartiene. Che m'importa se il nonno di Corrado faceva il carrettiere? Suo padre è ora un proprietario. Corrado fra poco sarà avvocato. È studioso, non ha vizi; mi vuol bene, ci vogliamo tanto bene! ... Perché crolla la testa?" Eugenia ricordava. Le pareva di sentirsi ripetere le sue stesse parole ai parenti: "Mi vuol bene! Ci vogliamo tanto bene!". Sogni! Fantasie! E per ciò crollava la testa. "Non badare!" rispose. "Mi ha scritto che n'ha già parlato in famiglia" riprese Giulia "e che i suoi ne sono contenti, la mamma più di tutti, donna alla buona, caritatevole e di umore allegro. Ce la diremo! In agosto egli prenderà la laurea, e in settembre farà fare la richiesta a papà. Abbiamo fretta tutti e due! So quel che avverrà. Papà, probabilmente, dirà di no. Non mi metta- no con le spalle al muro! ... Farò una sciocchezza!" "Che sciocchezza?" "Niente! Niente! ... Se lei leggesse le lettere di Corrado! Otto, dieci pagine fitte per volta. Mi fanno piangere di piacere. Ne ho un mazzo alto così. Viene di tanto in tanto un uccellino, e me ne porta una di nascosto. In casa non so- spettano niente. Gli torcerebbero il collo, e gliene capitasse qualcuna in mano ... Ma con le ragazze innamorate non ce ne può neppure il demonio! Faceva così anche lei?" Eugenia si sentiva presa da immenso sconforto. Le confidenze di Giulia le risuscitavano nella memoria tutto il suo dolce passato. Sì, aveva fatto così anche lei! Sì, aveva pianto di piacere anche lei, leggendo e rileggendo le lettere di Pa- trizio! Sì, aveva sofferto, lottato anche lei ... e aveva vinto! Ma poi?

Milano in ombra - Abissi Plebi

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Corio, Ludovico 1 occorrenze

Il luogo prediletto dai vagabondi e dai ladri furono per lungo tempo le fornaci di calce di Montmartre, ma dopochè queste ultime sono state abbandonate, essi si sono dispersi parte a Bagnolet .e parte a Pantin. Vi è però un luogo ch'essi frequentano volentieri a Parigi e che è conosciutissimo, perocchè chicchessia ha inteso certo parlare delle carrières d'Amérique Non è là, come si crederebbe, ch'essi si rintanano durante le notti d'inverno. Tali cave per vero dire sono inabitabili anche per uomini uomini rotti a tutte le durezze della vita all'aria aperta; sono dei lunghi anditi, in cui l'acqua cade a goccia a goccia su terreno così bagnato, che vi si cammina nel fango fino al collo del piede. Èlà presso ch'essi si rifugiano, a lato delle fornaci di calce che fiammeggiano giorno e notte e spandono un calore, di cui i vagabondi sanno apprezzare i benefici. Là al pari di altrove comme on fait son lit, on couche I più accorti non arrivano mai tardi, per poter scegliere dei buoni posti; si stendono sulle fascine non lontano dalle fornaci e al riparo dalle correnti d'aria. Quivi si fa più che dormire, vi si cena con de' salumi, con della acquavite, tutta roba rubata; vi si danno dei convegni amorosi; vi si tengono delle serate, delle conversazioni, vi si balla, vi avvengono lotte e duelli, e non vi è stravizio tanto repugnante, di cui questi luoghi così desolati non siano stati testimonii. Tutto si sciupa a lungo andare, e le carrières d'Amérique hanno quasi finito il loro tempo, in ogni caso, le loro notti famose sono passate. La polizia ha troppo rivolti gli sguardi in quelle parti, e i vagabondi più non vi si recano che esitando, poichè è raro adesso che il loro sonno non venga interrotto. Verso le due ore dopo la mezzanotte, quando si crede che le fornaci sono occupate e che ognuno vi s'è addormentato, si parte senza far rumore dal posto di polizia il più vicino. Gli agenti comandati da un ufficiale di pace, si dividono in quattro squadre,che, rasentando i muri, camminando in punta di piede, circondano il nascondiglio da tutti i lati, in guisa da custodirne le uscite. A un dato segnale, le lanterne vengono aperte e gli agenti si precipitano tutti contemporaneamente verso il grande dormitorio improvvisato sotto le volte biancheggianti. Il risveglio è generale. I novizii cercano di fuggire, i vecchi praticoni s'alzano stirando le braccia e si consegnano essi stessi agli agenti. Nessuno mai resiste e là prima parola, significantissima, di ognuno di questi infelici è: "Non mi fate del male!" Che cosa trovasi colà? Il rifiuto di Parigi, vagabondi, ladri, recidivi, miserabili infine, che non possono ispirare se non la pietà. Io soffro d'asma, diceva un d'essi, il che mi impedisce di lavorare; io tossisco molto e a cagione di ciò i locandieri mi mettono alla porta. Io vengo a dormire presso le fornaci perché ciò mi solleva alquanto. Colui è stato immediatamente e d'urgenza inviato ad un ospitale, perchè gli fossero prestate le cure opportune. In questi covili vi si arrestano dei fanciulli fuggiti dalla casa paterna e già dediti al ladroneccio; quattro fra essi furono sorpresi al momento, in cui tenevano tra mani e mangiavano un pane di burro che avevano trafugato al mercato. Queste razzie danno dei risultati importanti; in due giorni, il 19 e il 20 febbraio 1869, la Polizia si è impadronita di 77 individui, di cui 58 avevano già avuto a fare colla giustizia. Quest'era la punto invidiabile condizione dei poveri di Parigi nel 1873, malgrado esistano quivi la Société philantropique fondata sino dal 1780, e l'opera pia dell'Hospitalité de nuit istituita nel 1878, le quali alacremente diffondono i loro beneficii fra le classi più sfortunate della società. Un uomo benemerito della umanità, Jules Siegfried, pensatore profondo e filantropo generoso, forse misurando dai prodigiosi progressi, ch'egli ha fatto fare alla piccola ma importante sua città dell'Havre, i progressi che avrebbe dovuto fare Parigi in questi ultimi tempi, in un suo libro intitolato: La misère, son histoire, ses causes, ses rémèdes scriveva: Le squallide casupole dei secoli passati, le cantine infette di certe città manifatturiere, e i solai insalubri dove s'agglomerano delle famiglie intiere, fanno posto gradatamente ad abitazioni più vaste e più sane. Eppure nel 1878, quando abbiamo visitato Parigi, avendo noi fatte delle escursioni nei luoghi in cui la marmaglia s'annida, vi abbiamo trovato che quanto hanno scritto il Frégier, il Cère, il Du Camp vale ancora oggi quanto per l'appunto valeva ai tempi in cui o di cui essi hanno scritto. Che più? Avevamo a scorta nelle nostre escursioni notturne due sergents de ville i quali alle tre dopo mezzanotte quantunque armati, non si sono peritati a scendere dal quais e passare sotto il ponte dell'Alma, non discosto dal Trocadero e frequentatissimo di giorno, se non quando poterono avere due altri sergents a ingrossare la comitiva. Ciò non faceva onore al loro coraggio, ma neppure allo spirito di rispetto all'autorità, per parte degli abitanti accidentali del primo arco sulla destra della Senna. E veramente, se si fosse trattato di fare a pugni con tutte le persone che stavano coricate sotto quell'arco, i sergents de ville avrebbero certamente avuta la peggio. Dal 1878 in poi passarono parecchi anni, nè le cose sono punto mutate, giacchè degli egregi pubblicisti di Francia hanno, anche in questi ultimi giorni alzata la voce per risvegliare la carità pubblica e additarle di nuovo la turba immensa, che in mezzo al lusso della capitale del mondo civile non può trovare un onesto rifugio dove passare la notte.

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ARABELLA

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De Marchi, Emilio 4 occorrenze

Si attaccano di più quando temono d'essere abbandonate.

Un giorno, poco prima dell'ora del pranzo, il signor Tognino, entrando lentamente e cautamente nella camera della malata, la trovò addormentata, più seduta che stesa sul letto, avvolta in parte in uno scialle di lana, colla bella testa sprofondata nel candore del cuscino e delle guarnizioni, la bocca dischiusa a un lieve respiro, avviluppata dal candore niveo del letto, colle mani abbandonate sul libro delle preghiere. Il suocero collocò delicatamente sul tavolino un fiaschetto di vecchio Xeres, che aveva acquistato apposta, si avvicinò pian piano al letto, posò leggermente la mano sulla fronte della malata, la sentì umida e fresca, e si ritrasse leggermente, mettendosi a sedere in un angolo oscuro, dietro la finestra, da dove poteva sorvegliarla senza essere veduto. Partita la mamma, era lui l'infermiere e il padrone di casa. Per essere più pronto aveva portato da scrivere nella stanza vicina e vi rimaneva tutte le ore che poteva rubare agli affari. Su Lorenzo non c'era da fare un gran conto; si vedevan di rado; si sarebbe detto che i due uomini da qualche tempo si sfuggissero. Qualche cosa di forte e di duro come un grosso martello da fabbro era caduto sul cuore del vecchio affarista, che non batteva più col battito lento e sommesso d'un cuore in regola col tempo, ma aveva degli scatti, delle corse affannose e precipitose, delle strane immaginazioni, che riempivano la notte di fantasmi, quando voltandosi e rivoltandosi nel letto, il padrone cercava invano di riattaccare il sonno. E non da ieri, ma da un pezzo, se cercava indietro, era cominciata questa sua palpitazione, che gli ultimi avvenimenti, la rabbia e lo spavento, non avevano fatto che incrudelire. L'uomo non era più l'uomo di prima fin dal giorno che s'era parlato di dar moglie a Lorenzo, e che, andando verso le Cascine, s'era incontrato per caso, o per destino, o per disgrazia - chi sa come si muove il mondo? - nella figliuola adottiva del signor Paolino. Era quella stessa figura elegante, bionda e delicata, che ora dormiva nel molle abbandono della stanchezza, che una donnaccia aveva osato toccare, che una masnada di pezzenti voleva trascinare nel fango, che lui però avrebbe difeso, ringhiando e mordendo, se ciò era necessario. Se il nostro affarista fosse stato un filosofo, capace di frugare in mezzo ai ferravecchi della sua vecchia e ingombra coscienza, forse avrebbe trovato che in questo accanito furore di difesa era in giuoco anche un interesse nuovo e curioso, poco chiaro allo stesso interessato, ma che dava alle sue ragioni una forza nuova e premurosa. Salvare Arabella voleva anche dire salvare quanto di meno disprezzabile era rimasto in lui e insieme quanto di veramente prezioso sentiva ancora di possedere nell'affezione e nell'opinione di questa sua figliuola. Il castigo non poteva essere che questo: il resto... che cosa gl'importava del resto? Ecco perché sospirava l'ora e il momento di vederla fuori dal letto, completamente ristabilita, non solo per sottrarla alle congiure, alle pressioni, alle vessazioni di gente cattiva, ma per collocarla in qualche luogo lontano e sicuro, dove non potessero arrivare le voci dei volgari interessi, dove soffrisse meno con lei qualcheduno o qualche cosa che viveva di lei. Più che vederla e intenderla questa necessità, egli la sentiva con un sollevamento d'animo tutte le volte che poneva il piede nella stanza della malata, tutte le notti che si avvicinava sommessamente al suo letto e che procurava di consolarla, di rassicurarla, di fornirle delle spiegazioni. Curvo, rannuvolato in una oscura commozione, in cui alla pietà mescolavasi un senso irritato d'odio e di vergogna, sollevava di tempo in tempo lo sguardo sulla persona dell'addormentata, che nella placida e lenta quiete pareva morta. Era uno sguardo perplesso, che non osava più, come una volta, penetrare e guardar fisso in faccia alle cose, qualunque fossero, sicuro di sostenerle; ma ritraevasi dal letto colla mortificata e lenta tristezza, con cui l'occhio dell'analfabeta si toglie da uno scritto, che suscita in tutti gli altri una viva e potente commozione e non dice nulla a chi non sa leggere. Forse era già troppo tardi per mettersi da capo a imparare a leggere quel che vi può essere di bello e di santo nel cuore d'una buona creatura. Forse non gli avevano mai insegnato a decifrare questo alfabeto: e se nella prima giovinezza aveva sentito a parlarne, troppo tempo, troppe cose eran cadute in mezzo. Peggio per lui! ma peggio ancora se Arabella avesse letto nel suo, di cuore! Ogni suo sforzo, ogni sua ambizione doveva mirare a una cosa sola: impedire che Arabella diventasse il ludibrio di Milano. Qualche avvertimento in questo senso gliel'aveva dato anche il notaio Baltresca, che considerava la questione coll'occhio pratico del mestiere. Un processo è sempre uno scandalo; si sa dove si comincia, non dove si finisce. Preti, monache e avvocati vi potevano pescar dentro il loro interesse. E anche supposto che l'ortolana venisse condannata a qualche mese di prigione, chi poteva impedire, per esempio, che Arabella fosse chiamata in Tribunale a deporre in qualità di testimonio, in mezzo a quella marmaglia, tra uscieri, sbirri, scribi e farisei, per sentirsi ripetere sul viso infamie di ogni colore?... Se ciò fosse accaduto - e la sola idea gli mozzava il respiro - da qual parte sarebbe stato il reo? e da qual parte il giudice più terribile? Chi avrebbe impedito all'avvocato Baruffa di rifare a modo suo la storia? E Arabella avrebbe dovuto assistere a una bega di questa sorta, bersaglio a Dio sa quali infamità? no, no. Questi pensieri, solamente col passare, gli facevano corrugare la fronte e gli tiravano il capo all'ingiù. Temeva quasi che avessero a turbare e a funestare il riposo dell'addormentata. La bega era grossa e bisognava uscirne al più presto, nel miglior modo possibile. Di cosa in cosa si ricordò d'aver ricevuta una lettera nella quale il Botola gli parlava di avvocati, di processo, di Lorenzo. Col Botola i Maccagno erano legati da un'amicizia che risaliva fino al quarantotto, fino ai tempi che il padre di Tognino, detto il Valsassina, cominciava a guadagnare i primi quattrini in una botteguccia di liquori fuori di porta. Venute le grosse brighe della rivoluzione, mentre gli "italianoni" facevano alle barricate, Botola e Valsassina introducevano in città molte brente di spirito di contrabbando, mettendo in questo modo la base alla fortuna. Nell'agosto tornarono i castigamatti, ma la gente aveva tutt'altro per la testa che di verificare le bollette di dazio. Poi eran passate molte altre cose. Chi andò sulla forca, chi emigrò, chi tornò a portare il baldacchino. Annegò chi non seppe nuotare. E per poco non annegò anche il Botola, troppo corto d'ingegno e d'istruzione, per saper resistere ai tempi nuovi, bianchi, rossi e verdi. Fallito un paio di volte, il vecchio disgraziato vivacchiava meschinamente, facendo il pignoratario su piccoli prestiti. Che cosa gli scriveva il vecchio amico? Cercando nelle tasche, trovò in mezzo a una manata di cartacce un cencio con su disegnati certi scarabocchi grossi e sgangherati, che volevan dire parole, quantunque somigliassero più ai pali di una vigna battuta dalla tempesta, che non ai segni inventati da Cadmo. Il pignoratario riferiva d'aver saputo che i parenti Ratta, Maccagno, Borrola, con altri diseredati, intendevano infirmare il testamento e intentare una causa, perché fosse tenuto valido il testamento anteriore del '78. "Faccian pure la causa!" rispondeva mentalmente colla solita asprezza il signor Tognino, come se qualcuno fosse lì a sentirlo. "In quanto ai signori Borrola, che vantano delle pretensioni, son curioso di sapere su che cosa appoggiano le loro speranze. È tutta rabbia, è tutto veleno, perché ho scoperto il loro giochetto e ho strappato Lorenzo ai loro intrighi. Faccian pure, ma non si lascin trovare da me in un momento cattivo." Arabella mormorò qualche parolina dolente e mosse leggermente la mano sul libro aperto abbandonato sul letto. Il vecchio si scosse da' suoi pensieri, come se quelle voci rispondessero in qualche modo a ragionamenti che egli faceva dentro di sé e sentì che, se gli bastava il cuore di sfidare mezzo mondo, pure di fronte a sua nuora avrebbe avuto tutte le paure. E come se istintivamente si mettesse sulle difese, socchiuse un poco una imposta e si tirò meglio nell'angolo oscuro. La stanza s'immerse ancor di più nella penombra, il fascio di luce che entrava dalla finestra socchiusa andava a stento fino a rischiarare il guanciale e una parte del letto, dove Arabella, di sogno in sogno, di imagine in imagine, percorreva la storia della sua vita. Nei sogni le impressioni tornano spesso sfigurate, sconnesse, più grandi o più piccole della verità; ma non perdono mai il significato che le fa nascere. Avviene non di rado che nell'ingrandimento grottesco ed esagerato o nella riduzione che sopportano, si manifesti a chi sogna, analizzato o riassunto, il significato che inutilmente aveva cercato ad occhi aperti. Il senso è più libero a percepire ciò che la ragione o non osa o non sa, o non vuole intendere: e dai sogni qualche volta s'intende la vita come dal commento il poema. Arabella, ritornando sulle sue memorie, ritornava a soffrire e a godere più vivamente d'impressioni non bene afferrate la prima volta, come se in sogno germogliassero i piccoli semi caduti nei luoghi più oscuri dello spirito. Di cosa in cosa le parve di tornare ai primi giorni del suo matrimonio e precisamente al suo primo entrare nella casa nuova. Suo suocero aveva fatto degli inviti. La casa era come quella sera piena di gente nuova e sconosciuta che la salutavano, si congratulavano, la soffocavano di parole e di baci non chiesti e non desiderati. Una specie di nausea dallo stomaco saliva al capo, effetto forse d'un forte vin "brulé", che alcuni servitori in guanti bianchi portavano intorno sui vassoi. Parevale che tutta quella gente fosse lì per saziarsi in qualche maniera di lei, coi baci, cogli occhi, coi commenti, come fanno i bimbi, che trovato un pezzo di zucchero in un cantuccio, se lo succiano un po' per uno. La zia Sidonia, in un vestito di raso rosso color brace, scollata in una foggia indecente, se la stringeva sul seno morbido e caldo, chiamandola il suo bell'angiolino, mentre lo zio Mauro, seduto al pianoforte, tempestava sopra una canzonetta veneziana di sua invenzione, che faceva ridere tutte le bocche. Sì, ridevano tutte quelle faccie sconosciute di parenti, di mezzi parenti, di agenti di cambio, di amici di suo marito, di cui sentiva ripetere i nomi senza afferrarli in mezzo al frastuono. Solamente papà Paolino colla schiena appoggiata allo stipite dell'uscio guardava in su per non farsi vedere a piangere. C'era la mamma, la più bella donna in mezzo a molte signore brutte, magre, dal tipo volgare, che ripetevano il colore terreo e le mandibole pronunciate della famiglia, che seguitavano a guardarla come se dicessero in cuor loro: "Povera diavola, dove sei capitata!" E stava in mezzo alla folla coll'animo addolorato, quando vide entrare con un passo lesto senza suono, in abito nero anche lui, rigido e smorto come tutti i morti che camminano, il suo povero papà. Come fosse vivo, come venisse alla festa, che cosa le dicesse sottovoce non riusciva a capire. La rimproverava d'essere venuta meno al suo voto? era malcontento anche lui di vederla in questa casa? L'immagine dell'infelice rimasta impressa negli anni in cui la memoria è più viva, mantenuta viva e presente per tutti gli anni successivi da un generoso desiderio di riparazione morale, era troppo famigliare ai pensieri della figliuola perché essa si sgomentasse di rivederla in mezzo a gente viva; anzi se lo strinse sul cuore, forte, teneramente, e cominciò a parlargli con calore per dimostrargli che tutto era proceduto secondo la volontà di Dio, che l'aveva fatto per amore e per compassione della sua mamma; e nell'abbracciarlo sentiva una così profonda compassione, che cominciò a singhiozzare davvero... Il vecchio Maccagno, a sentire la malata singhiozzare, uscì dal buio e dalla tempesta de' suoi pensieri, si accostò al letto. Arabella, agitata da un piccolo fremito, corrugava la fronte collo sforzo di chi mira a liberarsi da una dolorosa oppressione. Egli allora, quasi per liberarla dall'incubo, le prese dolcemente la mano e se la tirò a sé, dolcemente, chinandosi sopra di lei per dimandarle che cosa si sentisse: e in quella Arabella aprì gli occhi pieni di lagrime, li fissò, come chi stenta a orientarsi, in faccia al suo premuroso infermiere. Lo sforzo che essa fece di sorridere al di sotto del velo di lagrime che le copriva gli occhi e l'abbandono inerte della sua persona non abbastanza ridesta suscitarono nel vecchio uomo una violenza di affetti, di tenerezza, di sgomento e di selvaggi rancori, una tremenda paura di sé, una così oscura oppressione, che per un istante non vide innanzi a sé che un gran bianco, un gran bianco... "Perché piange?" "Non so, un brutto sogno." "Non si sente mica più male?" "Non mi pare." "Devo aprire le imposte?" "Sì: ho dormito un pezzo?" "Forse un'ora." "Lorenzo, dov'è?" "È stato qui: ha visto che dormiva..." "Povero papà!" uscì a dire Arabella, non ancora ben uscita dalla sua dolorosa visione, continuando, per un meccanismo nervoso, il discorso accalorato, che stava facendo in sogno al suo papà morto. Il suocero attribuì a sé la tenera espressione di un nome così affettuoso, che egli non aveva mai osato chiedere per sé e che sua nuora non era mai stata animata a concedere. Colto in un momento di debolezza, s'intenerì ancor di più, e mettendosi con moti frequenti a carezzare i capelli della malata, si abbandonò anche lui, per la prima volta, a darle del tu: "Guarisci, guarisci presto, e andremo in campagna. Vedrai che bel sito! Non sei mai stata in Tremezzina? In primavera è il paese delle rose. Rose dappertutto... Anch'io ho bisogno d'andar fuori dei piedi della gente, sono un poco stanco e malato anch'io e non vedo l'ora di collocarmi in campagna a coltivare le rape e le verze..." E cercò di ridere per combattere la molle malinconia che l'assaliva da tutte le parti. Questa malinconia montava come un'acqua che scaturisce improvvisamente da una vena sconosciuta al rompersi di una roccia. Da dove derivano queste acque fredde e limpide che il passeggero incontra sulla sua strada polverosa in mezzo a un paese brullo, riarso dal sole? La natura ha i suoi misteriosi serbatoi che mandano rigagnoli ai più lontani strati e non di rado spiccia l'acqua pura anche al disotto del fango. Sentendo che insieme all'onda refrigerante saliva qualche cosa di amaro, messo in paura o in sospetto d'una mestizia che lo conduceva a cantare delle arie di gioventù col falsetto del vecchio, spaventato all'idea che egli potesse dire una sciocchezza od una meschinità, accomodò con una certa furia distratta le pieghe del letto e soggiunse, mutando tono: "Ho trovato un vin vecchio sincero che le farà bene: lei ne deve bere un bicchierino. Il dottore raccomanda il vin vecchio. Lo assaggi. Questo è sangue." Versò il vino nel calice e si accostò di nuovo, tenendo il bicchiere colle due mani, per resistere a un tremito convulso che faceva vibrare tutto il corpo. Arabella si sollevò un poco, colla sinistra mandò indietro i capelli folti che scendevano scomposti, e coll'altra mano aggradì il calice, in cui brillava un vino secco color dell'ambra. "Beva, questo è sangue..." ripeté il suocero con un tono monotono d'uomo distratto, socchiudendo gli occhi.

Arabella ponevasi a sedere nel fieno e colle mani abbandonate sui ginocchi, ora incantavasi a contemplare la schiera delle ragazze, splendenti sotto la luce viva nei chiari vestiti rossi, e così tenacemente attaccate alla terra e agli affetti della terra: ora il pensiero volava ad Angelica così lieta negli affetti del cielo. Essa non sapeva cantare. Anche in chiesa la sua voce, avvilita, non aveva più la forza di seguire le litanie. Soffriva non più per non saper rinunciare, ma come chi ha rinunciato troppo, e muore di rincrescimento in un'inedia morale. Poco doveva durare questo suo riposo. Passati dieci, dodici, quindici giorni, la gente avrebbe cominciato a meravigliarsi una seconda volta di trovare in lei della resistenza, l'avrebbe accusata una volta ancora di egoismo e di freddezza di cuore, perché dove trattavasi di una fortuna grande e cara a tutti, essa ostinavasi a non vedere che il suo orgoglioso sacrificio. Respingere l'eredità non poteva senza mostrarsi ingrata, incoerente, irragionevole, per non dire pazza del tutto: e non poteva accettarla senza stendere la mano a suo marito. E se questi era veramente pentito, se prometteva di diventare un uomo onesto e laborioso, se aveva bisogno d'un erede per restaurare la sua casa, se tutti facevano voti per questa benedetta assoluzione, di cui essa aveva il merito maggiore, perché ostinarsi a non credere alla virtù di questa misericordia? perché rinchiudersi in una reazione arcigna e sterile? perché non innovare un dolce sistema di moglie paziente, di massaia casalinga, di donna come ce ne son mille, che ingrassano lentamente nella pratica delle modeste virtù, tra la casa, la messa e il pollaio? Questo miracolo doveva essere compiuto per il Corpus Domini Papà Paolino, dopo vari abboccamenti coll'avvocato e con Lorenzo, d'accordo colla mamma e colla figliuola, aveva stabilito per quel giorno solenne un gran pranzo alle Cascine, al quale sarebbero intervenuti oltre agli zii Borrola e a Lorenzo, l'avvocato, il notaio, lo zio canonico: e si sarebbe messa una pietra sul passato. Il Pirello prometteva per quel giorno una panna degna del paradiso. Per quel tempo sarebbe stata pronta ed abitabile la casa padronale di San Donato, un avanzo viscontesco, che sotto le rappezzature e le corrosioni conservava ancora la forte ossatura del suo buon tempo. La parte centrale di quel vecchio caseggiato di robusta costituzione architettonica conteneva ancora qualche ampia sala, qualche segno di vecchi dipinti, molte guardarobe e mobili rococò guasti dall'umido, dal tempo e dalla trascuratezza degli ultimi padroni, che vi avevano abitato nei primi anni del secolo. Mentre il tempo era bello, papà Botta, coll'aiuto di Ferruccio, fece venire imbiancatori e tappezzieri, mandò a Milano un carro a prendere il mobilio, perché di tornare in via Torino, dopo i tristi avvenimenti, non si parlava nemmeno. Ferruccio, in questo tramestìo, ebbe il suo da fare. Il signor Lorenzo dovette in molte faccende fidarsi di lui che divenne un personaggio importante, il confidente e il segretario di tutti gli interessati nella conciliazione. Rianimato quasi da una nuova energia attese al trasporto dei mobili, che accompagnò a San Donato, facendo e rifacendo la strada da Milano alle Cascine due tre volte la settimana. Portò molte carte a firmare alla signora, secondo le indicazioni del notaio, e cercò di spiegarle lo stato degli affari, come eran rimasti sul tavolo del povero signor Tognino: raccolse gelosamente la corrispondenza, i valori e le cartelle di rendita, che scaturivan quasi per incanto dai cassetti e dai mobili dell'ammezzato.

Nel pesante sopore in cui più d'una volta vide suo padre accapigliarsi col sor Tognino, gli era parso di udire la voce della zia Colomba mescolata ad altri rumori che lo menavano lontano, ai giorni della sua fanciullezza, tra i compagni di stamperia, tra i chierici del seminario, tra le più remote e abbandonate sensazioni della sua vita oscura o modesta. "Ho sete" balbettò sbarrando gli occhi. Non ben desto gli parve di vedere la signora Arabella attingere dell'acqua a una fontana che scaturiva lì presso, nella luce abbagliante d'una lucerna, e curvarsi verso di lui a refrigerargli la bocca e la fronte abbruciata. Capì ch'eran sogni di febbre e voltò il capo con espressione dolente, chiudendo di nuovo gli occhi. "È meno arso di stamattina" disse sottovoce la donna. "L'occhio lo trovo limpido." "Ora non delira più, ma ieri faceva pietà. Ha nominato anche lei." "Povero giovane!" "Vuol scrivere? sul tavolino c'è tutto. Non guardi il disordine. Sono i libri di questo figliuolo che, quando può, ama leggere e scrivere. Fa qualche volta anche dei sonetti che il padre Barca trova mica male. Io mi accomodo nella stretta e appoggio un poco la testa ai piedi del letto." La Colomba collocò la lucernetta sulla scrivania, tirò davanti un vecchio paravento per togliere la luce dagli occhi del malato e andò a sedersi su un cuscino in terra per poter appoggiare la testa piena di sonno e di dolori al materasso. Arabella, segregata tra le finestra e il muro, si tolse il mantello dalle spalle, collocò il berretto sul tavolino, e scelto un foglio tra quelli ch'erano sparsi tra i libri, cominciò a scrivere d'impeto: "Caro zio Demetrio, la sua povera Arabella, dopo aver inutilmente sperato nell'aiuto di Dio, non ha altri a chi ricorrere che al suo buon zio, che fu sempre per lei come un padre. Immagini in quale abisso io son caduta da queste parole: ho abbandonata stasera la casa di mio marito, disposta a morir di fame piuttosto che ritornarvi. Ho schiaffeggiata una donna... O mio caro zio, lei conosce quasi giorno per giorno la mia vita, i miei sentimenti, la mia religione, la mia forza di resistenza al male e all'ingiustizia: quindi non ho bisogno di dimostrarle che se ho potuto venire a questa risoluzione, è proprio perché non ne posso più, non ne posso più. Avrei a scrivere troppo se soltanto accennassi alle vicende dolorose che mi hanno condotta a poco a poco a questo passo. Mi hanno strappato alla mia vocazione, hanno fatto di me una specie di cambiale che doveva riparare a un disastro di famiglia: mi hanno circondata di un fasto senza amore; e quando cominciavo a vivere de' miei affetti di madre, hanno insultato me e la mia creatura per odio al nome che porto; ora che mi pareva di aver tutto perdonato mi insultano nella più sacra mia dignità di donna, mescolandomi ad avventure di trivio... "Io mi domando se non ho insultato anch'io al mio dovere, credendo che il dovere di una donna onesta possa arrivare fin qui. Questa non è vita, è una condanna che sento di non meritare. Dovessi lavorare venti ore al giorno, logorarmi gli occhi e le mani per un boccon di pane, sarà sempre una condizione più degna di questa quiescenza e quasi complicità a un sistema di cose che viola ogni legge di onestà, di delicatezza, di rispetto. "Immagino il suo stupore, povero zio, nel leggere queste parole. Ella chiederà se io impazzisca; non crederà possibile che la sua Arabella osi scrivere a questo modo. Si meraviglierà anche perché io non le ho scritto mai nulla di questo stato di cose e che aspetti a gridare aiuto quando l'acqua mi arriva alla gola. Sì, è vero: non ho osato prima di quest'oggi dolermi con nessuno e invocare l'aiuto di nessuno, perché ho sempre creduto che avrei vinta da sola l'iniquità della mia sorte; perché non volevo coi miei lamenti accusare la buona fede di nessuno; perché speravo ancora nell'aiuto di Dio e, superba come sono, speravo nella forza del bene. Dio forse mi punisce, o almeno mi abbandona. Il male è più forte del bene nel mondo, dove, per un cuore che si sacrifica in olocausto sull'altare della virtù, cento egoismi vigliacchi e potenti trionfano incoronati della loro sfrontatezza. Il bene è un sole luminoso ma troppo in alto, mentre di male è seminata la terra che non dà altro frutto e di questo bisogna mangiare per vivere. Mentre scrivo colla febbre indosso, mi pare che anche l'inchiostro abbia color di fango. Zio, o io sono per impazzire o sono molto malata. Non frapponga indugio: venga, non mi lasci naufragare in quest'oceano di amarezze... intendo di chiedere la separazione legale, subito, senza esitazioni, senza restrizioni. Intendo restituire a quella gente tutto ciò che potrò restituire e di partirmene più povera di prima. Nessuno compenserà il male che questa gente mi ha fatto, ma io perdonerò tutto, se ciò può muovere la misericordia di Dio ad aver compassione di me. La fede non basta, lei forse lo sa, che ha sofferto anche lei la sua parte nel mondo. Sopraggiungono pensieri che per poco non spingono alla disperazione. Venga subito a Milano, mio buon zio, e faccia valere per partir subito, la ragione che una sua povera nipote è sull'orlo del sepolcro. Più malata di me non si può essere e la morte dev'essere una cosa ben terribile, se per morire si deve soffrire di più. Mi telegrafi il suo arrivo qui a Milano in casa..." La mano fu arrestata nella ricerca d'un indirizzo. Arabella alzò la testa, come se si svegliasse da un lungo sonno, si guardò intorno con occhio smarrito, impaurendosi di trovarsi a un tratto sola, in casa altrui, di notte, ospite di gente quasi sconosciuta. Che cosa era venuta a fare in questa casa non sua? La Colomba, rotta dalla fatica, s'era addormentata col capo appoggiato al letto. Il suo respiro lungo e oppresso era l'unico rumore che rompesse il gelido silenzio della stanza, mentre di fuori la furia d'un vento primaverile faceva stormir la pianta. Qualche stella scintillava sul nero sfondo dei vetri. Sentì sonare alcune ore che il vento portò via senza lasciarle contare. Coi gomiti appoggiati al tavolino, reggendo la testa coi palmi, rabbrividendo ai soffi freddi che entravan per le fessure, Arabella si abbandonò alla vertigine de' suoi pensieri, che la travolsero di ombra in ombra fino all'orlo di un assopimento che ha del sonno tutti i fantasmi ma non l'oblio. E poiché tutti i dolori si conoscono tra loro, il suo patimento presente la menò a risentire le angoscie provate al letto del povero Bertino, a confondere nel rilassamento delle sensazioni se stessa col povero piccino agonizzante, a compassionare se stessa in lui, a combattere confusamente contro la morte, che voleva portarsi via il caro biondino. Rivide lo squallore delle Cascine, lo smarrimento della sua povera mamma divenuta vecchia vecchia. E allora cercava di dimostrarle che il malato non era il bimbo, ma un'altra creatura, che perdeva la vita col sangue negli spasimi mortali di un aborto: finché sopraggiungeva anche lo zio Demetrio a fare un discorso lungo e confuso sul conto del signor Tognino... Si risvegliò a una voce che chiamava lì presso. In principio credette che fosse ancora lo zio Demetrio, ma quando riconobbe il luogo, la scrivania, la lettera rimasta tronca, capì che aveva fatto un sogno. "Ho sete..." ripeté ancora la voce di poco prima, La Colomba dormiva pesantemente sdraiata sul tappetino. Arabella, riconosciuta la voce del malato, si alzò, pose la lucernetta sul cassettone e si mosse a dargli da bere. Ferruccio s'era un poco levato sul cuscino per togliersi il sacchetto del ghiaccio, che gli scivolava dietro il collo. Vedendo venire verso di lui la signora Arabella, socchiuse gli occhi e dondolò un poco la testa, come chi si accorge di vaneggiare sempre e mostra di compiangere se stesso. Arabella versò dell'acqua nella tazza e l'accostò alla bocca del malato, che riaprì gli occhi e bevette quasi fino al fondo. "Come si sente?" Il giovine fissò gli occhi in faccia alla sua visione e interrogò ancora una volta colla pupilla immobile: "È proprio lei?" balbettò. "Vuol bere ancora?" "No, no..." disse Ferruccio, senza mai distaccare gli occhi dalla sua visione. "Vuol ancora il ghiaccio sulla testa?" "No, no..." e allungò la mano per prendere quella del suo fantasma. Sentì veramente una mano viva e calda. E, come se da quel calore irradiasse la vita, la faccia dell'infermo arrossì, la pupilla si illuminò, e dopo aver chiusi gli occhi per sottrarsi a un acuto tormento, li riaprì velati di lagrime. "Perché è qui?" interrogò sommessamente. "Lo saprà: ora stia tranquillo e lasci riposare la povera zia." Ferruccio si tirò sotto obbediente. Non era ben sicuro che non fosse un sogno. Cominciò ad albeggiare. Il cielo prese a schiarirsi dietro i ricami del castagno amaro, in cui svegliavasi il bisbiglio degli uccelli. La lucernetta non avendo più olio, Arabella la portò in cucina e la spense: poi ritornò nello stanzino, coprì le spalle col dolman, si rannicchiò di nuovo davanti alla scrivania, la faccia nelle mani, tutta raccapricciante nei brividi mattutini, mezza istupidita dal sonno e dalle emozioni. A San Barnaba suonò l'avemaria, e ad ogni rintocco della campanella il cielo seguitò a schiarirsi, come se obbedisse ad un comando, finché una pennellata di carminio venne ad illuminare i comignoli e le gronde dei tetti. Il vento, spazzate le nuvole, aveva preparata una splendida giornata alle miserie umane. Ferruccio raccolse l'armonia di quel risveglio e cercò inutilmente intorno a sé la dolce immagine, che era venuta a porgere ristoro alle sue fauci infocate. Vide invece la zia Colomba, che, riscossa dal suono della campana, saltava in piedi tutta agitata. "Hai dormito?" "Sì." "Tu sei più fresco, mio cuore. Ho dormito anch'io un pezzo." Ferruccio si persuase ch'egli aveva proprio sognata la dolce consolatrice e sospirò. La zia Colomba nel suo dormire fitto e pesante aveva dimenticata interamente la povera creatura che era venuta a cercare ospitalità in casa sua e fu per trasalire di paura, quando vide un corpo mezzo abbandonato sul tavolino nella luce crepuscolare. Si accostò, posò la mano sulla testina fredda, e presa da quell'impeto di carità umana, che nel cuore della povera gente non è ancora guasto dalle definizioni, si abbassò su quel corpo irrigidito, strinse la testina nelle mani, vi accostò il viso per riscaldarla e seguendo i suggerimenti della buona madre natura, prese a dire sommessamente: "O la mia povera figliuola, o il mio caro angelo, che ho abbandonato qui solo a patire. O il mio povero faccino freddo, le mie povere manine... Il sonno ha tradito anche me..." A questa voce che la compassionava, come se in lei si spezzasse un edificio di ghiaccio che l'aveva sorretta nella sua rigida lotta contro gli uomini, nella debolezza in cui è sempre la coscienza mescolata alle ombre dei sogni, Arabella fu presa da un tal delirio di pianto, che una bambina schiacciata dalle ruote di un carro non avrebbe potuto gridare di più. Quel gran mucchio di mali, che da otto mesi era andato accumulandosi a fuscellini, divampava in una fiammata. Oh avete un bel dire che la donna è nata pel sacrificio, che può colla grazia e colla sua forza morale vincere e abbellire la tristezza d'ogni destino, assurgere al disopra del fango che la circonda, compiere anche in mezzo alle abbiezioni la sua missione d'amore e di pazienza! Avete un bel dire che a lei la fede è sostegno incrollabile: non è vero. La donna ha bisogno d'amare e d'essere amata, come il fiore ha bisogno d'aria e di luce. Quando la violenza delle cose, la debolezza dei giusti, la tirannia dei tristi costringono una debole creatura a respirare aria corrotta, e voi non date a una povera donna che amarezze, oltraggi e fango, null'altro che fango, lasciate almeno che essa gridi del male che le fate... Coi pugni dentro i capelli scarmigliati dalla veglia, Arabella Pianelli gridava veramente in un pianto lamentoso senza lagrime, dilaniata dalla coscienza del suo stato, avvilita dopo una notte di falsa e morbosa resistenza, assiderata dal freddo della febbre e della notte. "Non così, non così la mia creatura...." prese a dirle all'orecchio la Colomba, serrandola alla vita colle braccia e posando la sua testa grigia sui capelli morbidi e biondi della tribolata. "Non così, per amor di Dio. Ciò può far male anche a questo figliuolo malato. Crede che non ci sia un Signore anche per noi? Io capisco e compatisco, angeli custodi, ma non bisogna mai disperare della Provvidenza. Questo è un piangere che rompe il cuore e del nostro cuore dobbiamo rendere conto come di un vasetto d'oro che Dio ci ha dato in custodia. Ti hanno maltrattata, il mio angelo; ti hanno venduto, avvilito, insultato nel tuo sentimento di sposa e di madre, e so che certi mali fan perdere la testa. Tu non hai meritato questi castighi, è vero; ma sappiamo noi se non soffriamo per il bene di qualcuno? Nostro Signore aveva meritata la sua passione? E tante povere mamme che non han da dare da mangiare ai loro figliuoli, meritano di soffrir tanto? Noi non sappiamo nulla dei misteri del mondo, cara Arabella; ma dobbiamo tener dacconto il nostro cuore, perché gli è come il tabernacolo del Santissimo. Se non ci vorranno bene gli uomini, ci vorranno bene gli angeli, ma noi dobbiamo aver sempre pronto il cuore a ricevere il bene che ci vorranno dare o presto o tardi. Su dunque, alza la testa, mio caro angiolo, e vieni fuori con me, un momento. C'è qui la chiesa vicina: noi abbiamo bisogno di essere aiutate a patire..." La Colomba ricondusse la figliuola di nuovo nell'altra stanza. Le ravviò un poco le vesti; fece un po' di fuoco ancora e versò quel resto di caffè che era rimasto in fondo al bricco. La persuase a non mandare per ora la lettera allo zio Demetrio e a cercar invece di quella sua amica di collegio, l'Arundelli, a cui poteva confidare il suo segreto. Meglio di tutto poi sarebbe stato di andare alle Cascine in cerca della mamma. La mamma è il miglior dottore per certi mali...

