Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNICT

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Il ponte della felicità

219165
Neppi Fanello 3 occorrenze
  • 1950
  • Salani Editore
  • Firenze
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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Alvise continuò: - Dio mi mandò un amico a conforto della mia solitudine in quella terra abbandonata. Lo conoscerai anche tu, il mio caro Agnolo, e sono sicuro che lo amerai come lo amo io. - Certo, Alvise. - E poi, Lori, avevo il tuo leone di san Marco. Mi ha portato sempre fortuna, e nei momenti di maggior pericolo mi ha infuso forza e coraggio. - Poi a bassa voce, con grande dolcezza: - Mi pareva di averti vicina e che tu m'incitassi a proseguire. - Sei stato bravo, Alvise! - Ma tu, Lori, sei stata più brava di me. Chi avrebbe mai pensato di ritrovarti, ammirata da tutti, nella tua vecchia casa? Il babbo ed io eravamo andati a cercarti in quell'orribile stamberga. - E l'avete trovata vuota! - disse Loredana ridendo per vincere la commozione che la dominava. Nonna Bettina mi ha detto quante delicate cure le hai prodigate. Te ne sono veramente grato, Lori! - Non ho fatto che il mio dovere. Non me l'avevi forse affidata, Alvise? Ho mantenuto la mia promessa come tu hai mantenuto la tua. Un brillante avvenire ti attende, ora, Alvise. - Tutta bontà di Sebastiano Veniero che mi ha compensato più del mio merito. - Ma anch'io devo eterna gratitudine al nostro ammiraglio, perchè è stato lui che ci ha consigliato di rivolgerci al medico che ha reso la vista alla mamma! - soggiunse Loredana, mentre il suo sguardo si volgeva ai genitori beatamente seduti, insieme con nonna Bettina, vicino alla casa; poi aveva aggiunto con voce scherzosa: E ora, Alvise, tornerai a gettare l'antica asse sul rio per venire a trovarmi? - Mai più, Lori mia! Con una parte del tesoro dei corsari farò costruire un bel ponte di marmo candido e lo chiamerò il Ponte della Felicità. - Si guardarono a lungo negli occhi, e il loro sguardo era ilare e amorevole. In quegli istanti compresero che la loro antica tenerezza fraterna si era mutata nel sentimento più forte e più profondo che si chiama Amore. Fine

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. - Loredana baciò teneramente la mano di Lucrezia, abbandonata sulle coltri come un bianco fiore, e andò a raggiungere Alvise che nel frattempo aveva ricoperto il quadro con un panno. Afferrarono la cornice, uno da un lato, uno dall'altro, e s'incamminarono verso le fabbriche vecchie di Rialto. In una stretta calle teneva bottega un certo messer Antonio Foscarin, rivenditore di oggetti artistici: un bel vecchio, già molto avanti negli anni, con una fluente barba candida che lo faceva somigliare a un profeta biblico. Egli era conosciuto in tutto l'estuario per la bontà del suo cuore e per la generosità con la quale sovveniva ai bisogni di quanti ricorrevano a lui. Loredana e Alvise lo trovarono seduto nel suo fondaco buio e polveroso, intento a lucidare un'artistica lucerna in ottone di evidente provenienza. araba. - Buon giorno, ragazzi! - egli esclamò con la sua voce un po' tremolante di vegliardo. Si alzò e aiutò Alvise a togliere il quadro dal panno. - Vediamo che cosa mi avete portato di nuovo, - soggiunse poi, avvicinandosi alla porta per poter meglio osservare il dipinto. Era veramente bello, e in tempi normali non gli sarebbe stato difficile venderlo a qualche famiglia patrizia. Ma ora, dopo il disastro dell'arsenale e dopo i prestiti fatti alla Repubblica, nessuno spendeva più denaro in cose non strettamente necessarie. Il quadro era dunque destinato a rimanere nel fondaco insieme con qualche altro ch'egli aveva già comperato da Loredana. Il vecchio mercante sospirò. Le sue risorse, purtroppo, non erano illimitate; ma poteva rimandare quella graziosa bambina che con tanto coraggio assisteva la mamma inferma? Egli avrebbe continuato ad aiutarla; Dio, poi, aiuterebbe anche lui a tirare avanti. - Va bene, piccola Sagredo, lo acquisto molto volentieri il Corteo di San Marco. - Diede a Loredana una bella somma e soggiunse, mentre le accarezzava le trecce lucenti: - Brava piccina; cura bene la tua mamma e il Signore ti benedirà! - Usciti dal fondaco, i due ragazzi fecero un giro piuttosto lungo perchè dovevano andare in fondo alla calle dei Fabbri dove si trovava uno