La Bufera ed altro

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Montale, Eugenio 1 occorrenze

Si direbbe che la vita non possa accendervisi che a lampi e si pasca solo di quanto s' accumula inerte e va in cancrena in queste zone abbandonate. «Del salón en el àngulo oscuro - silenciosa y cubierta de polvo - veìase el arpa ...» »{ Eh sì, il museo sarebbe impressionante se si potesse scoperchiare l' ex7paradiso del Liberty. Sul conchiglione7terrazzo sostenuto da un Nettuno gigante, ora scrostato, nessuno apparve più dopo la sconfitta elettorale e il decesso del Leone del Callao; ma là, sull' esorbitante bovindo affrescato di peri meli e serpenti da paradiso terrestre, pensò invano la signora Paquita buonanima di produrre la sua serena vecchiaia confortata di truffatissimi agi e del sorriso della posterità. Vennero un giorno i mariti delle figlie, i generi brazileiri e gettata la maschera fecero man bassa su quel ben di Dio. Della duen¹a e degli altri non si seppe più nulla. Uno dei discendenti rispuntò poi fuori in una delle ultime guerre e fece miracoli. Ma allora si era giunti sì e no ai tempi dell' inno tripolino. Questi oggetti, queste case, erano ancora nel circolo vitale, fin ch' esso durò. Pochi sentirono dapprima che il freddo stava per giungere; e tra questi forse mio padre, che anche nel più caldo giorno d' agosto, finita la cena all' aperto, piena di falene e d' altri insetti, dopo essersi buttato sulle spalle uno scialle di lana, ripetendo sempre in francese, chissà perché, « «il fait bien froid, bien froid » », si ritirava subito in camera per finir di fumarsi a letto il suo Cavour da sette centesimi.

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Malombra

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Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

Forse lo spirito, deposti gli uffici del moto e del senso, sciolto da ogni legame vitale, vi posava ancora tranquillo; come chi è sul punto di lasciar per sempre, dopo lungo soggiorno, una casa onde pur desiderava partirsi, che sta sulla soglia contento, ma senza rancori ormai né impazienze, anzi con un'ombra di pietà per le camere chiuse, abbandonate al silenzio. Sapeva di andare alla pace, al sospirato riposo; e sapeva pure, nella chiara visione appena i ncominciata per esso, di essere finalmente amato, secondo i suoi sogni della vita terrestre, da un cuore tenero e forte che gli sarebbe fedele senza fine. Sulla faccia opposta di tante cose che guardate da questo nostro lato della morte gli eran parse iniquamente scure, ammirava un ordinato disegno, una luce di bontà e di sapienza. Ma le fontane, discorrendo tra loro nella notte quieta, dicevano che Marina era passata come Cecilia, il conte Cesare come i suoi avi, che nuovi signori verrebbero per passare alla loro volta e non valeva la pena di turbarsene. Quando, presso l'alba, uscì la luna e si posò sul pavimento della loggia, sulla pompa delle dracene e delle azalee che nessuno avea pensato a rimuovere, ella parve cercar là dentro, col suo sorriso voluttuoso, ciò che non si trovava ancora, quella notte, nel Palazzo, ma che la vicend a delle cose umane vi ha quindi portato: degli altri occhi da empir di chimere, degli altri cuori da muovere alla passione, invece di quelli che se n'erano appena liberati per sempre. FINE

Clelia: il governo dei preti: romanzo storico politico

675929
Garibaldi, Giuseppe 3 occorrenze
  • 1870
  • Fratelli Rechiedei
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Le ghette di cuoio erano state abbandonate da Marzio ed il suo abito di color azzurro con ampie saccoccie non offriva oltre l’ampiezza alcun’altra singolarità. La circostanza non era opportuna a lunghe espansioni. Si leggeva però su quelle due straordinarie fisonomie un vero e mutuo sentimento di piacere e di simpatia. Tant’è; io sono innamorato dei briganti e se fossi una donna chi sa, che non diventassi una brigantessa. In questi tempi ove la gloria e l’onore italiano hanno avuto certi spiacevoli sfregi, dico il vero: quel pugno d’uomini chiamati briganti che per sette anni si sostiene contro un esercito numeroso altri due eserciti di carabinieri e di guardie di pubblica sicurezza un quarto esercito di guardie nazionali ed un’intiera ostile popolazione; quel pugno d’uomini dico: chiamateli come volete, sono almeno uomini di grande coraggio. E se voi signori governanti in luogo di mantenere la scellerata istituzione prete vi foste adoperati all’istruzione del popolo quegli stessi briganti in luogo di essere stromenti di reazione pretina sarebbero oggi nelle file nostre dandovi l’esempio del come si combatte, uno contro venticinque. Dunque: Viva i briganti! meno gli assassini, s’intende. E ancora una parola all’orecchio, signori alto-locati che m’intend’io! Quando voi assaltaste le mura di Roma (per devozione lo si sa) foste voi meno briganti derubando e sgozzando un povero popolo che vi credeva amici. Voi, non solo siete briganti, ma per di più traditori! Ma mi direte: quelli erano repubblicani, gente infesta al mondo. E cosa eravate voi, signor Menzogna? non repubblicano certamente, perché per esserlo bisogna essere onesto. E... quanto ad onestà vi lascio metter la mano sulla coscienza... se pure ne avete una. E a Castelfidardo, a Gaeta, non erano republicani che assaltavate! Con che legalità, con che diritto di genti? né più né meno di quello che vanti un brigante sulla strada od in casa colla sola differenza, che il brigante spoglia, e non sempre uccide, e vi siete imbrattate le mani nel sangue innocente. Chiedo perdono al lettore d’averlo piantato per tanto tempo nel poco piacevole funerale d’un principe per disgredire favellando di grande e piccolo brigantaggio. Giunto il convoglio al camposanto e sepolto il cadavere non una voce vi fu che in suo onore dicesse una parola di orazione funebre. Il povero principe con tutta la sua volontà di fare il bene n’era stato impedito da prematura morte. E che cosa si sarebbe potuto dire di bontà, d’eroismo o d’altre qualità commendevoli non avendo egli avuto il tempo d’esercitarle?

Essi lordano ancora le nostre contrade e sotto pretesti futili rioccupano le posizioni che già aveano abbandonate quando dovevano uniformarsi alla Convenzione del settembre 1864. Or tocca a noi. Pazientammo diciotto anni, subimmo il doppio giogo, egualmente esacrato, dello straniero e del prete. Ed in questi ultimi anni, pronti a menar le mani, fummo trattenuti da quella setta ermafrodita che si chiama de’ moderati, e altra moderazione non ha e non usa che quella d’impedire il fare e il far bene: setta infame e divoratrice siccome il prete, pronta sempre a patteggiare collo straniero, a far mercato dell’onor nazionale pur d’impinguare sull’erario dello Stato che trascina a sicura rovina. Di fuori i nostri amici son pronti e noi accusano di neghittosi. L’esercito, meno la parte legata alla pagnotta, è tutto con noi. Le armi che aspettavamo, per distribuire al popolo, sono giunte e stanno in luogo sicuro. Di munizioni ne abbiamo più del bisogno. A che dunque tardare più oltre? Oual nuova occasione dobbiamo aspettare? Il nostro grido sia: "All’armi"...». E «All’armi! all’armi!» fu la risposta dei trecento congiurati. La stanza romita dove forse gli antichi eroi venivano ancora nella notte a meditare sul servaggio delle nazioni, rimbombò al grido dei trecento giovani, che giuravano di voler libera Roma, e l’eco diffuse tra le secolari macerie dello sterminato Colosseo il maschio grido di quella coorte. Trecento! Trecento come i compagni di Leonida, come gli eroi dell’antica famiglia dei Fabii, erano i giovani nostri amici; i quali non avrebbero ceduto il loro posto, sia di liberatori, sia di martiri per un impero. «Che Dio vi benedica, anime predilette! - riprese Attilio. - Non ebbi mai dubbio dell’unanime eroica vostra risolutezza per l’opera santa! Noi felici, cui la sorte affidò la redenzione dell’antica padrona del mondo dopo tanti secoli di servaggio e di brutture pretine. Or come ognuno di voi ebbe la sua parte di popolo, suddiviso per rioni, ad educare, così quella stessa parte di popolo sia da ciascuno di voi guidata il giorno della battaglia che non sarà lontana, il giorno in cui verranno infranti i ceppi della nostra Roma e risorgerà questo popolo che il prete, schiuma d’inferno, il prete solo, poteva depravare, corrompere, abbruttire a tal segno da cambiare il grandissimo fra tutti i popoli nel più meschino, più abbietto, ed ultimo popolo della terra. Sì, è stato il prete che ha avuto il merito di educare gli italiani all’umiliazione ed al servilismo. Mentre lui si faceva baciare la pantofola dagli imperatori, chiedeva agli altri esercitassero l’umiltà cristiana; mentre predicava l’austerità della vita, egli sguazzava nell’abbondanza, nella lascivia e nel vizio. Inchini e baciamani: ecco la ginnastica insegnata dal prete al popolo. Per Dio, lo dobbiamo a lui se la metà di noi porta il gobbo, od ha la spina dorsale curvata! La lotta che siamo per imprendere è santa. E a noi, non solo l’Italia, ma il mondo sarà grato se giungeremo a liberarlo da questa maledizione. Imperocché tenete per certo che nel mondo intero sarà possibile la fratellanza umana ove sia liberato dai preti...». A questo punto era arrivato col suo ardente discorso Attilio, quando un lampo improvviso illuminò la vasta navata del Colosseo, come se a un tratto mille torcie si fossero accese per incanto. Al lampo tenner dietro le tenebre più fitte di prima ed un terribile tuono scosse fino dalle fondamenta la sterminata mole. Non impallidirono i congiurati, disposti come erano ad affrontare la morte in qualunque guisa, né rimasero scossi. Ed ognuno di loro corse colla destra nel seno a ricercare il ferro. Quando, quasi fosse un seguito della meteora, s’udì una voce di disperazione risonare nel vestibolo dell’anfiteatro e poco dopo una giovine scarmigliata, fuori di sé, grondante acqua dalle vesti, si precipitava in mezzo ai congiurati. Silvio fu il primo che la riconobbe, e: «Povera Camilla!» sclamò il coraggioso cacciatore di cignali. «Povera Camilla! in quale stato mai l’hanno ridotta codesti mostri, che l’Europa c’impone a padroni, per i quali l’inferno solo dovrebbe servire di stanza». Subito dietro alla Camilla, erano entrati alcuni dei giovani rimasti di guardia al di fuori e al loro capo raccontavano come quella donna al chiarore del lampo li avesse scoperti, come si fosse slanciata verso il loggione, senza che fosse stato possibile, in modo alcuno, trattenerla. «Vedendo una giovane donna - dissero le sentinelle - abbiamo creduto farci interpreti del vostro desiderio non adoperando le armi per arrestarla. In altro modo ci è stato impossibile il farlo». Camilla intanto, sollevata da Silvio avea innalzato meccanicamente gli occhi fino a lui. Ma fissatolo un momento, diede un urlo spaventoso e cadde a terra boccone, così dolorosamente singhiozzando da intenerire le pietre.

Le campagne abbandonate e sterili e le popolazioni malcontente ed immiserite ne sono il finale risultato Prova che l’Europa è scelleratamente governata, si è pure lo stato di guerra quasi continuo in cui essa si trova sotto uno od altro pretesto. Colpa e vergogna questa poiché se i popoli fossero ben governati non avrebbero bisogno di uccidersi reciprocamente per intendersi. Date un’Unione europea elle nazioni con un rappresentante per ciascuna e uno statuto fondamentale il cui primo articolo suoni: «La guerra è impossibile» ed il secondo: «Ogni lite fra le Nazioni sarà liquidata dal Congresso». Ecco veramente la guerra, flagello e vergogna umana, divenuta impossibile. Allora non più eserciti permanenti ed i figli del popolo che si guidavano al macello, coi boriosi nomi di patriottismo e di gloria resi alle loro famiglie ed ai campi, che fecondati col lor sudore, contribuirebbero davvero a migliorare la condizione generale delle nazioni. Ecco quali sono le credenze del solitario, e confesso anche la mia. Quest’isola era il luogo di rifugio, che Giulia avea scelto, d’accordo con Manlio, per i fuggitivi suoi amici. Ma poiché erano rimaste Clelia e Silvia senza poter raggiungere lo Yacht, essa avea modificata tale decisione a questo modo: si visiterebbe cioè l’isoletta per prendervi parere ma si tornerebbe sul continente per aver notizia del resto della famiglia.

ABRAKADABRA STORIA DELL'AVVENIRE

676094
Ghislanzoni, Antonio 1 occorrenze
  • 1884
  • Prima edizione completa di A. BRIGOLA e C. EDITORI
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Abbandonate la mensa e seguitemi! ... - La preferenza che voi mi accordate - rispose la donna con amabile accento - mi colmerebbe di troppa gioia, se in questo istante la mia vanità femminile non fosse dominata da un istinto più volgare. Gli stimoli del desiderium mi hanno surreccitate le papille nervee a tal segno, che il mio appetito di vivande si è reso feroce, e voi converrete meco che questi ninnoli non potranno ottenere altro effetto fuor quello di irritare davvantaggio la rabbia de' miei denti. Così parlando, la bella portò al labbro un elegante spillone d'argento, sulla cui estremità stavano infisse due lingue di usignuolo affumicate. - Il nostro collega Raspail ha provveduto a tali urgenze - disse il Virey traendo da una scatoletta due pillole di midollo concentrato di leone. - Questi due globuletti racchiudono gli atomi sostanziali di due pranzi lautissimi. - Sia fatta la vostra volontà! - rispose con tristezza la donna inghiottendo le pillole; - ma un buon pranzo è una grande consolazione dei sensi, mentre invece questi surrogati della scienza ... Poi, mutando improvvisamente di tono: - Ditemi, Primate, è egli bello il vostro malato? - Giudicatene! - rispose il Virey. E in così dire, pose innanzi alla donna una fotografia colorata che ritraeva l'Albani in tutto il fulgore della sua bellezza giovanile. Che è stato? perché mai al vedere quelle sembianze l'Immolata trasalisce e balza dalla seggiola con febbrile agitazione? - Presto! che tardiamo? non si perda un istante! - esclama la donna con voce affannata, appoggiandosi al braccio del medico. E già entrambi muovevano per uscire, quando un uomo, o piuttosto un mostro della specie umana sbucò improvvisamente da una delle porte che mettevano agli appartamenti superiori, e chiuse il passo alla donna esclamando con terribile voce: - Fermatevi! voi obbliate le vostre promesse! ... L'Immolata si strinse al braccio del Virey, tremante e spaurita come una capinera in presenza dell'aspide.

L'ANNO 3000

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Mantegazza, Paolo 1 occorrenze

Le bocce, abbandonate dai parenti morti anch'essi, sono conservate nella Necropoli. Alcuni lasciano per testamento che la soluzione del loro corpo sia saturata colla creta, e ridotta così a concime sia sepolta al piede di qualche albero prediletto del loro orto o del loro giardino. Molti però preferiscono la cremazione, e i nostri viaggiatori visitarono il forno crematorio. È semplicissimo. Il cadavere è messo nudo in una specie di urna di platino, che ha la forma del corpo umano. Quando l'urna è chiusa, alle due estremità, che corrispondono al capo e ai piedi del morto, si applicano due fili, e una corrente di altissimo calore arroventa l'urna in modo, che in soli cinque o sei minuti è ridotta in cenere. Raffreddata l'urna se ne raccolgono le ceneri, che si consegnano alla famiglia o si serbano nella casa dei morti secondo il desiderio espresso dal defunto nel proprio testamento. Alcuni vogliono, che, secondo l'antico uso degli Indù, le loro ceneri siano gettate in un fiume o nel mare. Altri invece esprimono il desiderio, che esse siano deposte nelle aiuole del giardino, dell'orto o del campo per fecondare la terra. Per quelli che non hanno espresso altro desiderio che quello di essere cremati, senza dir altro; le ceneri vengono deposte in piccole urne di porcellana, e col nome del defunto e la data della morte si serbano nella necropoli. Dal forno crematorio i nostri viaggiatori passarono al Laboratorio necroforo dei Siderofili, Così si chiamano quegli uomini singolari, che adottando un'idea messa fuori da un chimico francese molti secoli prima, vogliono che dal loro cadavere si estragga tutto il ferro che contiene, e con esso si conii poi una medaglietta che porta inciso il loro nome coll'indicazione della patria e la data della morte. In questo modo i superstiti possono serbare un ricordo eterno dei loro cari estinti, portando appesa al collo o alla catena dell'orologio o altrove, il ferro che circolava nel loro sangue e faceva parte di tutti i loro tessuti. Paolo e Maria poterono coi loro occhi assistere a tutte le complicate operazioni, colle quali si estrae da un corpo umano il ferro che contiene e se ne fabbrica poi una medaglietta. Il lavoro è difficile e dispendioso, e perciò questo metodo di distruzione dei cadaveri umani è adottato solo dalle persone molto ricche, ed è quindi aristocratico. Uno dei chimici del singolare laboratorio spiegava ai visitatori i processi, coi quali un uomo è convertito in una medaglietta, non più grande di un antico centesimo, e li divertiva, narrando loro alcuni curiosi aneddoti. Egli conosceva in Andropoli una signora molto vecchia, e che nella sua lunga vita tutta dedicata ad una larga galanteria aveva avuto molti amanti, dai quali esigeva sempre che fossero siderofili. Il caso volle, che molti di questi amanti morissero in giovane età, per cui essa possiede una ventina di medagliette, colle quali si è fatta fare un monile molto singolare. Ogni medaglietta è unita all'altra con un anello d'oro e un brillante, ed essa ha in quel gioiello raccolta tutta quanta la storia della sua vita. Mi dicono, che questa buona donna, come facevano gli antichi cristiani coi loro rosarii, passa delle ore intiere tenendo in mano il suo rosario d'amore, e passando da una medaglietta all'altra, e baciandole una dopo l'altra, ricorda i poveri morti che l'hanno amata. Il nostro chimico narrò pure, come la siderofilia fiorisse specialmente nei secoli XXVII e XXVIII, epoca in cui si può dire, che fosse l'unico metodo di distruzione dei cadaveri usato dalle persone ricche. E noi abbiamo qui nel nostro tempio un vero Museo di medagliette, che furon trovate smarrite o che lo Stato raccolse per la scomparsa delle famiglie a cui appartenevano. Oggi la siderofilia è usata assai poco, perchè nell'anno 2858 si scoperse, che un chimico di quel tempo, che si era dato alla specialità di cavare il ferro dai cadaveri umani per farne poi le medagliette necrofore, si faceva pagare profumatamente l'operazione chimica, ma per risparmiarsi il lungo travaglio, invece di ricavare il ferro dal corpo del morto, prendeva un chiodo, un pezzo di ferro qualunque, e con esso coniava la sua medaglietta. Quel furbo aveva davvero inventato un'industria molto lucrosa, dacchè convertiva un pezzetto di ferro del valore di forse un soldo, in una medaglia che gli era pagata fin cinquecento lire. Egli arricchì immensamente, ma dopo di lui, per molti anni il pubblico dei morti ebbe grandissima diffidenza, e le medagliette di ferro umano, cadute in ridicolo, ebbero il loro tramonto. Non è che da alcuni anni, che una società di siderofili si è costituita in Andropoli, e qui hanno fondato un laboratorio, che presenta tutte le garanzie possibili, e dove per turno assistono alle nostre operazioni alcuni consiglieri di questa Società. L'ingegnere siderofilo, prima di congedarsi dai suoi visitatori, mostrò loro un laboratorio speciale, dove si stavano facendo degli studi per assecondare il desiderio di un ricco milionario, il quale vorrebbe che dopo la sua morte non solo venisse estratto il ferro dal suo cadavere, ma ad uno ad uno si isolassero tutti gli elementi; e così l'ossigeno, l'idrogeno, il carbonio, l'azoto, lo solfo, il fosforo, ecc. Questo signore, che è un inglese, ha messo a nostra disposizione pei nostri studi più di un milione, e da sè stesso ha disegnato un monumento tutto in pietra dura e che rassomiglia ad un'antica farmacia, e dove dovrebbero essere collocati tutti i corpi elementari, che hanno costituito il suo corpo. Nessun'altra iscrizione dovrebbe leggersi in questo monumento fuori di questa: Corpi elementari che formavano il corpo di N. N. Salutato l'ingegnere, Paolo e Maria passarono nella Sezione degli Imbalsamatori, dove si preparano i cadaveri di coloro, che vogliono resistere al tempo anche dopo la morte, conservando integri i loro corpi. La visita fu lunga e molto curiosa, dacchè gli imbalsamatori nel loro testamento non si accontentavano di dire, che volevano che il loro corpo fosse preservato dalla putrefazione; ma dicevano anche come volessero essere imbalsamati. E nell'anno 3000 i metodi di conservazione dei cadaveri sono molti e svariatissimi. I corpi imbalsamati sono poi ritirati dalle famiglie o conservati nella necropoli a seconda del desiderio espresso dal defunto o dai suoi parenti. I nostri viaggiatori, percorrendo il lungo Museo degli imbalsamati, poterono coi loro occhi vedere tutto quel popolo di morti superbi, che avevano voluto sopravvivere a sè stessi. Alcuni pochi erano imbalsamati come gli antichi egiziani, tutti chiusi nelle loro bende incatramate e chiusi in sarcofaghi di legno intarsiato e dipinto. Altri erano semplicemente disseccati in un forno, dopo essere stati imbevuti di sublimato corrosivo. Facevano ribrezzo, sembrando grandi stoccafissi. Più in là chiusi in grandi vetrine si vedono cadaveri pietrificati, rigidi e duri come la pietra, che paiono statue modellate da un pessimo scultore. Meno orribili sono altri imbalsamati col processo più perfetto, che si conosca nell'anno 3000. Sono vestiti dei loro abiti e serbano la loro fisonomia e il loro colorito; ma i loro occhi di vetro e immobili paiono guardar sempre fissi in un luogo. Si può ammirar l'arte, con cui sono stati preparati, ma fanno terrore e sembrano protestare contro chi ha voluto in uno strano connubio associare la vita alla morte. Maria guardava tutte quelle mummie con un evidente ribrezzo e non potè far a meno che di dire al suo Paolo: - Paolo mio, se muoio prima di te, io desidero che tu non mi faccia nè disciogliere nell'acido nitrico, nè cremare, nè molto meno imbalsamare. Fammi seppellire nella terra molle e odorosa, senza cassa alcuna, ond'io, anche morta, possa sentirmi circondata e abbracciata dalla nostra eterna madre, dal cui grembo siamo usciti. Io voglio disciogliermi in essa e nutrire col mio sangue e i miei visceri i fiori, che tu pianterai sulla mia fossa. Me lo prometti, non è vero, Paolo mio? - Sì, te lo prometto, - rispose Paolo colla voce interrotta dal singhiozzo, - ma sarai tu quella che mi adagerai nella terra molle e odorosa, perchè io ho parecchi anni più di te e prima di te devo fare il lungo viaggio; il viaggio senza ritorno. - Ma non parliamo di cose tristi. - E come non parlarne, qui, dove non siamo circondati che da morti, che ci ridestano l'eterno pensiero del mondo al di là, di cui tutta la nostra civiltà non ha saputo svelarci il segreto? Ma andiamo all'ultima tappa del nostro triste pellegrinaggio. Andiamo a visitare il cimitero. E i nostri viaggiatori rientrarono nel tempio, e avendolo attraversato, per una porticina si trovarono in un vasto giardino, tutto quanto popolato di arbusti sempre verdi e di fiori. Nel mezzo si innalza una colonna gigantesca di bronzo, che porta sulla cima una fiamma sempre ardente. Nello zoccolo della colonna sta scritta anche là la bella parola: Sperate. Dalla colonna partono come tanti raggi cento piccoli sentieri, che finiscono alla periferia del campo dei morti, e da ambo i lati del sentiero sono poste le tombe. Ogni tomba è un piccolo giardino in miniatura e in mezzo ad esse si innalza un cippo di marmo nero, in cui non si legge che il nome del morto e la data della nascita e della morte. Null'altro. - Vedi, Maria, qui non vi ha distinzione alcuna tra ricchi e poveri, tra genii e volgo. Chi può pagare il cippo, se lo fa da sè, e ai poveri provvede lo Stato. È assolutamente proibito di scrivere sulla tomba alcuna parola di elogio, nè di innalzare statue o mausolei sontuosi. Una volta, molti secoli or sono, le disuguaglianze e le vanità umane parlavano ad alta voce anche nei cimiteri, e chi li visitava, doveva credere che tutti quei morti erano stati in vita uomini di genio; eroi del cuore o del pensiero. E chi aveva dettate quelle epigrafi aveva spesso tormentato il povero morto, quando era in vita; lo aveva offeso, calunniato, fors'anche gli aveva affrettata la morte. Maria disse allora a Paolo: - Ho sempre trovato giusta questa eguaglianza di tutti gli uomini nel cimitero, ma mi pare che si dovrebbe fare un'eccezione per gli uomini di genio o per quelli, che colla carità o coll'eroismo hanno resi grandi servizi all'umanità. - E tu hai ragione, ma questi uomini grandi hanno la loro apoteosi in un Panteon, che è un po' più in là di questa necropoli e che noi visiteremo. Qui giacciono i loro corpi, là troveremo raccolte le memorie delle loro opere. - Permettimi, Paolo, un'altra osservazione. Mi è sempre parso, che nella nostra civiltà lo Stato prenda una parte eccessiva, invadente quasi. E perchè i superstiti non possono innalzare ai loro cari perduti una statua, un monumento, se vogliono, anche un mausoleo? Il nostro tempo si distingue soprattutto per il trionfo dell'individualismo e mi pare che qui, dove si dovrebbe lasciare all'affetto e al dolore tutti i loro santi diritti, lo Stato si intromette con troppa tirannia. - Ma no, Maria mia, lo Stato non è invasore. Qui dirige e comanda, perchè le necropoli sono monumenti pubblici, ma ognuno nella propria casa, nel proprio giardino, nel proprio paese è padrone di innalzare ad un caro morto, anche un tempio, se lo vuole. - Ma andiamo nel Panteon: là non troveremo più cadaveri, ma dei morti che son più vivi di quando erano di questo mondo. Un viale tutto fiancheggiato di alberi giganteschi li condusse ad una vera città, dacchè ogni regione del globo vi ha i proprii templi innalzati alla memoria dei grandi uomini. E ogni tempio ha l'architettura caratteristica del paese, a cui quei genii appartenevano. Ne ha la China: ne hanno il Giappone, l'India, l'Australia, l'America, l'Africa e l'Europa. In ogni tempio si innalzano infiniti monumenti di bellissimo stile, dove non sono deposte le ossa dei genii scomparsi, ma dove si trova come in compendio tutta la loro vita. In tutti si trova o il busto o la statua, che riproduce i lineamenti del grande estinto e poi, come in una chiesetta chiusa, si vedono alle pareti tutti i ritratti di lui nelle diverse età della vita. Un albero genealogico della famiglia segna la sua discendenza e poi, se autore di libri, in una libreria son poste tutte le sue opere, colle diverse edizioni, e le sue biografie. Spesso si vedono anche gli oggetti che gli sono stati più cari, il suo cane o il suo gatto imbalsamati, i fiori che prediligeva, il suo bastone, la poltrona in cui sedeva e tanti altri oggetti. Se il morto era un artista, si vedono le riproduzioni in fotografia dei suoi quadri, delle sue statue, degli edifizi che aveva innalzati. Se era un meccanico o un ingegnere si trovano nel monumento, che gli è stato innalzato, i disegni delle macchine inventate, delle strade, dei ponti che aveva costruiti. In una parola ogni monumento è una biografia parlante dell'uomo grande, a cui era stato innalzato. - Tu vedi, Maria, che per aver soppressi i mausolei vanitosi nel cimitero, i grandi uomini non sono meno onorati da noi di quello che lo furono dai nostri antichi padri, i quali, lasciando ai superstiti la cura di ricordare i loro morti, misuravano col denaro e non col merito l'altezza della statua e il lusso dei marmi; per cui spesso un uomo volgarissimo aveva in quei cimiteri uno splendido mausoleo, mentre un genio non era ricordato che da una modestissima lapide. Paolo, come facevano tutti i visitatori di quel Panteon, entrando nei diversi monumenti, si levava il cappello, facendo una genuflessione dinanzi all'effigie del grand'uomo. - Questi sono i nostri santi, e che tengon luogo degli antichi, spesso fabbricati per industrie simoniache da preti furbi ed ignoranti o che non avevano avuto altro merito che quello di aver digiunato o di aver contraddette le più sacre leggi della natura; quelle che ci comandano di amare e di riaccendere nei nostri figli la fiaccola della vita. Commossi, ma non rattristati, i nostri due compagni passeggiarono lungamente nel Panteon di Andropoli, richiamando alla memoria le grandi azioni e le grandi opere di quei grandi. Maria, commossa profondamente dalla lunga passeggiata, fece un'ultima domanda al suo Paolo: - Dimmi, Paolo, qui non trovo più l'uguaglianza, che ho veduta nel campo dei morti. Qui trovo monumenti piccini, mezzani, grandissimi, e chi è giudice e esecutore di queste grandi disuguaglianze? - Gli uomini grandi, mia cara, son tutti degni di gloria; ma son molto disuguali fra di loro. Abbiamo i genii, che colla luce del loro pensiero innalzano un faro che illumina tutto il pianeta; che colle loro opere segnano un'era nuova nella storia dell'umanità. E ne abbiam altri, che col loro talento e il lavoro indefesso perfezionano le scoperte dei primi; nè è cosa giusta, che essi abbiano gloria eguale agli altri. È il concorso dei più, è il voto dei membri della grande Accademia di Andropoli, che decide quale sia il monumento, che deve essere innalzato alla memoria del grande scomparso. E il giudizio non è pronunziato che dopo una lunga e profonda discussione.

Doveri dell'uomo

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Mazzini, Giuseppe 1 occorrenze

Non abbandonate la bandiera che Dio vi diede. Dovunque vi trovate, in seno a qualunque popolo le circostanze vi caccino, combattete per la libertà di quel popolo, se il momento lo esige; ma combattete come Italiani, così che il sangue che verserete frutti onore ed amore, non a voi solamente, ma alla vostra Patria. E Italiano sia il pensiero continuo dell'anime vostre: Italiani siano gli atti della vostra vita: Italiani i segni sotto i quali v'ordinate a lavorare per l'Umanità. Non dite: io , dite: noi. La Patria s'incarni in ciascuno di voi. Ciascuno di voi, si senta, si faccia mallevadore dei suoi fratelli: ciascuno di voi impari a far si che in lui sia rispettata ed amata la Patria. La Patria, è una, indivisibile. Come i membri d'una famiglia non hanno gioia della mensa comune se un d'essi è lontano, rapito all'affetto fraterno, così voi non abbiate gioia e riposo finché una frazione del territorio sul quale si parla la vostra lingua è divelta dalla Nazione. La Patria è il segno della missione che Dio v'ha dato da compiere nell'umanità. Le facoltà, le forze di tutti i suoi figli devono associarsi pel compimento di quella missione. Una certa somma di doveri e di diritti comuni spetta ad ogni uomo che risponde al chi sei? degli altri popoli: sono Italiano. Quei doveri e quei diritti non possono essere rappresentati che da un solo Potere uscito dal vostro voto. La patria deve aver dunque un solo Governo. I politici che si chiamano federalisti, e che vorrebbero far dell'Italia una fratellanza di Stati diversi, smembrano la Patria e non ne intendono l'Unità. Gli stati nei quali si divide in oggi l'Italia non sono creazione del nostro popolo: uscirono da calcoli d'ambizione di principi o di conquistatori stranieri, e non giovano che ad accarezzare la vanità delle aristocrazie locali, alle quali è necessaria una sfera più ristretta della grande Patria. Ciò che voi, popolo, creaste, abbelliste, consacraste coi vostri affetti, colle vostre gioie, coi vostri dolori, col vostro sangue, è la Città, il Comune, non la Provincia o lo Stato. Nella Città, nel comune dove dormono i vostri padri e vivranno i nati da voi, s'esercitano le vostre facoltà, i vostri diritti personali, si svolge la vostra vita d'individuo. È della vostra Città che ciascuno di voi può dire ciò che cantano i Veneziani della loro: Venezia la xe nostra: - l'avemo fatta nu . In essa avete bisogno di libertà, di Comune e Unità di patria, sia dunque la vostra fede. Non dite Roma e Toscana, Roma e Lombardia, Roma e Sicilia, dite Roma e Firenze, Roma e Siena, Roma e Livorno, e così per tutti i comuni d'Italia: Roma per tutto ciò che rappresenta la vita italiana, la vita della Nazione; il vostro comune per quanto rappresenta la vita individuale. Tutte le altre divisioni sono artificiali, e non s'appoggiano sulla vostra tradizione Nazionale. La Patria è una comunione di liberi e d'uguali affratellati in concordia di lavori verso un unico fine. Voi dovete farla e mantenerla tale. La Patria non è un aggregato, è una associazione. Non v'è dunque veramente Patria senza un Diritto uniforme. Non v'è Patria dove l'uniformità di quel Diritto è violata dall'esistenza di caste, di privilegi, d'ineguaglianze - dove l'attività d'una porzione delle forze e facoltà individuale è cancellata o assopita - dove non è principio comune accettato, riconosciuto, sviluppato da tutti; vi è non Nazione, non popolo, ma moltitudine, agglomerazione fortuita d'uomini che le circostanze riunirono, che circostanze diverse separeranno. In nome del vostro amore alla Patria, voi combatterete senza tregua l'esistenza d'ogni privilegio, d'ogni ineguaglianza sul suolo che v'ha dato vita. Un solo privilegio è legittimo: il privilegio del genio, quando il Genio si mostri affratellato colla Virtù; ma è privilegio concesso da Dio e non dagli uomini - e quando voi lo riconoscerete seguendone le ispirazioni, lo riconoscerete liberamente esercitando la vostra ragione, la vostra scelta. Qualunque privilegio pretende sommessione da voi in virtù della forza, dell'eredità, d'un diritto che non sia diritto comune, è usurpazione, è tirannide; e voi dovete combatterla e spegnerla. La Patria deve essere il vostro Tempio. Dio al vertice, un Popolo d'eguali alla base; non abbiate altra formola, altra legge morale, se non volete disonorare la Patria e voi. Le leggi secondarie che devono via via regolare la vostra vita siano l'applicazione progressiva di quella Legge suprema. E perché lo siano, è necessario che tutti contribuiscano a farle. Le leggi fatte da una sola frazione di cittadini non possono, per natura di cose e d'uomini, riflettere che il pensiero, le aspirazioni, i desideri, di quella frazione: rappresentano, non la Patria, ma un terzo, un quarto, una classe, una zona della patria. La legge deve esprimere l'aspirazione generale, promuovere l'utile di tutti, rispondere a un battito del core della Nazione. La Nazione intera dev'essere, dunque, direttamente o indirettamente, legislatrice. Cedendo a pochi uomini quella missione, voi sostituite l'egoismo d'una classe alla Patria, che è l'unione di tutte classi. La Patria non è un territorio; il territorio non ne è la base. La Patria è l'idea che sorge su quello; è il pensiero d'amore, il senso di comunione che stringe in uno tutti i figli di quel territorio. Finché un solo tra i vostri fratelli non è rappresentato dal proprio voto nello sviluppo della vita nazionale - finché un solo vegeta ineducato fra gli educati - finché uno solo, capace e voglioso di lavoro, langue per mancanza di lavoro nella miseria - voi non avrete la Patria come dovreste averla, la Patria di tutti, la patria per tutti. Il voto , l' educazione, il lavoro, sono le tre colonne fondamentali della Nazione; non abbiate posa finché non siano per opera vostra solidamente innalzate. E quando lo saranno - quando avrete assicurato a voi tutti il pane del corpo e quello dell'anima - quando liberi, uniti, intrecciate le destre come fratelli intorno a una madre amata, moverete in bella e santa armonia allo sviluppo delle vostre facoltà e della missione Italiana - ricordatevi che quella missione è l'unità morale d'Europa: ricordatevi gl'immensi doveri ch'essa v'impone. L'Italia è la sola terra che abbia due volte gettato la grande parola unificatrice alle nazioni disgiunte. La vita d'Italia fu vita di tutti. Due volte Roma fu la Metropoli, il Tempio del mondo Europeo: la prima, quando le nostre aquile percorsero conquistatrici da un punto all'altro le terre cognite e le prepararono all'Unità colle istituzioni civili; la seconda, quando, domati dalla potenza della natura, dalle grandi memorie e dall'ispirazione religiosa, i conquistatori settentrionali, il genio d'Italia s'incarnò nel Papato e adempì da Roma la solenne missione, cessata da quattro secoli, di diffondere la parola Unità nell'anima ai popoli del mondo Cristiano. Albeggia oggi per la nostra Italia una terza missione: di tanto più vasta quanto più grande e potente dei Cesari e dei Papi sarà il POPOLO ITALIANO, la Patria Una e Libera che voi dovete fondare. Il presentimento di questa missione agita l'Europa e tiene incatenati all'Italia l'occhio ed il pensiero delle Nazioni. I vostri doveri verso la Patria stanno in ragione dell'altezza di questa missione. Voi dovete mantenerla pura d'egoismo, incontaminata di menzogna e delle arti di quel gesuitismo politico, che chiamano diplomazia. La politica della patria sarà fondata per opera vostra sull'adorazione a' principii non sull'idolatria dell'Interesse o dell'opportunità. L'Europa ha paesi pei quali la Libertà è sacra al di dentro, violata sistematicamente al di fuori: popoli che dicono: altro è il Vero, altro l'Utile, altra cosa è la teorica, altra è la pratica. Quei paesi espieranno lungamente, inevitabilmente la loro colpa nell'isolamento, nell'oppressione e nell'anarchia. Ma voi sapete la missione della nostra Patria e seguirete altra via. Per voi l'Italia avrà, sì come un solo Dio nei cieli, una sola verità, una sola fede, una sola norma di vita politica sulla terra. Sull'edifizio che il popolo d'Italia innalzerà più sublime del Campidoglio e del Vaticano, voi pianterete la bandiera della Libertà e dell'Associazione, sì che rifulga sugli occhi a tutte le Nazioni, né la velerete mai per terrore di despoti o libidine d'interessi d'un giorno. Avrete audacia sì come fede. Confesserete altamente il pensiero che fermenta in core alla Italia davanti al mondo e a quei che si dicono padroni del mondo. Non rinnegherete mai le Nazioni sorelle. La vita della Patria si svolgerà per voi bella e forte, libera di paure servili e di scettiche esitazioni, serbando per base il popolo, per norma le conseguenze dei suoi principii logicamente dedotte e energicamente applicate, per forza la forza di tutti, per risultato il miglioramento di tutti, per fine il compimento della missione che Dio le dava. E perché voi sarete pronti a morire per l'Umanità, la vita della Patria sarà immortale.

POESIE

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MICHELSTAEDTER, Carlo 1 occorrenze

Se camminando vado solitario per campagne deserte e abbandonate se parlo con gli amici, di risate ebbri, e di vita, se studio, o sogno, se lavoro o rido o se uno slancio d'arte mi trasporta se miro la natura ora risorta a vita nuova, Te sola, del mio cor dominatrice te sola penso, a te freme ogni fibra a te il pensiero unicamente vibra a te adorata. A te mi spinge con crescente furia una forza che pria non m'era nota, senza di te la vita mi par vuota triste ed oscura. Ogni energia latente in me si sveglia all'appello possente dell'amore, vorrei che tu vedessi entro al mio cuore la fiamma ardente. Vorrei levarmi verso l'infinito etere e a lui gridar la mia passione, vorrei comunicar la ribellione all'universo. Vorrei che la natura palpitasse del palpito che l'animo mi scuote ... vorrei che nelle tue pupille immote splendesse amore. - Ma dimmi, perché sfuggi tu il mio sguardo fanciulla? O tu non lo comprendi ancora il fuoco che possente mi divora? ... e tu l'accendi ... Non trovo pace che se a te vicino: io ti vorrei seguir per ogni dove e bever l'aria che da te si muove né mai lasciarti. - 31 marzo 1905 * * * Poiché il dolore l'animo m'infranse per me non ebbe più la vita un fiore ... e pure inconscio iva cercando amore l'animo offeso. Ahi ti vidi e a te il pensier rivolsi a te che pura sei siccome un giglio ... ... Le lacrime mi sgorgano dal ciglio invirilmente. Oh mia fanciulla, oh tu non hai compreso di quanto amore io t'ami. Ed un dolore nuovo, più intenso mi attanaglia il cuore che tu feristi. Se m'ami Elsa a che mi fai soffrire? Tu della vita mia unico raggio tu che sola m'infondi quel coraggio che mi fa vivo! Lo sguardo mio non t'ha saputo dire non t'han saputo dir le mie parole quello che dice all'universo il sole, amore! amore!? 3 aprile 1905

Teresa

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Neera 2 occorrenze
  • 1897
  • CASA EDITRICE GALLI
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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La signora Soave, colle manine di cera abbandonate sui ginocchi e lo sgabello sotto ai piedi, incominciò a parlare di Carlino, delle camicie che bisognava mandargli, dei fazzoletti che non erano orlati ancora; ogni tanto interrompeva la litania monotona con un: - Te ne rammenti, nevvero, Teresina? Teresina diceva di sì. - Tuo padre si lagna sempre; dice che non facciamo economia, che quel ragazzo gli costa un occhio, e che, se noi non sappiamo limitarci nelle spese, sarà costretto a fargli sospendere gli studi ... Un lunghissimo sospiro sollevò il petto gracile della signora Soave, per un po' non ebbe voce; indi riprese, affievolita, tenendosi una mano sul cuore: - Ho raccomandato all'Orlandi di dargli dei buoni consigli … che posso fare, mio Dio, che possiamo fare noi donne? A quel nome di Orlandi, Teresina aveva trasalito impercettibilmente, volgendo gli sguardi al gran quadro meccanico che conteneva l'orologio. Erano le due. Otto ore ancora! Le gemelle intanto si accapigliavano nel vano della finestra, mute, senza chiedere soccorso a nessuno. Convenne dividerle; cinque minuti dopo si abbracciavano, al medesimo posto, facendo sberleffi alla loro sorella maggiore. L'Ida si annoiava con quella giornataccia: in causa della pioggia non poteva uscire nel cortile a giuocare. La noia pei bambini è sinonimo di capricci; ella incominciò a far tante diavolerie, che la signora Soave, colla testa intronata, sentendo un principio di emicrania, pregò Teresina di occuparla. E Teresina, pazientemente, si pose a ritagliare degli ometti di carta, e poi delle carrettelle, e dei vasi da fiore, e poi delle casette col tetto, colla porta, colle finestre da chiudere e da aprire. Era calma, sorrideva; ma ad ogni quarto d'ora i suoi occhi cercavano con ansia le sfere dell'orologio, e ad ogni ora che suonava, il sangue le dava un tuffo. Per lo sforzo del contenersi, era diventata pallida. Aveva dimenticato di far colazione; si sentiva appetito, ma non la voglia di mangiare. Anche il parlare le costava fatica. Avrebbe voluto chiudersi nella sua camera, e non far altro che pensare a lui, intensamente, esclusivamente. Non era possibile. Verso le quattro dovette andare in cucina ad ammannire il desinare; la mamma l'aiutava, debolmente, sedendosi ad ogni minuto, stringendo colle manine gialle il capo che le doleva. - Va', va', mamma; faccio io. - Le gemelle potrebbero darti una mano ... - No, mamma; hanno i loro compiti di scuola. Le gemelle erano l'incubo di Teresina. Ella se le vedeva crescere accanto astiose, diffidenti, ricambiando con una musoneria fredda tutte le sue premure. Avrebbero potuto essere le sue amiche, le sue confidenti, e invece una barriera di ghiaccio le divideva. Questo era un grande sconforto per Teresina. Così, tutta sola nella cucina bassa, intenta a uffici volgari, la fanciulla ingannava l'eternità dell'aspettativa avvinta docilmente alla sua catena, imparando la grande virtù femminile del dominarsi, la profonda abilità femminile di nascondere un tormento dietro un sorriso. Nel muoversi rapidamente, nel chinarsi, ella sentiva ancora lo sfregamento della lettera sulle carni delicate del seno; allora stringeva le labbra, palpitando lievemente, come per assaporare meglio quella sensazione che era ad un punto dolore e piacere.

Pagina 150

La zia Rosa sospirò, placidamente, colle mani abbandonate sul grembo. Suo marito fece una smorfia rabbiosa, e tornò a fregarsi i ginocchi, coll'occhio fisso e le labbra pendenti. Intanto Teresina era corsa all'uscio, che da quella stanza terrena metteva nel giardino. Era uno sprazzo di luce, di verde, di rosai fioriti; un bel bracco dormiva al sole, due gattini novelli scherzavano con un fuscellino. Teresina sorrise, sorrise al sole, ai fiori, alla propria giovinezza che si irradiava su ogni oggetto circostante. Si sentiva forte, aveva appetito, aveva nelle gambe un formicolìo di vita esuberante, i polsi le martellavano deliziosamente, con un ritornello gaio, pieno di promesse. Quando la zia la chiamò, ella corse a salti, come un capriolo, compromettendo la gravità del suo abito a strascico, che portava per la prima volta, tanto felice, tanto felice che se le avessero detto di volare, ne avrebbe fatto subito la prova. - E cosí? Ti annoi? - interrogò la zia Rosa, col suo accento benevolo di vecchia mamma - questa è una casa un po' triste per una giovinetta. - No, no, oh no. Così protestava Teresina, sinceramente, gustando la gioia, nuova per lei, di un riposo assoluto - guardandosi attorno, curiosa, in quella gran stanza vuota, un po' fredda, un po' ammuffita, dove le figure calme dei due vecchi sembravano sopravvivere a una quantità di memorie distrutte. - Questo è il banco, - disse la zia additando un grosso banco di quercia annerito - il banco del negozio. - Ah sì? - Questo è il divano dove il mio penultimo figlio, Giovanni, stette infermo sette mesi. - Poverino! - Quel quadro, vedi, quel quadro ricamato, la Madonna dei dolori? Fu il lavoro per gli esami della mia povera Giudittina, l'ultimo anno che stette in collegio. - Bello! - Osserva le mani; solamente per le mani lavorò due mesi e mezzo. - Ooh! Davvero? E Teresina rimase estatica davanti a tutti quei ricordi, dolcemente commossa; finché lo zio, puntellandosi a stento sui braccioli della poltrona, fece atto di levarsi. - Sarà ora di andare a tavola; il tocco è suonato, e questa ragazza deve aver fame. Poi le gettò un'occhiata indefinibile, borbottando fra le labbra sdentate ... - Sedici anni!

Pagina 60

CAINO E ABELE

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Perodi, Emma 4 occorrenze

Il duca non aveva osato inseguirla, ma risalito nella barca si era accostato allo scoglio e la guardava così bellina e sottile, con il vestito di lana aderente al corpicino elegante, con le braccia nude, abbandonate lungo la persona, con i piedini rossi baciati dalle onde lievi, con quella pelle delicata. Egli la divorava con gli occhi e nel passarle a poca distanza s'alzò sulla barca e le disse in atto di sfida: - A un'altra volta! Velleda, più morta che viva, tornò nella cabina e cadde sopra una panca, tremante, pallida o sconvolta. Hai la febbre Leda? - le diceva Maria. No, mi sono stancata troppo, ma non è nulla, non ti spaventare. Costanza, che era intenta ora a strizzare i costumi del bagno, teneva gli occhi bassi; aveva veduto tutto, ma non aprì bocca. Ogni dolore di Velleda era una gioia per lei. Più tardi quando il duca e Velleda s'incontrarono a colazione, sotto lo sguardo dolce di Roberto, Franco ebbe il coraggio di domandare alla signora se si sentiva male perché la vedeva pallida e abbattuta, Leda s'è sentita male nel bagno, - rispose Maria, - è uscita tutta tremante, pareva che avesse la febbre. Ho commesso un'imprudenza nuotando troppo, disse la signora per rassicurare Roberto, che la guardava ansioso. - Non farò più bagni. L'agitazione di Velleda continuò per un pezzo. Dopo pranzo non ebbe la forza di fare la solita gita sul " Selino " e passò alcune ore seduta nell'acropoli deserta di lavoratori, con un libro in mano, senza leggere. I più strani pensieri le correvano alla mente; pensieri baldi di resistenze violente, di acerbe lotte; pensieri di fuga. di sparizione senza lasciare traccia di sé: ma tutti cadevano allorché il cuore le ricordava che non era sola, 0169 che non aveva il diritto di abbandonare un uomo buono, del quale aveva accettato l'affetto. Mentre stava così perplessa invocando un'idea cui attaccarsi, un'idea che la salvasse in mezzo a tanto sconforto, udì dei passi dietro a sé e si alzò spaventata. Siala vista del Lo Carmine la calmò. Come mai è divenuta così nervosa che si spaventa a ogni rumore? - le domandò. L'estate mi ha spossata, - rispose Velleda, - uia non è nulla e l'autunno mi renderà vigore. Volevo giusto parlarle, - disse il Lo Carmine, ma è sempre accompagnata e non bramo che le mie parole giano udite da altri. C'è forse qualche pericolo? - domandò ansiosamente. No, si calmi, ha i nervi agitati; anzi ... ! Sono stato a Trapani in questi giorni, e come ella sa, per tutto si prepara la lotta elettorale, benché il decreto di scioglimento della Camera non sia anche firmato. Ebbene, molti amici miei, persone anche influenti, vorrebbero che nella lista dei deputati moderati della provincia figurasse il nome del signor Roberto e mi hanno detto d'interrogarlo se si lascerebbe portare. Che cosa crede lei? Queste poche parole erano bastate a dare un altro avviamento ai pensieri di Velleda. Ritornata a un tratto padrona di sé, esaminava la situazione con calma. Naturalmente, il collegio che gli si offre sarebbe. Castelvetrano? - domandò ella Appunto. Non so se accetterà, ma sono quasi sicura che riu scirebbe se si portasse. Veda, l'avvocato Orlando, ministeriale, riuniva fin ora molti voti, perché vi era lo scrutinio segreto e per lui votavano in altre circoscrizioni della provincia. Ritornati al collegio uninominale, egli avrebbe pochi voti, perché non ha, base a Castelvetrano, dove il partito di sinistra è in minoranza. Sono 0170 tutti moderati o socialisti. I primi voteranno certo per il signor Roberto; i secondi, a meno che non portino un candidato proprio, che non riuscirebbe, darebbero i loro voti a un candidato d'opposizione piuttosto che a un ministeriale. In tutti i casi ci sarebbe dispersione di voti e per conseguenza ballottaggio, ma il risultato finale -sarebbe reiezione del signor Roberto. Questi stessi calcoli sono stati fatti dai miei amici di Trapani, ma ora si tratta di sapere se il signor Roberto accetterà. Vorrebbe ella interrogarlo, per evitarmi un rifiuto, o nel caso affermativo, preparare il terreno alla mia proposta? - Volentieri, - rispose Velleda, tutta infervorata da quell'idea. - Se posso, lo interrogo stasera e domani le darò una risposta per lettera. Allora il Lo Carmine si diede a esporre a Velleda il bene che Roberto avrebbe potuto fare a quel paese così abbandonato dal Governo. Prima di tutto bonificarlo, riprendendo dopo tanti secoli i lavori intrapresi da Empedocle; poi creare una colonia agricola nei terreni strappati alla palude e alla malaria, in terzo luogo ottenere del bilancio dell'istruzione pubblica maggiori fondi per gli scavi. Qui la volevo! - esclamò Velleda. - Dica la verità: ella desidera che un uomo colto, un archeologo, conoscitore di questi luoghi vada alla Camera, per ottenere che Selinunte esca dalla terra che la copre, perché lei possa frugare questa spiaggia in tutti i versi. Sarebbe forse un desiderio colpevole? - domandò il Lo Carmine, balbettando più del consueto. No davvero. Anzi è un'ambizione molto modesta ; le mie sono più vaste, più grandi. Lo scienziato non le domandò a che miravano quelle ambizioni; lo indovinava ed era sicuro che Roberto avrebbe accettato il mandato per compiacerla. Noi vi sorprendiamo! - esclamò Roberto mostrando 0171 la testa di dietro un muro basso. - Ah! ho capito! aggiunse rivolgendosi a Velleda scherzando. - Non è voluta venir con noi perché aveva un appuntamento col Lo Carmine! Il viso di lui mi dice che qui si tratta di un complotto. Sì, - rispose Velleda, - noi si cospira contro l'onorevole Orlando, il quale sarà in questo momento nella suo villetta, senza sospettare che dinanzi al mare due persone attentano alla sua felicità. Franco, che era sopraggiunte insieme con Maria, non capiva nulla; Roberto credere che si trattasse del processo, perché l'avvocato Orlando era appunto il difensore d'Alessio e disse : Io non devo saper nulla di questo complotto? Per ora no; più tardi forse. È curioso? - gli domandò ridendo Velleda. - Un poco. Tutti insieme si diressero verso casa. Roberto aveva pregato il Lo Carmine di pranzare con loro, così che quella sera il pranzo fu più animato. Velleda però era taciturna. Era bastato un sorriso di trionfo di Franco per agghiacciarle il sangue. Evitava d'incontrare lo sguardo freddo, sarcastico del duca, ma bastava la voce di lui per ferirla e barbaramente ripeteva a sé stessa, per risentire la vergogna dell'insulto : Mi ha baciata! Mi ha baciata! Era già notte alta, una notte quieta e serena, quando Velleda si alzò da tavola. Ella offrí il caffè agli ospiti e a Roberto e poi per non parlare con Franco, condusse Maria a letto. Le altre sere lasciava per solito a Costanza quella cura, ma quella sera volle spogliare da sé la bambina. Che cosa hai fatto oggi? - le domandò. Niente; mi sono divertita con lo zio Franco. Figurati; fingeva che io fossi grande e mi trattava come 0172 una signora. Mi diceva che ero bella, che avevo gli occhi come un'orientale, la pelle morbida e tante altre schiocchezze. E tu gli credevi? No! Che me ne importa di esser bella ora? Quando sarò grande, allora sarò duchessa. - Ma che duchessa! Egli non può trasmettere il suo titolo altro che ai proprj figli. - T'inganni, Leda: tu sai tutto, ma queste cose le sa meglio Franco di te. Il duca non lasciò a lui il suo titolo? - Perché era un maschio. Le femmine non ereditano titoli; esse portano il nome del padre e poi quello del marito; e se tu mi vuoi bene, Maria, la prima volta che lo zio ti parla di queste sciocchezze devi rispondergli che tu non hai bisogno di titoli, perché ti basta il nome onorato del babbo. Me lo prometti, Maria? S'era inginocchiata accanto al letto della bimba e la guardava con tale intensità d'affetto, che ella, attratta da quello sguardo, le buttò le braccia al collo, dicendole : Farò quello che tu vuoi; Leda, perché ti voglio tanto bene! Ora; dormi, cara, - disse, e chiamata Costanza ricornò in sala. Il Lo Carmine, già s'era alzato per andarsene. Bravo, - gli disse in modo da essere udita da Franco - Lei sa che devo parlare al signor Roberto. Gli parli subito e farà bene, - rispose l'altro. Il duca rimase un momento perplesso, ma poi si rassicurò pensando che del fatto della mattina non avrebbe letto niente a suo fratello, che si sarebbe fatta piuttosto ammazzare. Per via voleva confessare il Lo Carmine e per questo gli usò la cortesia di ricondurlo fino alla Casa dei Viaggiatori, ma il Lo Carmine non si fece confessare. Era 0173 uomo di poche parole ed aveva quella serietà di carattere che è uno dei tanti pregi dei siciliani; eppoi il duca non gl'ispirava nessuna simpatia. Franco rimase per alcun tempo a passeggiare sulla spiaggia, guardando la villa illuminata e specialmente la sala, nella quale scorgeva Velleda seduta vicino alla vetrata aperta. Non vedeva Roberto, ma ne indovinava la presenza, osservando che Velleda parlava animatamente come se cercasse di convincerlo di un fatto. Gli rivela tutto, lo aizza contro di me! - diceva perplesso e ansioso. - Perfida! Ma un momento dopo, vedendo Velleda che cessava di parlare e appoggiando la testa alla spalliera della poltrona sorrideva ascoltando tranquillamente ciò che rispondevate l'altro, si calmò. Non è di me che parla: c'è un altro mistero; una cosa che la fa felice. Se avesse narrato di me, avrebbe pianto, sarebbe andata in collera; invece ha una espressione severa sul volto; non ha astio! La conversazione fra Velleda e Roberto durava lungamente e Franco non sapeva scendere dal monticello di sabbia dal quale il suo occhio si spingeva dentro la sala. A un tratto vide Roberto alzarsi, accostarsi a lei, ma invece di curvarsi a baciarla, sollevò la mano che Velleda posava sul bracciale del seggiolone e se la portò alle labbra. Un momento dopo Roberto era in giardino, e chiudeva il cancello; dall'alto della terrazza Velleda gli gridava : Buona notte, mio buon signore! - e rientrava in sala per scomparire. Velleda aveva vinto le esitazioni di Roberto perché gli aveva detto: Io, che ho rasentato la gloria, non ho più ambizioni per me; tutte le mie ambizioni sono riposte in lei. Accetti e sarà eletto. Col suo ingegno, con la sua attività, con le larghe vedute e specialmente col suo cuore, 0174 che ha tutte le virtù più elette e si commuove a tutti i dolori, capisce tutti i bisogni dell'età moderna; potrà fare tanto bene. Lei, che è un solitario, un carattere integro e assolutamente puro, portando fra tanti utilitarj la sua rettitudine di giudizio e la sua coscienza retta, farà, dei proseliti. Non è possibile che non si manifesti una reazione; che un bisogno di probità e di onoratezza non si faccia strada nelle masse; e lei sarà l'apostolo di queste due virtù, il rigeneratore. Accetti! Ma saremo spesso divisi! - aveva osservai Roberto. È vero, - aveva risposto Velleda, - ma quello divisioni ci faranno meglio sentire l'affetto che ci lega. Accetti e mi farà felice! Roberto s'era lasciato convincere ed era stato in quel momento che Velleda aveva appoggiato la testa alla spalliera della poltrona, e, sicura della vittoria, aveva tracciato a Roberto tutto quello che poteva far di utile, specialmente nel campo della legislazione sociale, proponendo leggi per migliorare la condizione degli operai, per assicurare le famiglie in caso d'infortunio, per far cessare quell'odio di classe; che si accentua ogni giorno più contro la borghesia, la trionfatrice crudele del 1793. Sì Vellcda, io farò tutto quello che vuole, io mi lascerò guidare da lei, - aveva risposto Roberto e le aveva baciato la mano. Franco aveva assistito a quella scena, avevo udito Velleda dar la buona notte a Roberto, eppure non credeva alla purezza del loro affetto, e la sua fantasia eccitata glieli rappresentava ora stretti in un ardente abbraccio, ora dolcemente stanchi dopo lunghe ore d' amore, ma mai mai egli voleva ammettere che amandosi così profondamente, essi si fossero imposti un sacrifizio sovrumano. Anche quella sera Franco tornò stanco e irritato nel suo quartiere e penò molto prima di addormentarsi. 0175 Perché il Signorini non gli rispondeva? Ah! se avesse potuto scoprire una macchia sul passato di Velleda, l'avrebbe avuta in suo potere! Come sarebbe stato felice allora di sapere umiliata quella superba, di poterla piegare alle sue voglie, di vedersela dinanzi supplichevole, offrendo il suo amore in cambio del silenzio. La solita idea fissa lo torturava. Ora anche l'invidia per Roberto era meno viva; non lo invidiava più per la fortuna negli affari, per la stima di cui godeva, per quella superiorità che tutti gli riconoscevamo su di lui e neppure per i benefizj che Roberto gli aveva fatti ; lo invidiava soltanto per essersi fatto amare da Velleda. Questa invece non pensava a lui. Il passo che stava per dare Roberto dietro suo consiglio, le pareva così grave che ne esaminava con mente calma tutti i vantaggi e gli svantaggi, e in certi momenti si pentiva del consiglio, ma subito dopo ripensava alla nobile opera che egli avrebbe potuto compiere e ricacciava nel fondo dell'anima i dubbj. Fu in uno di questi momenti di fiducia che scrisse al Lo Carmine di comunicar pure ai suoi amici che Roberto accettava. Ella posò la lettera senza chiuderla sulla scrivania, per vederla appena desta e modificarla nel caso che il sonno le avesse dato un altro consiglio. Sia il sonno l'avvalorò, invece, nel suo proposito e la lettera fu recapitata la mattina presto al suo indirizzo.

Il Lo Carmine se n' era andato e Roberto, entrando a cercare un libro nella biblioteca, la vide seduta sopra un seggiolone, con le mani abbandonate in grembo e gli occhi fissi in terra. Velleda! - esclamò spaventato. Ella non rispose, non sussultò. Velleda! - ripetè Roberto. - Che cos'è successo? Che cosa l'affligge? La signora alzò in faccia a lui gli occhi pieni di lacrime e fece con la testina una mossa sconsolata. Ma che cosa è successo? - Nulla che si possa narrare. Un fatto tutto morale. Io sono umiliata di non averle saputo infondere la mia convinzione rispetto ad Alessio; piango perché ella non sente come me. " Senta Velleda, - rispose Roberto seriamente, - del mio affetto non può dubitare. Io le sono devoto come una creatura può esser devota a un'altra creatura dalla quale spera tutte le consolazioni e tutte le gioie più alte e più profonde; ma il sentimento della giustizia parla in me cosi potente, che a costo di contraddirla e anche di affliggerla, non posso rinunziarvi. Ebbene, questo sentimento mi dice che Alessio è innocente del reato di cui lo accusano e io lo difenderò con lo stesso calore con cui difenderei me stesso. In questa faccenda ci troveremo sempre in due campi opposti. Veda, voglio anche ammettere l'ipotesi suggeritami dal Moltedo, che Alessio fosse qui per uno scopo amoroso, che egli sia l'amante di Costanza, ma non desidero fare indagini, perché dovrei mandar via quella donna, che è affezionata a Maria. Ma che Alessio avesse intenzione di rubare la mia bambina, non lo ammetto. Costanza! - esclamò Velleda, e poi tacque riflettendo per un istante, indi aggiunse : Non è possibile, non mi sono mai accorta di nulla. Era entrato nel giardino per rubare Maria; questa è la verità. Ma Velleda, - disse Roberto in tono affettuoso, perché si turba per questo fatto? Non le pare che questa piccola dissonanza ci faccia meglio sentire l'affetto che ci lega? Non è persuasa che io non posso trovar la felicità fuori di lei e senza di lei? Non sente quanto soffro per la sua afflizione? Roberto; - diss' ella intenerita e dandogli per la prima volta quel nome. - non sa quanto, quanto sia stata infelice e come mi spaventi di ogni piccolo fatto che minaccia la mia felicità! Segua l'impulso della sua coscienza ed io seguirò quello della mia, ma non si stacchi da me, non mi respinga, non mi abbandoni! C'era una intonazione così supplichevole in quelle parole che Roberto stese le braccia per attirarsi Velleda sul petto, ma prima di sfiorarle la vita, le lasciò ricadere lungo la persona e disse : Mia buona amica, eviti queste commozioni che sono seguite da momenti di debolezza. Siamo forti, o mia gentile eroina, siamo sempre forti, - e con un movimento repentino prese una mano di lei e se la portò alle labbra. Prima che Velleda potesse rispondergli, Roberto era già uscito.

Ella aveva preso il lavoro e i fiori sbocciavano sotto le sue dita in una deliziosa armonia di tinte, e Roberto, con le mani abbandonate sui braccioli del seggiolone, l'avvolgeva in uno sguardo innamorato, mentre il mare accompagnava i loro pensieri con un lieve rumore ritmico, che aveva la soavità di una carezza. Quello stesso rumore accompagnava la veglia di Franco Il duca era tornato tardi da Castelvetrano, dopo aver passato la sera a giuocare in casa di un proprietario del paese, il Purpura, insieme con l'onorevole Orlando e altri. Anche in quella piccola città il giuoco era in gran voga e il Purpura passava per sapere abilmente spennacchiare gl' impiegati e gli ufficiali. Naturalmente appena aveva conosciuto Franco in farmacia, aveva indovinato che il duca doveva essere uno di quelli che giocano forte ed era riuscito ad attrarlo in casa sua. In poche sere Franco aveva perduto diverse migliaia di lire senza pensare al poi, volendo solo ammazzare il tempo e addormentare i sospetti di Velleda. Don Ciccio Purpura, che era il grande elettore dell'Orlando, aveva chiamato a raccolta tutti i più forti giocatori del paese, per offrire al duca competitori degni di lui. Il deputato, che aveva un debole per il giuoco; era accordo, trovandosi in quel momento a Castelvetrano per preparare le elezioni. Conosceva Franco dì vista, per essere stato a Roma molto tempo, ed era curioso di avvicinare questo principe dell' eleganza, che s'era rovinato come tanti altri. Invece di chiamarlo don Franco, come tutti lo chiamavano; gli dette subito il titolo che gli spettava e ciò lo rese simpatico al giovane signore, il quale si sentiva ferir l'orecchio ogni volta che lo chiamavano altrimenti. Poi gli parlò della capitale; di alcuni deputati del patriziato romano, gli raccontò dei pettegolezzi sui legami di questi con certe donnine galanti, e a Franco parve di sentirsi rivivificare da quel soffio di aria che veniva di là, dove aveva vissuto e dove avrebbe voluto sempre vivere. Era un ometto molto bruno, molto vicace quello Orlando; il vero tipo dell'avvocato presuntuoso, assuefatto a farsi ascoltare, a strappar l'approvazione all'uditorio. Uomo senza scrupoli, era devoto a chi saliva, senza voltar le spalle a chi scendeva. Alla Camera, era sempre nelle file della maggioranza, ora come affigliato, ora come alleato, ma il suo nome figurava immancabilmente nella lunga lista di quelli che votano per il sì Egli si faceva perdonare la devozione per i ministri in carica con l'entusiasmo che poneva nel parlarne, con la fede che pareva riponesse in loro. Ma quell' entusiasmo che gli si vedeva brillare negli occhi nerissimi, lampeggianti, dietro gli occhiali leggermente colorati di turchino, era una spuma tutta superficiale, che svaniva subito e non aveva sede nella coscienza di quell' avvocato, buon vivente, libertino; avido di danaro e di quelle soddifazioni d'amor proprio che da la carica di deputato, di uomo influente. Quell'avvocato volgarissimo, di poca cultura, ma accorto e subdolo, sotto apparenze franche, aveva una certa vernice di uomo di mondo, di uomo elegante e raffinato, e si faceva distinguere fra gente semplice e alla carlona. Egli portava sempre una camicia candida, si vestiva a Roma dal sarto dei patrizj, conosceva tutti e parlava anche di quelli che non conosceva, come se fossero suoi amici. Quando era alla capitale pranzava ogni sera con un gruppo di deputati siciliani al Caffè di Roma, dove si conoscono tutti i pettegolezzi del mondo politico e dove si tramano tante cospirazioni parlamentari. Da tre legislazioni sedeva alla Camera e portava con molta ostentazione le tre medaglie attaccate a una catena appariscente. Agli occhi dei suoi elettori e di qualche de putato poteva passare per un uomo di maniere eleganti e di gusti fini, a quelli di Franco no. Egli indovinò subito che quell' onorevole era un villano rifatto, ma in tanta scarsezza di persone da frequentare, non avendo da scegliere, si mostrò deferente per l'Orlando, il quale affettava di fronte a lui le stesse maniere che usava con i ministri scesi dal potere: maniere umili, inchinevoli, omaggio a un infortunio immeritato, a una grandezza decaduta, che poteva e doveva assurgere a nuovo splendore e a nuova potenza. L'avvocato non parlò a Franco del processo d'Alessio e neppure della candidatura del fratello, che aveva fatto una rivoluzione in paese; evitò d'intrattenerlo di cose noiose, atteggiandosi a consolatore di quell'esule volontario e divagatore di quel grande annoiato. E nelle prime sere o durante i caldi meriggi d'agosto, mentre erano seduti davanti al tavolino da giuoco, seppe anche perdere piccole somme, per non sgomentare il duca, ma poi incominciò a spennacchiarlo per bene, giocando abilmante e approfittando dell'indifferenza che poneva Franco in ogni cosa che faceva. E fu dopo una di quelle perdite che Franco vegliò lungamente, non perché vedesse diminuita molto la somma portatagli da Roberto e che era tutto ciò di cui poteva disporre, che di questo egli non si curava; ma per aver ricevuto una lettera dal Signorini. Franco aveva sperato che quella lettera potesse servirgli di arme per umiliare Velleda, ed era invece un inno alla signora, un tributo reso all'ingegno di quella gloria fiorentina, un omaggio alla donna infelice; che aveva saputo nobilmente portare la sventura. Il Signorini diceva che il nome del marito di Velleda era Crespi; ma che ella faceva bene a ripudiarlo e a portare quello del padre, per evitare le persecuzioni di quell'uomo abbietto, che scontava nella casa penale di Nisida una truffa. Prima di terminare la lettera, il giovane signore confessava a Franco che anche lui, come molti altri, aveva fatto la corte alla bella letterata, senza però ottener da lei nulla, perché a " Melusina " non si conosceva altra passione che l'arte; altro affetto che quello di suo padre e della sua bambina, rapitale dal marito. " Questo è quanto posso dirle della signora Velleda Bianchi, - concludeva il Signorini, - e se ella, nelle sue peregrinazioni in Sicilia, riesce a ottenere le buone grazie della piccola fata bianca; potrà dirsi veramente fortunato e abile più di me e degli amici miei. Dica alla indimenticabile Melusina che io sono fra i suoi amici più devoti e fra i più caldi ammiratori e che il suo ritorna a Firenze sarebbe una festa per me. " Ecco svanita una speranza! - disse il duca accendendo una sigaretta; - ma io non posso ne voglio rassegnarmi. Quell'uomo dagli imperiosi desiderj, che si dibatteva nell'impotenza di appagarli, appariva ben diverso dal consueto e i suoi freddi occhi si posavano irrequieti sulla lettera che aveva davanti, quasi quelle righe dovessero suggerirgli l'idea che cercava invano nella sua mente sognante perfidie, senza saperle preparare. Sono un inetto e porterò questo marchio d' inettezza tutta la vita. Ora Roberto sarà eletto deputato; se io mi fossi portato a Roma non avrei raccolto mille voti: eppure ero una potenza! E da deputato salirà sempre e sempre più si attaccherà a Velleda e sempre più ella insuperbirà della gloria di lui! Ah! è atroce la mia sorte; se non fosse ridicola. Prese la lettera e stava per farla in tanti pezzetti. ma si trattenne. Mi può sempre servire a qualcosa, - pensò, e la rinchiuse in un cassetto insieme con i danari. La vista dei biglietti di banca, molto diminuiti dalle perdite al giuoco, ricondusse il pensiero di lui al Purpura, all' Orlando, a tutti quei nuovi conoscenti di Castelvetrano e s'accorse che potevano essere altrettanti alleati per combattere reiezione di Roberto. Allora un sorriso cattivo gli sfiorò le labbra e capì che tutte le speranze di vedere una volta almeno umiliato suo fratello e afflitta Velleda, non erano perdute. Non fece un piano, perché era incapace d'idearlo, anche sotto l'impulso dell'invidia e del desiderio, ma si rimise, come tutti gli inetti, nelle braccia misericordiose del caso, e confortato dormì un lunghissimo sonno, che Saverio si guardò bene dall'interrompere. Era una domenica, una burrascosa giornata d' agosto. Il mare gonfiato dal vento di terra spingeva al largo le onde crestate di bianco per modo che guardando dalla spiaggia si vedeva una distesa verde su cui svolazzavano a stormi i gabbiani e in distanza una montagna nivea e fluttuante che si confondeva con la linea dell'orizzonte. La sabbia turbinava sulle rovine, sui palmizj, sulla villa, avvolgendo ogni cosa in una nube giallastra, di sinistro aspetto. I valori e i velieri ancorati nel piccolo porto alzavano e abbassavano le prue con moto continuo e disordinato, minacciando di urtarsi, e le alberature e g'li scafi cigolavano sinistramente. Alla villa erano alzati per tempo, nonostante la veglia prolungata, e chi avesse veduto Velleda e Roberto, senati alla tavola della colazione, con la piccola Maria nel mezzo, guardandosi sorridendo, non avrebbe mai supposto che da quei due giovani era stato poche ore prima tracciato un programma così serio di esistenza operosa. Parevano due giovani imposi occupati soltanto della loro felicità e della educazione della bambina, che sedeva in mezzo ad essi. Non c'era una nube sulla fronte liscia di Velleda, sulla quale scendevano i ricciolini dei brevi capelli; non un pensiero triste negli occhi grandi e mansueti di Roberto. Tutte e due sapevano che le lotte stavano per incominciare, che una esistenza di sacrifizj li aspettava, ma ormai avevano calcolato tutto e non provavano pentimento e si sentivano uniti nell'avvenire come nel passato; uniti sempre, e in questo consisteva la loro calma, la loro felicita. Oggi, Maria, - disse Velleda, - non puoi fare il bagno e neppure uscire; fuori non si sta ritti; leggerai, ti baloccherai con le bambole e se nel dopopranzo la burrasca continua, io ti racconterò una novella. Questa promessa teneva sempre buona la bambina, perché nessun libro procuravate mai tanto diletto guanto la narrazione di una novella immaginata da Velleda. la quale univa alla meravigliosa fantasia delle razze slave, una ricchezza di colorito tutta meridionale. Ed io pure ascolterò la novella, - disse Roberto, e starò attento quanto Maria. Io pure ho bisogno di passare il tempo. Tu scherzi, babbo, a te il tempo manca sempre. Lo zio Franco, invece, non sa mai che cosa farne. Dimmi, babbo, tutti i duchi sono così disoccupati? Chi ti ha detto che è duca? - domandò Roberto. Lui stesso; anzi mi ha promesso di lasciarmi il suo titolo, perché tu non vuoi farmi portare i tuoi. Il signor Franco cerca sempre di destare in Maria idee vane e ambiziose, - disse Velleda. - Io mi sono studiata si paralizzare quell'influenza, senza ricorrere a lei, ma vedo che la nostra piccina non vuoi dimenticare le parole dello zio; ed è bene che lei, signor Roberto, si valga della sua autorità per dimostrare a Maria che e inutile che si culli in quei pensieri, che ella si chiamerà sempre Maria Frangipani e che nessun titolo vale quanto un nome onorato. Roberto soffriva visibilmente; ripugnavagli di far nascere nel cuore di Maria la sfiducia contro Franco e capiva benissimo il delicato sentimento che aveva trattenuto Velleda dal parlargli di quella opera di corruzione del fratello; ma dinanzi al male che questi poteva recare alla sua bambina, non ebbe più esitazioni e disse, atti randola a sé dolcemente: Senti, Maria, tuo zio ha ricevuto una cattiva educazione; forse nessuno gli ha voluto veramente bene. Per questo egli non sa educare gli altri e non vuol bene a nessuno. Con te, egli si balocca come farebbe con un gingillo. Non gli prestare attenzione quando ti parla, ma non gli dimostrare disistima. È un infelice che va compatito e tollerato. Egli non può lasciarti proprio nulla; neppure quel titolo di cui si vanta e che è la sua sola ricchezza. Te lo dico io, che non saprei ingannarti, come non ti sa ingannare Velleda. Dovrei allontanarlo di qui, soltanto per la perfidia con cui cerca d'insinuarsi nell'animo tuo; ma ho compassione di lui e non lo faccio. Però invito te ad esser più ragionevole di lui e a non prestar fede a quello che ti dice. Se tu non lo facessi, io dovrei dirgli di partire, e lontano di qui sarebbe anche più abbandonato e infelice. Saprai essere forte contro le sue insinuazioni, Maria? Roberto aveva nella voce e nello sguardo quell'affascinante dono della persuasione, proprio degli apostoli, di coloro che parlano al cuore degli individui e delle masse, fascino indescrivibile che sfugge ali' analisi e che consiste forse nella grande armonia fra il pensiero e il sentimento. Maria subì il fascino delle parole e dello sguardo paterno e si gettò nelle braccia di Roberto, commossa. Egli la baciò affettuosamente e nell'alzarsi disse a bassa voce a Velleda: Ci sarà fatale, Franco? Ella non rispose. I suoi presentimenti erano sinistri, ma non voleva turbare la pace di quella grande anima, e i sibili del vento, la burrasca che si scatenava sulla villa; le parvero in quel momento i prodromi dell'altra che sentiva accumulare sulle loro teste.

Voi siete il nostro padre severo e amoroso e i morenti si confortano pensando che voi non abbandonate le loro famiglie. Le vostre opere danno frutto, padrone; noi vi siamo devoti e l'azione malvagia di un perverso, di un compagno che rinneghiamo, ci ha fatto sentire meglio quanto vi siamo affezionati. Che Iddio vi benedica, o padrone, e benedica l'opera vostra! Un grido uscì da tutte le bocche, un grido lungo che commosse Roberto e riempì di lacrime gli occhi di Velleda. Le labbra di Giovanni rimasero chiuse e Costanza si fece livida. Franco aveva abbassato gli occhi. Una doppia razione di vino fu distribuita agli operai, i quali sotto il cocente sole meridionale uscirono lieti dallo stabilimento a frotte. E mentre in tante parti del mondo un grido di ribellione e d'odio usciva dal petto 0146 dei lavoratori, e tante fabbriche erano in fiamme, e tanti ribelli cadevano colpiti dalle palle dei soldati, su quella spiaggia della lontana Sicilia un nuovo vincolo d'affetto era creato fra il padrone e gli operai. L'opera d'amore li un cuore buono e di una mente illuminata trovava la sua alta ricompensa. Velleda s'era accostata a Roberto e gli parlava sommessamente, fissandolo. Franco li avvolgeva con uno -sguardo invidioso, che non sfuggi a Costanza. Ella fremè li gioia e disse fra se: Ah! so come vendicarmi!