speziale che si diceva vendesse farmachi miracolosi per tutti i mali. E Loredana desiderava che la sua mamma guarisse. Camminavano, contenti di respirare l'aria pura del mattino e il fresco odore salso che veniva dal largo. La vita a Venezia aveva ripreso il suo ritmo tranquillamente laborioso, e solo qua e là si scorgevano ancora le rovine dell'esplosione. Buon numero di manovali, infarinati come pagliacci, lavoravano alla rimozione delle macerie annerite dal fumo degli incendi. Si capiva, data l'alacrità degli operai, che presto quel triste spettacolo non sarebbe stato più che un ricordo e che altri edifici, ben più sontuosi, avrebbero preso il posto di quelli rovinati. Attraversarono piazza San Marco, meravigliosa per marmi, ori e sole, mentre dall'alto della torre dell'orologio i «Mori» battevano le nove. Piegarono a destra, di fianco al grandioso campanile sulla cuspide del quale volteggiavano i gabbiani, e si diressero verso il molo. Lo spettacolo che si offrì ai loro sguardi riempì di gioia Alvise. Il vasto bacino di San Marco brulicava d'imbarcazioni. Navi da guerra e navi mercantili si apprestavano a salpare verso i mari lontani: le une per consolidare e difendere la potenza, marinara della Repubblica, le altre per fare acquisto di stoffe preziose e dei ricercatissimi aromi e spezie dell'Oriente. Chiatte di ogni grandezza e «bissone» variopinte trasportavano sul casserò delle navi acqua, viveri e munizioni. Di quando in quando un'elegante e sottile gondola scivolava leggera fra tutto quel brulicare di navi, portando a bordo qualche ricco mercante o qualche marinaro della Serenissima. Alvise non si. sarebbe mai stancato di osservare quanto avveniva lì intorno, ma Loredana gli tirò la manica della giubba. - Andiamo, Alvise, si fa tardi. - Eccomi, eccomi, Lori, - rispose il ragazzo incamminandosi a malincuore a fianco della fanciulla. Ma passato il ponte sul Canal Grande e giunti in campo San Trovaso, un altro spettacolo, che piacque anche a Loredana, fermò di nuovo i loro passi. Si trattava di un vecchio sonatore girovago intento a far ballare, al suono di un piffero, una scimmietta infagottata in un giubbettino vermiglio. Ed erano così leziose le contorsioni della bestiola che nessuno poteva trattenere il riso. Di fianco al sonatore stava accucciato un cane lupo, ispido e feroce come solo i cani lupo sanno essere. Finito il suo buffonesco saltellare, la scimmietta corse ad arrampicarsi sulle spalle del sonatore, il quale le offrì in premio una nocciolina che il piccolo quadrumane si affrettò a sgranocchiare. Subito dopo il cane lupo, afferrato con i denti il sudicio casco del vecchio e tenendolo a mo' di borsa, fece il giro degli astanti camminando sulle zampe posteriori. Loredana e Alvise, che non avevano mai visto una cosa simile, rimasero lì a guardare, a occhi spalancati, anche quando gli altri spettatori se ne furono andati, la maggior parte senza neppur lasciare una monetina in compenso. ....la scimmietta corse ad arrampicarsi.... Piano piano, attirati dal fascino che esercitavano su di loro l'esotica bestiola e il suo rustico padrone, i due ragazzi si erano avvicinati, incuranti del sordo brontolio del cane che evidentemente aveva assaggiato più di una volta la cattiveria umana e non si fidava più di nessuno. Loredana tolse dalla sua borsetta una bella moneta d'argento e la porse al senatore girovago; poi accarezzò il cane, ormai suo amico. Il vecchio, commosso, fece di nuovo ballare la scimmietta per l'esclusivo godimento dei due ragazzi, i quali avrebbero desiderato che quel balletto non avesse mai fine; quindi se ne andò, dopo essersi rimesso il casco in testa e il piffero sotto il braccio. Alvise e Loredana si accòrsero solo allora che il tempo era volato e che il sole era molto alto nel cielo. Messe, dunque, come si suol dire, le gambe in spalla, si diressero verso. casa con il fermo proposito di non lasciarsi sedurre da altri spettacoli. Vi giunsero tutti ansanti e in orgasmo, pronti a subire una buona ramanzina. Ma il grande cuore di nonna Bettina li aveva già scusati, sicchè i due ragazzi furono ben lieti di sentirsi accolti con la consueta, amorevole condiscendenza. - La mamma è stata tranquilla, e dorme ancora. - Grazie, nonna Bettina. - Quando si desterà, le darai la medicina che hai comprato. E ora addio, Lori. - Uscita la nonna., Loredana si sedette ai piedi del letto di