LE NOVELLE DELLA NONNA. Fiabe fantastiche

679087
Perodi, Emma 1 occorrenze
  • 1992
  • Newton Compton Editori s.r.l.
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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L'uomo, che aveva gettato uno sguardo di repulsione su quel mostro femmina, sentendo che ella lo aveva soccorso, vinse la ripugnanza che gl'ispirava e, avvicinandosi a lei, disse con voce dolcissima: - Vi sono grato di ciò che avete fatto per me; ma, per carità, non mi abbandonate. In seguito a gravi dolori ho dovuto fuggir da Firenze, e da molti giorni mi aggiro come una belva nei boschi. Sono stato còlto anche da questi lunghi, lunghissimi svenimenti; sono un infelice, soccorretemi! Teresona si sentì intenerire a quelle suppliche e, nonostante temesse l'ira del padre, pure promise allo sconosciuto che, se si contentava di stare in quella soffitta, lo avrebbe ricoverato e nutrito per alcuni giorni; e dopo esser riscesa a prendergli un po' di minestra avanzata dalla cena e un tozzo di pane, lo rinchiuse di nuovo e se ne andò a letto. La mattina dopo il padre uscì al solito per i suoi traffichi, e Teresona, rimasta sola e sicura ormai che per tutto il giorno il padre non sarebbe tornato, invitò lo sconosciuto a scendere per respirare una boccata d'aria. Ma egli ricusò dicendo che si sentiva tanto spossato che non aveva neppure la forza di alzarsi dal giaciglio di foglie e di fieno. Allora Teresona, che era assuefatta a vedersi respinta da ognuno per la sua bruttezza, gli domandò molto umilmente se gli faceva dispiacere che rimanesse a fargli compagnia. - Mi fate un piacere, anzi, - le rispose lo sconosciuto. - Non potete credere come la simpatia di una creatura buona scenda dolce nel cuore dell'esule. Era la prima volta che qualcuno le parlava così affettuosamente, e Teresona fu tutta commossa. Ella prese la rôcca e si mise a filare in un cantuccio della soffitta, senza parlare, accostandosi soltanto allo sconosciuto per domandargli se voleva prendere ristoro. Per quel giorno il forestiero parlò poco, ma il giorno seguente incominciò a narrare a Teresona la sua triste storia e le disse che era un signore fiorentino della famiglia Spini, preso di mira dal partito che governava la città, per la opposizione fatta a certe leggi ingiuste che quel partito voleva imporre. Avvertito in tempo da un contadino che lo cercavano per arrestarlo, era fuggito a cavallo, ma senza nulla. Vagando però nel contado aveva saputo che avevano messo una taglia sulla sua persona, e che i suoi beni erano stati confiscati. Mentre parlava, il ricordo forse delle angustie patite lo fece cadere in un nuovo svenimento. Teresona, vedendo che il giorno incominciava a declinare e temendo che il padre tornasse, dovette lasciare messer Spini svenuto e correr giù a preparare la cena. La povera ragazza era più morta che viva, e mentre attizzava il fuoco, pregava la Madonna che rendesse almeno la salute a quell'infelice, così misero, così solo! Quella sera ella mise una quantità d'olio nella minestra di fagioli, si scordò di salare il castrato, e quando suo padre giunse, nulla era ancor pronto. Il sensale la rimproverò acerbamente e non volle mangiare altro che un pezzo di pecorino dicendo che da allora in poi voleva cenare all'osteria, e a lei non avrebbe lasciato altro che pane e pattona, perché non voleva andare in rovina per quella sprecona di figliuola. Difatti mise ad effetto la minaccia, e fattosi dar la chiave della dispensa, dove teneva la carne salata, il vino e l'olio, la ripose in un canterano dove teneva i quattrini. Teresona andò a letto piangendo. - Madonna Santa, - diceva la ragazza, - come farò a sostenere quell'infelice che è più morto che vivo? E con la testa sul guanciale pensava e ripensava, senza trovare un mezzo per uscire da quel bertabello. Intanto si struggeva di non potere andare in soffitta dal fiorentino a vedere se si era riavuto, perché suo padre, che era rimasto in cucina col fiasco davanti, continuava a brontolare e pareva non avesse nessuna voglia di andare a letto. Teresona era al buio, in preda alla desolazione, quando a un tratto vide dinanzi agli occhi un gran chiarore come se il sole penetrasse sfolgorante dalla finestra, e, in mezzo a quella luce vivissima, scòrse una vecchia dall'aspetto venerando, che si avvicinava a lei, senza che i piedi toccassero il pavimento. - Ragazza mia, - disse la vecchia con voce dolcissima, - la diletta Figlia mia, la Santissima Vergine, che ha pietà degli afflitti e ne raccoglie le preghiere, mi manda a te. Se tu vuoi salvare messer Spini, questa notte stessa devi portarlo via da questa casa. Domani tuo padre andrà a rovistare in soffitta, e se lo trova lo consegnerà alla giustizia come ladro. Rammentati che io sono sant'Anna ... rammentalo! Dopo che la vecchia ebbe detto queste parole, la camera ritornò nelle tenebre e l'apparizione scomparve. Teresona lì per lì fu consolata, ma quando udì che il padre si mise a cantare in cucina con voce avvinazzata, disse fra sé: - Come farò a portare messer Spini fuori di casa, se il babbo non va a letto? Vergine Santa, aiutatemi voi! L'aiuto non le mancò, poiché poco dopo sentì un gran tonfo per terra e udì russare forte il vecchio sensale. Allora si vestì in fretta, senza mettersi le scarpe, e salita nella soffitta l'aprì. Messer Spini era sempre svenuto sul giaciglio. Ella cercò di destarlo, ma era fatica sprecata. Allora se lo caricò sulle spalle, e via, via, finché non lo ebbe deposto sopra un letto di musco a qualche distanza da casa. Però Teresona capì che, vestita da donna, sarebbe stata subito riconosciuta dalla gente, beffeggiata e vilipesa; perciò ella tornò a casa, si tagliò i capelli, si tolse le sue vesti, indossò i panni del babbo e via. Quando fu sulla soglia di casa ebbe un momento d'esitazione. Le dispiaceva di lasciar quell'uomo che, in fin de' conti, era suo padre; quella casa dove aveva vissuto ... e le pareva di far male ad andarsene; ma mentre stava così esitante, credé di udire una voce che le dicesse: - Tuo padre sarà contento di essersi liberato di te; non ti accorgi che non ti può soffrire? mentre l'altro ti vuol bene e ha bisogno del tuo aiuto. La voce era quella di sant'Anna, apparsale poco prima. Teresona non esitò più, e corse in cerca di messer Spini. Questi non era più immobile come Teresona lo aveva lasciato. Ma si dibatteva per terra e mandava gridi che somigliavano a urli di lupo affamato. - Madonna santa, ha il lupo mannaro! - esclamò la ragazza. E fece atto di fuggire; ma, vinta dalla compassione, si fermò, e, curvatasi sull'infelice, gli cinse la testa con le braccia poderose per impedirgli di ferirsi. Così rimase lungamente nel folto del bosco, sgomenta da quegli urli che potevano richiamar gente, sgomenta di non aver nessun mezzo per far cessare il male. A giorno, il malato si calmò; non urlava più, non si batteva più, e finalmente aprì gli occhi inebetiti. - Bisogna fuggire, - disse Teresona, - mio padre si desterà e si metterà a cercarmi; non bisogna che ci trovi qui. Messer Spini capiva poco quello che ella gli diceva, ma Teresona lo alzò da terra e, sorreggendolo, lo fece camminare in direzione del Pian di Campaldino. In mezzo alla vasta pianura sorgeva una casetta disabitata, dove la ragazza fece entrare l'infelice, e anche li trovò il modo di preparargli un letto di foglie e di fieno; ma come avrebbe fatto mai a nutrirlo? Peraltro Teresona era una ragazza coraggiosa, e le pareva che quegli abiti maschili che aveva indossati dovessero renderla irriconoscibile. Così, dopo aver raccomandato all'esule di non muoversi, andò fuori, sperando che le capitasse di guadagnar qualche cosa. Ma prima di uscire passò alcuni minuti in orazione e supplicò la Vergine Maria e sant'Anna di vegliare sul disgraziato fiorentino. La ragazza camminava alla ventura sulla via maestra in direzione di Poppi, quando le accadde di imbattersi in un grosso frate camaldolese, montato sopra un somaro. L'animale s'era impuntato e non voleva andare né avanti né addietro, e il monaco tirava la briglia, menava frustate; ma sì! era come dire al muro. Teresona, che era forte quanto un toro, prese il ciuco per la briglia e lo costrinse a camminare; ma appena lo lasciava, il ciuco impuntavasi di nuovo. - Giovinotto, - disse il monaco, - come vedi io son troppo pingue per far la strada a piedi e debbo trovarmi a Bibbiena prima di mezzogiorno: accompagnami fin là e ne avrai da me larga ricompensa. Teresona non se lo fece dir due volte, e seppe così bene costringer l'asino a camminare, che il monaco alle undici era già sulla piazza della Pieve. Egli scese di sella, e dopo aver messa una moneta d'argento in mano al suo accompagnatore, lo pregò di andarlo a riprendere il giorno dopo per accompagnarlo a Camaldoli, e gli avrebbe dato il triplo. La ragazza si sentì allargare il cuore, e dopo aver comprato a Bibbiena quello che occorreva per nutrire il malato e un pan tondo per sé, mangiando con grande appetito, tornò alla casetta del Pian di Campaldino. Il forestiero non era più così abbattuto come ella lo aveva lasciato, e le domandò come mai non si trovava più nella soffitta ed ella aveva preso abiti maschili. Teresona gli raccontò le sue angustie della notte, e il giovane s'intenerì sapendo di quale abnegazione essa era stata capace pur di non abbandonarlo. - Se un giorno io riacquisterò i miei beni, - le disse, - tu, eccellente ragazza, sarai signora e padrona in casa mia; te lo giuro da cavaliere. Teresona s'intenerì e sempre più prese affetto per quell'infelice. Il giorno passò senza che messer Spini ricadesse nel letargo; ma appena la luna inondò con la sua luce argentea la vasta pianura, egli si addormentò, e dal sonno passò alle convulsioni; si dibatteva, mandava bava dalla bocca, e urlava come un lupo affamato. Ora bisogna sapere che la casetta, nella quale Teresona si era rifugiata insieme con l'ammalato, apparteneva a certi contadini i quali non l'abitavano altro che nei due mesi che precedevano la vendemmia. Essi solevano passarvi la notte per abbadare che non rubassero loro l'uva; il resto dell'anno non ci capitavano mai. Ma quella era appunto la stagione in cui l'uva aveva bisogno della sorveglianza notturna dei contadini, e due di essi si avviarono alla casupola, quando sentirono uscirne urli di lupo. I contadini stettero in ascolto un momento; poi, udendo che gli urli continuavano, non pensarono più all'uva e via di corsa. Quegli urli erano stati uditi anche da altri contadini, così che la mattina nel vicinato non si parlava d'altro che della presenza del lupo mannaro nel Pian di Campaldino. Come avviene sempre in certe circostanze, vi era pure chi asseriva di aver visto la bestia spaventosa correre di notte, mentre la luna era alta, per i campi e per i boschi, così nessuno si attentava più a uscir di casa la notte, e i contadini avrebbero lasciato piuttosto marcir l'uva sulle viti, che attentarsi a incontrare il lupo mannaro. Intanto Teresona, sostenuta dal desiderio di rendersi utile all'infelice cui affezionavasi ogni giorno più, non rifuggiva da nessun lavoro, per faticoso che fosse, pur di guadagnare qualche cosa. Aveva riaccompagnato il monaco a Camaldoli e da lui aveva ottenuto una larga ricompensa; poi s'ingegnava a far legna, che andava a vendere a Poppi e a Bibbiena, e se incontrava nei boschi qualche squadra di taglialegna, offriva l'opera sua per ottenerne qualche soldo. Una notte, vedendo messer Spini dibattersi furiosamente in preda alle convulsioni, Teresona aveva detto: - Sant'Anna benedetta, non vi pare che quest'infelice abbia patito assai? guaritelo, per carità di lui e di me! La luminosa visione le era di nuovo comparsa, e sant'Anna le aveva risposto: - Se la diletta Figlia mia non avesse esaudito le tue preghiere, tu e l'esule non avreste più neppure questo ricovero. Non capisci che sono gli urli di lui che tengono lontana la gente da questo luogo? - Chino il capo alle savie disposizioni della Provvidenza, - rispose Teresona umilmente. - Così va bene; - disse sant'Anna, - quando la persecuzione contro messer Spini cesserà, egli sarà guarito. La visione scomparve, ma gli urli continuarono e il terrore era sparso nei dintorni. Intanto i contadini, che vedevano marcire la loro uva sulle viti nel Pian di Campaldino, erano andati dall'abate di Strumi, che aveva nomea di santo, e gli avevan detto, con voce tremante e spaventata: - Abate maggiore, il lupo mannaro è in paese, e noi si perde la raccolta dell'uva. L'abate si era fatto spiegare il come e il perché di quella perdita, e dopo aveva detto: - Domani farò una processione fino alla casetta nel Pian di Campaldino e con l'acqua santa caccerò il lupo mannaro. Infatti il giorno dopo aveva adunato i suoi monaci, e, preceduto dalla croce, si era diretto al luogo dove tenevasi nascosto messer Spini. Egli era in un momento di calma e, seduto per terra col dorso appoggiato alla rozza parete, esprimeva a Teresona, che lo ascoltava con le lacrime agli occhi, l'ammirazione che ella gl'ispirava per la sua illimitata bontà. - Ti voglio bene, Teresa, - le diceva, - più che alla madre mia, più che alle sorelle, agli amici, alla patria stessa, e non saprei vivere senza di te. La donna, che stava sempre in ascolto temendo una sorpresa, udì salmodiare e, guardando da uno spiraglio della porta, vide la processione di monaci dirigersi alla volta della casupola. - Siamo perduti! - esclamò. E, senza cercar di fuggire, perché lo reputava inutile, s'inginocchiò e pregò fervidamente sant'Anna e la Vergine. In quel momento messer Spini fu assalito dalle convulsioni; egli incominciò ad urlare, e il suo corpo prese a un tratto l'aspetto orribile di una bestia villosa, con una testa enorme e una bocca fornita di zanne minacciose. L'animale, sempre urlando, si fece sulla porta, e pareva pronto a gettarsi addosso al primo che si accostasse. Il giovane monaco che recava la croce ed era in testa alla processione, appena vide il mostro, fuggì; l'abate che sperava tanto nell'acqua santa, se la diede a gambe, e in breve Teresona vide le tonache bianche dei monaci sparire dalla pianura di Campaldino. Quando nessuno più rimase in quei dintorni, messer Spini riprese sembianze umane e Teresona respirò. Tutti e due capirono che quella trasformazione era avvenuta per intervento celeste, e ringraziarono le loro Protettrici. Dopo qualche giorno messer Spini non fu più assalito dalle convulsioni. Soltanto quando qualcuno voleva avventurarsi vicino alla casa, mandava urli da lupo, e se v'era qualche spirito forte che si accostava con l'intendimento di uccidere il lupo mannaro nella sua tana, il fiorentino prendeva subito le sembianze del mostro e faceva fuggire il mal capitato. Così Teresona e l'esule rimasero padroni di una zona di terreno, dalla quale essi ricavavano in parte il nutrimento. La ragazza però non cessava d'industriarsi andando a vendere erbaggi a Bibbiena, e laggiù apprese che a Firenze non governava più il partito avverso a messer Spini, e che a questi era stato revocato il bando e la confisca dei beni. Tutta lieta ella andò a comunicare la notizia all'esule, il quale pianse di gioia e, approfittando della notte, volle subito partire per Firenze. Teresona fu molto afflitta da quella risoluzione del fiorentino e gli disse: - Signor mio, quando sarete in patria, ricordatevi qualche volta di me. - Ma tu mi accompagni! - rispose messer Spini, - mi sei stata compagna, sostegno, appoggio nella brutta sorte, sarai dunque la compagna dei giorni lieti. Così partirono, e dopo molti giorni di viaggio faticoso, messer Spini bussava alla porta del suo palazzo e, riconosciuto dai suoi concittadini, tornava al possesso del patrimonio e delle cariche del governo della Repubblica. Teresona aveva ripreso gli abiti femminili, ma non appariva più a nessuno così brutta come per il passato, forse perché messer Spini narrava a tutti la devozione di cui era stata capace quella creatura così buona e coraggiosa. Nonostante Teresona si sentiva a disagio nel bel palazzo, e ormai che messer Spini era guarito e ritornato in patria, ella voleva riandarsene in Casentino, per aver notizie del padre suo e ottenerne il perdono. Ma messer Spini non glielo concesse e, anzi, per dimostrarle la sua gratitudine, volle farla sua moglie. Teresona credé d'impazzire dalla gioia allorché il suo signore le comunicò questa risoluzione. Le nozze furono celebrate senza pompa nella cappella del palazzo Spini, dove la sposa visse lunghissimi anni venerata e stimata dal marito e dagli amici di lui, e dove morì in tarda età. Appena messer Spini e la Teresona furono partiti dal Casentino, certi contadini che passavano una mattina sul limitare della pianura di Campaldino videro il cadavere di un mostro, simile in tutto e per tutto a quello che aveva tanto spaventato l'abate maggiore di Strumi e tutta la processione. Essi andarono a raccontare a Poppi che il lupo mannaro era crepato, e allora il popolo dei dintorni, guidato dai proprietari della pianura, andò a vedere la bestiaccia che era stata per tanto tempo il terrore di tutto il paese. - Bruciamola! - disse uno. - Bruciamola! - risposero tutti. Allora lì per lì fu messa insieme una catasta di legne secche; la bestiaccia pelosa vi fu posta sopra a forza di stanghe, perché nessuno voleva toccarla, e in breve fu avvolta dalle fiamme e incenerita. Da quel giorno nessuno ha più udito né veduto il lupo mannaro in quei luoghi, e i contadini sono ritornati ogni anno a badare all'uva matura, senza essere turbati nelle loro veglie dagli urli del lupo. - E ora la novella è finita, - disse la Regina. In quel momento tornavano da Camaldoli il professor Luigi e la moglie, e con loro c'era anche l'Annina. - Come mai sei venuta? - le domandò la nonna. - Non so, - rispose la ragazza, - la signora mi ha detto che era meglio che passassi qualche giorno a casa, ed ho ubbidito. La signora Maria prese da parte la Carola e le disse che la signora Durini, sapendo che Carlo Buoni doveva tornare mercoledì o giovedì della settimana seguente, aveva creduto più conveniente che si abboccasse con l'Annina e le aprisse l'animo suo in casa dei genitori, piuttosto che alla villa dell'ispettore. Dopo quell'abboccamento le avrebbero rimandato la ragazza, dalla quale non intendeva separarsi fino al giorno del matrimonio. L'Annina doveva sospettar qualche cosa, perché era turbata e guardava tutti come se volesse leggere nell'animo dei suoi il segreto che era sicura le celavano; ma non domandò nulla, per il momento, ai grandi. Però, imbrancatasi con i piccini, che le avevano fatto una gran festa vedendola giungere, li aveva condotti nell'orto, e abilmente, senza dimostrare curiosità, li aveva interrogati. Essi erano stati tutti contenti di raccontarle che in settimana avevan avuto visite, che c'erano stati i Buoni, padre e figlio, e che durante la loro visita essi erano stati mandati via di cucina. - E dopo che hanno fatto? - domandò l'Annina. - Dopo aver molto parlato, il capoccia ci ha mandati a prendere l'aleatico; essi hanno bevuto, e son partiti per Poppi. Però il Vecchio, al ritorno, s'è fermato qui di nuovo. - E com'era il babbo? - Tutto felice, come quando torna dal mercato e ha venduto bene un paio di manzi. - E voi, che cosa avete supposto? - chiese di nuovo l'Annina. - Che il capoccia, la nonna, le nostre mamme e la Vezzosa hanno paglia in becco. L'Annina era troppo furba per non aver capito tutto. Il cuore le batteva forte forte, e quel certo mistero che ancora avvolgeva un fatto di cui non poteva aver più dubbio, le faceva provare una grande, una immensa felicità. Non sapeva spiegarsi come il sor Carlo avesse proprio scelto lei, e quando fu a letto, sicura che nessuno la vedeva, pianse e rise dalla grande felicità.

Al tempo dei tempi. Fiabe e leggende delle Città  di Sicilia

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Perodi, Emma 1 occorrenze

Mentre procedeva pensoso con le redini abbandonate sul collo del cavallo, esce da un tugurio una vecchia centenaria, nera come un tizzo spento, con gli occhiacci cispellosi, i capelli tutti bianchi, e stendendo la mano adunca fino ad afferrare il cavallo per il morso, dice nella sua lingua : - Io, Re potente, so molte cose che nessuno sa. Se tu rinunzi a pregare oggi Maria di Nazareth, se volgi briglia ed entri nella moschea maggiore e preghi Aliali e il suo profeta, io ti rivelerò dove tuo padre nascose tutti i tesori che tolse ai Siciliani quando ritirò tutta la moneta sonante e dette invece moneta di cuoio con la sua effigie. - Lo sdegno animò il volto del giovinetto Re. - Vecchia tentatrice, - egli rispose - io sono cristiano come i miei avi, e non adorerò mai altro Dio che il Dio vero, grande, onnipotente, il Figliuol suo divino, la Beata Vergine e i santi e i martiri. Nelle moschee degl'infedeli non entrerò mai. - Ma non vedi la miseria del tuo popolo? Non vedi quante madri coi figlioletti morenti si affollano ogni giorno intorno alla Reggia, chiedendo pane? Non vedi quanti vecchi scheletriti circondano il tuo cavallo non appena ti scorgono, chiedendo pane ? Non vedi quanta gente muore, chiedendo per pietà pane, pane? È chiuso il tuo cuore alla pietà? Guarda là quel gruppo di gente. In mezzo c'è un uomo che agonizza per inedia. Ora quei pietosi gli danno un po' di ristoro, ma domani egli sarà di nuovo assalito dalla fame, e chi potrà dargli soccorso? Il tuo Dio non ti aiuta a far cessare tanta miseria; prega il mio e sarai esaudito. - Lungi da me, vecchia tentatrice ; io sono cristiano e morrò cristiano. Se il mio Dio non m'aiuta, si è perché vuoi mettere alla prova la mia costanza e la mia fortezza, - e spronato il cavallo si diresse alla cappella della Vittoria. Ma fatti appena pochi passi vide due bimbi stesi in terra accanto al cadavere di una donna, della madre loro, e più lungi un uomo nel fiore dell'età, livido, estenuato empirai la bocca con una manciata d'erba e con quella saziare i crampi dello stomaco vuoto. Le lacrime fecero velo allo sguardo del giovinetto Re il quale, toltasi dal collo una croce d'oro, l'ultimo gioiello che conservasse e che aveva carissimo, la mise nelle mani del sacerdote che era accorso a riceverlo sulla porta della cappella, e Gli disse : - Vendila e soccorri quegl'infelici. - E sempre col volto inondato di lacrime entrò nel tempio, s'inginocchiò sulla nuda terra e con tutto il fervore dell'anima pregò: - Vergine beata, tu che proteggesti visibilmente l'impresa dell'avo mio e lo aiutasti a liberare l'isola di Sicilia dai Saraceni infedeli, da questo tempio da cui tu lo facesti penetrare in Palermo io ti prego e ti scongiuro di farmi conoscere ove il padre mio nascose i tesori tolti ingiustamente al popolo siciliano. Signora del Ciclo, tu vedi il mio cuore, tu sai che, se io ti chiedo quella rivelazione, non è per cupidigia, ma per calmare la fame di tante migliaio d'infelici che, giorno e notte, maledicono la cupidigia del padre mio. Signora del Ciclo, consolatrice degli afflitti, esaudiscimi, ed io farò erigere a gloria Tua il tempio più bello di tutta la cristianità, un tempio unico che sarà un canto perpetuo di lode in Tuo onore. - II giovinetto Re, terminata la preghiera, alzò i begli occhi ad un rozzo quadro della Vergine che ornava la cappella, e gli parve che gli occhi di Lei si movessero e la bocca fosse atteggiata a un benigno sorriso. Più consolato si alzò, rimontò a cavallo e fece ritorno alla squallida Reggia, ove nelle sale magnifiche, ornate di mosaici, non echeggiava mai nessuna gaia risata, ove i volti dei cortigiani erano velati di mestizia, ove tutti i discorsi si aggiravano sulle pubbliche calamità. Guglielmo non usava, come il padre, dilettarsi nel soggiorno degli incantevoli palazzi della Cuba e della Ziza. Vi aveva fatto togliere, come dalla Reggia, tutti gli oggetti di valore, per convertirli in grano da distribuire ai poveri ; li aveva spogliati della suppellettile preziosa, e le nude pareti delle sale, i giardini incolti, non echeggiavano più di suoni e canti, non vi si vedevano più danzatrici. Quando egli usciva a diporto andava nei boschi della vicina collina di Monreale, oppure all'Abbazia di San Martino ove i Benedettini pregavano e lavoravano la terra per dar pane agli affamati. Ma non vi andava con seguito di cavalieri, ne di falconieri e di cani, come gli altri re, gibbone con pochi fidi, per rinvigorire le membra nell'aria pura dei boschi ed esser poi più forte per sopportare le calamità. Una volta era appunto nei boschi che rivestivano la collina di Monreale, e da una radura aveva contemplato il mare deserto di vele, perché il commercio era morto, la magnifica conca in cui si adagiava Palermo, tutta inselvatichita perché mancavano i mezzi per coltivarla, e Palermo, dove si addensavano tante miserie. A quella vista il giovinetto Re esclamò : - Signora del Cielo, Vergine gloriosa, fate che il mio popolo non debba più rimpiangere la signoria dei Saraceni ! Al tempo di essa questo mare era coperto di navi che portavano qui i prodotti di tutti i paesi e ne portavano via le derrate e le merci; questa conca era una vera conca d' oro per la feracità del suolo ben coltivato, ove nascevano mèssi e frutti in gran copia ; la città di Palermo era ricca e il popolo vi trovava lavoro ben remunerato. Ora Voi vedete lo squallore e la miseria, e questa è opera dei Cristiani ! Signora del Cielo, Vergine gloriosa, fate cessare tanta onta, tanta sventura ! - Così pregò lungamente il giovinetto Re. A un tratto la sua mente si offuscò, gli occhi quasi gli si chiusero, le gambe si rifiutarono di sostenerlo ed egli ebbe appena il tempo di stendersi sull'erba, che già dormiva. Egli s'era coricato all'ombra di uno scuro carrubbo, che spandeva i suoi rami su di un largo tratto di terreno, quando in sogno gli comparve la Vergine seduta sul trono, con due angioli, e ai lati di lei erano gli apostoli; più sotto quattordici santi; più basso ancora, a destra e a sinistra, san Pietro e san Paolo, e maestoso in mezzo ad essi, come sorreggente tutto quell’edifizio celeste, il Cristo col volto spirante mansuetudine e bontà. Gli occhi di Guglielmo fissavano estatici le figure bellissime, quando le labbra della Vergine si schiusero e la voce soave disse : - Guglielmo, l'afflizione del tuo cuore mi h" commossa, e per te e per il popolo tuo ho interceduto presso il mio Divin figliuolo. Egli, nella sua benignità, ha concesso che ti apparissi e ti parlassi. Ascolta, Guglielmo : i tesori estorti dal padre tuo al popolo siciliano, sono nascosti nel terreno sul quale tu dormi; scava e li troverai, e costà appunto erigi un tempio a perpetua espiazione dei peccati di colui che rese odioso in Sicilia il culto del cristianesimo. - Non appena la Vergine dal trono ebbe terminato di parlare, la figura del Cristo alzò la mano in atto di benedire. Poi tutta l'apparizione dileguò e il giovinetto Re si destò dal sonno ; ma ancora gli risuonava nelle orecchie la voce dolcissima e negli occhi serbava la visione di quel lembo di paradiso. Si alzò sbalordito, pronunziò una fervida preghiera di ringraziamento, e pieno di fede nella promessa celeste, si tolse dal tòcco una piuma d' airone e la piantò sotto il carrubbo ove l'erba era schiacciata dal peso del suo corpo, per non confondere quel carrubbo con altri che crescevan vicino, e tutto lieto raggiunse il seguito e fece ritorno alla Reggia di Palermo. Qui, senza rivelare ad alcuno il sogno avuto, annunzio che il giorno dopo sarebbe partito per Kalata Busambra, dove era un forte eretto dai Saraceni. E di fatto vi si recò, e là, presi seco alcuni villani con zappe e vanghe, tornò a Monreale. Egli si diede ansiosamente a cercare il carrubbo sotto il quale aveva dormito, credette riconoscerlo alla penna d' airone conficcata nel terreno, e lì ordinò che fosse scavato il suolo. Scava scava non fu trovato nulla, e il piccone incontrò la dura roccia, che fu messa a nudo, e in essa non si vedeva nessuna apertura. Scoraggiato il buon Re, ma non sfiduciato, fece rimettere la terra a posto, licenziò i villani, remunerandoli del lavoro fatto, e con digiuni e preghiere cercò benignarsi la Vergine gloriosa, raffermandole la fede nel Suo aiuto. Ogni giorno il Re, sperando di avere una nuova visione, si recava nel bosco di Monreale. Il terzo giorno fu preso al solito da un gran sonno e sdraiatesi sull'erba s'addormentò ed ebbe la stessa visione e la voce dolcissima gli disse : - Ascolta, Guglielmo: l'eterno nemico del genere umano e tuo in ispecie, vide la penna che tu conficcasti nel terreno per riconoscere il luogo ove giaceva il tesoro, e la portò altrove. Il tesoro è qui, dove hai dormito oggi, dove dormisti la prima volta. Fa un segno indelebile che Satana non possa cancellare. - II giovinetto Re, appena desto, udendo ancora la voce dolcissima risonare al suo orecchio, vedendo ancora tutto lo splendore del Regno celeste, trasse il pugnale, e con la punta di esso incise sulla corteccia del carrubbo il suo nome; poi, senz'andare alla Reggia di Palermo, si recò alla Kalata Busambra, e ne tornò coi villani che avevano scavato la prima volta. Ma che vede mai, appena giunto ? Tutti i carrubbi che crescevano abbondanti sul colle di Monreale erano stati scortecciati dal fulmine, e naturalmente l'iniziale del nome reale era pure scomparsa. - Signora del Cielo ! - esclamò a quella vista Guglielmo. - Non permettete che il nemico del genere umano impedisca che io possa usufruire della Vostra benignità ; fate che io possa sollevare le angustie del mio popolo Questa volta il Re non cadde nel sonno dopo la fervida invocazione, ma desto udì la voce dolcissima che gli diceva : - Vicino al carrubbo al cui piede sono seppelliti i tesori, vedrai una pianta di rosa tutta fiorita. Lì conficca la spada che ha sull'impugnatura la croce e il nemico implacabile del genere umano, Satana, fuggirà, nel vederla. - II Re cadde ginocchioni ringraziando la Vergine della Sua benignità e si diede a cercare la pianta di rosa fiorita ; ma in quel momento il cielo si fece di piombo, si alzò un vento impetuoso, e fulmini e tuoni accompagnati da acqua e grandine resero impossibile al Re di proseguire. Rifugiato in una grotta naturale attese lungamente il cessar della bufera, ma quando questa si calmò la notte era già. calata, i sentieri del colle erano convertiti in tante fiumane, cosicché Guglielmo dovette attendere l'alba. E questa sorse radiosa. Le piante verdissime parevano tutte rivestite di nuove foglie, il cielo era di un azzurro pallido, incantevole e Farla di una purezza deliziosa. Dopo la consueta preghiera mattutina il Re si diede di nuovo a cercare la pianta di rosa fiorita, ma ahimè ! il temporale aveva portato via tutti i petali dei fiori e vide non poche piante di rosa, ma nessuna aveva fiori. Cerca cerca finalmente ne scoprì una, spoglia pure di rose, ma nel fondo di una fossa che l' acqua vi aveva scavato al piede riempiendola, vide molti petali incarnatini mescolati al fango, e lì nella terra conficcò la spada con l' impugnatura a forma di croce, quella stessa spada che i suoi avi avevano cinta nell'impresa di Terrasanta prima di approdare a Salerno e d'incominciare la conquista delle Puglie. Col cuore pieno di speranza nell' efficacia del santo segno per fugare Satana e i suoi demoni, Guglielmo fece ritorno alla Reggia di Palermo, e fatti chiamare i villani di Kalata Busambra, i quali erano fuggiti durante la tempesta suscitata dal gran nemico del genere umano per impedirgli di ritrovare i tesori seppelliti dal padre, tornò nel bosco di Monreale. Là con sua immensa gioia trovò la spada ov'egli l'aveva conficcata, e poco distante vide una specie di voragine aperta nel terreno, dalla quale Satana certo era sprofondato nell' interno, vedendo la croce. Lì Guglielmo fece scavare, e appena a pochi palmi nel terreno le vanghe dei villani incontrarono la roccia. Tolta la terra si vide una porticina di ferro, che il Re fece rompere, e aperta quella apparve una lunga scala scavata nella roccia. Scese quella scala, e qual non fu la sua gioia, la sua commozione trovandosi in una grotta ampia come una piazza, con tutte casse di ferro giro giro, che contenevano monete sonanti. Il Re risalì e spedì un messo a Palermo con l'ordine deviargli cento mule, e quando queste giunsero le fece caricare di monete ; poi, lasciati alcuni cavalieri a guardia del tesoro, andò a Palermo. Dopo sei giorni la grotta era vuotata, e Guglielmo quel giorno stesso faceva un bando. Valletti e paggi giravano per le città e per le campagne annunziando che il Re ritirava tutta la moneta di suola, come la chiamavano, e dava in cambio moneta sonante, e sempre in quel giorno partivan messi per tutte le città del mondo per invitare gli architetti più celebri a presentare un disegno del tempio, che doveva sorgere sulla collina di Monreale, bello e maestoso come ninno altro tempio della cristianità; i maestri mosaicisti a presentare disegni per ornare le navate con i fatti più noti dell'antico e del nuovo Testamento, e gli scultori per farvi i lavori di marmo. Nell'abside doveva esser raffigurata in mosaico la Vergine in trono, coi due angeli, gli apostoli ai due lati, più sotto quattordici santi, e più sotto ancora e dai lati, san Pietro e san Paolo e finalmente il Cristo, come era apparso a Guglielmo la prima volta. Vennero gli architetti in Palermo e presentarono i disegni; vennero i mosaicisti da Venezia e da Costantinopoli, e vennero gli scultori da Pisa e da Firenze, ma nessuno dei disegni parve a Guglielmo quale egli lo aveva sognato. E sempre pregava la Vergine che ispirasse Lei gli artisti per il tempio che voleva dedicarle. Una mattina nel destarsi Guglielmo trovò i disegni tracciati sulle pareti della sua camera. Su una c'era la facciata, su un'altra una delle porte laterali, sulla terza l'abside con la visione riprodotta, e sulla quarta uno dei Iati interni della navata. Nessuno può ridire l'esultanza di Guglielmo. Cadde ginocchioni, pregò con tutto il fervore di cui era capace il suo cuore riconoscente, e subito, chiamati architetti maestri mosaicisti e scultori, ordinò loro di copiare il disegno, d'ingrandirlo e di preparare i materiali. E nell'anno 1174 fu posto mano alla costruzione e vi furono impiegati per ordine del Re tutti coloro che non avevano lavoro. La costruzione durò quindici anni, e Guglielmo spese per il tempio somme enormi, e sempre sollecitava architetti e maestri mosaicisti di terminarlo presto, per timore di morire senza vederlo compiuto. Annesso alla cattedrale costruì un convento, vi fece venire i Benedettini di Cava, e sopra il trono reale, nell'interno della cattedrale, fece fare un mosaico che lo rappresentava in atto di offrire il tempio alla Vergine. Il Re non aveva figli, ma non si crucciava tanto della successione al trono, quanto di quella della cattedrale. Mancava poco che fosse ultimata quando il Re, che era nel fiore degli anni, ammalò di un male che nessuno conosceva. Egli non pregava perché gli fosse concessa la salute, soltanto supplicava la Vergine che gli concedesse tanti giorni di vita per veder terminato il tempio. E la grazia gli fu concessa. Quel giorno di gioia egli lo visse e sentì le benedizioni del popolo. Poi si spense, ma Guglielmo vive ancora nella memoria del popolo siciliano, e il tempio è là in alto, con le sue colonne, con le sue porte bronzee, con i suoi mosaici preziosi su fondo d'oro, e quando il sole del tramonto penetra dalle alte finestre, pare un lembo di paradiso ed è degno trono alla Vergine. E ancora il popolo, orgoglioso di quel tempio, dice : Chi va a Palermo e non vede Monreale Se ne parte asino, e se ne torna animale.

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La chiave a stella 1978

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Levi, Primo 1 occorrenze

Ad otto metri dalla via congestionata e pretenziosa, si respirava in quel cortile un vago odore claustrale, insieme col fascino dimesso delle cose un tempo utili, e poi lungamente abbandonate. Ho trovato al secondo piano la targa che cercavo: Oddenino Gallo. Dunque sorelle della madre, non del padre: o forse zie alla lontana, o nel senso vago del termine. Sono venute ad aprirmi tutte e due, ed al primo sguardo ho notato fra loro quella falsa rassomiglianza che spesso ed assurdamente ravvisiamo fra due persone, per quanto diverse, che veniamo a conoscere nella stessa sorte ed allo stesso tempo. No, in realtà non si somigliavano molto: nulla al di là di una indefinibile aria di famiglia, dell' ossatura solida e della decorosa modestia delle vesti. Una aveva i capelli bianchi, l' altra castani scuri. Tinti? No, non tinti: da vicino si distinguevano alcuni pochi fili bianchi sulle tempie che facevano fede. Hanno ritirato il pacco, mi hanno ringraziato e mi hanno fatto sedere su un piccolo divano a due posti, piuttosto consunto e di una forma che non avevo mai visto: quasi diviso in due da un strozzatura, e con le due metà disposte fra loro ad angolo retto. Sull' altro posto del divano si è seduta la sorella castana; la sorella bianca, su una poltroncina di fronte. "Permette che apra la lettera? Sa, Tino scrive così poco ... eh già, infatti, guardi qua: "Carissime zie, approfitto della cortesia di un amico per farvi pervenire questo regalino, saluti affettuosi e baci da chi sempre vi ricorda, e sono il vostro Tino", punto e basta. Non gli viene il mal di testa di sicuro. Così lei è un suo amico, non è vero? Le ho spiegato che proprio amico no, se non altro per la differenza di età, ma ci eravamo trovati in quei paesi lontani, avevamo passato insieme tante sere, insomma ci eravamo fatta buona compagnia, e lui mi aveva raccontato molte cose interessanti. Ho colto un rapido sguardo della sorella bianca alla sorella bruna: "Davvero? _ ha risposto questa: _ Sa, con noi parla così poco ..." Ho cercato di rimediare al fallo: laggiù svaghi ce n' erano pochi, anzi nessuno, e a trovarsi fra due italiani in mezzo a tanti forestieri veniva naturale di parlare. Del resto, lui mi raccontava quasi soltanto del suo lavoro. Come è buona usanza, cercavo di rivolgermi volta a volta ad entrambe le donne, ma non era facile. La zia bianca raramente puntava lo sguardo verso di me; per lo più guardava in terra, oppure, anche se io mi volgevo verso di lei, teneva gli occhi fissi in quelli della sorella bruna; le poche volte che prendeva la parola, si rivolgeva alla sorella, come se lei parlasse una lingua che io non avrei potuto capire, e la bruna dovesse fare da interprete. Quando invece era la bruna a parlare, la bianca la guardava fissamente, col busto leggermente piegato verso di lei, come se la volesse sorvegliare e stesse pronta a coglierla in difetto. La bruna era loquace e di umore gaio: in breve ho saputo molto di lei, che era vedova senza figli, che aveva sessantatre anni e la sorella sessantasei, che si chiamava Teresa, e la bianca Mentina che voleva dire Clementina; che il suo povero marito era stato motorista abilitato nella marina mercantile, ma poi al tempo di guerra l' avevano imbarcato sui caccia ed era sparito nell' Adriatico, al principio del '43, proprio l' anno che era nato Tino. Erano appena sposati; invece Mentina non si era mai sposata. " ... ma mi dica di Tino; sta bene, no? Non prende freddo, su per le impalcature? E per il mangiare? Già lei lo avrà visto, il tipo che è lui. Ha proprio le mani d' oro: è sempre stato così, sa, anche da ragazzo, quando c' era un rubinetto che perdeva, o un guasto alla Singer, o la radio che faceva le scariche, lui metteva tutto a posto in un momento. Però c' era anche il rovescio della medaglia, nel senso che quando lui studiava, aveva sempre bisogno di avere in mano qualche affarino da smontare e rimontare, e sa bene, smontare è facile e rimontare mica tanto. Ma poi ha imparato, e di malanni non ne ha fatti più". Le avevo davanti agli occhi, le mani di Faussone: lunghe, solide e veloci, molto più espressive del suo viso. Avevano illustrato e chiarito i suoi racconti imitando volta a volta la pala, la chiave inglese, il martello; avevano disegnato nell' aria stantia della mensa aziendale le catenarie eleganti del ponte sospeso e le guglie dei derrick, venendo a soccorso della parola quando questa andava in stallo. Mi avevano richiamato alla mente lontane letture darwiniane, sulla mano artefice che, fabbricando strumenti e curvando la materia, ha tratto dal torpore il cervello umano, e che ancora lo guida stimola e tira come fa il cane col padrone cieco. "Per noi è come un figlio, pensi che ha vissuto otto anni in questa casa, e che ancora adesso ..." "Sette, non otto", ha corretto Mentina, con inesplicabile durezza e senza guardarmi. Teresa ha proseguito senza rilevare: " ... e bisogna dire che di fastidi ce ne ha dati pochi, almeno finché è rimasto alla Lancia, cioè finché ha fatto una vita un po' regolare. Adesso, si capisce che guadagna di più, ma mi dica, le pare che uno possa andare avanti così per tutta la vita? Così, come un uccello sul ramo, che oggi è qui e domani chissà dove, un po' a cuocere nel deserto e un po' in mezzo alla neve? E senza parlare poi della fatica ..." " ... e del pericolo di lavorare in cima a quelle torri, che a me solo a pensarci mi viene il capogiro", ha aggiunto Mentina, come se rimproverasse la sorella e la tenesse responsabile. "Io spero che passando gli anni si calmerà un poco, ma per adesso, niente da fare: deve vederlo, quando è qui a Torino, dopo due o tre giorni sembra un leone in gabbia, qui in casa non si fa più quasi vedere, e ho fino il sospetto che delle volte vada diretto in una pensione e con noi due non si faccia neanche vivo. Garantito che, ben che è robusto, se va avanti così finisce che si rovina lo stomaco. Qui da noi non c' è verso di ottenere che venga a mangiare in orario, che si segga a tavola tranquillo e mandi giù qualche cosa di caldo e di sostanza: sembra che sia seduto sui chiodi, un panino, un pezzo di formaggio e via, e ritorna alla sera che noi due siamo già addormentate, perché noi andiamo a dormire presto". "E sì che a noi, fargli dei mangiarini un po' curati ci farebbe piacere, perché per noi non vale neanche la pena, e lui è il solo nipote che abbiamo, e tempo ne abbiamo tanto ..." Oramai la configurazione si era stabilizzata, non senza un certo disagio da parte mia. Teresa parlava guardando me; Mentina interveniva guardando Teresa, ed io stavo ad ascoltare tenendo d' occhio prevalentemente Mentina, e percepivo in lei un' acrimonia mal definibile. Non capivo se era rivolta contro di me, o contro la sorella, o contro il nipote lontano, o contro il destino di quest' ultimo, che non mi sembrava poi così degno di commiserazione. Stavo ravvisando nelle due sorelle un esempio di quella divergenza e polarizzazione che spesso si osserva nelle coppie, non necessariamente di coniugi. All' inizio della convivenza, le differenze fra il membro tendenzialmente prodigo e l' avaro, fra l' ordinato e il disordinato, fra il sedentario e il giramondo, fra il loquace e il taciturno, possono essere esigue, ma col passare degli anni si accentuano fino ad una specializzazione precisa. Si tratta forse in alcuni casi di un rifiuto della competizione diretta, per cui quando un membro accenna a dominare in un determinato campo, l' altro, invece di combattere su questo, se ne sceglie un altro, contiguo o lontano; in altri casi avviene che l' uno dei membri cerchi, consapevolmente o no, di compensare col suo comportamento le carenze dell' altro, come quando la moglie di un contemplativo o di un pigro è costretta ad occuparsi attivamente di cose pratiche. Un' analoga differenziazione si è stabilizzata in molte specie animali, in cui ad esempio il maschio è esclusivamente cacciatore e la femmina ha il monopolio della cura della prole. Allo stesso modo la zia Teresa si era specializzata nei contatti col mondo e la zia Mentina si era arroccata nella casa: una agli affari esteri e l' altra agli interni, evidentemente non senza invidie, attriti e critiche reciproche. Ho cercato di rassicurare le due signore: "No, per il mangiare non c' è da preoccuparsi. Io l' ho visto come vive Tino: sul lavoro, un orario bisogna seguirlo per forza, in qualunque paese uno vada a finire; e stiano pure tranquille che più uno va lontano dai paesi civili, più uno è sicuro di mangiare roba sana. Magari strana, ma sana, e così non si rovina la salute. Del resto, a quanto ho visto io, Tino ha una salute da fare invidia, non è vero?" "È vero, sì, sì, _ è intervenuta Mentina: _ Non ha mai niente, sta sempre bene. Mai che abbia bisogno di niente. Non ha bisogno di nessuno". Era proprio trasparente, la povera zia Mentina: lei sì, aveva bisogno che qualcuno avesse bisogno di lei; Tino in specie. Zia Teresa mi ha offerto del liquore e degli amaretti, e mi ha chiesto il permesso di aprire il pacco che avevo portato dalla Russia. Conteneva due colli di pelliccia, uno bianco e uno bruno: non me ne intendo molto, ma ho avuto l' impressione che non si trattasse di pellicce di gran pregio; probabilmente erano articoli dei magazzini Beriozhka, quasi obbligatori per il turista che visita Mosca in tre giorni. "Che meraviglia! E lei è stato ben gentile a portarli fin qui. Ci spiace tanto per il disturbo: poteva almeno telefonare, e saremmo venute noi a prenderle. Chissà quanto avrà speso, quel figliolo: che poi, per noi, è roba troppo fina, forse lui si crede che noi andiamo ancora a spasso in via Roma. Ebbene, perché no? Sarebbe una occasione per riprendere l' abitudine: no, Mentina? Non siamo mica ancora decrepite". "Parla poco, Tino, ma ha sentimento. In questo, è tutto sua madre. A vederlo così, è rustico, ma è solo apparenza ". Ho annuito per educazione, ma sapevo di mentire. Non era solo apparenza, la rusticheria di Faussone: forse non era nata con lui, che forse un tempo era stato diverso, ma era ormai reale, acquisita, ribadita da innumerevoli duelli con l' avversario che è duro per definizione, il ferro dei suoi profilati e dei suoi bulloni, quello che non perdona mai i tuoi errori e spesso li dilata in colpe. Era diverso, il mio uomo, quale io avevo imparato a conoscerlo, dal personaggio che le due buone zie ("una furba e l' altra mica tanto furba") avevano costruito per farne oggetto del loro amore tiepidamente ricambiato. Il loro ritiro-romitaggio di via Lagrange, immune ai decenni, acconciamente rappresentato dalla causeuse in cui io sedevo, era un cattivo osservatorio. Anche se Faussone avesse acconsentito a parlare un poco di più, in nessun modo sarebbe riuscito a far rivivere fra quelle tappezzerie le sue sconfitte e le sue vittorie, le sue paure e le sue invenzioni. "Quello che ci vorrebbe, per Tino, _ ha detto Teresa, sarebbe una brava ragazza: non è d' accordo anche lei? Noi ci abbiamo pensato Dio sa quante volte, e tante volte abbiamo anche provato. E sembrerebbe anche facile, perché anche lui è bravo, è un lavoratore, non è brutto, non ha vizi, e guadagna anche bene. Vuol credere? li facciamo incontrare, si vedono, si parlano, escono insieme due o tre volte, poi la ragazza viene qui e si mette a piangere: finito. E non si capisce mai che cosa è successo; lui, garantito che non parla, e loro, ognuna racconta una storia diversa. Che lui è orso, che l' ha fatta camminare sei chilometri senza dire una parola, che si dà delle arie, insomma un disastro, che oramai si è saputo, se ne parla in giro, e noi non ci osiamo neppure più di combinargli degli altri incontri. Eppure, lui al suo avvenire magari non ci pensa, ma noi sì, perché abbiamo qualche anno più di lui, e sappiamo cosa vuol dire vivere da soli; e sappiamo anche, che per stare con qualcuno ci vuole una fissa dimora. Se no, uno finisce che diventa selvatico: quanti se ne incontrano, specie alla domenica, e si conoscono subito, e ogni volta che ne vedo uno penso a Tino e mi viene la malinconia. Ma lei, non so, una sera che siate un po' in confidenza, come capita fra uomini: una parolina non gliela direbbe?" Ho promesso di sì, ed ancora una volta mi sono sentito mentire. Non gli avrei detto nessuna parolina, non gli avrei dato consigli, non avrei cercato in nessun modo di influire su di lui, di contribuire a costruirgli un futuro, di stornare il futuro che lui stesso si stava costruendo, o il destino per lui. Solo un amore oscuro, carnale, antico, come quello delle zie, poteva presumere di sapere quali effetti sarebbero scaturiti dalle cause, a quale metamorfosi sarebbe andato incontro il montatore Tino Faussone legato ad una donna e ad una "fissa dimora". È già difficile per il chimico antivedere, all' infuori dell' esperienza, l' interazione fra due molecole semplici; del tutto impossibile predire cosa avverrà all' incontro di due molecole moderatamente complesse. Che predire sull' incontro di due esseri umani? O delle reazioni di un individuo davanti ad una situazione nuova? Nulla: nulla di sicuro, nulla di probabile, nulla di onesto. Meglio sbagliare per omissione che per commissione: meglio astenersi dal governare il destino degli altri, dal momento che è già così difficile ed incerto pilotare il proprio. Non mi è stato agevole prendere congedo dalle due signore. Trovavano sempre nuovi argomenti di conversazione, e manovravano in modo da intercettare il cammino che cercavo di aprirmi verso la porta d' ingresso. Si è udito il rombo di un reattore di linea, e dalla finestra del tinello, contro il cielo ormai scuro, si è visto il pulsare delle luci di posizione. "Ogni volta che ne passa uno io penso a lui, che non ha paura di cascare, _ ha detto la zia Teresa: _ E pensare che noi non siamo mai state a Milano, e una volta sola a Genova per vedere il mare!"

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La tregua

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Levi, Primo 2 occorrenze

Si procurava i medicinali, parte per normali vie amministrative, prelevandoli da depositi militari sovietici, parte attraverso i molteplici canali della borsa nera, parte ancora (ed era la parte maggiore) cooperando attivamente al saccheggio dei magazzini degli ex Lager tedeschi e delle infermerie e farmacie tedesche abbandonate; le cui scorte, a loro volta, erano frutto di precedenti saccheggi condotti dai tedeschi in tutte le nazioni d' Europa. Perciò, ogni giorno l' infermeria di Bogucice riceveva rifornimenti senza piano né metodo: centinaia di scatole di specialità farmaceutiche, recanti etichette e istruzioni d' uso in tutte le lingue, che dovevano essere smistate e catalogate per un possibile impiego. Fra le cose che avevo imparato in Auschwitz, una delle più importanti era, che bisogna sempre evitare di essere "qualunque". Tutte le vie sono chiuse a chi appare inutile, tutte sono aperte a chi esercita una funzione, anche la più insulsa. Perciò, dopo essermi consigliato con Leonardo, mi presentai a Marja, e proposi i miei servizi come farmacista-poliglotta. Marja Fjodorovna mi investigò con occhio esperto nel pesare un maschio. Ero "doktor"? Sì, lo ero, sostenni, aiutato nell' equivoco dal forte attrito linguistico: la siberiana infatti non parlava il tedesco, ma (pur non essendo ebrea) conosceva un po' di yiddish, imparato chissà dove. Non avevo un aspetto molto professionale né molto attraente, ma per stare in un retrobottega forse potevo andare. Marja trasse di tasca un pezzo di carta tutto spiegazzato, e mi chiese come mi chiamavo. Quando a "Levi" aggiunsi "Primo", i suoi occhi verdi si illuminarono, dapprima sospettosi, poi interrogativi, infine benevoli. Ma allora eravamo quasi parenti, mi spiegò. Io "Primo" e lei "Prima": "Prima" era il suo cognome, la sua "famìlia", Marja Fjodorovna Prima. Benissimo, potevo prendere servizio. Scarpe e vestiti? Mah, non era un affare semplice, ne avrebbe parlato con Egorov e con certe sue conoscenze, forse più tardi qualcosa si sarebbe potuto trovare. Si scarabocchiò il mio nome sul pezzo di carta, e il giorno seguente mi consegnò solennemente il "propusk", un lasciapassare dall' aspetto assai casalingo, che mi autorizzava a entrare e uscire dal campo a qualsiasi ora del giorno e della notte. Abitavo in una camera con otto operai italiani, e tutte le mattine mi recavo all' infermeria per servizio. Marja Fjodorovna mi consegnava centinaia di scatolette variopinte da classificare, e mi faceva piccoli regali amichevoli: scatole di glucosio (graditissime); pasticche di liquirizia e di menta; stringhe da scarpe: qualche volta un pacchetto di sale o di polvere per budini. Mi invitò una sera a prendere il tè nella sua camera, e notai che alla parete sopra il suo letto erano appese sette od otto fotografie di uomini in divisa: erano quasi tutti ritratti di visi noti, e cioè di soldati e ufficiali della Kommandantur. Marja li chiamava tutti famigliarmente per nome, e parlava di loro con semplicità affettuosa: li conosceva da tanti anni ormai, e avevano fatto tutta la guerra insieme. Dopo qualche giorno, poiché il lavoro di farmacista mi lasciava molto tempo libero, Leonardo mi chiamò ad aiutarlo in ambulatorio. Nelle intenzioni dei russi, quest' ultimo avrebbe dovuto fare servizio solo per gli ospiti del campo di Bogucice: in realtà, poiché le cure erano gratuite e prive di qualsiasi formalità, vi si presentavano a chiedere visita o medicazioni anche militari russi, civili di Katowice, gente di passaggio, mendicanti, e figure dubbie che non volevano avere a che fare con le autorità. Sia Marja sia il dottor Dancenko non trovavano nulla a ridire su questo stato di cose (già Dancenko non trovava mai a ridire su nulla, non si occupava di nulla se non di corteggiare le ragazze con divertenti maniere da granduca di operetta, e al mattino di buonora, quando veniva da noi in rapida ispezione, era già ubriaco e pieno di letizia): tuttavia, qualche settimana più tardi, Marja mi convocò, e con aria molto officiosa mi comunicò che, "per ordine di Mosca", era necessario che l' attività dell' ambulatorio fosse sottoposta a un minuzioso controllo. Perciò avrei dovuto tenere un registro, e annotarvi ogni sera il nome e l' età dei pazienti, la loro malattia, e la qualità e la quantità dei medicamenti somministrati o prescritti. In sé, la cosa non sembrava insensata; ma era necessario definire alcuni particolari pratici, che discussi con Marja. Ad esempio: come ci saremmo accertati della identità dei pazienti? Ma Marja ritenne trascurabile l' obiezione: che scrivessi le generalità dichiarate, "Mosca" si sarebbe certamente accontentata. Emerse però una difficoltà più grave: in che lingua tenere la registrazione? Non in italiano né in francese né in tedesco, che né Marja né Dancenko conoscevano. In russo allora? No, il russo non lo conoscevo io. Marja meditò perplessa, poi si illuminò, ed esclamò: _ Galina! _ Galina avrebbe risolto la situazione. Galina era una delle ragazze aggregate alla Kommandantur: conosceva il tedesco, così avrei potuto dettarle i verbali in tedesco, e lei li avrebbe tradotti in russo seduta stante. Marja mandò immediatamente a chiamare Galina (l' autorità di Marja, benché di natura mal definita, appariva grande), e così ebbe inizio la nostra collaborazione. Galina aveva diciott' anni, ed era di Kazàtin, in Ucraina. Era bruna, allegra e graziosa: aveva un viso intelligente dai tratti sensibili e minuti, e fra tutte le sue colleghe era la sola che vestisse con una certa eleganza, e che avesse spalle, mani e piedi di dimensioni accettabili. Parlava il tedesco discretamente: col suo ausilio i famosi verbali venivano faticosamente confezionati sera per sera, con un mozzicone di matita, su un fascicolo di carta grigiastra che Marja mi aveva consegnato come una reliquia. Come si dice "asma" in tedesco? e "caviglia"? e "slogatura"? e quali sono i termini russi corrispondenti? Ad ogni scoglio lessicale eravamo costretti ad arrestarci in preda al dubbio, e a ricorrere a complicate gesticolazioni, che finivano in squillanti risate da parte di Galina. Molto più raramente da parte mia. Di fronte a Galina mi sentivo debole, malato e sporco; ero dolorosamente conscio del mio aspetto miserevole, della mia barba mal rasa, dei miei abiti di Auschwitz; ero acutamente conscio dello sguardo di Galina, ancora quasi infantile, in cui una pietà incerta si accompagnava con una definita repulsione. Tuttavia, dopo qualche settimana di lavoro comune, si era stabilita fra noi una atmosfera di tenue confidenza reciproca. Galina mi fece capire che la faccenda dei verbali non era poi tanto seria, che Marja Fjodorovna era "vecchia e matta" e le bastava che i fogli le venissero riconsegnati comunque coperti di scrittura, e che il dottor Dancenko era affaccendato in tutt' altre faccende (note a Galina con strabiliante copia di particolari) con la Anna, con la Tanja, con la Vassilissa, e che i verbali gli interessavano "come la neve dell' anno scorso". Così il tempo dedicato ai malinconici dèi burocratici si andò assottigliando, e Galina approfittò degli intervalli per raccontarmi la sua storia, sfumacchiando, a pezzi e a bocconi. In piena guerra, due anni prima, sotto il Caucaso dove si era rifugiata con la famiglia, era stata reclutata da quella stessa Kommandantur; reclutata nel modo più semplice, vale a dire fermata per strada, e condotta al Comando per scrivere a macchina alcune lettere. C' era andata e c' era rimasta; non era più riuscita a sganciarsi (o più probabilmente, pensavo io, non aveva neppure tentato). La Kommandantur era diventata la sua vera famiglia: la aveva seguita per decine di migliaia di chilometri, per le retrovie sconvolte e lungo il fronte sterminato, dalla Crimea alla Finlandia. Non aveva una divisa, e neppure una qualifica né un grado: ma era utile ai suoi compagni combattenti, era loro amica, e perciò li seguiva, perché c' era la guerra, e ognuno doveva fare il suo dovere; il mondo poi era grande e vario, ed è bello girarlo quando si è giovani e senza preoccupazioni. Preoccupazioni Galina non ne aveva, neppure l' ombra. La si incontrava al mattino che andava al lavatoio, con un sacco di biancheria in bilico sul capo, e cantava come un' allodola; o negli uffici del Comando, scalza, che tempestava sulla macchina per scrivere; o alla domenica a spasso sui bastioni, a braccetto con un soldato, mai lo stesso; o di sera al balcone, romanticamente rapita, mentre uno spasimante belga, tutto sbrindellato, le faceva la serenata sulla chitarra. Era una ragazza di campagna, sveglia, ingenua, un po' civetta, molto vivace, non particolarmente colta, non particolarmente seria; eppure si sentiva operante in lei la stessa virtù, la stessa dignità dei suoi compagni-amici-fidanzati, la dignità di chi lavora e sa perché, di chi combatte e sa di aver ragione, di chi ha la vita davanti. A metà maggio, pochi giorni dopo la fine della guerra, venne a salutarmi. Partiva: le avevano detto che poteva tornare a casa. Aveva il foglio di via? aveva i soldi per il treno? _ No, _ rispose ridendo, _ "njé nada", non ce n' è bisogno, per queste cose ci si arrangia sempre _; e scomparve, risucchiata dalla vacuità dello spazio russo, per i cammini del suo paese sconfinato, lasciando dietro di sé un profumo aspro di terra, di giovinezza e di gioia. Avevo anche altre incombenze: aiutare Leonardo in ambulatorio, naturalmente; e aiutare Leonardo nel controllo quotidiano dei pidocchi. Quest' ultimo servizio era necessario in quei paesi e in quei tempi, in cui il tifo petecchiale serpeggiava endemico e mortale. L' incarico era poco attraente: dovevamo girare tutte le baracche, e invitare ciascuno a spogliarsi fino alla cintura e a presentarci la camicia, nelle cui pieghe e cuciture i pidocchi sogliono nidificare e appendere le uova. Quel tipo di pidocchi hanno una macchiolina rossa sul dorso: secondo una piacevolezza che veniva ripetuta instancabilmente dai nostri clienti, essa, osservata con adeguato ingrandimento, si rivelerebbe costituita da una minuscola falce e martello. Si chiamano anche "la fanteria", laddove le pulci sono l' artiglieria, le zanzare l' aviazione, le cimici i paracadutisti, e le piattole gli zappatori. In russo si chiamano "vsi": lo appresi da Marja, che mi aveva consegnato un secondo fascicolo, su cui avrei dovuto segnare il numero e il nome dei pidocchiosi del giorno, e sottolineati in rosso i recidivi. I recidivi erano rari, con la sola notevole eccezione del Ferrari. Il Ferrari, al cui cognome si addice l' articolo perché era milanese, era un portento di inerzia. Faceva parte di un gruppetto di criminali comuni, già detenuti a San Vittore, a cui nel 1944 i tedeschi avevano proposto la scelta fra le prigioni italiane e il servizio del lavoro in Germania, e avevano optato per quest' ultimo. Erano circa quaranta, quasi tutti ladri o ricettatori: costituivano un microcosmo chiuso, variopinto e turbolento, fonte perpetua di grane per il Comando russo e per il ragionier Rovi. Ma il Ferrari era trattato dai suoi colleghi con palese disprezzo, e si trovava quindi relegato in una solitudine forzata. Era un ometto sulla quarantina, magro e giallo, quasi calvo, dall' espressione assente. Passava le sue giornate sdraiato sulla branda, ed era un lettore infaticabile. Leggeva tutto quanto gli capitava sotto mano: giornali e libri italiani, francesi, tedeschi, polacchi. Ogni due o tre giorni, all' atto del controllo, mi diceva: _ Quel libro l' ho finito. Ne hai un altro da imprestarmi? Ma non in russo: sai che il russo non lo capisco bene _. Non era già un poliglotta: anzi, era praticamente analfabeta. Ma "leggeva" ugualmente ogni libro, dal primo rigo all' ultimo, identificando con soddisfazione le singole lettere, pronunciandole a fior di labbra, e ricostruendo faticosamente le parole, del cui significato non si curava. A lui bastava: come, a differenti livelli, altri provano diletto nel risolvere parole incrociate, o integrare equazioni differenziali, o calcolare le orbite degli asteroidi. Era dunque un individuo singolare: e me lo confermò la sua storia, che molto volentieri mi raccontò, e che qui riporto. _ Ho seguito per molti anni la scuola dei ladri di Loreto. C' era il manichino coi campanelli e il portafogli in tasca: bisognava sfilarlo senza che i campanelli suonassero, e io non ci sono mai riuscito. Così non mi hanno mai autorizzato a rubare: mi mettevano a fare il palo; ho fatto il palo per due anni. Si guadagna poco e si rischia: non è un bel lavorare. _ Pensa e ripensa, un bel giorno ho pensato che, licenza o mica licenza, se volevo guadagnarmi il pane bisognava che mi mettessi in proprio. _ C' era la guerra, lo sfollamento, la borsa nera, un mucchio di gente sui tranvai. Era sul 2, a Porta Lodovica, perché da quelle parti nessuno mi conosceva; vicino a me c' era una con una gran borsa; in tasca del cappotto, si sentiva al tasto, c' era il portafoglio. Ho tirato fuori il saccagno, piano piano .... Devo aprire una breve parentesi tecnica; il saccagno, mi spiegò il Ferrari, è uno strumento di precisione che si ottiene spezzando in due la lama di un comune rasoio a mano libera. Serve a tagliare le borse e le tasche, perciò deve essere affilatissimo. Occasionalmente, serve anche a sfregiare, nelle questioni d' onore; ed è per questo che gli sfregiati sono anche detti "saccagnati". _ ... piano piano, e ho cominciato a tagliare la tasca. Avevo quasi finito, quando una donna, mica quella della tasca, capisci, ma un' altra, si mette a gridare "Al ladro, al ladro". A lei non le facevo niente, non mi conosceva, e non conosceva neppure quella della tasca. Non era neanche della polizia, era una che non c' entrava per niente. Sta di fatto che il tram si è fermato, mi hanno pescato, sono finito a San Vittore, di lì in Germania, e di Germania qui. Vedi? ecco cosa può capitare a prendersi certe iniziative. Da allora, il Ferrari iniziative non ne aveva più prese. Era il più remissivo e il più docile dei miei clienti: si spogliava subito senza protestare, presentava la camicia con gli immancabili pidocchi, e il mattino dopo si sottoponeva alla disinfestazione senza assumere arie da principe offeso. Ma l' indomani i pidocchi, chissà come, c' erano di nuovo. Era così: non prendeva più iniziative, non opponeva più resistenza; neppure ai pidocchi. La mia attività professionale comportava almeno due vantaggi: il "propusk" e una migliore alimentazione. La cucina del campo di Bogucice, per verità, non era scarsa: ci veniva assegnata la razione militare russa, che consisteva in un chilo di pane, due minestre al giorno, una "kasa" (vale a dire una pietanza con carne, lardo, miglio o altri vegetali), e un tè all' uso russo, diluito, abbondante e zuccherato. Ma Leonardo e io avevamo da riparare i guasti provocati da un anno di Lager: eravamo tuttora in preda ad una fame incontrollata, in buona parte psicologica, e la razione non ci bastava. Marja ci aveva autorizzati a consumare il pasto di mezzogiorno all' infermeria. La cucina dell' infermeria era gestita da due "maquisardes" parigine, operaie non più giovani, reduci dal Lager anche loro, dove avevano perso i mariti; erano donne taciturne e dolorose, sui cui visi precocemente invecchiati le sofferenze passate e recenti apparivano dominate e contenute dalla energica coscienza morale dei combattenti politici. Una, Simone, serviva alla nostra mensa. Scodellava la minestra una volta, e una seconda. Poi mi guardava, quasi con apprensione: _ Vous répétez, jeune homme? _ io accennavo timidamente di sì, vergognoso di quella mia voracità animalesca. Sotto lo sguardo severo di Simone, raramente osavo "répéter" una quarta volta. Quanto al "propusk", esso costituiva piuttosto un segno di distinzione sociale che un vantaggio specifico: infatti chiunque poteva benissimo uscire attraverso il buco nei reticolati e andarsene in città libero come un uccello del cielo. Così facevano ad esempio molti fra i ladri, per andare a esercitare la loro arte a Katowice o anche più lontano: non facevano più ritorno, oppure rientravano in campo dopo vari giorni, spesso dichiarando altre generalità, fra l' indifferenza generale. Tuttavia, il "propusk" permetteva di puntare su Katowice evitando il lungo giro attraverso il fango che circondava il campo. Col ritornare delle forze e della buona stagione, sentivo anch' io sempre più viva la tentazione di partire in crociera per la città sconosciuta: a che serviva essere stati liberati, se poi passavamo ancora i nostri giorni in una cornice di filo spinato? D' altronde la popolazione di Katowice ci guardava con simpatia, e ci era concesso ingresso libero sui tram e nei cinematografi. Ne parlai una sera con Cesare, e decidemmo per i giorni successivi un programma di massima, in cui avremmo unito l' utile al dilettevole, vale a dire gli affari al vagabondaggio.

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Uscimmo all' aperto, e solo allora ci accorgemmo di avere pernottato nella platea di un teatro, e di trovarci in un esteso complesso di caserme sovietiche danneggiate e abbandonate. Tutti gli edifici, inoltre, erano stati sottoposti a una devastazione e spoliazione tedescamente meticolosa: le armate germaniche in fuga avevano asportato tutto quanto era asportabile: i serramenti, le inferriate, le ringhiere, gli interi impianti di illuminazione e di riscaldamento, le tubazioni dell' acqua, perfino i paletti del recinto. Dalle pareti era stato estratto fin l' ultimo chiodo. Da un raccordo ferroviario adiacente erano stati divelti i binari e le traversine: con una macchina apposita, ci dissero i russi. Più di un saccheggio, insomma: il genio della distruzione, della controcreazione, qui come ad Auschwitz la mistica del vuoto, al di là di ogni esigenza di guerra o impeto di preda. Ma non avevano potuto asportare gli indimenticabili affreschi che ricoprivano le pareti interne: opere di qualche anonimo poeta-soldato, ingenue, forti e grezze. Tre cavalieri giganti, armati di spade, elmi e mazze, fermi su un' altura, in atto di spingere lo sguardo per uno sterminato orizzonte di terre vergini da conquistare. Stalin, Lenin, Molotov, riprodotti con affetto reverente nelle intenzioni, con audacia sacrilega negli effetti, e riconoscibili precipuamente e rispettivamente per i baffoni, la barbetta e gli occhiali. Un ragno immondo, al centro di una ragnatela grande come la parete: ha un ciuffo nero di traverso fra gli occhi, una svastica sulla groppa, e sotto sta scritto: "Morte agli invasori hitleriani". Un soldato sovietico in catene, alto e biondo, che leva una mano ammanettata a giudicare i suoi giudici: e questi, a centinaia, tutti contro uno, seduti sugli scanni di un tribunale-anfiteatro, sono degli schifosi uomini-insetti, dalle facce gialle e grige, adunche, travolte, macabre come teschi, e si ritraggono l' uno contro l' altro, come lemuri che fuggano la luce, respinti nel nulla dal gesto profetico dell' eroe prigioniero. In queste caserme spettrali, e in parte accampati a cielo aperto nei vasti cortili invasi dall' erba, bivaccavano migliaia di stranieri in transito come noi, appartenenti a tutte le nazioni d' Europa. Il calore benefico del sole incominciava a penetrare la terra umida, e ogni cosa intorno a noi fumava. Mi allontanai dal teatro di qualche centinaio di metri, inoltrandomi in un prato folto dove intendevo spogliarmi e asciugarmi al sole: e nel bel mezzo del prato, quasi mi attendesse, chi vidi se non lui, Mordo Nahum, il mio greco, quasi irriconoscibile per la suntuosa pinguedine e per l' approssimativa uniforme sovietica che indossava: e mi guardava dagli scialbi occhi di gufo, persi nel viso roseo, circolare, rossobarbuto. Mi accolse con cordialità fraterna, lasciando cadere nel vuoto una mia maligna domanda circa le Nazioni Unite che così mal governo avevan fatto di loro greci. Mi chiese come stavo: avevo bisogno di qualcosa? di cibo? di abiti? Sì, non potevo negarlo, avevo bisogno di molte cose. _ Si provvederà, _ mi rispose misterioso e magnanimo: _ io qui conto per qualche cosa _. Fece una breve pausa, e soggiunse: _ Hai bisogno di una donna? Lo guardai interdetto: temevo di non aver capito bene. Ma il greco, in ampio gesto, percorse colla mano tre quarti di orizzonte: e allora mi avvidi che in mezzo all' erba alta, sdraiate al sole, vicine e lontane, giacevano sparse una ventina di vaste fanciulle sonnacchiose. Erano creature bionde e rosee, dalle schiene poderose, dall' ossatura massiccia e dal placido viso bovino, vestite in varie foggie rudimentali e incongrue. _ Vengono dalla Bessarabia, _ mi spiegò il greco: _ sono tutte alle mie dipendenze. Ai russi piacciono così, bianche e spesse. Era una gran pagaille qui prima ma da quando me ne occupo io, tutto va a meraviglia: pulizia, assortimento, discrezione, e nessuna questione per i quattrini. È un buon affare, anche: e qualche volta, moi aussi j' y prends mon plaisir. Mi ritornò a mente, sotto nuova luce, l' episodio dell' uovo sodo, e la sfida sdegnosa del greco: _ Su, dimmi qualche articolo in cui io non abbia mai commerciato! _ No, non avevo bisogno di una donna, o per lo meno non in quel senso. Ci separammo dopo un cordiale colloquio e dopo di allora, essendosi posato il turbine che aveva sconvolto questa vecchia Europa, trascinandola in una contraddanza selvaggia di separazioni e di incontri, non ho più rivisto il mio maestro greco, né ho più sentito parlare di lui.

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Il sistema periodico

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Levi, Primo 1 occorrenze

Ho sistemato i quattro in una delle baracche abbandonate dai gallesi, e ci stavano abbastanza larghi, anche perché il loro bagaglio era modesto. Solo Hendrik aveva un baule di legno, chiuso con un lucchetto. La piaga di Willem non era poi affatto lebbra: l' ha fatta guarire Maggie in poche settimane, con impacchi di un' erba che lei conosce; non è proprio crescione, è un' erba grassa che cresce ai margini della foresta ed è buona da mangiare, anche se poi fa fare strani sogni: noi comunque la chiamiamo crescione. Per verità, non lo ha curato solo con gli impacchi: si chiudeva con lui in camera e gli cantava come delle ninnenanne, con pause che mi sono sembrate troppo lunghe. Sono stato contento e più tranquillo quando Willem è guarito, ma subito dopo è cominciata un' altra storia seccante con Hendrik. Lui e Maggie facevano insieme lunghe passeggiate, e li ho sentiti parlare delle sette chiavi, di Ermete Trismegisto, dell' unione dei contrari e di altre cose poco chiare. Hendrik si è costruita una capanna robusta, senza finestre, ci ha portato il baule, e ci passava intere giornate, qualche volta con Maggie: si vedeva uscire fumo dal camino. Andavano anche alla grotta, e ne tornavano con sassi colorati che Hendrik chiamava "cinabri". I due italiani mi davano meno preoccupazioni. Anche loro guardavano Maggie con occhi lucidi, ma non sapevano l' inglese e non le potevano parlare: per di più, erano gelosi l' uno dell' altro, e passavano la giornata a sorvegliarsi a vicenda. Andrea era devoto, e in breve ha riempito l' isola di santi di legno e d' argilla cotta: una madonna di terracotta l' ha anche regalata a Maggie, che però non sapeva che farsene, e l' ha messa in un angolo della cucina. Insomma, sarebbe stato chiaro a chiunque che per quei quattro uomini ci volevano quattro donne; un giorno li ho riuniti, e senza tanti complimenti gli ho detto che se uno di loro toccava Maggie sarebbe finito all' inferno, perché non si deve desiderare la donna d' altri: ma che all' inferno ce l' avrei spedito io stesso, a costo di finirci anch' io. Quando Burton è ripassato, con le stive zeppe d' olio di balena, tutti d' accordo lo abbiamo solennemente incaricato di trovarci le quattro mogli, ma ci ha riso in faccia: cosa pensavamo? che fosse facile trovare donne disposte a stabilirsi in mezzo alle foche, su quest' isola dimenticata, per sposare quattro buoni a nulla? Forse se le avessimo pagate, ma con che cosa? Non certo con le nostre salsicce, mezzo maiale e mezzo foca, che puzzavano di pesce più della sua baleniera. Se n' è andato, e subito ha alzato le vele. Quella sera stessa, poco prima di notte, si è sentito un grande tuono, e come se l' isola stessa si scuotesse sulle sue radici. Il cielo si è fatto buio in pochi minuti, e la nuvola nera che lo copriva era illuminata dal di sotto come da un fuoco. Dalla cima dello Snowdon si sono visti uscire prima rapidi lampi rossi che salivano fino al cielo, poi un fiotto largo e lento di lava accesa: non scendeva verso di noi, ma a sinistra, verso sud, colando di balza in balza con fischi e crepitii. Dopo un' ora era arrivata al mare, e vi si spegneva ruggendo e sollevando una colonna di vapore. Nessuno di noi aveva mai pensato che lo Snowdon potesse essere un vulcano: eppure la forma della sua cima, con una conca rotonda profonda almeno duecento piedi, avrebbe potuto farlo supporre. Il teatro è andato avanti per tutta la notte, calmandosi ogni tanto, poi riprendendo vigore con una nuova serie di esplosioni: sembrava che non dovesse finire mai più. Invece, verso l' alba, è venuto un vento caldo da est, il cielo è ritornato pulito, e il fracasso si è fatto via via meno intenso, fino a ridursi a un mormorio, poi al silenzio. Il mantello di lava, da giallo ed abbagliante, è diventato rossastro come brace, e a giorno era spento. La mia preoccupazione erano i maiali. Ho detto a Maggie che andasse a dormire, e ai quattro che venissero con me: volevo vedere che cosa era cambiato nell' isola. Ai maiali non era successo niente, però ci sono corsi incontro come a dei fratelli (io non sopporto chi parla male dei maiali: sono bestie che hanno cognizione, e mi fa pena quando li devo scannare). Si sono aperti diversi crepacci, due grandi che non se ne vede il fondo, sul pendìo nord-ovest. Il lembo sud-ovest della Foresta che Piange è stato sepolto, e la fascia accanto, per una larghezza di duecento piedi, si è seccata e ha preso fuoco; la terra doveva essere più calda del cielo, perché il fuoco ha inseguito i tronchi fino dentro alle radici, scavando cunicoli dove erano queste. Il mantello di lava è tutto costellato di bolle scoppiate dai margini taglienti come schegge di vetro, e sembra una gigantesca grattugia da formaggio: esce dal margine sud del cratere, che è crollato, mentre il margine nord, che costituisce la cima del monte, è adesso una cresta arrotondata che sembra molto più alta di prima. Quando ci siamo affacciati alla grotta del Pozzosanto siamo rimasti impietriti dallo stupore. Era un' altra grotta, tutta diversa, come quando si rimescola un mazzo di carte, stretta dove prima era larga, alta dove era bassa: in un punto la volta era crollata, e le stalattiti invece che verso il basso erano puntate di lato, come becchi di cicogne. In fondo, dove prima era il Cranio del Diavolo, c' era adesso una enorme camera, come la cupola di una chiesa, ancora piena di fumo e di scricchiolii, tanto che Andrea e Gaetano volevano a tutti i costi tornare indietro. Io li ho spediti a chiamare Maggie, che venisse anche lei a vedere la sua caverna, e, come prevedevo, Maggie è arrivata ansimando per la corsa e l' emozione, e i due sono rimasti fuori, presumibilmente a pregare i loro santi e a dire le litanie. Dentro la grotta Maggie correva avanti e indietro come i cani da caccia, come se la chiamassero quelle voci che lei diceva di sentire: ad un tratto ha cacciato un urlo che ci ha fatto arricciare tutti i peli. C' era nel cielo della cupola una fenditura, e ne cadevano gocce, ma non d' acqua: gocce lucenti e pesanti, che piombavano sul pavimento di roccia e scoppiavano in mille goccioline che rotolavano lontano. Un po' più in basso si era formata una pozza, e allora abbiamo capito che quello era mercurio: Hendrik l' ha toccata, e poi anch' io; era una materia fredda e viva, che si muoveva in piccole onde come irritate e frenetiche. Hendrik sembrava trasfigurato. Scambiava con Maggie occhiate svelte di cui non capivo il significato, e diceva a noi delle cose oscure e pasticciate, che però lei aveva l' aria di intendere; che era tempo di iniziare la Grande Opera: che, come il cielo, anche la terra ha la sua rugiada; che la caverna era piena dello spiritus mundi; poi si è rivolto apertamente a Maggie, e le ha detto: "Vieni qui stasera, faremo la bestia con due schiene". Si è tolta dal collo una catenina con una croce di bronzo, e ce l' ha fatta vedere: sulla croce era crocifisso un serpente, e lui ha gettato la croce sul mercurio della pozza, e la croce galleggiava. A guardarsi bene intorno, il mercurio gemeva da tutte le crepe della nuova grotta, come la birra dai tini nuovi. A porgere l' orecchio, si sentiva come un mormorio sonoro, fatto dalle mille gocce metalliche che si staccavano dalla volta per spiaccicarsi al suolo, e dalla voce dei rivoletti che scorrevano vibrando, come argento fuso, e si inabissavano nelle fenditure del pavimento. A dire il vero, Hendrik non mi era mai piaciuto: dei quattro, era quello che mi piaceva di meno; ma in quei momenti mi faceva anche paura, rabbia e ribrezzo. Aveva negli occhi una luce sbieca e mobile, come quella del mercurio stesso; sembrava diventato mercurio, che gli corresse per le vene e gli trapelasse dagli occhi. Andava per la caverna come un furetto, trascinando Maggie per il polso, tuffava le mani nelle pozze di mercurio, se lo spruzzava addosso e se lo versava sul capo, come un assetato farebbe con l' acqua: poco mancava che non lo bevesse. Maggie lo seguiva come incantata. Ho resistito un poco, poi ho aperto il coltello, l' ho afferrato per il petto e l' ho premuto contro la parete di roccia: sono molto più forte di lui, e si è afflosciato come le vele quando cade il vento. Volevo sapere chi era, cosa voleva da noi e dall' isola, e quella storia della bestia con due schiene. Sembrava uno che si svegli da un sogno, e non si è fatto pregare. Ha confessato che la faccenda del quartiermastro accoppato era una bugia, ma non così quella della forca che lo aspettava in Olanda: aveva proposto agli Stati Generali di trasformare in oro la sabbia delle dune, aveva ottenuto uno stanziamento di centomila fiorini, ne aveva spesi pochi in esperimenti e il resto in gozzoviglie, poi era stato invitato ad eseguire davanti ai probiviri quello che lui chiama l' experimentum crucis; ma da mille libbre di sabbia non era riuscito a cavare che due pagliuzze d' oro, e allora era balzato dalla finestra, si era nascosto in casa della sua ganza, e poi si era imbarcato di soppiatto sulla prima nave in partenza per il Capo: aveva nel baule tutto il suo armamentario di alchimista. Quanto alla bestia, mi ha detto che non è una cosa da spiegarsi in due parole. Il mercurio, per la loro opera, sarebbe indispensabile, perché è spirito fisso volatile, ossia principio femminino, e combinato con lo zolfo, che è terra ardente mascolina, permette di ottenere l' Uovo Filosofico, che è appunto la Bestia con due Dossi, perché in essa sono uniti e commisti il maschio e la femmina. Un bel discorso, non è vero? Un parlare limpido e diritto, veramente da alchimista, di cui non ho creduto una parola. Loro due, erano la bestia a due dossi, lui e Maggie: lui grigio e peloso, lei bianca e liscia, dentro la caverna o chissà dove, o magari nel nostro stesso letto, mentre io badavo ai maiali; si apprestavano a farla, ubriachi di mercurio com' erano, se pure non l' avevano già fatta. Forse anche a me già girava il mercurio nelle vene, perché in quel momento vedevo veramente rosso. Dopo vent' anni di matrimonio, a me di Maggie non me ne importa poi tanto, ma in quel momento ero acceso di desiderio per lei, e avrei fatto una strage. Tuttavia mi sono padroneggiato; anzi, stavo ancora tenendo Hendrik bene stretto contro la parete quando m' è venuta in mente un' idea, e gli ho chiesto quanto valeva il mercurio: lui, col suo mestiere, doveva pure saperlo. _ Dodici sterline alla libbra, _ mi ha risposto con un filo di voce. _ Giura! _ Giuro! _ ha risposto lui, levando i due pollici e sputando a terra frammezzo; forse era il loro giuramento, di loro trasmutatori di metalli: ma aveva il mio coltello così vicino alla gola che certamente diceva la verità. L' ho lasciato andare, e lui, ancora tutto spaurito, mi ha spiegato che il mercurio greggio, come il nostro, non vale molto, ma che lo si può purificare distillandolo, come il whisky, in storte di ghisa o di terracotta: poi si rompe la storta, e nel residuo si trova piombo, spesso argento, e qualche volta oro; che questo era un loro segreto; ma che lo avrebbe fatto per me, se gli promettevo salva la vita. Io non gli ho promesso proprio niente, e invece gli ho detto che col mercurio volevo pagare le quattro mogli. Fare storte e vasi di coccio doveva essere più facile che mutare in oro la sabbia d' Olanda: che si desse da fare, s' avvicinava Pasqua e la visita di Burton, per Pasqua volevo pronti quaranta barattoli da una pinta di mercurio purificato, tutti uguali, col loro bravo coperchio, lisci e rotondi, perché anche l' occhio vuole la sua parte. Si facesse pure aiutare dagli altri tre, e anch' io gli avrei dato una mano. Per cuocere storte e barattoli, non si preoccupasse: c' era già la fornace dove Andrea faceva cuocere i suoi santi. A distillare ho imparato subito, e in dieci giorni i barattoli erano pronti: erano da una sola pinta, ma di mercurio ce ne stavano diciassette libbre abbondanti, tanto che si stentava a sollevarli a braccio teso, e a scuoterli sembrava che dentro ci si dimenasse un animale vivo. Quanto a trovare il mercurio greggio, non ci voleva niente: nella caverna si sguazzava nel mercurio, gocciolava sulla testa e sulle spalle, e tornati a casa lo si trovava nelle tasche, negli stivali, perfino nel letto, e dava alla testa un po' a tutti, tanto che cominciava a sembrarci naturale che lo si dovesse scambiare con delle donne. È veramente una sostanza bizzarra: è freddo e fuggitivo, sempre inquieto, ma quando è ben fermo ci si specchia meglio che in uno specchio. Se lo si fa girare in una scodella, continua a girare per quasi mezz' ora. Non soltanto ci galleggia sopra il crocifisso sacrilego di Hendrik, ma anche i sassi, e Perfino il piombo. L' oro no: Maggie ha provato con il suo anello, ma è subito andato a fondo, e quando lo abbiamo ripescato era diventato di stagno. Insomma, è una materia che non mi piace, e avevo fretta di concludere l' affare e liberarmene. A Pasqua è arrivato Burton, ha ritirato i quaranta barattoli ben sigillati con cera e argilla ed è ripartito senza fare promesse. Una sera, verso la fine dell' autunno, abbiamo visto la sua vela delinearsi nella pioggia, ingrandire, e poi sparire nell' aria fosca e nell' oscurità. Pensavamo che aspettasse la luce per entrare nel porticciolo, come faceva di solito, ma al mattino non c' era più traccia di Burton né della sua baleniera. C' erano invece, in piedi sulla spiaggia, fradice e intirizzite, le quattro donne con in più due bambini, strette fra loro in un mucchio per il freddo e la timidezza; una di loro mi ha porto in silenzio una lettera di Burton. Erano poche righe: che, per trovare quattro donne per quattro sconosciuti in un' isola desolata, aveva dovuto cedere tutto il mercurio, e non gli era rimasto nulla per la senseria; che ce l' avrebbe richiesta, in mercurio o in lardo, in misura del 10 per cento, nella sua prossima visita; che non erano donne di prima scelta, ma non aveva trovato niente di meglio; che preferiva sbarcarle alla svelta e tornare alle sue balene per non assistere a risse disgustose, e perché non era un mezzano né un ruffiano, e neppure un prete per celebrare le nozze; che tuttavia ci raccomandava di celebrarle noi stessi, meglio che potevamo, per la salute delle nostre anime, che riteneva comunque già un po' compromessa. Ho chiamato fuori i quattro, e volevo proporgli di tirare a sorte, ma ho subito visto che non ce n' era bisogno. C' era una mulatta di mezza età, grassetta, con una cicatrice sulla fronte, che guardava Willem con insistenza, e Willem guardava lei con curiosità: la donna avrebbe potuto essere sua madre. Ho detto a Willem: "La vuoi? Prendila!", lui se l' è presa, ed io li ho sposati così alla meglio; cioè, ho chiesto a lei se voleva lui e a lui se voleva lei, ma il discorsino "nella prosperità e nella miseria, nella salute e nella malattia" non lo ricordavo con precisione, e così l' ho inventato sul momento, finendo con "fino a che morte sopraggiunga", che mi pareva suonasse bene. Stavo appunto terminando con questi due quando mi sono accorto che Gaetano si era scelta una ragazzina guercia, o forse lei aveva scelto lui, e se ne stavano andando via di corsa in mezzo alla pioggia, tenendosi per mano, tanto che ho dovuto inseguirli e sposarli da lontano correndo anch' io. Delle due che restavano, Andrea si è presa una negra sulla trentina, graziosa e perfino elegante, col cappello di piume e un boa di struzzo bagnato fradicio, ma con un' aria piuttosto equivoca, e ho sposato anche loro, benché avessi ancora il fiato corto per la corsa che avevo fatta prima. Rimaneva Hendrik, e una ragazza piccola e magra che era appunto la madre dei due bambini: aveva gli occhi grigi, e si guardava intorno come se la scena non la riguardasse ma la divertisse. Non guardava Hendrik, ma guardava me; Hendrik guardava Maggie che era appena uscita dalla baracca e non si era ancora tolti i bigodini, e Maggie guardava Hendrik. Allora mi è venuto in mente che i due bambini avrebbero potuto aiutarmi a guardare i maiali; che Maggie non mi avrebbe certamente dato figli; che Hendrik e Maggie sarebbero stati benissimo insieme, a fare le loro bestie a due dossi e le loro distillazioni; e che la ragazza dagli occhi grigi non mi dispiaceva, anche se era molto più giovane di me: anzi, mi dava un' impressione allegra e leggera, come un solletico, e mi faceva venire in mente l' idea di acchiapparla al volo come una farfalla. Così le ho domandato come si chiamava, e poi mi sono chiesto ad alta voce, in presenza dei testimoni: "Vuoi tu, caporale Daniel K. Abrahams, prendere in moglie la qui presente Rebecca Johnson?", mi sono risposto di sì, e poiché anche la ragazza era d' accordo, ci siamo sposati.