Lucrezia, sopra uno sgabello. Era stanca della lunga camminata e della corsa fatta. Un leggero incarnato le coloriva le guance, e i capelli arruffati le folleggiavano intorno al visino assorto. Pensava ancora alla scimmietta danzatrice e al cane lupo che sembrava tanto feroce e che invece si era dimostrato mite come un agnellino. Quando la mamma fosse guarita, la condurrebbe a vedere lo spettacolo grazioso, e allora si divertirebbero insieme. Fuori, il venticello di marzo agitava mollemente i rami ingemmati delle acacie, e sulle zolle dell'orto e sul muretto del rio cresceva una tenera erbetta smeraldina. Loredana contemplava la pace sognante del suo orticello nel quale l'ombra violacea degli alberi, il verde delle zolle, le rosse pietre corrose del muricciolo si univano in una squisita armonia. Com'era bello il suo orto! Piccolo e quasi umile, ma tutto suo, racchiudeva per lei i sogni dei rosei tramonti e delle notti incantevoli. Anche gli uccellini, tornati lì a costruire il loro nido, sembravano appartenerle, come l'olezzo delle corolle che si mescolava nell'atmosfera con l'odore della salsedine. Si voltò per tornare a sedersi sullo sgabello ai piedi del letto e vide che la mamma era sveglia, con gli occhi bene aperti e il viso tranquillo. Le si avvicinò rapidamente. - Mamma! - le sussurrò, ansiosa. - Mamma cara! - Al suono di quella voce Lucrezia Sagredo ritrovò il gesto amorevole che da tanto tempo aveva dimenticato. Sollevò la mano scarna e accarezzò la testolina della sua bimba. - Mia piccola Lori! - Una gioia immensa invase il cuore di Loredana. Finalmente la sua mamma la riconosceva! Il triste incantesimo che da oltre due mesi l'aveva tenuta lontana dalla sua piccola era dunque cessato. - Oh, mamma! - singhiozzò Loredana affondando il viso nel guanciale, accosto a quello di Lucrezia. La scarna mano della mamma continuava ad accarezzare le trecce lucide di Lori, quasi volesse calmare quel singhiozzo che solo rompeva il tranquillo silenzio della camera. - Lori, sono stata molto malata, vero? - SI, mamma, molto. - E quanto è durata la mia malattia? - Non so.... - rispose la bambina, che non aveva pensato a tener conto del tempo trascorso. - Aspetta, ora ricordo. Mi venne male alla notizia - della caduta di Famagosta. - Sì, mamma. - Lucrezia Sagredo emise un sospiro profondo che pareva un gemito. - Il dubbio atroce che il babbo non potesse più ritornare mi abbattè. - Oh, mamma! - E Loredana continuò a singhiozzare, con il visino affondato nel guanciale. Ma non c'era desolazione in quel pianto. Loredana aveva ritrovato la sua mamma, che grazie a Dio non era più, come nelle trascorse settimane, una povera creatura smarrita in un mondo di dolore, come un misero uccellino al quale un'immane bufera abbia distrutto il nido e non sappia più dove posarsi per nascondere il capino sotto l'ala. La sua mamma era ritornata dal dolente paese delle ombre, e con lei erano ritornati tutti gl'incanti dell'infanzia. I singhiozzi alleggerivano il cuore di Loredana. - Piccina mia, non pianger più. - Com'era dolce la debole voce della mamma!... A poco a poco il pianto convulso andava calmandosi, cullato dalle parole e dalle carezze materne. Il viso di Loredana risplendeva di tutta la gioia del suo cuore. - Senti, Lori: vuoi accendere per un momentino la lucerna? - La lucerna, mamma? E perchè? - chiese la bimba, meravigliata. - È così profonda la notte e io non riesco a vederti! E ne ho tanto desiderio, piccina mia! - Loredana indietreggiò, piena di spavento. Tutta la gioia di poco prima era svanita: la mamma si smarriva di nuovo nel sentiero delle ombre. - Vuoi accendere, Lori? - ripetè Lucrezia dolcemente. - Ma c'è il sole, mamma! - gridò la bimba. disperata. - Il sole? - ripetè Lucrezia come un'eco. Con grande sforzo cercò di sollevare il capo dal guanciale e di guardare intorno. - Ma.... allora, io sono cieca, Lori! - Due grosse lacrime scesero dagli occhi spenti, rigarono le tempie e si persero nella massa aurea dei capelli. - Lori, vieni qui, vicino a me. Non dobbiamo più rattristarci. Io offro a Dio la mia pena perchè faccia ritornare il babbo. - Compiuto il sublime olocausto, una grande pace distese i lineamenti di Lucrezia Sagredo. Le sue palpebre velarono le pupille senza luce e la sua mano si posò lieve sui riccioli della figliuola stretta a lei. Così le trovò nonna Bettina quando tornò dalla sua vicina di casa.

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La fanciulla, sussultò, e toltasi rapidamente alla sua contemplazione corse a cingere con le braccia il collo della donna abbandonata sulla sedia a braccioli ricoperta di logoro damasco verde. - Sono qui, mamma, sono qui. - Non ti sentivo più, piccola mia! - mormorò la madre, abbracciando a sua volta la fiorente giovinetta che le era corsa vicino. Madre e figlia si somigliavano moltissimo. Avevano entrambe lineamenti fini, il colorito roseo, i capelli fiammanti, il portamento eretto. Ma gli occhi della fanciulla erano fulgidi come stelle, e quelli della madre, opachi e spenti. Loredana pose con gesto carezzevole la bionda testa sulle ginocchia materne e rimase immobile, chiusa nel cerchio dei suoi mesti pensieri. Quattro anni erano ormai trascorsi da quando il babbo era partito per Famagosta condottovi da Marco Antonio Bragadin, e due anni e mezzo da quando la mamma era rimasta cieca in seguito alla sua malattia. Un velo si stendeva ora su quegli occhi, che un tempo avevano sprigionato tanta luce di amore e di dedizione. Loredana non era più la bimba spensierata che si divertiva in mille modi nella quiete del suo orto bagnato dal rio Canal; era ormai una giovinetta alta e snella, con le trecce avvolte intorno al capo come un lucido casco d'oro che la faceva sembrare una regina, benchè fosse vestita con vecchi panni della mamma, scoloriti e logori. Aveva inoltre una tale riservatezza di modi e una grazia così pudica che conquistava chiunque la vedeva. Quanto erano stati duri gli anni passati! Tutti intessuti di rinunzie silenziose e di eroici sacrifici per la giovinetta buona e coraggiosa. Piano piano, tutte le belle opere d'arte accumulate da Lorenzo Sagredo erano state vendute da Loredana, prima per assistere la madre durante la lunga malattia, poi per sovvenire ai loro quotidiani bisogni. Il bisogno le aveva anche costrette ai cedere la loro graziosa casetta nell'assolato campielo, così piena di tenero verde e di pispiglianti voli di uccelli, per rinchiudersi in quella soffitta nuda e gelida come una caverna. Eppure avevano sopportato tutto, Lucrezia e Loredana, sorrette dall'aiuto di Dio e dalla radiosa speranza che il pellegrino dei luoghi santi aveva fatto loro balenare. Intanto Lorenzo Sagredo non era più schiavo sulle galee turche, ma nella residenza di Alì pascià. Nella sontuosa dimora del potente signore mussulmano, egli poteva almeno dedicarsi al suo amato lavoro che lo avrebbe certamente consolato di tante cose e distratto dai suoi amari pensieri. Lucrezia Sagredo aveva collocato l'autoritratto del marito, uno stupendo disegno a punta d'argento, sotto il quadro della Madonna, quasi a chiedere che la Vergine sublime lo accogliesse sotto il suo manto e lo proteggesse contro ogni pericolo. Tutte le sere le due Sagredo s'inginocchiavano e pregavano a lungo; poi le labbra della sposa e della figlia sfioravano la fronte del caro assente e le mani affilate della cieca indugiavano con muta carezza, sul viso amato, come ad attingerne aiuto e conforto. Ma anche l'autoritratto del Sagredo, ultimo residuo dei beni scomparsi, doveva essere venduto tra qualche giorno. Perchè la madre non se ne accorgesse, Loredana aveva pensato di toglierlo e dalla cornice dorata e sostituirlo con una tavoletta spoglia di ogni immagine. Ma il cuore le si stringeva al pensiero di quell'inganno. Sarebbe riuscita a frenare i singhiozzi quando le bianche mani della mamma avrebbero sfiorato la nuda superficie? E che cosa avrebbe detto l'infelice donna? Dal basso continuavano a salire, ideale richiamo, le note soavi del clavicembalo di Teodora Pisani Moretta. Loredana si cullava in quei suoni armoniosi, quasi dimentica