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Lilit

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Levi, Primo 2 occorrenze

Le colline intorno erano pietrose e deserte, traforate da grotte; alcune di queste, non lontane dal sentiero, erano state ostruite con tavole e fascine, forse per trasformarle in stalle od ovili, ma parevano abbandonate. Il versante opposto della valle era coperto di vegetazione, e non vi si distingueva alcuna traccia di sentiero; ad intervalli giungeva fino a noi un belato di capre, gracile e breve. Il tempio sorgeva in cima alla collina, elusivo come un miraggio: vasto ed informe, risultava difficile valutarne la distanza. Lo raggiungemmo con fatica, infastiditi dagli insetti e snervati per l' assoluta mancanza di vento. Era un' alta costruzione di blocchi squadrati di pietra pallida: il suo contorno era un esagono irregolare, e le pareti erano rotte da poche e piccole aperture a livelli diversi. Queste pareti non erano piane: alcune sensibilmente concave, altre convesse; i blocchi che le componevano non erano che approssimativamente allineati, come se i remoti costruttori non avessero conosciuto l' uso del filo a piombo e della cordicella. Nell' ombra delle mura, timorosi del sole, stavano alcuni cavalli, immobili, scuri di sudore, ansimanti per la calura. Penetrammo nel tempio attraverso una stretta apertura, che sembrava essere stata ricavata scalpellando rozzamente il sasso, o sfondandolo come con un ariete: porte vere e proprie non se ne vedevano. Tanto appariva massiccio l' esterno dell' edificio, tanto invece era articolato e frastagliato il suo interno: vi si succedevano cortili grandi e piccoli, terrazze, serre, giardini pensili, fontane e piscine asciutte; questi elementi erano collegati fra loro (quando erano collegati) da rampe larghe o strette, scalinate ampie, ripide scale a chiocciola. Tutto era in condizione di estremo abbandono. Molte strutture erano crollate, alcune da gran tempo, a giudicare dal portamento delle piante che ovunque erano cresciute sulle rovine; in tutte le fenditure si era accumulato terriccio, in cui allignavano erbe selvagge e rovi dall' odore penetrante, muschio e piccoli funghi fragili. Certo non sarebbero bastati dieci giorni per esplorare tutti i meandri della costruzione. Agustìn insistette per condurci al Passaggio dei Sepolti, ed attraverso questo al cortile più interno, che lui chiamava il cortile della Bestia. Il Passaggio dei Sepolti era una lunga lista di terreno battuto, di forse ottanta metri per dieci: stranamente, non vi cresceva un filo d' erba. Agustìn ci raccomandò di passare in fila indiana lungo il margine, senza varcare una linea di demarcazione che era contrassegnata con una fila di paletti. Ci mostrò che dal suolo sporgevano qua e là, verticali od obliqui, un centinaio di oggetti metallici, appuntiti e rugginosi: alcuni emergevano di un palmo o due, altri erano appena visibili; e ci disse che erano punte di spade e di lance. Il suo paese, ci raccontò, era stato spesso terra di invasione: alcuni secoli prima dell' arrivo degli europei, era calata dal nord, ma nessuno sapeva bene di dove, un' orda di cavalieri. Erano impetuosi e crudeli, ma pochi di numero; i suoi antenati (_ erano più coraggiosi di noi, _ disse con uno dei suoi sorrisi pudichi) avevano tentato invano di respingerli alle loro navi, e loro si erano asserragliati nel Tempio, e di qui avevano tenuto il paese per qualche anno, con scorrerie improvvise, incendi e strage e trascinandosi dietro una pestilenza. I cavalieri morti di peste, o in battaglia, erano stati sepolti dai compagni secondo il loro costume barbarico: ognuno a cavallo del suo cavallo, e con l' arma levata a sfidare il cielo. Il cortile della Bestia era vasto, ricoperto da una volta ancora quasi integra: la sola luce che vi penetrava era appunto quella che filtrava attraverso le lacune del tetto. Ci occorsero alcuni istanti perché i nostri occhi si avvezzassero alla semioscurità. Vedemmo allora che ci trovavamo al margine di un' arena coperta, di forma approssimativamente ellittica; intorno ad essa, in luogo delle gradinate, erano disposti tutto intorno innumerevoli palchi, in quattro o cinque ordini, sostenuti e divisi fra loro da una selva di colonne di pietra o di legno dorato. Le colonne non erano che approssimativamente verticali, e gli ordini non si svolgevano lungo linee orizzontali, per cui i palchi non erano tutti uguali: ve n' erano di alti e stretti, di larghi e bassi (alcuni erano talmente bassi che un uomo non ci sarebbe potuto entrare che strisciando sul ventre). Di fronte a noi, una intera zona si presentava fortemente inclinata, come una dislocazione geologica, o come un frammento di nido d' api che fosse stato estratto e riinserito in posizione obliqua. Ci siamo attardati a lungo per cercare di capire come un edificio di quel genere potesse non dico reggersi in piedi per molti secoli, ma addirittura esistere. Nella mezza luce a cui ci stavamo abituando, si distingueva che alcune delle colonne più vicine a noi presentavano un fenomeno irritante, difficile ad esprimersi qui in parole, e del resto, sul luogo stesso avevamo constatato l' impossibilità di descriverci l' un l' altro quello che pure i nostri occhi vedevano. Sarebbe certamente più facile rappresentarlo con un disegno; lo sentivamo come un' insolenza, una sfida alla nostra ragione: una cosa che non aveva diritto di esistere, eppure esisteva. Nella loro parte bassa, queste colonne lasciavano intravvedere attraverso i loro intervalli, in secondo piano, il fondale dei palchi, dipinto a festoni neri ed ocra; ma seguendole verso l' alto con lo sguardo, i loro contorni mutavano funzione, gli intervalli diventavano colonne e le colonne diventavano intervalli, ed attraverso questi intervalli si scorgeva il cielo opaco della laguna. Ci sforzammo inutilmente, i Torres e noi, di venire a capo di questa apparenza assurda, che svaniva se ci avvicinavamo, ma si imponeva con l' evidenza pesante delle cose concrete se osservata dalla distanza di qualche decina di metri. Claudia scattò qualche fotografia, ma senza fiducia: la luce era troppo scarsa. La platea dell' arena appariva invasa da una vegetazione folta e bassa. Agustìn ci trattenne ai margini, e ci fece salire su un cumulo di macerie; poi, senza parlare, ci indicò una forma oscura che si spostava frammezzo gli arbusti. Era un animale massiccio, bruno, un po' più alto e più grosso di un bufalo di palude; nel silenzio si percepiva il suo respiro profondo ed aspro, e lo strappo e lo scroscio degli arbusti che esso divelleva pascolando. Uno di noi, forse io stesso, domandò smarrito: _ Che cosa è quello? _ Subito Agustìn fece cenno di tacere, ma la bestia doveva avere udito, perché levò la testa e sbuffò forte, al che si levò dai palchi un volo di uccelli inquieti. La bestia mugghiò, si scrollò e partì di corsa, diritta davanti a sé, come se caricasse un nemico invisibile, forse l' insensatezza, l' impossibilità dello scenario entro cui era rinchiusa. Ci guardammo intorno: la platea aveva parecchie aperture, ma strette ed ingombre. Per nessuna di esse la bestia avrebbe potuto passare. Galoppò sempre più impetuosa, rompendo davanti a sé arbusti e rami: il suolo risuonava al ritmo ternario della sua corsa, si sentirono frammenti di capitelli staccarsi dalle colonne e cadere. La bestia puntava verso una delle aperture, la meno angusta e la più sgombra da sfasciumi. Cozzò contro gli stipiti, come se, cieca di collera, non li avesse visti ; vi si incastrò per un attimo, emise un ruggito di dolore e si trasse indietro; l' architrave di pietra crollò sgretolato dall' urto, e l' apertura apparve più stretta di prima, ostruita a mezzo dalle pietre cadute. Claudia mi strinse nervosamente il braccio: _ È prigioniera di se stessa. Si chiude intorno tutte le vie d' uscita. Uscimmo nella luce del pomeriggio, che ci parve abbagliante. La signora Torres ci fece notare che nelle fenditure delle pietre si annidavano molte lucertole grigio-brune, squamose; altre stavano immobili al sole velato, come minuscoli bronzi. Se disturbate, fuggivano fulminee a rintanarsi, oppure si avvolgevano su se stesse come gli armadilli, e in quella forma, ridotte a piccoli dischi compatti, si lasciavano cadere nel vuoto. Fuori del tempio si era radunata una folla di mendicanti scarni, uomini e donne, dall' aspetto minaccioso. Alcuni avevano eretto poco lontano delle basse tende nere, e vi stavano accovacciati al riparo dal sole. Ci guardavano con curiosità insolente ed insistente, ma non ci rivolsero la parola. _ Aspettano la bestia, _ disse Agustìn: _ aspettano che esca. Vengono tutte le sere, da sempre; passano la notte qui, e nelle tende hanno i coltelli. Aspettano da quando esiste il tempio. Quando uscirà, la uccideranno e la mangeranno, e allora il mondo sarà risanato: ma la bestia non uscirà mai.

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Norie abbandonate, ma avevano ancora intorno la pista circolare dove aveva camminato l' asino, chissà quanti anni prima e per quanti anni. Due osterie straordinarie, dove si trovava vino e pasta di casa che a Milano neanche te li sogni. Ma la scoperta più curiosa era stata la Bomboniera. La Bomboniera era una villa minuscola, candida, quadrata, di due piani, appollaiata su un rilievo. Non aveva facciata, ossia ne aveva quattro, identiche fra loro, ognuna con una porta di legno lucido e con intricati stucchi e decorazioni in stile Liberty. I quattro spigoli finivano in alto in quattro graziose torrette che avevano la forma di corolle di tulipano, ma di fatto erano gabinetti; lo dimostravano i quattro tubi di grès, malamente incassati nella muratura, che scendevano fino al suolo. Le finestre della villa erano sempre chiuse da persiane dipinte in nero, e la targa sul cancelletto portava un nome impossibile: Harmonika Grinkiavicius. Anche la targa era strana, il nome esotico era circondato da una tripla cornice ellittica, su cui, dall' esterno verso l' interno, si susseguivano i colori giallo, verde e rosso. Era questa l' unica nota colorata sull' intonaco bianco della villa. Quasi senza accorgersene, Umberto prese l' abitudine di passare tutti i giorni davanti alla Bomboniera. Non era disabitata: raramente visibile, ci abitava una signora anziana, linda e smilza, dai capelli candidi come la villa e dal viso un po' troppo rosso. La signora Grinkiavicius usciva una sola volta al giorno, sempre alla stessa ora, con qualunque tempo, ma per pochi minuti; portava abiti di buon taglio ma fuori moda, un ombrellino, un cappello di paglia a larga tesa, e un nastro di velluto nero che le cingeva la gola sotto il mento. Camminava a piccoli passi decisi, come se avesse fretta di raggiungere una meta, ma invece percorreva il solito itinerario, rientrava e subito si richiudeva la porta alle spalle. Alle finestre non si affacciava mai. Dai bottegai non ricavò molte notizie. Sì, la signora era una straniera, vedova da almeno trent' anni, istruita, ricca. Faceva molta beneficenza. Sorrideva a tutti ma non parlava con nessuno. Andava a messa la domenica mattina. Non era stata mai dal medico e neppure dal farmacista. La villa, l' aveva comperata il marito, ma di lui nessuno si ricordava più, forse non era neppure un vero marito. Umberto era incuriosito, e inoltre soffriva di solitudine; un giorno si fece animo e fermò la signora col pretesto di chiederle dov' era un certo vicolo: la signora rispose brevemente, con precisione e in buon italiano. Dopo di allora Umberto non seppe immaginare altri artifici per varare una conversazione; si limitò a manovrare in modo da incrociarla nel suo giro mattutino, la salutava, e lei gli rispondeva sorridendo. Umberto guarì e ritornò a Milano. A Umberto piaceva leggere. Si imbatté in un libro che lo divertiva: erano le memorie di un soldato inglese che aveva combattuto contro gli italiani in Cirenaica, era stato fatto prigioniero e internato presso Pavia, ma poi era evaso e aveva raggiunto i partigiani. Non era stato un grande partigiano; gli piacevano di più le ragazze che le armi, descriveva diversi suoi amori effimeri ed allegri, ed uno più lungo e tempestoso con una profuga lituana. Su questo episodio il racconto dell' inglese passava dal passo al trotto e poi al galoppo: sul fondo teso e buio dell' occupazione tedesca e dei bombardamenti alleati, si delineavano pazze fughe a due in bicicletta per le strade oscurate, in barba alle ronde e al coprifuoco, e temerarie avventure nel sottobosco del contrabbando e della borsa nera. Della lituana emergeva un ritratto memorabile; instancabile e indistruttibile, brava a sparare quando occorreva, portentosamente vitale: una Diana-Minerva innestata sul corpo opulento (e diffusamente descritto dall' inglese) di una Giunone. I due indemoniati si perdevano e si ritrovavano per le valli dell' Appennino, impazienti di ogni disciplina, oggi partigiani, domani disertori, poi partigiani di nuovo; consumavano cene vertiginose in bivacchi e caverne, ed a queste facevano seguito notti eroiche. La lituana veniva rappresentata come un' amante senza eguali, impetuosa e raffinata, mai distratta: poliglotta e polivalente, sapeva amare nella sua lingua, in italiano, in inglese, in russo, in tedesco, ed in almeno altre due lingue su cui l' autore sorvolava. Questi amori torrentizi si dipanavano per trenta pagine prima che l' inglese si preoccupasse di svelare il nome della sua amazzone: se ne ricordava alla trentunesima, e il nome era Harmonika. Umberto sobbalzò e chiuse il libro. La coincidenza del nome poteva essere casuale, ma gli ritornava sullo schermo della memoria quel cognome curioso e l' ellissi colorata che lo circondava; quei colori dovevano pure avere un senso. Cercò invano per casa una documentazione, la sera dopo andò in biblioteca, e trovò quanto desiderava sapere: la bandiera dell' effimera repubblica lituana, fra le due guerre mondiali, era gialla verde e rossa. Non soltanto: alla voce "Lituania" dell' enciclopedia gli cadde l' occhio su Basanavicius, fondatore del primo giornale in lingua lituana, su Slezavicius, Primo Ministro negli anni venti, su Stanevicius poeta settecentesco (dove non si trova un poeta settecentesco!) e su Neveravicius romanziere. Possibile? Possibile che la taciturna benefattrice e la baccante fossero la stessa persona? Da allora in poi Umberto non fece che pensare a un pretesto per tornare in riviera, fino ad augurarsi una leggera ricaduta della sua pleurite; non ne trovò alcuno plausibile, ma raccontò una fandonia a Eva, e un sabato partì lo stesso, portandosi dietro il libro. Si sentiva ilare e intento come un bracco sulla pista della volpe; marciò dalla stazione alla Bomboniera con passo militare, suonò il campanello senza esitazioni, ed entrò subito in argomento, con una mezza bugia fabbricata all' istante. Lui abitava a Milano ma era della Val Tidone: aveva sentito dire che la signora conosceva bene quei paraggi, aveva nostalgia, gli sarebbe piaciuto parlarne con lei. La signora Grinkiavicius ci guadagnava ad essere vista da vicino ; la fronte era rugosa ma fresca e ben modellata, e dagli occhi traspariva una luce ridente. Sì, ci era stata, molti anni prima; ma lui, da dove aveva saputo quelle notizie? Umberto contrattaccò: _ Lei è lituana, vero? _ Ci sono nata; è un paese infelice. Ma ho studiato altrove, in diversi altri luoghi. _ Così parla molte lingue? La signora era ormai visibilmente sulla difensiva, e si impuntò: _ Le ho fatto una domanda, e lei mi risponde con altre domande. Voglio sapere da dove lei ha saputo questi fatti miei: mi pare lecito, non le sembra? _ Da questo libro, _ rispose Umberto. _ Me lo dia! Umberto tentò una parata e una ritirata, ma con scarsa convinzione; si era reso conto in quel momento che lo scopo vero del suo ritorno in riviera era stato proprio quello: vedere Harmonika in atto di leggere le avventure di Harmonika. La signora si impadronì facilmente del volume, sedette vicino alla finestra e si immerse nella lettura: Umberto, sebbene non invitato, sedette anche lui. Sul viso di Harmonika, ancora giovanile ma rosso per le molte venuzze dilatate, si vedevano passare i moti dell' animo come le ombre delle nuvole su una pianura spazzata dal vento: rimpianto, divertimento, stizza, ed altri meno decifrabili. Lesse per una mezz' ora, poi gli tese il libro senza parlare. _ Sono cose vere? _ chiese Umberto. La signora tacque talmente a lungo che Umberto temette si fosse offesa; ma poi sorrise e rispose: _ Mi guardi. Sono passati più di trent' anni, e io sono un' altra. Anche la memoria è un' altra; non è vero che i ricordi stiano fermi nella memoria, congelati: anche loro vanno alla deriva, come il corpo. Sì, ricordo una stagione in cui io ero diversa. Mi piacerebbe essere la ragazza del libro: mi accontenterei anche solo di esserlo stata, ma non lo sono mai stata. Non ero io a trascinare l' inglese; io ricordo me stessa molle nelle sue mani, come argilla. I miei amori ... sono questi che le interessano, vero? Ecco, stanno bene dove sono: nella mia memoria, scoloriti e secchi, con un' ombra di profumo, come fiori in un erbario. Nella sua sono diventati lucidi e chiassosi come giocattoli di plastica. Non so quali siano i più belli. Scelga lei: via, si riprenda il suo libro e se ne torni a Milano.

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IL RE DEL MARE

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Salgari, Emilio 4 occorrenze

Appena si accorgeranno che la saracinesca è aperta e che le terrazze sono state abbandonate e disarmate, non indugieranno ad assalirci. Sotto gli arbusti spinosi non mancano delle spie che si affretteranno ad avvertirli. - A quando il colpo? - chiese Kammamuri. - Tutto deve essere pronto per questa sera. Le tenebre ci sono necessarie per fuggire senza essere veduti. - All'opera Yanez, - disse Tremal-Naik. - Io ho piena fiducia nel tuo piano. - Hai un cavallo per Darma? - Ne ho quattro e buoni. - Va benone, faremo correre i dayaki fino alla costa. Quanto hai impiegato tu, Kammamuri, a raggiungerla? - Tre giorni, signore. - Cercheremo di arrivare prima. I villaggi di pescatori non mancano e qualche praho o delle scialuppe sapremo trovarle. L'audace progetto fu subito comunicato ai difensori del kampong e da tutti approvato senza obiezioni. D'altronde, non vi era nessuno che non fosse disposto a fare un supremo tentativo per liberarsi da quell'assedio che cominciava a pesare e demoralizzare la piccola guarnigione. I preparativi vennero cominciati. Le spingarde vennero ritirate e piazzate dietro la palizzata interna, su terrazze frettolosamente costruite, essendo la fattoria fornita di legname, poi le cantine furono vuotate portando tutto il bram nel cortile che si estendeva dinanzi al bengalow. Vi erano più di ottanta vasi, della capacità di due e anche tre ettolitri ciascuno; tanto liquore da ubriacare un esercito, essendo quella mistura fermentata, di riso, di zucchero e di succhi di palme diverse, eccessivamente alcolica. Verso il tramonto, la guarnigione abbattè una parte della cinta e dopo aver isolate le terrazze, le incendiò per meglio attirare i dayaki e far loro credere che il fuoco fosse scoppiato nel kampong. Terminati quei diversi preparativi e preparate delle cataste di legna sotto le tettoie e nelle stanze terrene del bengalow, abbondantemente innaffiate di resine e di caucciù onde ardessero immediatamente, la guarnigione si ritrasse dietro la palizzata in attesa del nemico. Come Yanez aveva preveduto, gli assedianti attratti dai bagliori dell'incendio che divorava le terrazze contro cui si erano fino allora infranti i loro sforzi e fors'anche avvertiti dai loro avamposti celati sotto gli arbusti spinosi, che le cinte erano state sfondate, non avevano indugiato a lasciare i loro accampamenti per muovere ad un ultimo assalto. Presa fra il fuoco ed i kampilang, la guarnigione del kampong non doveva tardare ad arrendersi. Calavano le tenebre quando le sentinelle che vegliavano sui due angoli posteriori della fattoria annunciarono il nemico. I dayaki avevano formato sei piccole colonne d'assalto e s'avanzavano di corsa, mandando clamori assordanti. Si tenevano ormai certi della vittoria. Quando Yanez li vide entrare fra gli arbusti, fece dare fuoco alle cataste di legna accumulate sotto le tettoie e nelle stanze del bengalow, poi appena vide che i suoi uomini erano in salvo, fece tuonare le spingarde per simulare una disperata difesa. I dayaki erano allora davanti alle cinte. Vedendole in parte abbattute ebbero un momento di esitazione temendo qualche agguato, poi passarono correndo sotto le terrazze che finivano di ardere e si rovesciarono all'impazzata nel kampong, urlando a squarciagola, pronti a sgozzare i difensori a colpi di kampilang. Yanez vedendoli slanciarsi verso gli enormi vasi che formavano come una doppia barriera dinanzi al bengalow, aveva dato ordine di sospendere il fuoco per non irritare troppo gli assalitori. Vedendo quei recipienti, i dayaki per la seconda volta si erano arrestati. Un resto di diffidenza li tratteneva ancora non sapendo che cosa potessero contenere. L'alcol che si sprigionava dai coperchi, che erano stati appositamente smossi, non tardò a giungere ai loro nasi. - Bram! Bram! Fu il grido che uscì da tutte le gole. Si erano precipitati sui vasi, strappando i coperchi e tuffando le mani nel liquido. Urla di gioia scoppiarono tosto fra gli assedianti. Una bevuta s'imponeva, tanto più che i difensori avevano sospeso il fuoco. Un sorso, solo un sorso e poi avanti all'attacco! Ma dopo le prime gocce tutti avevano cambiato parere. Era meglio approfittare dell'inazione della guarnigione del kampong; d'altronde era infinitamente migliore, quell'ardente liquore, delle palle di piombo. Invano i capi si sfiatavano per cacciarli innanzi. I dayaki erano diventati ostriche attaccate al loro banco colla differenza che si erano invece incrostati ai vasi. Ottanta vasi di bram! Quale orgia! Mai si erano trovati a simile festa. Avevano gettato perfino gli scudi ed i kampilang e bevevano a crepapelle, sordi alle grida e alle minacce dei capi. Yanez e Tremal-Naik ridevano allegramente, mentre i loro uomini staccavano senza troppo rumore alcuni tavoloni dalla cinta per prepararsi la ritirata. Intanto le tettoie cominciavano ad ardere e dalle finestre del bengalow uscivano torrenti di fumo nero. Fra pochi istanti una barriera di fuoco doveva frapporsi fra gli assedianti e gli assediati. I dayaki non parevano preoccuparsi dell'incendio che minacciava di divorare l'intero kampong. Insaziabili bevitori continuavano a dare dentro ai vasi, urlando, ridendo, cantando, e contorcendosi come scimmie. Bevevano colle mani, coi panieri destinati a contener le teste dei vinti nemici, con gusci di noci di cocco trovati per il cortile. I loro stessi capi avevano finito per imitarli. Il terribile pellegrino dopo tutto era al campo e non poteva vederli. Perchè non avrebbero approfittato di quell'abbondanza, dal momento che gli assediati si mantenevano tranquilli? E gli uomini cadevano, come fulminati, pieni da scoppiare, intorno ai vasi, mentre le fiamme s'alzavano altissime facendo piovere su di loro una pioggia di scintille. Il bengalow era tutto in fuoco e le tettoie, piene di provviste, ardevano come zolfanelli, illuminando i bevitori. Era il momento di andarsene. I dayaki non si ricordavano forse di non aver più dinanzi il nemico, tanto la loro ubriachezza era stata rapida. - In ritirata! - comandò Yanez. - Abbandonate tutto fuorchè le carabine, le munizioni ed i parangs. Aiutando i feriti, lasciarono silenziosamente la palizzata, attraversarono la cinta e si slanciarono a corsa sfrenata attraverso la pianura, preceduti da Tremal-Naik e da Kammamuri che cavalcavano a fianco di Darma. La tigre li seguiva spiccando salti immensi, spaventata dalla luce dell'incendio che diventava sempre più intensa. Raggiunto il margine della boscaglia che si estendeva verso ponente, il drappello che si componeva di trentanove persone, compresi sette feriti, s'arrestò per prendere fiato e anche per osservare ciò che succedeva nel kampong e negli accampamenti dei dayaki. La fattoria pareva una fornace. Il bengalow che era costato tante fatiche al suo proprietario, ardeva dalla base alla cima come una fiaccola immensa, lanciando in aria fitte nubi di fumo e sprazzi di scintille. Le cinte avevano pure preso fuoco e rovinavano assieme alle terrazze. Si udivano gli scoppi delle spingarde che erano state abbandonate ancora cariche. Degli uomini s'aggiravano affannosamente trascinando i guerrieri che si erano ubriacati e che correvano il pericolo di essere bruciati accanto ai vasi di bram. Il pellegrino doveva aver tenuto alcuni drappelli di riserva per appoggiare le colonne d'assalto nel caso che non fossero riuscite a penetrare nel kampong e, non udendo più nè spari nè grida di guerra, erano certamente accorsi per vedere che cosa era successo dei loro compagni. - Che l'inferno bruci tutte quelle canaglie, - disse Yanez inforcando uno dei quattro cavalli che gli era stato condotto da Tangusa. - Solo mi spiace andarmene senza aver potuto mettere le mani su quel cane di pellegrino. Spero di ritrovarlo un giorno sul mio cammino e allora guai a lui! - Un giorno? - disse ad un tratto Kammamuri, che aveva volti gli sguardi verso il nord. - Gambe, signori! Siamo stati scoperti e ci danno la caccia!

Gli assedianti, che dovevano aver pure udito quello scoppio formidabile e anche quel vivo cannoneggiamento, avevano abbandonate le loro trincee mobili, ritirandosi verso le foreste che circondavano la pianura, come se avessero l'intenzione di togliere il blocco. - Se ne vanno, padre! - esclamò Darma. - Che abbiano compreso che era inutile ostinarsi contro questo kampong? - Yanez, - disse Tremal-Naik, - che il pellegrino sia stato invece sconfitto e che abbia mandato qui qualche corriere per far ritirare gli assedianti? - O che cerchino di trarci in qualche agguato? - chiese invece il portoghese. - In qual modo? - Colla speranza che noi approfittiamo della loro ritirata per abbandonare il kampong e poi assalirci in piena foresta con tutte le loro forze. No, mio caro Tremal-Naik, non sarò così sciocco io, da abboccare all'amo. Finchè non sapremo la sorte toccata alla mia Marianna, noi non lasceremo questa fattoria dove potremo difenderci lungamente, nel caso che il mio equipaggio sia stato distrutto. Mettiamo qui una sentinella e pel momento non preoccupiamoci delle manovre insidiose di quei furfanti. - Signor Yanez, - disse Darma. - Venite a prendere un po' di riposo, intanto, ed a far colazione. Non udendo più alcun colpo di cannone, quantunque fossero tutti angosciati per la sorte che poteva essere toccata all'equipaggio della Marianna, scesero nella sala pianterrena dove i servi del kampong avevano preparata un'abbondante refezione all'inglese, con carne fredda, burro e thè con biscotti. Terminato il pasto e mandato il meticcio sulla torricella onde li avvertisse delle mosse degli assedianti, fecero una minuta ispezione alle cinte e alle opere di difesa, onde essere pronti a sostenere anche un lungo assedio. Erano trascorse già tre ore dallo scoppio, quando udirono Tangusa gridare dall'alto del minareto: - All'armi! E subito dopo rimbombarono alcuni spari. Yanez e Tremal-Naik si erano precipitati verso la piattaforma più alta della cinta, da cui potevano dominare buon tratto della pianura. Vi erano appena giunti, quando videro un piccolo drappello d'uomini uscire dalla foresta a corsa sfrenata, sparando sui dayaki che accorrevano da tutte le parti come per tagliare loro il passo. Due grida erano sfuggite alle labbra del portoghese e dell'indiano: - Le tigri di Mompracem! Sambigliong! Poi lanciarono due grida tuonanti: - Fuoco le spingarde! - Alzate la saracinesca ai nostri amici! I pirati che avevano scortato Yanez, vedendo i loro compagni alle prese cogli assedianti, si erano gettati sulle tre spingarde che difendevano la cinta dalla parte meridionale, scaricando quasi contemporaneamente. I dayaki, udendo quegli spari e vedendo cadere parecchi compagni, avevano aperte le file rifugiandosi precipitosamente nella foresta. Sambigliong e il suo drappello, trovando il passo libero, si erano slanciati verso il kampong a tutta corsa, non cessando di sparare. La saracinesca era stata alzata e parte della guarnigione era mossa incontro a loro per sostenerli nel caso che i dayaki tornassero alla riscossa e anche per guidarli attraverso il boschetto spinoso. I superstiti della Marianna non erano che una mezza dozzina. Erano neri di polvere, madidi di sudore, ansanti, colle vesti stracciate e insanguinate ed avevano la schiuma alle labbra per la lunga corsa che doveva essere durata non meno di tre ore. Il corriere, che conosceva la via, per fortuna era insieme a loro. - La mia nave? - gridò Yanez, correndo incontro a Sambigliong. - Saltata, capitano, - rispose il mastro con voce rantolante. - Da chi? - Da noi ... non potevamo più resistere ... erano centinaia e centinaia di selvaggi che ci piombavano addosso ... tutti i nostri compagni sono stati uccisi ... anche i feriti ... ho preferito dar fuoco alle polveri ... - Sei un valoroso, - gli disse Yanez, con voce profondamente commossa. - Capitano ... vengono ... sono molti ... preparatevi alla resistenza. - Ah! vengono! - esclamò Yanez con voce terribile. - Vendicheremo i nostri morti!

Era una mattinata splendida e non troppo calda, avendo il Re del Mare abbandonate le ardenti calme del tropico da qualche giorno. Una fresca brezzolina soffiava dal sud, increspando l'immensa superficie del mar della Sonda e mormorando dolcemente fra le sartie metalliche dell'incrociatore. Numerosi volatili, per lo più dei petrelli, agilissimi uccelli marini, dal volo leggero, turbinavano sopra la nave, assieme a delle phoebetrie fuliginose, le più piccole delle diomedee, dalle penne nerissime, inseguendo i pesci volanti che le voraci dorate scacciavano dal loro elemento, costringendoli, per salvarsi, a spiccare delle lunghe volate sopra le onde. Vedendo apparire l'anglo-indiano, appoggiato al braccio dell'americano, Yanez che passeggiava sul ponte assieme a Surama, si era affrettato a muovergli incontro. - Finalmente eccovi ristabilito, - gli disse. - Ne sono ben lieto, sir Moreland. Agli uomini di mare fa molto meglio l'aria libera del ponte che quella delle cabine. - Sì, sto bene, signor Yanez, grazie le cure e le attenzioni di questo bravo dottore, - rispose il capitano. - Da questo momento consideratevi come nostro ospite e non più come prigioniero. Voi siete libero di fare quello che meglio vi piace e di andare dove vorrete. La nostra nave non avrà segreti per voi. - E non temete che io possa abusare di questa vostra generosità? - No, perchè vi credo un gentiluomo. - Pensate che un giorno noi ci troveremo ancora di fronte l'uno all'altro e terribili nemici. - Ci combatteremo lealmente. - Ah! Questo sì, signor Yanez, - disse sir Moreland, con una certa asprezza. Poi, dopo aver gettato un lungo sguardo sul mare e d'aver aspirato fragorosamente l'aria marina, disse: - Voi avete lasciata la regione ardente. Questa è brezza del nord. Dove andiamo, se non vi spiace dirmelo? - Molto lontano da Sarawak. - Fuggite dunque i paraggi frequentati dalle navi del rajah? - Per ora sì, perchè dobbiamo rinnovare le nostre provviste. - Allora voi avete dei porti amici. - No, a noi bastano quelli dei nemici per approvvigionarci, - rispose il portoghese, sorridendo. - sir Moreland, accomodatevi dove meglio credete e respirate un po' di questa brezza. L'anglo-indiano s'inchinò ringraziando e salì sul cassero dove aveva veduto Darma seduta su una sedia a dondolo posta sotto la tenda tesa all'altezza delle grue. La giovane fingeva di leggere un libro, ma invece sotto le lunghe palpebre, non aveva cessato di guardare il capitano. - Miss Darma, - disse sir Moreland, accostandosi alla giovane. - Mi permettete di sedermi presso di voi? - Vi aspettavo, - rispose la figlia di Tremal-Naik, arrossendo leggermente. - Starete meglio qui che nella vostra cabina, dove si soffoca. Il dottor Held offrì al convalescente una sedia, poi accesa una sigaretta andò a raggiungere Yanez il quale si divertiva ad osservare, insieme a Surama, i salti dei poveri pesci volanti perseguitati dalle dorate ed in aria dagli uccelli marini. L'anglo-indiano rimase alcuni istanti silenzioso, guardando la giovane, più bella che mai, nel suo lungo accappatoio di percallino azzurro guernito con pizzi, poi disse con un tono di voce nel quale si sentiva una strana vibrazione: - Quale felicità trovarmi qui, dopo tanti giorni di prigionia e ancora presso di voi, mentre avevo avuto il timore di non più rivedervi dopo la vostra fuga da Redjang. Mi avete giuocato per bene, miss. - Non avete serbato alcun ràncore verso di me, sir Moreland, di avervi ingannato? - Nessuno, miss: eravate nel vostro diritto di ricorrere a qualunque astuzia per ricuperare la libertà. Avrei però preferito tenervi mia prigioniera. - Perchè? - Non lo so: mi sentivo felice presso di voi. Il capitano sospirò a lungo, poi con voce triste disse: - Eppure il destino m'imporrà di dimenticarvi. Darma, udendo quelle parole, era diventata pallidissima, pure disse: - Sì, sir Moreland, bisognerà piegarsi dinanzi alle avversità del destino. - E tuttavia, - riprese il capitano, - non so che cosa farei per infrangere i decreti della sorte. - Non dimenticate, Sir, che fra noi sta la guerra e che questa ci dividerà per sempre. Che cosa direbbero mio padre, Yanez e Sandokan se sapessero che io ho accettato la mano di uno dei loro nemici? E che cosa direbbero i vostri, il cui odio verso di noi è ancor più profondo, più accanito, più spietato? Avete pensato a ciò, sir Moreland? Voi, uno dei più brillanti e dei più valorosi ufficiali della marina del rajah a cui la vostra patria ha armato il braccio per sopprimerci senza misericordia, sposare la protetta dei pirati di Mompracem? Vedete bene che la cosa sarebbe impossibile: un sogno che non potrà mai diventare realtà, perchè l'abisso che ci separa è troppo profondo. - Il nostro amore lo colmerebbe, perchè l'amore non ha patria, se ... - Vorrei che così fosse, - disse Darma con voce triste. - sir Moreland, dimenticatemi. Un giorno voi sarete libero, scordatevi di me, riprendete il mare e obbedite alla voce del dovere che vi chiede il nostro sterminio. Dimenticate che su questa nave si trova una fanciulla che voi avete amata e che pur vi ha amato e fate tuonare, senza misericordia, le vostre artiglierie su di noi, colateci a fondo o fateci saltare in aria. La nostra sorte ormai è scritta a lettere di sangue sul gran libro del destino e tutti noi siamo pronti a subirla. - Io uccidere voi! - esclamò l'anglo-indiano. - Tutti gli altri sì, ma non voi. Aveva pronunciato quelle parole "gli altri" con un tale accento d'odio, che Darma lo guardò con ispavento. - Si direbbe che voi avete dei segreti rancori contro Yanez e Sandokan e anche contro mio padre. Sir Moreland si era morso le labbra, come se fosse pentito di essersi lasciato sfuggire quelle parole, poi riprese prontamente: - Un capitano non può perdonare a coloro che lo hanno vinto e che gli hanno affondata la nave. Io sono disonorato ed è necessario che mi prenda una rivincita un giorno o l'altro. - E li annegherete tutti? - chiese Darma con ispavento. - Sarebbe stato meglio che io fossi colato a fondo colla mia nave, - disse il capitano, sfuggendo la domanda rivoltagli dalla giovane. - Quell'urlo terribile che mi perseguita non lo avrei più udito. - Che cosa dite, sir Moreland? - Nulla, - rispose l'anglo-indiano con voce sorda. - Nulla, miss Darma. Fantasticavo. Si era alzato, mettendosi a passeggiare con agitazione, come se più non si sentisse i dolori che doveva produrgli la ferita non ancora interamente rimarginata. Il dottor Held, che era poco lontano, vedendolo così agitato, gli si era avvicinato. - No, sir Moreland, - gli disse. - Simili sforzi possono produrre gravi conseguenze ed io, per ora, ve li proibisco. La mia vigilanza su di voi non è ancora cessata. - Che importa se la mia ferita si riaprisse? - disse l'anglo-indiano. - Se la mia vita dovesse fuggire da quello strappo, sarei più lieto. Almeno tutto sarebbe finito. - Non rimpiangete di essere stato salvato, Sir, - disse il dottore, prendendolo sotto il braccio e riconducendolo verso il quadro. - Chi può dire che cosa vi riserba l'avvenire? - Delle amarezze e null'altro, - rispose il capitano. - Eppure ieri sembravate lieto di essere ancora vivo. L'anglo-indiano non rispose e si lasciò ricondurre nella cabina, essendosi levato un vento freschissimo. Il Re del Mare intanto continuava la sua corsa verso il nord-est, mantenendo una velocità di sette nodi. A mezzodì Yanez e Sandokan avevano fatto il punto ed avevano constatato che una distanza di centocinquanta miglia separava la loro nave da Mangalum, distanza che potevano superare in poco più di ventiquattro ore senza forzare le macchine. Entrambi avevano fretta di giungervi, perchè il tempo accennava a guastarsi rapidamente, quantunque al mattino fosse apparso splendido. Alcuni cirri biancastri, che salivano dal sud, erano già apparsi e s'avanzavano lentamente; era certo l'avanguardia di vapori ben più densi ed ai due pirati non piaceva di farsi sorprendere da qualche burrasca in quei paraggi cosparsi di banchi e di scogliere isolate. Ed infatti il mar della Sonda, così aperto ai venti freddi del sud e dell'ovest, è uno dei peggiori, perchè si formano in quei luoghi delle ondate così gigantesche, che non s'incontrano in altri, nemmeno nel Pacifico. E poi Mangalum non poteva offrire un sicuro asilo per una nave così grossa, non avendo che un minuscolo porto, accessibile solamente ai prahos. Le apprensioni dei due vecchi lupi di mare dovevano avere una conferma molto presto. Infatti, alla sera il sole era tramontato fra un fitto velo di vapori dalla tinta molto oscura e la brezza si era tramutata in un vento piuttosto forte e assai fresco. La calma che regnava sul mare si era spezzata. Delle onde salivano di quando in quando dal sud e correvano, muggendo sordamente, contro l'incrociatore, sollevandolo bruscamente. - Avremo mare forte domani, - disse Yanez al dottor Held, che era risalito in coperta. - Il Re del Mare ballerà terribilmente se si scatena un uragano. Ho fatto già una crociera in questi paraggi e so quanto diventano terribili allorquando soffiano i venti del sud o dell'ovest. - S'alzano delle onde mostruose, è vero, signor Yanez? - Di quindici metri e talvolta perfino di diciotto e che lunghezze che hanno! - Ma Mangalum non deve essere lontana. - Sarebbe meglio evitarla, piuttosto che trovarsi presso di essa, mio caro signor Held. Mangalum non è che un grosso scoglio e le altre due isolette che lo fiancheggiano, due punte rocciose. - Un soggiorno poco invidiabile pei loro abitanti. - Eppure non sembrano scontenti della loro terra, quantunque siano, si può dire, completamente isolati dal resto del mondo, non vedendo che molto di rado qualche nave. Ed infatti quel deposito di carbone non viene rinnovato che ogni due o tre anni. - Si dice che sia la colonia più minuscola che esista nel nostro globo. - È vero dottore, perchè la sua popolazione non ammonta nemmeno a cento persone. L'anno scorso non erano che in novantanove. È bensì vero che anni sono aveva raggiunto i centoventi abitanti. - E perchè sono scemati? - In causa d'una tremenda bufera la quale spinse le onde attraverso l'isola, atterrando molte case e spazzando via numerosi abitanti. - E perchè i superstiti non hanno abbandonata l'isola? - Pare che amino assai il loro suolo ingrato e malsicuro e poi credo che in nessun altro luogo potrebbero godere tanta libertà. Quantunque appartengano a razze diverse, essendovi inglesi, americani, malesi, bughisi, macassaresi e cinesi, vivono in perfetta armonia e sul piede d'una completa eguaglianza. Si può anzi dire che quegli isolani hanno risolto il famoso problema sociale e con soddisfazione generale, perchè sono retti da una specie di comunismo. Il loro capo è il più vecchio abitante dell'isola, con poteri limitati. Lavorano in comune, si istruiscono a vicenda, e non conoscono il valore del denaro che per loro rappresenta una mera curiosità. Perfino le donne, che sono molto più numerose degli uomini, si sono adattate ai lavori mascolini, onde ovviare il pericolo che vi possano essere persone più bisognose di venire nutrite che non lavoratori costretti a nutrirle. - Un'isola meravigliosa! - esclamò il dottore. - Sotto un certo aspetto è veramente ammirabile, - disse Yanez. - Sono molti anni che è popolata? - Dal 1810, perchè prima non vi erano che bande di uccelli marini. Un disertore inglese, certo Granvill, fu il primo ad approdare insieme ad un suo compatriotta e ad un americano. Più prepotente degli altri due, con un editto si proclamava re dell'isola e dei due isolotti vicini. Pare però che ciò non gli portasse fortuna, perchè quando nel 1818 il governo inglese inviava una nave a prenderne possesso, non viveva che l'americano. Era possessore di molto oro, moneta affatto inutile fra quelle rocce e che avrebbero potuto godere in patria. Pure invitato a tornarsene in America, oppose un rifiuto categorico. A poco a poco sbarcarono dei malesi e anche dei bughisi e degli inglesi. Nel 1865 la popolazione aumentò d'un colpo avendo, in quell'epoca, un corsaro americano, sbarcato quaranta prigionieri, presi durante la guerra di secessione. Quell'aumento di popolazione rese ben dura la vita agli isolani, essendosi dimenticato il corsaro di sbarcare dei viveri, nondimeno a poco a poco la colonia prosperò e continuò ad aumentare. Forse a quest'ora, il signor Griell, che è l'attuale governatore dell'isola, ha più d'un centinaio di sudditi. - Un piccolo re. - Che ci tiene al suo regno, specialmente dopo la visita ricevuta da un ammiraglio inglese della squadra della Cina che lo ha investito del supremo potere, d'incarico della Regina d'Inghilterra. - Figurarsi che onori avrà avuto quell'ammiraglio! - No, signor Held, gli onori ha dovuto farli lui, offrendo alla colonia un banchetto pantagruelico, di cui i buongustai dell'isola serbano immortale ricordo, seguìto da molti doni fra i quali una bandiera inglese che Griell conserva gelosamente. - Vedrò con piacere quel piccolo regno. Speriamo di avere una buona accoglienza, - disse il dottore. - Lo dubito, - rispose Yanez, - perchè quegli isolani ci terranno a non sprovvedersi di carbone che consumano essi in gran parte. Sapremo però calmarli avendo noi degli argomenti molto persuasivi. Chiamino pure in loro soccorso gli inglesi e ci scaccino. Siamo in guerra e la faremo a tutti i sudditi inglesi, senza eccezioni.

. - Non abbandonate il salvagente, - disse il capitano. - La nostra salvezza sta in questi anelli di sughero. - Ed il Re del Mare si vede ancora? - Scomparso, trascinato via dall'uragano, - rispose Yanez. - Non temere, Sandokan e Tremal-Naik non ci abbandoneranno. Ecco lo scoglio! Non verremo frantumati fra le rocce? sir Moreland, non lasciatevi spingere. Il capitano non rispose. Guardava verso l'enorme scoglio, la cui vetta era coperta di nubi tempestose e sui cui fianchi strisciavano le folgori. D'improvviso mandò un grido di gioia. - La ... la ... calma ... l'olio! - esclamò. - Brahma ci protegge! Era impazzito l'anglo-indiano? No, sir Moreland aveva ben veduto. Le onde, dinanzi a loro, si spianavano, come per opera magica, dissolvendosi di colpo. Durante l'imbarco del carbone, Sandokan aveva fatto spargere intorno alla nave alcuni barili d'olio onde ottenere un po' di calma e permettere alle scialuppe cariche di abbordarlo. Quello strato oleoso, trascinato forse da qualche corrente, si era accumulato dinanzi al terribile scoglio, formando una zona brillante, lunga parecchi chilometri e larga alcune gomene. Si conoscono già le miracolose proprietà che hanno le materie grasse di calmare le onde. Non avendo il vento alcuna presa su di esse, e non essendo penetrabili nè all'aria, nè all'acqua, dove esse vengono sparse, i marosi si dissolvono e tutt'al più formano delle lunghe ondate senza frangersi, affatto innocue. Qualche barile, e anche meno, basta sovente a ottenere una specie di calma attorno alle navi, avendo l'olio la proprietà di espandersi a grandi distanze. Quello sparso dall'equipaggio del Re del Mare, in quelle quattordici o quindici ore, era stato tanto da far regnare una certa tranquillità fra le tre isole. - Sì, l'olio, - aveva risposto Yanez. - Un'altra onda e noi giungeremo nella zona tranquilla. Il nuovo cavallone sopraggiungeva mungendo e urlando. Era alto almeno quindici metri, tutto creste spumeggianti e lungo parecchie miglia. Afferrò i tre naufraghi, li scosse sulle sue cime, poi li scaraventò innanzi, ma appena toccata la zona oleosa perdette improvvisamente il suo impeto e scivolò sotto lo strato, trasformandosi come per incanto in un'ondata lunga, priva d'ogni violenza. - Siamo salvi! - gridò il portoghese. - sir Moreland, uno sforzo ancora e giungeremo sull'isolotto. L'anglo-indiano lo guardò senza aprire bocca. Era pallidissimo e un rauco respiro gli usciva dalle labbra contratte. Forse la ferita, appena rimarginata, si era riaperta in causa degli incessanti sforzi e della prolungata immersione e la sua energia si esauriva rapidamente. - Sir, - disse Darma, la quale se n'era accorta. - Voi state male. - È nulla ... la ferita ... - rispose il capitano con voce rotta. - Bah! Resisterò ... presso ... di voi ... miss ... La terra è ... lì ... Le onde che si seguivano, li spingevano dolcemente verso lo scoglio, la cui massa imponente giganteggiava a meno di una gomena. Se l'oceano era tranquillo o quasi in quel luogo, sui margini dello strato oleoso, infuriava sempre tremendamente. Onde mostruose si seguivano con scrosci orrendi, mentre sopra di loro il vento ruggiva tremendamente, gareggiando coi tuoni che rombavano fra le nubi. I naufraghi, ormai quasi al sicuro dai furori della burrasca, s'inoltravano sempre fra lo strato oleoso, aprendosi il passo fra enormi cumuli di alghe. Le onde le avevano strappate in gran numero, spingendole poscia verso la scogliera ed accumulandole intorno alle sue ripide spiagge. - Sbrighiamoci, sir Moreland, - disse Yanez, il quale nuotava con vigore, rimorchiando i due gavitelli. - Queste acque sature d'olio ridurranno le nostre vesti in pessime condizioni. Altro che i balenieri e i cacciatori di foche! - Sì, affrettiamoci, - rispose Darma. - sir Moreland è stremato. - Non lo nego, - rispose l'anglo-indiano, il quale si reggeva con immense fatiche. - Un altro meno robusto e meno energico di voi, a quest'ora sarebbe colato a picco, - disse Yanez. - Ah! Sento delle alghe sotto i miei piedi! Lasciamoci portare dall'onda. La fortuna li aveva spinti verso la spiaggia dove avevano cacciato gli uccelli marini. Pochi gruppi di erbe marine, di quelle chiamate dagli isolani beccalunga, si vedevano spuntare fra le fessure delle rupi; più sopra invece nulla, solamente la nuda roccia di colore nerastro, come se dei torrenti di pece fossero calati dalle altissime cime dello scoglio. Spinti da un'ultima ondata, i tre naufraghi furono deposti, quasi dolcemente, sul greto. Era tempo perchè sir Moreland stava per abbandonarsi. Yanez aiutò Darma a superare la spiaggia, poi l'anglo-indiano che era incapace di reggersi. - I salvagente! - balbettò sir Moreland. - Ah, sì! E vero, - rispose Yanez. - Sono troppo preziosi per perderli. Ridiscese la spiaggia e li tirò a secco, assicurandoli alla punta di una roccia. - Come vi sentite, sir Moreland? - chiese premurosamente Darma. - Un po' debole miss, ma tutto passerà. La ferita fortunatamente non è riaperta. - Cerchiamo qualche riparo, - disse Yanez. - Il Re del Mare, coll'uragano che ingrossa al largo, non potrà tornare molto presto - Che corra qualche pericolo, signor Yanez? - Non credo, Darma. Resisterà meravigliosamente anche a questa seconda prova. Fortunatamente ha completato a tempo le sue provviste di combustibile. - Sicchè saremo costretti a passare la notte qui, - disse Darma. - Nessuno verrà a disturbarci: non vi saranno delle pantere nere su questa roccia. Rifugiamoci sotto questa sporgenza e aspettiamo l'alba. Il portoghese prese una bracciata d'alghe e si diresse verso una rupe, la cui cima si sporgeva molto innanzi formando un riparo abbastanza sufficiente per tenere al coperto i tre naufraghi. Sir Moreland e Darma l'avevano seguìto, portando altre alghe per formarsi un giaciglio.

I PESCATORI DI BALENE

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

Infatti ai piedi d'una roccia rinvennero delle vecchie reti state abbandonate perchè inservibili; più oltre una capanna semi-arsa, un remo ancora piantato nel ghiaccio e finalmente anche un canotto lungo otto piedi, costruito con lunghe liste di corteccia di betulla cucite insieme con sottili radici d'abete e calafatato di resina. Un fianco, però, era stato sfondato, forse dall'urto dei ghiacci, sicchè non poteva più servire. - Diamine, mi pare che questi signori indiani si facciano molto desiderare! - disse Koninson. - Molte traccie abbiamo trovato, ma non un volto umano abbiamo veduto dalle rive dell'Oceano a questo fiume. - Eppure parecchie tribù vivono in questa desolata regione - rispose il tenente. - Ma dove sono? - Non lo so, ma vi sono e qualcuno ne incontreremo. - E verremo bene accolti? - Non ho mai udito dire che gli indiani di queste terre siano cattivi. - Però so che parecchie volte hanno dato addosso ai bianchi. - È vero, Koninson, ma per difendere la loro indipendenza. Aggiungerò anzi, che hanno dimostrato di essere assai coraggiosi e di non aver paura dei forti meglio armati. - Quale tribù sperate d'incontrare? - Quella che si chiama "figlia del Ratto", che vive sulle sponde di questo fiume. È possibile, però, che in sua vece ne incontriamo qualche altra, poichè nessuna ha dimora stabile e tutte vanno qua e là cercando i territori che offrono maggiore selvaggina. - E come si chiamano questi altri indiani? - Vi sono i Co-yuconi, i più numerosi dell'Alaska e che abitano le rive del fiume Yukon; i Koctck-a-Kutkin o indiani delle bassure; gli An-Kutkin e i Tatanckok-Kutkin appartenenti alla famiglia dei Malemuti, che abitano il basso corso dell'Yukon, e i Tanana, che hanno il loro centro al confluente dell'Yukon col fiume Tanana, dove si erge un grosso villaggio chiamato . Altre tribù minori occupano il territorio che si estende fra i fiumi suddetti e il Makenzie, appartenenti quasi tutte alla gran tribù dei "figli del Ratto". - Ed ora che noi siamo qui giunti, dove ci dirigeremo, signor Hostrup? Verso ovest o verso est? - Sarei dell'opinione di seguire il Porcupine fino al Makenzie e di raggiungere il forte Speranza. - Allora andiamo al forte Speranza. - Ti avverto che la via sarà lunga. - Non mi spavento, signor Hostrup. - Oggi accamperemo qui e cercheremo di rinnovare le nostre provviste. Io spezzerò il ghiaccio e mi metterò a pescare; tu batterai i boschi. - Non chiedo di meglio. Tornarono alla slitta, mangiarono un boccone e si separarono: Koninson si cacciò sotto il bosco col fucile e il tenente discese la riva armato di scure per aprire un buco nel ghiaccio. Il fiociniere per qualche tratto costeggiò il Porcupine colla speranza di abbattere qualche capo di selvaggina acquatica, avendo notato qua e là delle traccie di lontre ma nulla scorgendo, si addentrò nel bosco camminando con prudenza e cercando di non far scricchiolare la neve. In lontananza si udivano le lugubri urla di una muta di lupi, forse occupata a cacciare qualche grosso capo di selvaggina, qualche alce senza dubbio, sicchè si diresse da quella parte, niente affatto atterrito dai denti di quei feroci ma non coraggiosi carnivori. Dopo aver superato una piccola altura sulla quale erano già spuntati in gran numero i papaveri dai petali bianchi e dai petali d'oro, primi fiori della buona stagione, un certo numero di sassifraghe stellate e di ranuncoli gialli, ridiscese verso il fiume avendo udite le urla dirigersi da quella parte e quindi allontanarsi in direzione sud. Aveva raggiunta una macchia di piante sui cui rami spuntavano certe coccole rosse delle quali sono amanti gli orsi bianchi, quando scorse a terra delle larghe tracce che indicavano il passaggio di un grosso animale. - Oh! Oh! - esclamò egli, arrestandosi di botto. - Queste non sono nè tracce di alci, nè di lupi e tanto meno di volpi. Si curvò e le esaminò attentamente, poi si sollevò rapidamente gettando uno sguardo inquieto sotto gli alberi e intorno ai cespugli che crescevano in gran numero presso la riva del fiume. - Per di qui è passato un orso, e senza alcun dubbio un orso bianco - mormorò. - Devo tornare o tirare innanzi? Esitò un momento, sapendo quanto fosse forte e terribile l'avversario che poteva da un istante all'altro incontrare, ma la speranza di tornare all'accampamento con un sì bell'animale lo decise a continuare la caccia seguendo appunto quelle orme. Rinnovò per maggior precauzione la carica del fucile introducendovi due palle, si assicurò se il coltello scorreva facilmente nella guaina di pelle, poi si slanciò risolutamente innanzi, ma con gli occhi bene aperti e gli orecchi ben tesi. Percorse un quattro o cinquecento metri fermandosi di frequente per ascoltare, poi si gettò precipitosamente dietro a un grosso albero. In mezzo ad un cespuglio, lontano un tiro di freccia, aveva veduto agitarsi una massa biancastra che era subito scomparsa, forse perchè stava scendendo il pendio della riva. Stette alcuni minuti immobile cercando di distinguere meglio il carnivoro, poi udì, non senza provare un certo tremito, una specie di nitrito simile a quello che emette un mulo. - È un orso bianco! - esclamò il fiociniere, abbandonando con precauzione il nascondiglio. - Animo, mio caro Koninson, se sei venuto fin qui non devi tornare al campo a mani vuote. Sapendo quanto gli orsi bianchi siano diffidenti e difficili a lasciarsi accostare se non sono affamati, si gettò sottovento onde l'animale non lo fiutasse e guadagnò la riva del fiume sempre tenendosi celato dietro i tronchi degli alberi e le irregolarità del terreno. Giunto là, s'alzò sulle ginocchia tenendo in mano il fucile e guardò. A trenta soli passi di distanza egli scorse l'orso bianco occupato a divorare le coccole rosse dei cespugli e le tenere gemme di alcuni minuscoli salici d'acqua che crescevano stentatamente fra la neve. Senza dubbio non si era ancora accorto della presenza del cacciatore, poichè non dimostrava alcuna inquietudine, anzi lentamente gli si avvicinava. Koninson imbracciò il fucile e mirò lungamente la testa del mostro, non ignorando che, se lo avesse colpito in qualunque altra parte del corpo, non lo avrebbe atterrato. Alcuni istanti dopo la detonazione del fucile si fece udire scuotendo fortemente gli strati dell'aria. Quando il fumo si dissipò, il fiociniere, con suo grande terrore, vide l'orso che saliva la riva di galoppo, aprendosi impetuosamente il passo fra i cespugli. Nessuna macchia di sangue si scorgeva sulla bianca pelliccia, segno chiaro che la palla si era perduta altrove. Mancava il tempo di ricaricare l'arma e anche di fuggire, poichè l'orso non era più che a pochi passi. Il fiociniere in quel terribile frangente non si perdette d'animo. Afferrò il fucile per la canna e quando si vide l'animale dinanzi, lo percosse replicatamente sul muso. Disgraziatamente l'arma gli sfuggì di mano mentre vibrava un terzo colpo e si trovò inerme. Impegnare una lotta corpo a corpo col coltello era cosa troppo pericolosa con simile avversario, la cui forza è veramente straordinaria, se non eguale, certo di poco inferiore a quella del terribile orso grigio delle Montagne Rocciose. Non restava che fuggire a tutte gambe. Koninson si appigliò a questo partito, e si diede a precipitosa fuga attraverso la foresta, mandando alte grida per attirare l'attenzione del tenente che non doveva essere molto lontano. Superò, correndo disperatamente, la piccola altura procurando di tenersi presso gli alberi onde, in caso disperato, salvarsi sui rami; poi si lasciò scivolare o meglio rotolare fino al basso, dove incontrò il tenente che si era affrettato ad accorrere col fucile e una scure. - Cos'hai? - gli chiese questi, precipitandosi verso di lui. - Che ti è accaduto? Chi ti insegue? - Fuggite! Fuggite! - esclamò Koninson rimettendosi in piedi. - Ho un orso bianco alle spalle. - Un orso! E dov'è? - L'ho incontrato presso le rive del fiume e si era messo a inseguirmi, dopo essere sfuggito al mio colpo di fucile. - Se si mostra avrà una buona accoglienza, ragazzo mio. Ma dov'è il tuo moschetto? - Mi è sfuggito di mano mentre mi difendevo. - Bisogna andarlo a riprendere, o quell'animale te lo rovinerà tutto. Orsù, prendi la scure e andiamo a vedere. - Badate, tenente, che abbiamo da fare con un orso affamato, il quale si getterà su di noi. - Siamo in due e possiamo tenergli testa. Hai nulla di rotto? - Sono intatto. - Allora silenzio e avanti. Il tenente, che ci teneva assai ad abbattere il carnivoro per rinnovare le provviste già molto scarse, salì intrepidamente l'altura a rapidi passi, fiancheggiato da Koninson, il quale trovandosi male armato tentennava, e giunto sulla cima gettò uno sguardo sul versante opposto, in direzione del fiume, ma. non vide nulla, nè udì il ben noto nitrito del pericoloso avversario. - Dove si sarà nascosto? - si chiese. - Forse dietro a quelle macchie - rispose il fiociniere, indicando i cespugli che crescevano sulle sponde del Porcupine. - Non ti ha inseguito? - Non lo so, poichè non ardii voltarmi indietro. - Scendiamo, amico mio. Tenendosi dietro ai tronchi degli alberi e cercando di produrre meno rumore che fosse possibile, per sorprenderlo e sparargli addosso prima che potesse fuggire, raggiunsero i cespugli e precisamente il luogo ove era avvenuta la lotta. Guardarono attorno alle piante, sulla riva e nel fiume, ma l'orso bianco non c'era e, quello che era più sorprendente, non c'era nemmeno il fucile perduto dal fiociniere. - Tò! - esclamò il tenente al colmo della sorpresa. - Che abbia mangiato il moschetto? Eppure non è una bistecca. Si misero a frugare nelle macchie colla più grande attenzione, visitarono i crepacci, girarono i tronchi degli alberi per un bel tratto di bosco, ma sempre nulla: il fucile era proprio scomparso. - Che ne dici? - chiese Hostrup, che si grattava furiosamente la testa. - Io dico che questa sparizione ha del soprannaturale, - rispose Koninson. - Che l'orso abbia portato con sè l'arma? - E per che farne? - Non lo so davvero, Koninson. - Che sia venuto qui qualche indiano? - Non è possibile, poichè non vedo sulla neve che le tue traccie e quelle dell'orso. - E allora? - Che sia un orso ammaestrato? - Ma non vi sono serragli nei dintorni, che io sappia, signor Hostrup. - Ma vi possono essere degli indiani. - E voi credete ... - Io non credo nulla, ma dico che quell'orso può appartenere a qualche banda d'indiani. - E voi supponete che il birbante abbia portato il mio fucile ai suoi padroni? - Così deve essere. - Cosa dobbiamo fare? - Inseguire il ladro. - Ben detto, signor Hostrup. - Ecco qui le traccie che ha lasciato sulla neve. Ha disceso la riva, ed ha attraversato il fiume dirigendosi senza dubbio verso sud. Forse dietro a quella foresta sorge un accampamento di indiani. - Allora andiamo, ma ... e la nostra slitta? - La ritroveremo nel ritorno. - Ma i lupi la saccheggeranno. - Faranno un ben magro bottino, amico Koninson. Orsù, in cammino. Discesero la riva, attraversarono il fiume che in quel luogo misurava circa duecento metri di larghezza e risalirono l'opposto pendio entrando in un'altra foresta, sotto la quale scorrazzavano diversi lupi bianchi di dimensioni non comuni. Le traccie dell'orso furono ben presto ritrovate ed assieme ad esse l'impronta del calcio del fucile. - Si direbbe che quel birbante adopera la mia arma come un bastone - disse Koninson. - Deve essere un gran burlone! - rispose il tenente. - Ora che ci penso, che sappia anche adoperare il fucile? Non vorrei che ce lo scaricasse contro a tradimento. - Mi hai detto che non hai avuto tempo di ricaricarlo, quindi questo pericolo non esiste. Affrettiamo il passo e apriamo ben bene gli occhi. Si rimisero in cammino sempre seguendo le traccie del carnivoro ma, percorsi duecento metri, tutti e due tornarono a fermarsi in preda ad una certa inquietudine. Da una fitta macchia di pini e di abeti neri, usciva una grande cortina di fumo che strisciava lentamente sul campo gelato prolungandosi infinitamente, e in distanza si udivano delle voci umane. - Un accampamento? - chiese Koninson. - Senza dubbio! - rispose il tenente. - Andiamo innanzi? - Sì, ma con prudenza. Se sono indigeni potremmo venire scambiati per nemici e accolti molto male. - Vedete? - esclamò Koninson, - le traccie dell'orso si dirigono verso quell'accampamento. - Lo dicevo io, che quel burlone doveva essere ammaestrato. Gettiamoci dietro questi alberi e procediamo cauti. Stavano per eseguire quella prudente tattica, quando delle urla selvaggie scoppiarono alle loro spalle. Si volsero rapidamente l'uno puntando il fucile e l'altro impugnando la scure. Alcuni uomini, che si erano forse tenuti nascosti dietro i tronchi degli alberi o i mucchi di neve, correvano loro addosso agitando certe fiocine e certi ramponi di forma particolare ed alcuni vecchi fucili. Essi giunsero come un uragano fino a pochi passi dal tenente e dal fiociniere, poi si fermarono di colpo in un atteggiamento che nulla aveva di ostile, e uno di loro, il capo senza dubbio, facendo un passo innanzi, disse con voce abbastanza graziosa e in lingua russa: - Siate i benvenuti. I Tanana sono vostri amici!

IL PAESE DI CUCCAGNA

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Serao, Matilde 2 occorrenze

. - Andate a chiamare Amati, per carità, per amore di Dio, non mi abbandonate, chiamate Amati, - gemeva l'inferma. - Oh Dio! che castigo, che castigo! - esclamava il vecchio, con le mani nei capelli; - ma, dottore, fatele qualche cosa, non la lasciate morire!. - Amati… Amati… voglio Amati, - ella diceva, delirando, stravolgendo paurosamente gli occhi. E ricaduta, abbattuta sul letto, in una nuova paralisi, l'unica cosa viva di lei era la voce che voleva Amati, sempre l'unica idea della sua ragione smarrita era Amati, Amati, Amati. - Gli scriverò, - disse il vecchio, desolatamente, andando di là mentre il medico provava a mettere nuovo ghiaccio, sulla testa infiammata di Bianca Maria. Il marchese scriveva: ma era insopportabile lo sdegno di dover cedere, e le parole non uscivano dalla sua penna. Stracciò due foglietti. Infine ne uscì una breve lettera, con la quale pregava il dottor Amati di andare a casa sua, perché sua figlia era malata: niente altro. Quando dovette scrivere l'indirizzo, fu per ispezzare la penna. E senza guardare in volto Giovanni, gli disse di correre dal dottore… sì, dal dottore Amati. E il poveretto corse, mentre Morelli dava delle pillole di calomelano alla povera delirante che urlava, poiché il dolor di testa era divenuto insoffribile, atroce. Il padre, consumato il primo sacrificio, si sentiva impazzire, a quegli urli: e tremava, temeva di mettersi anche lui a urlare, a urlare, come lei, come se ella gli avesse comunicata la meningite. Adesso che aveva scritta la lettera, consumando un insopportabile sacrificio, adesso il marchese Cavalcanti si metteva a desiderare che il dottor Amati giungesse presto, almeno: gli era impossibile sopportare più quelle grida, quei lamenti, quei gemiti, in cui un solo nome continuava ad apparire, sempre, sempre. E oramai contava i minuti del ritorno di Giovanni, tendendo l'orecchio, se udisse qualche rumore di porta che si schiudeva: il tempo passava e l'ammalata, malgrado il ghiaccio, malgrado il calomelano, delirava, con gli occhi stravolti, in preda alla infiammazione che sembra arda il cervello. Ecco una porta si apriva, qualcheduno si avanzava verso la stanza, in cui il marchese di Formosa aveva ricoverata la sua disperazione. Era Giovanni, solo: e pareva così stanco, così vecchio, così triste, che il marchese tremò, chiedendogli: - Ebbene? - Non viene, il dottor Amati. - Non vi era? - Non vi era, l'ho aspettato sotto il portone: è poi venuto… - E dunque? - Ha letto la lettera… e ha detto che egli era troppo occupato, che la signorina aveva certo qualche altro buon medico… - Non lo hai… pregato? - L'ho pregato, Eccellenza: si è fatto aspro, è andato via mormorando certe parole, che non ho capite. - Dovevi salire… insistere… - Non ho avuto il coraggio… - Ma capisci che senza lui la signorina muore, non lo capisci? - Lo capisco, Eccellenza, ma il dottore mi ha maltrattato, sono un povero servo… - Egli ha ragione, - disse il vecchio lentamente, - io l'ho molto offeso… - Eccellenza, Eccellenza, andateci voi, a voi non dice di no… - Tu sei pazzo!… - Per la signorina, Eccellenza! - Dirà di no, m'insulterà… - Per la signorina… - No, no, è troppo… - Ma, Eccellenza, lo avete detto, la signorina muore. - Va via, - gridò brutalmente il marchese, cacciando il suo servitore. Restò solo. Il suo orgoglio si ribellava potentemente all'idea di umiliarsi innanzi all'uomo che egli aveva ingiuriato: soffriva atrocemente; la voce di sua figlia che ora borbottava in tono basso, ora strideva acutamente, nominando Amati, gli dava il senso di un dolore fisico, di un ferro rovente che bruciava la sua carne. Dentro di lui, però, come il tempo passava, come il pericolo della fanciulla aumentava, si compiva un lavoro di annichilimento, in cui tutte le ribellioni antiche e nuove della sua superbia andavano cadendo: e al posto dell'orgoglio si metteva una immensa pietà, una immensa tenerezza, un immenso dolore. Fuggiva l'ora, mentre egli passeggiava su e giù, rodendo il freno degli ultimi vincoli in cui si abbassava e radeva terra il suo cuore: e non cessava di là quell'eterna voce delirante, che non sapeva dire altro che il nome di Antonio Amati. Oramai egli non trasaliva più di collera, l'odio taceva e quando, di nuovo, si presentò il dottore Morelli, che era andato e che era ritornato, domandandogli, egli rispose: - Non è venuto: vado io. - Lo condurrete? - Lo condurrò. Era ben tardi, però, quando si mise in cammino, a piedi, per andare in via Santa Lucia, dove abitava adesso il dottor Amati: era quasi mezzanotte e la gente si era diradata per Toledo, nella dolcezza della sera di aprile. Malgrado la vecchiaia, il marchese correva per la strada, spinto da una forza nervosa, e quando fu nel grande portone del palazzo che abitava Amati, fece le scale rapidamente, senza neppur rispondere al portiere, che domandava dove andasse. - Dite ad Amati che vi è il marchese Cavalcanti, - disse alla governante che gli era venuta ad aprire. - Veramente… studia… - Diteglielo, ve ne prego, è una cosa urgentissima, - pregò il vecchio, il cui orgoglio era completamente sparito. Ella andò di là, ricomparve subito, facendo cenno al marchese di entrare. Egli attraversò due salotti e si trovò in uno studio, tutto in penombra, dove la luce della lampada si concentrava sopra un gran tavolone, sparso di carte e di libri. Ma il dottor Amati era in piedi, in mezzo alla stanza, aspettando. Quei due uomini, che si erano tanto odiati, si guardarono, con lo stesso dolore che li accomunava, e la pietà della infelice creatura morente troncò ogni astio. Si guardarono. - Che è? - dimandò, con voce fioca, Amati. - Muore, - disse Formosa, facendo un atto disperato. - Di che? - Di meningite. Un pallore terreo si diffuse nel volto del dottore e due pieghe gli si formarono alle labbra. E non osò fare rimproveri al marchese. Non aveva, egli stesso, abbandonata la povera creatura, a cui aveva promessa, giurata la salvazione? Non aveva, per superbia, lasciato il delicato fiore ammalato, in preda a tutti i mali fisici e morali? Ambedue erano colpevoli, ambedue. - Andiamo, - disse. Uscirono insieme, chiamarono una carrozza da nolo, fecero sollevare il soffietto, come se volessero nascondere il loro dolore. Non parlavano, durante il tragitto. Soltanto, mentre mordeva il suo sigaro spento, il dottor Amati, ogni tanto, faceva qualche interrogazione medica. - Da quanto tempo, la meningite? Primo giorno? - Sì: ma ebbe nove giorni di tifo. -Febbre alta? - Da quaranta a quarantuno. - Gran mal di testa? - Atroce. - Convulsioni? - Sì: ogni tanto. - Stravolge gli occhi? - Sì. - Ha contratti i muscoli della nuca? - Sì. -… vi fu qualche causa? - Sì, - disse umilmente il padre, quasi singhiozzando questo monosillabo. - Le hanno dato il calomelano? - Sì. - Non ha calmato? - No, niente. Spesso è paralizzata: ma per poco. - È proprio la meningite, - mormorò il medico, pensoso. La carrozza camminava, camminava alla meglio, con il mediocre cavallo notturno. Non arrivavano ancora e avevano già incitato il cocchiere ad affrettare. - Ha il delirio? - chiese nuovamente il medico. - Non so… Non capisco se è il delirio.., ma parla sempre, convulsamente… - E che dice? - Chiama voi… - Me? - Voi, sempre. Ah il cuore del medico si schiantò, udendo questo! Sottovoce il vecchio padre lo udì dire, come per preghiera sgomenta: - Mio Dio!… Non dissero altro. Trovarono la porta aperta, il povero vecchio Giovanni li aveva attesi sul pianerottolo, appoggiato alla ringhiera, guardando nel portone, ansioso di vederli arrivare, ma certo che il dottore sarebbe venuto. - Come sta? - chiese subito il padre che aveva un continuo bisogno di essere rassicurato. - Come deve stare?… - sospirò il vecchio servo, precedendoli, - sta come prima. - Sempre il delirio? - disse il dottore. - Sempre. Entrarono pian piano nella stanzetta. Il dottor Morelli era andato via da poco, lasciando una letterina pel dottor Amati. Ma costui andò diritto al letto della inferma. La voce di costei, oramai stanca, ma sempre appassionata, andava ancora ripetendo il nome di Amati, ma il capo era affondato nei cuscini e gli occhi socchiusi. Egli vide tutto immediatamente, e lo scompiglio del suo animo, dovette esser tale che non giunse a padroneggiare, egli il forte, egli l'invincibile, il suo volto. Ed esitò un minuto, prima di rispondere alla infelice delirante che seguitava a chiamarlo, temendo di produrre sui nervi di lei una impressione troppo forte: ma non potette resistere a quella fievole voce che gli penetrava sino al cuore e lo faceva struggere di tenerezza. Disse: - Bianca Maria.. Qual grido fu la risposta! Ella si levò, col volto improvvisamente acceso, con gli occhi diventati stragrandi, e gli buttò le braccia al collo, gli appoggiò il capo sul petto, gridando: - O amor mio, amor mio, quanto avete tardato! Non mi lasciate più, non mi abbandonate, è tanto tempo che vi chiamo non mi lasciate. - Non temete, non vi lascio… - mormorò lui, cercando di vincere la sua emozione, carezzandole i bei capelli confusi e arruffati. - Non ve ne andate mai, mai, - gridava ella appassionatamente, stringendogli le braccia al collo, - se mi abbandonate, io muoio… - Calmatevi, Bianca Maria, calmatevi, non dite queste cose. - Le voglio dire, - levò lei ancora la voce, irritandosi della contraddizione,- senza di voi, per me è la morte. Ma tu non mi lascerai morire, eh, non mi lascerai morire? - Creatura mia, taci, taci… - egli disse, incapace di frenarsi, volendo disciogliere la catena di braccia, che gli allacciava il collo. - Non mi levare di qui, non mi levare,- strillò lei, facendo degli atti disperati col capo. - Se mi levi, sento che la morte mi piglia. - Oh Bianca, taci, per carità, non mi uccidere, - le disse il forte uomo, diventando il più debole e il più misero fra gli uomini. - Mi piglia la morte, è qui dietro, la sento, tu solo puoi salvarmi… Non mi lasciar morire, non voglio morire, hai capito, non voglio morire! - Non morirai, zitto, cara, zitto, perché ti ammali assai peggio, io sto qui, non me ne vado, mai più, mai più, non ti lascio… -… e non voglio morire, - concluse lei, di nuovo, calmandosi un poco. Stettero così, qualche tempo. Il padre era ai piedi del letto, appoggiato alla spalliera, con gli occhi bassi, sentendo nel suo orgoglio schiacciato, nella sua anima trafitta, tutto il peso del castigo che il Signore gli faceva aggravare sul capo, in punizione del suo lungo peccato. Pian piano, visto che la fanciulla taceva, che gli occhi le si chiudevano, il dottor Amati tentò di rimetterle il capo sul guanciale: ma ella sentì l'atto, e mentre si abbassava, attirò a se anche lui ed egli dovette chinarsi, poiché quelle braccia non volevano sciogliersi. Restarono così, ella assopita, egli inclinato in una posizione dolorosa, così angosciato di quella malattia e della sua impotenza, che non gli arrivava la sensazione di quel tormento fisico: il dolore assumeva in lui tale una violenza che si sentiva scoppiare, non potendo né piangere, né gridare, né parlare. Ora la infelice fanciulla pareva assopita, ma ogni tanto sussultava, e una espressione di fastidiosa pena le si dipingeva sullo scarno viso. Pareva che le passasse una idea per la mente, o che udisse un rumore che gli altri non udivano, o che vedesse qualche penosa visione, poiché le palpebre le battevano e le labbra si striavano sulle pallide gengive. Poi, ella schiuse gli occhi, come se avesse fissato quel rumore, quella visione, quella impressione fastidiosa e con un soffio di voce, che solo il medico intese, chiamò: - Amore! - Che vuoi? - Mandalo via. - Chi? - Mio padre. Il medico impallidì e non rispose. Dette una obliqua occhiata al vecchio, che era sempre fermo ai piedi del letto, con gli occhi bassi, dolorosamente concentrato. - Ti prego, mandalo via, - ricominciò lei, parlandogli nell'orecchio. - Ma perché? - Così: non voglio vederlo. Mandalo via. Che se ne vada. - Bianca Maria, ma è tuo padre! - Ascolta, ascolta, - diss'ella, attirandolo maggiormente a sé, perché gli potesse parlare più piano. - È mio padre, - mormorò poi con una paura soffocata, con un rimpianto immenso, - ma mi ha uccisa. - Non parlare così, - rispose, lui, volgendo il capo dall'altra parte per non lasciare scorgere le sue impressioni. - Ti dico che muoio per lui. Non ho il delirio, sai, io ragiono, - soggiunse ella, stralunando gli occhi, con quel moto infantile dei fanciulli moribondi, che fa impazzire di dolore le madri. Egli crollò il capo, come se non sapesse più che cosa fare, che cosa dire. - Mandalo via, - diss'ella, insistendo, arrabbiandosi, con le fatali irrompenti furie della meningite. - Io non posso, Bianca Maria… - Se non lo mandi via, tu, tu, io mi levo e gli grido di andarsene, di non comparirmi mai più innanzi, mai più, hai capito? - Aspetta, - egli disse, decidendosi, rassegnandosi. E la lasciò, staccandosi da lei, rimettendole le scarne braccia sulla coltre. Ella lo seguì con lo sguardo, senza mai levargli gli occhi di dosso, come se con lo sguardo udisse quello che molto sottovoce il dottore Amati diceva a suo padre. Il dottor Amati, con molta delicatezza e con un fremito di dolore che faceva tremare invincibilmente la sua voce, gli spiegava che la meningite è una terribile malattia che abbrucia il cervello, che sconquassa i nervi, e che fa delirare per giorni e giorni i poveri infermi che ne sono attaccati, che li induce a continua collera e persino al furore: che la povera Bianca Maria era in preda a questo delirio, che non poteva soffrir nessuno nella sua stanza, e che se egli amava sua figlia, se non voleva udirla dare in escandescenze, facesse la carità di andarsene in un'altra stanza… - Mia figlia vi ha detto questo? - chiese il vecchio, smorto, con le sopracciglia aggrottate. - Sì. - Non vuole nessuno nella sua stanza? -… Nessuno. - Ma voi, sì? - Me, sì. - Mi caccia, mia figlia? - gridò il vecchio. - Per carità, marchese, non v'irritate, abbiate pietà della fanciulla, di voi, di me… - Non me ne andrò, se non me lo dice lei, capite? Bianca Maria? - chiamò il marchese, avanzandosi presso il letto. Ella guardò il padre con tanta intensità, come se gli rispondesse. - Bianca Maria, - gridò l'esasperato vecchio, - è vero che non mi vuoi, nella tua stanza? Dillo tu, se è vero, io non credo a quest'uomo, lo devi dire tu! - È vero, - ella proclamò, a voce chiarissima, guardando suo padre. Egli chinò gli occhi, dove comparvero le ultime lacrime della vecchiezza, chinò il capo sul petto, vinto dall'inflessibile castigo che gli veniva dalla delirante, dalla morente sua vittima. Uscì, senza voltarsi. E cadente come se avesse cento anni, solo, taciturno, si ritirò in quella che era stata la sua stanza da studio, dove restavan solo un tavolino vecchio e una vecchia sedia. Lì, prono, con la testa fra le mani, senza più nozione né di tempo, né di cose, il vecchio peccatore s'immerse nella incommensurabile amarezza della punizione. Ogni tanto, fiocamente, o vivacemente gli arrivava la voce di Bianca Maria che diceva ad Amati, sempre, sempre: - Non voglio morire, non voglio morire, salvami, salvami, ho venti anni, non voglio morire… Quella voce, quelle parole disperate, pronunziate nel delirio, ma che pure parevano un lamento e una maledizione, gli facevano un effetto crudele. Non aveva più la forza di levarsi, per uscire, per andarsene di casa, solo, a morire come un cane sopra gli scalini di una chiesa, non pianto, non rimpianto. Non si levava, per andare presso l'agonizzante, poiché sua figlia lo aveva cacciato, tenendo presso sé l'unica persona che l'aveva amata. - Non voglio morire, amore, non voglio morire, - parlava la demente. - Hai ragione, hai ragione, - pensava il padre, trasalendo. E mentre le ore passavano, egli sentiva di là l'andirivieni del medico che tentava il salvamento della fanciulla, gli ordini frettolosi, l'uscire di Giovanni, di un assistente accorso. Egli non aveva più diritto di presentarsi, di sapere: e difatti lo dimenticavano lì, come se fosse morto da anni e anni, come se giammai un marchese Carlo Cavalcanti fosse esistito. Non sarebbe stato meglio per lui se fosse morto, poiché tutti lo avevano abbandonato? - E giusto, è giusto, - pensava fra sé. Egli tendeva l'orecchio, ogni tanto, come se i rumori che arrivavano, dovessero dirgli che la fanciulla migliorava, che il medico le amministrava i rimedii energici, capitali. Ma oltre all'affaccendarsi dei servi, dell'assistente, del dottore, egli non udiva altro che il grido straziante, continuo: - Non voglio morire, non voglio morire, amore, salvami! Egli si assopì, coll'antico capo appoggiato alle braccia, verso l'alba, sentendo anche nel lieve e breve torpore quel lamento, quell'angoscioso grido. Fu Giovanni che lo svegliò, a giorno chiaro, portandogli una tazza di caffè. Il padre scacciato dalla camera di sua figlia, interrogò con gli occhi il servo: - Sempre lo stesso, sempre! - mormorò Giovanni, crollando il capo vacillante. - Ma neppure Amati la salva? Neppure lui? - Cerca: ma è disperato. Il marchese Carlo Cavalcanti passò tre giorni e tre notti in quella stanza, solo, senza veder letto, senza quasi toccar il poco cibo che gli portavano: i tre giorni e le tre notti che durò l'agonia di sua figlia, Bianca Maria Cavalcanti. Il volto del vecchio, sempre sanguignamente colorito malgrado l'età, era chiazzato di violetto; i capelli bianchi erano tragicamente arruffati. Oramai, quando Giovanni e Margherita gli apparivano innanzi, solo a vedere il loro abbattimento, egli non domandava più nulla loro. Non sentiva egli forse che ella delirava sempre, gridando che a quell'età non voleva morire, non voleva, aggiungendo le esclamazioni e le preghiere più trambasciate? I due servi non gli dicevano nulla: l'udito gli si era affinato e non una parola del delirio gli sfuggiva. Pure, quella stessa vitalità di forza nervosa, quella voce forte lo illudevano, come una forma di salute e quasi quasi, nei piccoli intervalli di silenzio, egli si augurava che quel delirio ricominciasse. Ma il terzo giorno, alla mattina, una nuova dolorosa impressione lo trasse da quello stupore. La delirante, con voce strozzata, chiamava sua madre, sua madre, addolcendo il tono, pregando la mamma che non la facesse morire. Ogni tanto, taceva: egli si guardava intorno, atterrato da quegli improvvisi silenzi che si prolungavano, trabalzando quando, di nuovo, Bianca Maria si metteva a gridare. - Mamma, non voglio morire, non voglio, non voglio, mamma cara! Verso le due dopo mezzanotte, del terzo giorno, sempre seduto presso quel tavolino, lo colse il sopore, mentre ancora gli risuonava nell'orecchio quel delirio. Quanto tempo dormì? Quando si svegliò, il silenzio era così profondo, che egli si sgomentò. Aspettò, per udire quella voce che chiedeva di non morire ancora. Niente. Calcolò il tempo, dalla consumazione della candela: dovevano esser passate due ore. Una paura orribile lo assalse. Non osava muoversi. Guardò sotto l'arco della porta, vide la faccia bianca di Margherita che lo guardava. Intese. Pure, macchinalmente, domandò: - Come sta la marchesina? - Sta bene, - disse fievolmente la vecchia. - Quando… è stato? - Un'ora fa. - Non ha… non ha domandato di me? - No, Eccellenza. Egli provò a levarsi. Non poteva. Pensò che la morte lo avrebbe preso lì, su quella seggiola, subito, poiché i giovani di venti anni morivano prima dei vecchi di sessanta. Ora, era sopraggiunto anche il dottor Amati. Era irriconoscibile: un accasciamento mortale ne aveva distrutta tutta la energia fisica e morale. Come a un fanciullo, grosse lagrime silenziose gli si disfacevano sulle guance. Tacquero, un poco. - Ha sofferto assai? - chiese quel padre. - Immensamente.. - Non è stato possibile…? - No, non è stato possibile, - disse il dottore, il vinto, aprendo le braccia, confessando la più atroce fra le sue disfatte. Il vecchio, dalla faccia oramai immobilizzata in quella tragica espressione, non piangeva. E come un fanciullo inconsolabile, il dottor Amati lo prese per mano, lo sollevò, gli disse teneramente: - Venite a vederla. Andarono. La marchesina di Formosa, Bianca Maria Cavalcanti, giaceva sul suo bianco piccolo letto, col capo un po' abbassato sulla spalla, con le ceree mani dalle dita livide, congiunte per mezzo di un rosario. Le avevano messo un vestito bianco, molle, sullo scarno corpo. La bocca violetta era socchiusa; le palpebre terree erano abbassate. Pareva assai più piccola, come una fanciulletta adolescente. Non aveva sul volto che l'augusta impronta della morte che tutto placa, che a tutto indulge: non la serenità, ma la pace. Dalla soglia i due uomini guardavano il piccolo cadavere, dalle lunghe trecce nere fluenti lungo la persona: non entrarono. Immobili, ambedue tenevano gli occhi su quella piccola salma; e il dottore, teneramente, ripeteva, come fra sé, come un fanciullo che nulla potrà consolare: - Ci vogliono dei fiori, dei fiori… Il vecchio non lo udiva. Guardava sua figlia morta, e senza parlare, senza trarre un sospiro, piegò il suo gran corpo, e s'inginocchiò sulla soglia, tendendo le braccia, chiedendo perdono, come il vecchio Lear innanzi al cadavere della dolce Cordelia.