di tutto quello che la vita le aveva fatto soffrire e quasi aspettasse dalla nobile giovinetta speranza e conforto. Era un sentimento di fraternità umana che avrebbe voluto chiedere alla gentile sonatrice, quel sentimento che dovrebbe legare tra loro tutte le creature viventi e aiutarle a superare le prove, spesso amarissime, della vita. La fanciulla aveva sollevato il capo dalle ginocchia materne e i suoi begli occhi scuri guardavano intorno le squallide pareti, che sarebbero sembrate ancora più squallide, prive della virile immagine del padre. A un tratto le balenò un'idea. Se si fosse provata a ritrarre le sembianze paterne? Loredana ripensava al tempo in cui assisteva al lavoro del padre, e alle lezioni di pittura che aveva ricevuto da lui. Come si divertiva a passare le polveri per la composizione dei colori, e a mischiarle poi, in compagnia di Alvise, laggiù, sotto l'ombra delle acacie, per vedere quali altri colori avrebbero combinato! Piano piano si alzò, si avvicinò al cavalletto e lo trascinò sotto l'abbaino; staccò dal muro l'autoritratto del babbo e se lo mise davanti. - Che fai, Lori? - Mamma, voglio eseguire un piccolo disegno. - Ne sarai ancora capace? - chiese la madre con aria di dubbio. - Forse sì, mamma. - Brava Lori! Così, quando il babbo tornerà, vedrà che, la sua bimbetta è stata saggia, - mormorò Lucrezia con grande tenerezza; poi chinò la testa e s'immerse nei suoi profondi pensieri. Il silenzio regnò assoluto nella stamberga. Un Loredana lavorava.... obliquo raggio di sole si insinuava tra l'apertura dell'abbaino, accendeva, i capelli d'oro di Loredana e metteva un'aureola luminosa intorno al capo della fanciulla. Ogni tanto una nuvola nascondeva il sole e tutto si spengeva in un grigio di cenere; poi, d'improvviso, ogni cosa si riaccendeva più di prima.. Loredana lavorava senza posa. Le pareva che una mano invisibile la guidasse nella ricostruzione delle sembianze paterne. Ed ecco che a poco a poco sullo sfondo grigio della tavoletta fiorivano gli occhi imperiosi e pur dolci del babbo, il suo naso diritto, le labbra serrate tra il fluire del pizzo castano e l'ardita, piega dei baffi. A tratti la matita a punta d'argento che scorreva agile e sicura, guidata dalle sue dita, rimaneva sospesa e gli occhi di Loredana si fissavano in un punto lontano, come a ricostruire svaniti contorni; poi riprendeva febbrilmente il lavoro. La madre, nel suo angolo, si era assopita, cullata, dal profondo silenzio di quel pomeriggio di prima estate. Un calabrone di velluto era entrato nella scìa dei raggi solari e svolazzava intorno con un ronzio metallico; ma Loredana non lo vedeva e non lo sentiva. Si svegliò da quella specie d'incanto quando il sole stava per tramontare, in una gloria di luce sanguigna, salutato dalle strida gioconde delle rondini e dal dolce pigolo dei passeri, pronti a ritirarsi nei loro nidi alle prime ombre del crepuscolo. Per più di tre ore la fanciulla aveva lavorato senza interruzione e senza quasi accorgersene; e adesso si sentiva a un tratto stanca, ma di una stanchezza che le faceva bene al cuore. In punta di piedi, perchè la madre non la sentisse, tornò ad appendere il ritratto alla parete, e allora finalmente la grande angoscia che fin dalla mattina teneva chiuso il suo cuore in una morsa di ferro si dileguò, come un pipistrello che s'invola al timido spuntare dell'alba. Ormai non avrebbe più ingannato la cara cieca facendole baciare una nuda tavoletta. Lucrezia Sagredo, la sposa fedele e amorosa, avrebbe pregato sempre davanti all'effige dello sposo lontano, senza che sua figlia si sentisse salire alla fronte il rossore della vergogna e dell'ambascia.

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