Era un fanciulletto vestito della bigia uniforme dell'Albergo dei Poveri, un povero fanciulletto del Serraglio, ome i napoletani chiamano l'ospizio di quelle creature abbandonate, un povero serragliuolo enza enzamadre e senza padre, o figliuolo di genitori che, per miseria o per crudeltà, avevano abbandonato la loro prole. Il fanciulletto, aiutato da uno degli uscieri, indossò, sull'uniforme da serragliuolo, na tunica di lana bianca: un berretto bianco, anche di lana, gli fu messo sulla testa, perché la leggenda del Lotto vuole che il piccolo innocente porti la veste bianca dell'innocenza. E lestamente salì sopra uno sgabello, per trovarsi all'altezza dell'urna. Di sotto, la folla tumultuava: - Bel figliuolo, bel figliuolo! - Che tu possa essere benedetto! - Mi raccomando a te e a San Giuseppe! - La Madonna ti benedica le mani! - Benedetto, benedetto! - Santo e vecchio, santo e vecchio! Tutti gli dicevano qualche cosa, un augurio, una benedizione, un desiderio, un'invocazione pietosa, una preghiera. Il bambino taceva, guardando, con la manina appoggiata sulla rete metallica dell'urna; e un po' discosto, appoggiato allo stipite del balcone, v'era un altro bambinetto del Serraglio, serio serio, malgrado le rosee guance e i biondi capelli tagliati sulla fronte: era il fanciulletto che doveva estrarre i numeri il sabato prossimo e che veniva là per imparare, per assuefarsi alla manovra dell'estrazione e ai gridi della folla. Ma di lui nessuno si curava: era quello vestito di bianco, quello di quel giorno, a cui si rivolgevano le mille esclamazioni della gente; era la piccola anima innocente biancovestita, che faceva sorridere di tenerezza, che faceva venire le lagrime agli occhi a quella folla di esseri tormentati, e speranzosi solo nella Fortuna. Alcune donne avevano sollevato nelle braccia i propri fanciullini e li tendevano verso il piccolo serragliuolo. le voci, tenere, appassionate, straziate, continuavano: - Pare un piccolo san Giovanni, pare! - Che tu possa trovare sempre grazia, se mi fai fare questa grazia! - Core di mamma, quanto è caro! Subito vi fu una diversione. Uno degli uscieri prendeva il numero da mettere nell'urna, lo mostrava spiegato al popolo, annunziandolo a voce chiara, lo passava alle tre autorità, che vi gettavano sopra un'occhiata distratta. Uno dei tre, il consigliere di prefettura, chiudeva il numero in una scatoletta rotonda, il secondo usciere lo passava al fanciulletto biancovestito che lo buttava subito nell'urna, dalla piccola bocca di metallo aperta. E a ogni numero che si annunziava, vi erano esclamazioni, strilli, sogghigni, risate. A ogni numero il popolo applicava la sua spiegazione, ricavata dal Libro dei sogni dalla Smorfia o da quella leggenda popolare che si propaga senza libri, senza figurine. Ed erano scoppii di risa, erano grassi scherzi erano interiezioni di paura o di speranza: il tutto accompagnato da un clamore sordo, come se fosse il coro in minore di quella tempesta. - Due! - …la bambina! - …la lettera! - … fammi arrivare questa lettera. Signore! - Cinque! - …la mano! - … in faccia a chi mi vuol male! - Otto! - …la Madonna la Madonna, la Madonna! Ma come ogni dieci numeri, chiusi nelle loro scatolette rotonde, bigie, erano stati buttati nell'urna dell'estrazione dal piccolo serragliuolo estito di lana candida, il secondo usciere chiudeva la bocca dell'urna, e, voltando il manubrio di metallo, le imprimeva un moto di giro sul suo asse, facendo rotolare, ballare, saltare i numeri. E di giù si gridava: - Gira, gira, vecchiarello! - Ancora un giro per me! - Dammi la giusta misura! I cabalisti, quelli non parlavano, non guardavano neppure i giri dell'urna: per essi non esisteva né il bimbo innocente, né il senso dei numeri, né il giro lento o vivace della grande urna metallica: per essi esisteva solo la Cabala, la Cabala oscura e pur limpidissima, la gran fatalità, dominante, imperante, che sa tutto, che può tutto e che tutto fa, senza che niun potere, umano divino, vi si possa opporre. Essi soli tacevano, pensosi, concentrati, anzi disdegnosi di quella forte gazzarra popolare, assorti in un mondo spirituale, mistico, aspettando con una profonda sicurezza. - Tredici! - …le candele! - …il candelotto, la torcia; smorziamola questa torcia! - … smorziamo, smorziamo! - rombava il coro. - Ventidue! - …il pazzo! - …il pazzarello! - …come te! - …come me! - …come chi giuoca alla bonafficiata Il popolo si sovreccitava. Lunghi fremiti correvano per la folla, che ondeggiava come se l'agitasse lo stesso bizzarro movimento del mare. Le donne, specialmente, erano diventate nervose, convulse, e stringevano nelle loro braccia i bimbi, così fortemente da farli impallidire e piangere. Carmela, seduta sull'alto macigno, aveva la mano raggricchiata intorno alla medaglina della Madonna e al piccolo corno di corallo: donna Concetta, la usuraia, dimenticava di rialzarsi lo sciallo di crespo nero che le cadeva sui fianchi poderosi, mentre le labbra avevano un breve moto convulso. Ed era affogato, il trillo sordo della macchina da cucire, sul balcone del primo piano: niuno più si curava della infaticabile cucitrice di biancheria. La febbre del popolo napoletano nella imminenza del sogno che stava per divenir realtà, si faceva sempre più acuta, dando un più vivo e più lungo sussulto quando veniva chiamato un numero popolare, un numero simpatico: - Trentatré! - … anni di Cristo! - … anni suoi! … questo esce. - …non esce! - …vedrete che esce! - Trentanove! - …l'impiccato! - … nella gola, nella gola! - …così debbo vedere chi dico io! - …stringi, stringi! Imperturbabili, sul terrazzino, le autorità, gli uscieri, il fanciulletto vestito di bianco, continuavano la loro opera, come se tutto quel tumulto di gente non arrivasse alle loro orecchie: solo l'altro bimbo, nuovo a quello stravagante spettacolo, guardava giù, dalla ringhiera, stupito, pallido, con le rosse labbrucce gonfie, come se volesse piangere: piccola anima inconscia e smarrita fra il turbine della profonda passione umana. L'operazione, sul terrazzino, procedeva con la massima calma: a ogni nuova diecina di numeri messi nell'urna, l'usciere la faceva girare più a lungo, facendo ballare e saltellare le pallottoline allegramente fra la trasparente rete di metallo. Non si scambiava una parola, lassù, non un sorriso: la febbre restava all'altezza delle persone, nel cortile, non saliva al primo piano. Giù, adesso, le persone più serie ridevano convulsamente, sottovoce, crollavano il capo, come se si fosse loro comunicato il morbo nella forma più chiassosa. L'operazione parve si affrettasse, verso la fine. Nuovi gridi accolsero il settantacinque che è il numero di Pulcinella e il settantasette che è quello del diavolo; ma un lungo, lunghissimo applauso salutò il novanta, l'ultimo numero, anzitutto perché era l'ultimo, poi perché il novanta è un numero estremamente simpatico: novanta fa la paura: ovanta fa il mare: ovanta fa il popolo: insieme ha altri cinque o sei significati, tutti popolari. Tutti applaudivano, nel cortile, uomini, donne, fanciulli, al gran novanta, che è l'omega del lotto. Poi, subito, come per incanto, un silenzio profondo si fece: una immobilità arrestò tutti quei corpi, tutte quelle facce, - la gran gente convulsa parve pietrificata nei sentimenti, nella parola, negli atti, nella espressione. Il primo usciere, quello che aveva dichiarato i novanta numeri, accostò alla balaustra una tabella di legno, lunga e stretta, a cinque caselle vuote, simile a quella dei bookmakers sui campi delle corse, mentre l'altro usciere dava gli ultimi giri all'urna riempita di tutti i novanta numeri. La tabella era voltata verso il popolo. Poi il consigliere scosse un campanello: il giro dell'urna si arrestò: il terzo usciere mise una benda sugli occhi del bimbo biancovestito; costui lestamente immerse la manina nell'urna aperta e cercò un momento, un momento solo, cavando subito una pallina col numero. Mentre questa pallina passava di mano in mano, giù, da quei petti pietrificati, da quelle bocche pietrificate, uscì un sospiro cupo, tetro, angoscioso. - Dieci, gridò l'usciere, dichiarando il numero estratto e mettendolo subito nella prima casella. Mormorio e agitazione fra il popolo: tutti coloro che avevano sperato nel primo estratto erano delusi. Nuova scossa di campanello: il bimbo immerse, per la seconda volta, la manina delicata nell'urna. - Due, gridò l'usciere, dichiarando il numero estratto e mettendolo nella seconda casella. Al crescente mormorio qualche bestemmia soffocata si aggiunse: tutti quelli che avevano giuocato il secondo estratto erano delusi: tutti quelli che avevano sperato di prendere quattro numeri erano delusi: tutti quelli che avevano giuocato un grosso temo secco cominciavano a temere fortemente la delusione. Tanto che, quando per la terza volta la manina del fanciulletto penetrò nell'urna, qualcuno gridò, angosciosamente: - Cerca bene, scegli bene, bambino! - Ottantaquattro, gridò l'usciere, dichiarando il numero e collocandolo nella terza casella. Qui scoppiò il grande urlo d'indignazione, fatto di bestemmie, di lamenti, di esclamazioni colleriche e dolorose. Questo terzo numero, cattivo, era decisivo, era decisivo per l'estrazione e per i giuocatori. Con l'ottantaquattro erano delusi già tutti quelli che avevano giuocato il primo, il secondo e il terzo estratto; erano delusi tutti quelli che avevano giuocato la quintina, la quaterna, il terno, il terno secco, speranza e amore del popolo napoletano, speranza e desiderio di tutti i giuocatori, da quelli accaniti a quelli che giuocano una volta sola, per caso: il terno che è la parola fondamentale di tutti quei desiderii, di tutti quei bisogni, di tutte quelle necessità, di tutte quelle miserie. Un coro di maledizioni si levava, di giù, contro la mala fortuna, contro la mala sorte, contro il Lotto e contro chi ci crede, contro il governo, contro quello sciagurato ragazzo che aveva la mano così disgraziata. Serragliuolo, serragliuolo! ridavano da basso, per insultarlo, mostrandogli il pugno. Dal terzo al quarto numero passarono due o tre minuti; ogni settimana accadeva così: il terzo numero era l'espressione paurosa della infinita delusione popolare. - Settantacinque, dichiarò con voce più fiacca l'usciere, mettendo il numero estratto nella quarta casella. Tra le voci irose che non si calmavano, qualche fischio risuonò, vendicativo. Le ingiurie piovevano sul capo del bimbo; ma le maggiori imprecazioni erano contro il Lotto dove non si può vincere mai, mai, dove tutto è combinato perché non si vinca mai, mai, specialmente per la povera gente. - Quarantatrè, - finì di proclamare l'usciere, collocando il quinto ed ultimo numero. E un ultimo soffio di collera, fra il popolo: niente altro. In un momento, dal terrazzino scomparve tutta la fredda macchina del lotto: sparvero i due bimbi, le tre autorità, l'urna con gli ottantacinque numeri e il suo piedistallo, sparvero tavolini, seggioloni, uscieri, si chiusero i cristalli e le imposte del grande balcone, in un momento. Sola, ritta, accosto alla balaustra, rimase la crudele tabella, coi suoi cinque numeri, quelli, quelli, la grande fatalità, la grande delusione. Con molta lentezza, a malincuore, la folla si diradava nel cortile. Sui più esaltati dalla passione del giuoco aveva soffiato il vento della desolazione e li aveva abbattuti, come se avessero le braccia e le gambe spezzate, la bocca amara di bile: quelli che avevano giuocato tutt'i loro denari, quella mattina, non sentendo più il bisogno di mangiare, di bere, di fumare, nutrendosi vividamente delle visioni di cuccagna nella fantasia, sognando per quella sera di sabato e per la domenica e per tutti i giorni successivi, tutta una spanciata di pranzi grassi e ricchi, divorati in immaginazione, tenevano mollemente le mani nelle tasche vuote, e negli occhi desolati si dipingeva il fisico, l'infantile dolore di chi sente i primi crampi della fame e non ha, sa di non poter avere il pane per chetare lo stomaco: altri, i più folli, caduti dall'altezza delle loro speranze in un momento, provavano quel lungo minuto di pazzia angosciosa, quando non si vuol credere, no, non si può credere alla sventura e gli occhi hanno quello sguardo smarrito che non vede più la forma delle cose e le labbra balbettano parole incoerenti - ed erano questi folli disperati che ancora figgevano gli occhi sulla tabella dei cinque numeri, come se non potessero ancora convincersi della verità, e macchinalmente confrontavano i cinque numeri, con la lunga lista bianca delle loro bollette da giuoco: - e i cabalisti, infine, non se ne andavano ancora, discutendo fra loro come tanti filosofi, come tanti loici, sempre concentrati nell'alta matematica del lotto, dove vivono le figure, e e cadenze, e triple, a ragione algebrica del quadrato maltese le immortali elucubrazioni di Rutilio Benincasa . Ma in quelli che se ne andavano, come in quelli che restavano lì, inchiodati dalla loro passione, in quelli che discutevano furiosamente, come in quelli che abbassavano la testa, smorti, perduti di coraggio, senza più forza di agire e di pensare, variava la forma della desolazione, ma la sostanza della desolazione era la stessa, profonda, intensa, faciente sanguinare le più intime fibre, intesa a distruggere le stesse sorgenti dell'esistenza. Il lustrino Michele, lo sciancato, sempre seduto per terra, con la sua cassetta nera fra le gambe contorte, aveva udito l'estrazione senza levarsi, nascosto dietro le persone che si accalcavano. Ora, mentre la folla sfilava pian piano, egli avea chinato il capo sul petto e la gialla tinta del suo volto di vecchio rachitico si era colorata di verde, come se tutta la bile gli fosse salita al cervello. - Niente? - domandò una voce sorda accanto a lui. Egli levò macchinalmente gli occhi bigi dalle palpebre rosse e vide Gaetano, il tagliatore di guanti, che mostrava nel volto scialbo l'accasciamento degli esaltati delusi. - Niente, - disse breve breve il lustrino, riabbassando gli occhi. - E niente pur io. Ci hai cinque o sei soldi, per combinazione, compare? Lunedì te li ridò. - Chi me li dà? Se ne hai dieci, facciamo cinque per ciascuno, - mormorò disperatamente il lustrino. - Addio, compare, - disse, con voce rude, il tagliatore di guanti. - Addio, compare, - rispose, nel medesimo tono, il lustrino sciancato. Ma mentre Gaetano si allontanava, sotto il portone, passò accanto a lui, seria, lenta, con gli occhi abbassati, donna Concetta, dalla catena d'oro che le ondeggiava sul petto e dalle mani inanellate. - Avete guadagnato nulla, Gaetano? - domandò ella, con un lieve sorriso. - Ho preso una saetta che mi colga! - gridò lui, esasperato dal trovarsi accanto l'usuraia, che gli ricordava tutta la sua miseria, esasperato dalla domanda in quel momento. - Va bene, va bene, - ribatté ella, freddamente. - Ci vediamo lunedì, non vi dimenticate. - Non me lo dimentico, no, vi tengo in cuore, come la Madonna, - le gridò appresso, lui, con voce fischiante. Ella crollò il capo, andandosene. Non veniva là per interessi suoi, perché ella non giuocava mai; e neppure per tormentare qualche suo debitore, come Gaetano; veniva per interesse di sua sorella, donna Caterina, la tenitrice di giuoco piccolo, he non osava presentarsi lì, in pubblico. Donna Caterina comunicava a sua sorella i numeri che più temeva, cioè quelli che più erano stati giuocati da lei e per cui avrebbe dovuto pagare più forti somme: se questi numeri temuti uscivano, allora donna Concetta spiccava un ragazzino a sua sorella, la quale era pronta a far fagotto, per non pagare nessuno. Già tre volte aveva fatto fallimento così, col denaro delle giuocate in tasca, donna Caterina: ed era fuggita una volta a Santa Maria di Capua, una volta a Gragnano, una volta a Nocera dei Pagani, restandovi un paio di mesi; ed aveva avuto il coraggio di ritornare, affrontando i giuocatori delusi, con alcuni servendosi dell'audacia, ad altri dando pochi soldi, ricominciando il giuoco, mentre i rubati, i truffati, i delusi, ritornavano a lei, incapaci di denunziarla, ripresi dalla febbre, o tenuti in rispetto da donna Concetta, a cui tutti dovevano del denaro; e la speculazione continuava, il denaro passava da una sorella all'altra, dalla tenitrice di banco che sapeva fallire a tempo, alla strozzina che osava affrontare i più malintenzionati fra i suoi debitori. Né questa fuga era considerata come un delitto, come un furto, da donna Caterina e dalla sua clientela; forse che, più in grande, non fa così anche il governo, che ha assegnato una dote di sei milioni per ogni estrazione e per ogni ruota elle otto, e quando, per una rarissima combinazione, le vincite sorpassano i sei milioni, non fallisce anche il governo, diminuendo l'entità delle vincite? Oh, ma quel giorno non vi era bisogno, per donna Caterina, di fallire, di fuggire; i numeri estratti erano così cattivi, che non aveva vinto nessuno dei suoi giuocatori, forse; e donna Concetta se ne risaliva pian piano, per via Santa Chiara, senz'affrettarsi, sapendo che quello era un sabato desolante per tutta Napoli che giuoca, e preparandosi alle sue battaglie di usuraia, del lunedì. Le passavano accanto, tutte quelle creature infelici, dalle speranze infrante: ed ella crollava il capo, saggiamente, su quelle aberrazioni umane, stringendo i lembi dello scialle di crespo nero, fra le mani inanellate. Una donna che veniva in giù, rapidamente, tirandosi dietro una bimba e un bimbo, portando una creaturina da latte sulle braccia, la sfiorò, la oltrepassò, entrò nel cortile dell'Impresa, dove ancora qualche persona si tratteneva. Era una donna poverissimamente vestita, con una veste di percalla così sfrangiata e fangosa, che faceva pietà e disgusto; con un lembo sfilacciato di scialletto di lana, al collo; e nella faccia così scarna, così consunta, coi denti così neri e coi capelli così radi, che i suoi figli, i suoi tre figli, non laceri, non sporchi, e bellini, pareva non le appartenessero. Il lattante, un po' gracile solamente, le abbassava il capo sulla spalla, per dormire: ma la poveretta era così agitata, che non gli badava più. E vedendo Carmela, sua sorella, seduta sempre sull'alto macigno, con le mani abbandonate in grembo, la testa abbassata sul petto, sola sola, come immobilizzata in un dolore senza parola, le andò vicino: - Oh, Carmela! - Buon giorno, Annarella, - disse Carmela, trasalendo, abbozzando un pallidissimo sorriso. - Stai qua anche tu? - chiese, con una intonazione di sorpresa dolorosa. - Eh… già, - rispose Carmela, con un cenno di rassegnazione. - Hai visto Gaetano, mio marito? - domandò ansiosamente Annarella, facendo scivolare dalla spalla sul braccio la testolina del suo lattante, perché potesse addormentarsi più comodamente. Carmela levò i suoi grandi occhi sul volto della povera sorella, ma la vide così disfatta, così brutta di miseria e di privazioni, così già vecchia, così sacra di già alla malattia e alla morte, così disperata in quella domanda, che non osò dirle la verità. Sì, aveva visto Gaetano, il tagliatore di guanti, suo cognato, lo aveva visto prima fremente e ansioso, poi pallido e accasciato; ma sua sorella, ma il gracile lattante addormentato, ma i due altri fanciulletti, che si guardavano curiosamente intorno, le facevano troppa pietà. Ella mentì. - Non l'ho visto per niente, - disse, chinando gli occhi. - Ci doveva essere, - mormorò Annarella, con la sua voce rauca e lenta. - Ti assicuro che non vi era affatto. - Non lo avrai visto, - ripetè Annarella, ostinata nella sua dolorosa incredulità. - Come poteva non venire? Qua viene ogni sabato sorella mia. Può essere che a casa sua, con queste sue creature, non ci sia; può essere che alla fabbrica dei guanti, dove si può guadagnare il pane, non vi sia; ma non può essere, che non sia qui il sabato, a sentire che numeri escono; qui sta la sua passione e la sua morte, sorella mia. - Gioca assai, non è vero? - disse Carmela, che si era fatta pallidissima e aveva le lagrime negli occhi. - Tutto quello che può e anche quello che non può. Potremmo vivere alla meglio, senza cercare nulla a nessuno; ma invece, per questa bonafficiata, iamo pieni di debiti e di mortificazioni, e mangiamo, ogni tanto, così, quando porto io un pezzo di pane a casa. Ah, queste creature, queste creature, queste povere creature! E la voce era così maternamente straziata, che Carmela lasciava scendere le sue lagrime lungo le guance, vinta da uno infinito struggimento di pietà. Adesso erano quasi sole, nel cortile. - E tu, perché ci vieni, a sentire questa bonafficiata? domandò a un tratto Annarella, presa da una collera contro tutti quelli che giuocavano. - Eh, che ci vuoi fare, sorella mia? - disse l'altra, con la sua armoniosa voce infranta; - che ci vuoi fare? Tu lo sai che vorrei vedervi tutti contenti, mamma nostra, te, Gaetano, le creature tue e Raffaele, l'innamorato mio e…un'altra persona; tu lo sai che la vostra croce è la mia croce, e che non ho un'ora di pace, pensando a quello che soffrite. Così, tutto quello che mi resta, di quello che guadagno, lo giuoco. Un giorno o l'altro, il Signore mi deve benedire, debbo prendere un terno…allora, allora, vi dò tutto a voi, tutto vi dò. - Oh, povera sorella mia! povera sorella! - disse Annarella, presa da una malinconica tenerezza. - Deve venire quel giorno, deve venire… - susurrò l'appassionata, come se parlasse a sé stessa, come se già vedesse quella giornata di benessere. - Possa passare un angiolo e dire amen mormorò Annarella, baciando la fronte del suo lattante. - Ma dove sarà Gaetano? - riprese, vinta dalla sua cura. - Di' la verità, Annarella, - chiese Carmela, scendendo dal macigno e avviandosi per andarsene, - non hai niente da dare, ai bambini, oggi? - Niente, - disse con quella voce fioca. - Prendi questa mezza lira, prendi, - disse l'altra, cavandola dalla tasca e dandogliela. - Iddio te lo renda, sorella mia. E si guardarono, con tanta mutua pietà che, solo per vergogna di chi passava nel vicolo dell'Impresa, non scoppiarono in singhiozzi. - Addio, Annarella. - Addio, Carmela. La fanciulla appassionata depose un lieve bacio sulla fronte del bimbo dormiente. Annarella, col suo passo molle di donna che ha fatto troppi figli e che ha troppo lavorato, se ne andò per il chiostro di Santa Chiara, tirandosi dietro gli altri due figlietti, il bimbo e la bimba. Carmela, stringendosi nel gramo e scolorito scialletto nero, trascinando le scarpe scalcagnate, scese verso il larghetto dei Banchi Nuovi. Fu là soltanto che un giovanotto pulitamente vestito, coi calzoni stretti al ginocchio e larghi come campane sul collo del piede, con la giacchetta attillata, e il cappelletto sull'orecchio, la fermò, guardandola coi suoi freddi occhi di un azzurro chiaro e stringendo sotto i piccoli baffi biondi le labbra vivide, come quelle di una fanciulla. Fermandosi, prima di parlargli, Carmela guardò il giovanotto, con tale intensità di passione e di tenerezza che parve lo volesse avvolgere in una atmosfera di amore. Egli non sembrò addarsene. - Ebbene? - chiese egli, con una vocetta fischiante, ironica. - Niente! - disse lei, aprendo le braccia con un gesto di desolazione; e per non piangere, teneva la testa china, si guardava la punta degli stivaletti che avevano perduto la vernice e mostravano, dalle scuciture, la fodera già sporca. - E che ti pare! - esclamò il giovanotto, irosamente. - La femmina sempre femmina è. - Che colpa ci ho io, se i numeri non sono usciti? - disse umilmente, dolorosamente la fanciulla appassionata. - Dovresti cercarli, i buoni; andare dal padre Illuminato che li sa, e li dice solo alle donne; andare da don Pasqualino, quello che lo assistono gli spiriti uoni, e saperli, i numeri. Figliuola mia, levatelo della testa che io possa sposare una straccioncella come te… - Lo so, lo so…- mormorò quella umilmente. - Non me lo dire più. - Pare che te lo dimentichi. Senza denari non si cantano messe. Salutiamo! - Non vieni stasera, dalla parte di casa mia? - osò chiedere, ella. - Ho da fare; debbo andare con un amico. A proposito, me le presti un paio di lire? - Ne ho una sola, una sola…- esclamò lei, tutta rossa, mortificata, cavando la lira timidamente dalla tasca. - Possa morire uccisa la miseria! - bestemmiò lui, masticando il suo mozzicone di sigaro napoletano. à qua. Cercherò di accomodare alla meglio le cose mie. - Non ci passi, per casa? - pregò lei con gli occhi, con la voce. - Se ci passo, passerò assai tardi. - Non importa, non importa, ti aspetto al balconcino, - disse lei, crollando il capo, ostinata, in quella umiliazione della sua anima e della sua persona. - E non mi posso fermare… - Ebbene, fischia; fa un fischio, io ti sento e mi addormento più quieta, Raffaele. Che ti fa, passando, di fischiare? - E va bene, - annuì lui, con indulgenza, - va bene. Addio, Carmela. - Addio, Raffaele. Si fermò a vederlo andar via, rapidamente, dalla parte della via Madonna dell'Aiuto; le scarpette verniciate scricchiolavano, il giovanotto camminava con quel passo di fierezza che è speciale ai popolani guappi. La Madonna lo possa benedire, per quanti passi dà, - mormorò la fanciulla, fra sé, teneramente, andandosene. Ma, camminando, si sentiva fiacca e scorata; tutte le amarezze di quella perfida giornata, le amarezze che ella soffriva per amore degli altri, le amarezze di sua madre che faceva la serva a sessant'anni, di sua sorella che non aveva pane per i suoi figli, di suo cognato che si faceva trascinare alla rovina, del suo fidanzato che avrebbe voluto veder felice e ricco come un signore e a cui mancava sempre la lira in tasca, tutte queste amarezze e altre, più profonde ancora, e la più grande, la più profonda ancora, la più desolante fra le amarezze, quella della propria impotenza, tutte le si versavano dall'anima nel sangue, le salivano alle labbra, agli occhi, al cervello. Oh non bastava che ella lavorasse, in quel nauseante mestiere, alla Fabbrica dei tabacchi, per sette giorni alla settimana: non bastava che non avesse né un vestito decente, né un paio di scarpe non rotte, tanto che alla Fabbrica non la vedevano bene; non bastava che ella digiunasse, quattro volte su sette, nella settimana, per dare la lira a sua madre, le due lire a Raffaele, la mezza lira a sua sorella Annarella e tutto il resto, quando ce n'era, al giuoco del lotto; era inutile, inutile, non avrebbe mai fatto niente, per quelli che amava; non valevano né la fatica, né la miseria, né la fame; nulla serviva a nulla. E mentre scendeva per i gradini di San Giovanni Maggiore, a Mezzocannone, approssimandosi alla sua più dolorosa tappa, ella si sarebbe uccisa, tanto si sentiva misera, impotente, inutile. Pure, andava: e fu in un larghetto remoto dei Mercanti, un larghetto che sembrava una corticella di servizio, che si fermò, appoggiandosi al muro come se non potesse andare più avanti. Il larghetto era sporco di acque sudicie, di cortecce di frutta, di un cappellaccio feminile, sfondato, buttato in un cantuccio; e delle finestre di un primo piano, tre avevano le gelosie verdi socchiuse, lascianti passare solo uno spiraglio di luce: piccole finestre meschine e gelosie stinte, su cui la polvere, l'acqua e il sole avevano lasciato le loro impronte; portoncino piccolo, dal gradino sbocconcellato e umido, dall'androne stretto e nero come un budello. Carmela vi guardava dentro, con gli occhi spalancati da un sentimento di curiosità e di paura. Una donna piuttosto vecchia, una serva, ne uscì, sollevando la gonna per non insudiciarsi nel rigagnolo. Carmela, certo, la conosceva, perché le si rivolse francamente: - Donna Rosa, volete chiamare Maddalena? Quella la squadrò, per riconoscerla: poi, senza rientrare in casa, dal larghetto chiamò, verso le finestre del primo piano: - Maddalena, Maddalena! - Chi è? - rispose una voce roca, dall'interno. - Tua sorella ti vuole; scendi. - Ora vengo - disse la voce, più piano. - Grazie, donna Rosa, - mormorò Carmela. - Poco a servirvi, - rispose l'altra, brevemente, allontanandosi. Maddalena si fece aspettare due o tre minuti; poi un rumore cadenzato di tacchi di legno si udì per l'androne ed ella comparve. Portava una gonnella di mussola bianca, con un'alta balza di ricamo anche bianco: un giubbetto di lana color crema, molto attillato, con nodi di nastro, di velluto nero, alle maniche, alla cintura, sui fianchi: e uno sciallino di ciniglia color di rosa, al collo, - la gonna lasciava vedere gli scarponcini di pelle lucida, dai tacchi molto alti, e le calzette di seta rossa. Ella rassomigliava, nel volto, tanto ad Annarella quanto a Carmela; ma i capelli bruni, rialzati, pettinati bene, fermati da forcelle bionde di scaglia, ma le guancie un po' smorte, coperte di rossetto, facevano dimenticare ogni rassomiglianza con Annarella e la rendevano assai più seducente di Carmela. Le due sorelle non si baciarono, non si toccarono la mano, ma si scambiarono uno sguardo così intenso che valse per ogni parola e per ogni cenno. - Come stai? - disse con voce tremula Carmela. - Sto bene, - fece Maddalena, crollando il capo, come se non fosse la salute quella che importasse. - E mamma come sta? - Come una vecchiarella… - Povera mamma, poveretta!… Annarella, come sta? - Oh quella sta piena di guai… - Miseria, eh? - Miseria. Sospirarono ambedue, profondamente. Quando si guardavano, era un rossore e un pallore che tramutava loro il viso. - Anche oggi, mala nova ti porto, Maddalena, - disse finalmente Carmela. - Niente, eh? - Niente. - È cattiva sorte la mia, - mormorò Maddalena, a bassa voce. - Ho fatto tanti voti alla Madonna, non già all'Immacolata, che non sono degna neppure di nominarla, ma all'Addolorata che capisce e compatisce la mia disgrazia… ma niente, niente ci ha potuto!… - La Madonna Addolorata ci farà questa grazia, - disse piano, Carmela, - speriamo quest'altro sabato. - Così speriamo, - rispose l'altra, umilmente. - Addio, Maddalena. - Addio, Carmela. Maddalena voltò le spalle e col suo passo, cui facevano da ritmo i tacchetti di legno, scomparve nell'androne: allora solo Carmela fece per slanciarsele dietro per richiamarla; ma quella era già in casa. La fanciulla se ne andò, correndo, stringendosi convulsamente nello scialle, mordendosi le labbra per non singhiozzare. Oh tutte le altre amarezze, tutte, anche quel sabato senza pane, non erano niente di fronte a quella che si lasciava dietro, ma che veniva anche con sé, eterna avvelenatrice, vergogna eterna del suo cuore. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Alle cinque e mezzo il cortile dell'Impresa era perfettamente vuoto e silenzioso; non vi entrava più nessuno, neanche per guardare quella solitaria tabella dei cinque numeri estratti; i cinque numeri erano già stati affissi a tutti i botteghini di lotto di Napoli e innanzi a ognuno, per tutta la città, vi era un gruppo di gente ferma. Niuno entrava più nel cortile dell'Impresa; la folla sarebbe ritornata solo fra sette giorni. Allora uno scalpiccìo si fece udire. Era un usciere del Lotto, che si menava per mano i due bambini dell'Albergo dei Poveri; quello che aveva estratto i numeri e quello che li doveva estrarre il sabato venturo; l'usciere li riportava all'Ospizio, dove avrebbe consegnato le venti lire di pagamento settimanale che fa il Regio Lotto al bimbo che estrae i numeri. I due fanciulletti sgambettavano dietro all'usciere, cinguettando allegramente; la cucitrice di bianco, che lavorava alla sua macchina, levò il capo e sorrise loro. Poi ricominciò a battere col piede sul pedale e a condurre il pezzo di tela, diritto, sotto l'ago; seguitò quietamente, instancabilmente, figura umile e pura del lavoro.

IL VENTRE DI NAPOLI (VENTI ANNI FA - ADESSO - L'ANIMA DI NAPOLI)

682522
Serao, Matilde 1 occorrenze
  • 1906
  • FRANCESCO PERRELLA EDITORE
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Alcune altre, quattro o cinque sono come quelle a sinistra, appena cominciate, abbandonate da anni, ottuse, traverse cieche, ove, in fondo, ma non molto in fondo, sorge lo stesso spettacolo, sempre, di case antichissime, mezze dirute, mezze cadenti, nerastre, verdastre, grigiastre. Dopo, non vi è più nulla. Cioè, vi sono dei vicoletti che precipitano per mezzo di dislivelli paurosi, di scalette ripide, difese da rozze ringhiere, in tutto ciò che sta dietro il Rettifilo , vicoletti sinuosi, vicoletti neri, angoli dove due o tre vicoli s'intersecano dirupandosi, tutto un disegno bislacco e grottesco, accanto, sì, accanto, alle altitudini superbe dei nuovi palazzi. E voi, verso la fine del Rettifilo, vedendo fuggire gli ultimi lembi mirabili della vostra illusione, voi vi domandate se non siate vittima di un'allucinazione, se una parte di quel che vedete non sia falso, poichè troppo forte è il contrasto, poichè non può essere tutto vero, a pochi metri di distanza, il decente e l'indecente, il pulito e lo sporco, la pompa e l'inguaribil miseria, il lusso e la povertà più abbietta. Che cosa è falso, che cosa è vero? Sono, forse il portato di un incubo tutte quelle masse di abitazioni luride, fetide, cascanti, ove pare che si moltiplichino la tristizie e la tristezza, il morbo e il disonore, il delitto e la morte? Sono forse gli spettacoli che vi fecero inorridire, come uomini e come cristiani, venti anni prima, sono questi spettacoli che si rinnovano, falsamente nella memoria, nella fantasia, così, come nei momenti di nostra malinconia spirituale e di nostra debolezza fisica? O, forse è falsa l'altra parte, cioè la parvenza moderna del Rettifilo e i suoi palazzi che vorrebbero essere splendidi, ma che sono almeno, nuovi, netti, solidi, grandi, appartengono al sogno? Non sono forse, un lungo scenario di tela, su cui un abile scenografo abbia dipinto a grandi tratti, una serie di edifici maestosi, e intanto, non si sa come, non si sa perchè, la tela ha delle grandi soluzioni di continuità e lascia vedere l'oscurità, il luridume delle quinte, ove tutto è rancido, è puzzolente, è nauseante? O, forse, non sono di carta pesta, di legno dipinto, queste case, come quelle che estrae, lentamente, da una scatola, la mano di un bimbo e le dispone sovra un piano, ad angoli retti? Non è, forse, a destra, a sinistra del Rettifilo, lo svolgersi di un bizzarro paravento, i cui pezzi non sono bene congiunti, anzi sono disgiunti, e il paravento non giunge a nascondere, quel che non si deve vedere? E passino i vostri occhi ricercatori dalle cose alle persone del Rettifilo, vi passino, per conoscer più presto e meglio il motto dell'enigma. La possente arteria napoletana rifluisce, in ogni ora, di sangue vivido: una folla attraversa costantemente il Rettifilo, a piedi, in carrozza, in trams , specialmente sino a piazza Depretis, andando e venendo dai due rami di via Duomo. Folla di ogni qualità e, talvolta, anche, folla di persone distinte, bene vestite, gli uomini con la catena di oro sul panciotto, le donne con i ciondoli sospesi sul petto. Tutto questo mondo va, viene, ritorna, si allontana, mondo svariato, multiforme, multanime. Se voi siete abituato a discernere i volti e le espressioni, fra la folla, se avete l'ardente e dolente segreto dell'intuizione, voi scorgerete, lungo il Rettifilo, persone e faccie che vi daranno un fremito di sorpresa e, forse, di sgomento. Sugli angoli di quelle viuzze, presso quelle ringhiere, su quel limitare fatidico fra il vecchio e il nuovo, e, persino, nelle poche vie principali e non finite, stazionano sempre degli uomini, sul cui viso la delinquenza è impressa e la cui espressione non mente; stazionano mendicanti dei due sessi e di tutte le età, ma di una mendicità sfrontata e ributtante, e stazionano anche, meno di mattina, molto più nel pomeriggio, moltissimo di sera, le sventurate e sciagurate femmine del popolo, che esercitano il più compassionevole e più atroce fra i mestieri. Così, sull'orlo della superba via, sui due suoi lati, fiancheggiandola, il vizio e la miseria, il delitto mettono la loro popolazione. La gente che passa, è molta, non guarda bene, non bada: ma due, tre volte al giorno, un ladro si slancia sovra al galantuomo , sovra la signora, in pieno giorno, in pieno Rettifilo, fra mille persone, e gli strappa l'orologio, le strappa gli orecchini, il derubato grida, il ladro infila la viottola, si gitta per un angiporto, è sparito, la folla strepita, non vi sono guardie, i mendicanti gridano e una di quelle donne del vizio, dà una falsa indicazione, perchè è, forse, un'amante, un'amica, una sorella del ladro, sempre una complice. Sia a piedi, sia in carrozza, la vittima, il ladro finisce sempre per fare il suo colpo, senza farsi arrestare, liquefacendosi come una nuvola, dietro una di quelle stradette: e alcune, anzi, di quelle vie, hanno la loro fatal rinomanza, come quella a principio del Rettifilo, la via di santa Candida. Dopo le nove di sera, il tratto del Rettifilo da piazza Depretis alla Ferrovia, è poco percorso da gente: e malgrado le grosse lampade elettriche, quel tratto è uno dei più pericolosi della città, e i medesimi cocchieri da nolo, affrettano il passo zoppicante del loro povero cavallo, andando alla stazione o tornandone, poichè sanno che il loro passaggiero può avere, forse e senza forse, un'aggressione. In quell'ora non si aggirano, colà, che ladruncoli, camorristi, pregiudicati e donne di mala vita. Nella magnifica strada: nella strada della salute e della redenzione del popolo napoletano! Ahi, che essa è semplicemente un paravento, ma leggiero, fragile e grossolano paravento, un paravento che non nasconde neppure, a chi vuol saper tutto, tutto ciò che vi è dietro, di pietoso e di orribile! E un'altra volta io vi dirò quel che vidi, lì dietro, con una triste e lunga curiosità, con un coraggio disperato e, con l'angoscia più opprimente, del mio umile ma fedele cuore di napoletana!