Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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LE NOVELLE DELLA NONNA. Fiabe fantastiche

679059
Perodi, Emma 10 occorrenze
  • 1992
  • Newton Compton Editori s.r.l.
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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. - Mi par di camminare sopra una cava abbandonata, dove gettano gli animali morti. - È la soglia della mia dimora, - disse il cavaliere, e la trascinò giù per la discesa. Ma appena ebbero toccato il fondo della cava, la luna ricomparve ed Amabile si vide dinanzi, invece del bel cavaliere, uno scheletro avvolto in un lenzuolo sbrandellato. Amabile cadde in ginocchio, gridando: - Misericordia! Allora il morto le disse: - Non urlare: son Desiderio, lo sposo tuo. Tornavo per celebrare le nozze e sono stato aggredito da due ladroni, i quali, dopo avermi spogliato, mi hanno messo questa corda al collo e mi hanno gettato in questa cava. Il mio cadavere marciva sopra a terra, quando Gesù s'è impietosito e mi ha dato le sembianze d'uomo per provare la tua fede. Tu sei una spergiura, ma io voglio mantenere le promesse che ti ho fatte poco fa. Avrai abiti da regina, perché anche le regine sono rivestite di terra dopo morte; avrai un palazzo degno di un re di corona, perché anche i re, una volta spirati, son posti sottoterra. Dammi la mano, sposa mia, e mettiti al mio fianco, perché è sonata per me l'ora di tornare in seno alla morte. Ciò dicendo lo scheletro legò la corda attorno al collo della ragazza con un nodo così forte che nessuno avrebbe potuto sciogliere; e si coricò sulla terra umida. Amabile passò tutta la notte a pregare la Madonna, che non la udiva. Verso l'alba vide qualche cosa che si moveva ai suoi piedi. Era un topolino che stava fermo a guardarla. Nel medesimo tempo apparve qualche cosa di nero sopra la casa, e un corvo bigio andò a posarsi sopra una pietra. Il corvo e il topo erano due Maghi, che andavano in quel luogo a pascersi di cadaveri. - Corpo del diavolo, compare! - disse il corvo. - Sei giunto presto e scommetto che hai già scelto quel che ti piace meglio di quella ragazza! - Ma Satanasso non ci permette di toccar carne viva, - rispose il topo. - Ebbene, aspetteremo che sia morta. - Sì, - disse il topo - io mi sono scelto le gote. - E io le labbra, - replicò il corvo. - Le mangeremo gli occhioni neri. - E le orecchie rosee. Amabile si sentiva gelare, ma ebbe la forza di dire: - Ahimè! sono tanto giovane e smilza che avrete poco da mangiare; scommetto che vi tornerebbe più conto di salvarmi. - Salvarti! E come si farebbe mai? - Non è difficile; basta che il topo roda la corda che mi tien legata al cadavere, e che il corvo mi porti fuori da questa caverna. - Che cosa ci daresti se ti si contentasse? - domandarono i due Maghi. - Supplicherei mio padre di tesservi un bell'abito di drappo per ciascuno. I Maghi si misero a ridere. - Una camicia di finissimo lino. I Maghi risero più forte. - Anche un mantello di velluto. - No, - disse il topo, - non ho bisogno di vestiti né di biancheria; ma voglio due ali per volare. - Ed io, - continuò il corvo, - voglio quattro piedi per camminare. - Se domani non ci dài quello che chiediamo, l'anima tua è perduta, - aggiunsero tutti e due. Quelle condizioni parvero abbastanza dure a Amabile; ma accettò tutto, piuttosto che restare in quella caverna legata allo scheletro. I Maghi le fecero fare un giuramento sulla crocellina d'oro che portava appesa al collo, e appena ella ebbe giurato, il topo si mise a rosicare la corda, finché non fu spezzata, e poi il corvo si avvicinò, se la fece salire in groppa e la ricondusse fino dal padre. Quando l'ebbe posata nell'orticello del tessitore, l'avvertì che il giorno dopo sarebbe tornato in quel luogo insieme col compagno, affinché ella mantenesse la promessa. Amabile corse subito a picchiare all'uscio di cucina, che dava sull'orto, e il padre andò ad aprire. Ma vedendo la sua bella figliuola pallida, infangata, con gli occhi sbarrati, cominciò ad urlare che doveva esserle accaduta qualche disgrazia, e dallo strepito destò tutta la gente del vicinato. Amabile raccontò tutto quello che le era accaduto, e il padre disse che bisognava ricorrere a fra' Cirillo, che era un frate francescano, famoso per dar consigli. Appena fu giorno, Amabile andò al convento, accompagnata dal suo babbo e in confessione raccontò tutto a fra' Cirillo, che le disse: - Figlia mia, tu hai giurato sulla croce e nessuno ti può prosciogliere dal giuramento; ti conviene fare quanto hai promesso. - Dio mio, sarò dannata! - esclamò Amabile. - Stammi a sentire, - replicò il Frate, - e fa quanto ti ordino. La ragazza promise di non dimenticar nulla. - Prenderai prima un coltello che non abbia mai toccato carne; andrai lungo le siepi ascoltando il soffio del vento nell'erbe; quando udrai un lieve rumor di sonaglio, taglia la parte superiore dell'erba, che è quella del sonno, portala nell'orto, stendila in terra e torna ad avvertirmi. Amabile fece come le aveva ordinato il Frate e, trovata l'erba, la tagliò con un coltello nuovo e la stese nell'orto, e poi tornò dal Frate, il quale la rimandò a casa dopo averle insegnato quel che doveva fare. Fino a sera l'Amabile rimase nell'orto in orazione, e quando fu notte, sentì la voce del topo, che la chiamava. - Sono pronte le ali? - domandò in tono di scherno. - Non ancora, - rispose Amabile, - ma presto sì. - Sbrigati, sbrigati, - replicò il Mago, - ho furia, e domani sera devo essere a Firenze per certi affari miei. - Riposatevi un momento, - rispose la ragazza, - e vi contento subito. Il topo, che si sentiva volentieri trattato come persona di riguardo, si sedé sull'erba preparata da Amabile; ma l'erba del sonno produsse il suo effetto e di lì a poco il topo dormiva e russava. Dopo qualche momento comparve il corvo, e domandò: - Ebbene, carina, dove sono i miei quattro piedi? - Ahimè non ho potuto trovarli, neppure pagandoli a peso d'oro, - rispose Amabile. - Ne ero sicuro, - disse il Mago sghignazzando. - Ora dunque mi spetta metà della tua animaccia, e la voglio fra poco. - Concedetemi un po' di tempo, caro Mago! - esclamò Amabile. - Spero che avrete compassione di una povera ragazza innocente, che vi reca da cena. - Come mai? - domandò il corvo. - Ho acchiappato un topo con la trappola e l'ho portato qui per offrirvelo, - disse accennando il topo che dormiva sdraiato sull'erba. Il corvo lo guardò. - È un bocconcino ghiotto e lo accetto, a condizione di non rinunziare ai miei diritti. - Fate quello che vi pare, - replicò Amabile. Il corvo non si fece pregare: chiappò il topo per la collottola e giù in un boccone. Ma quello, svegliandosi, si mise a gridare e a dimenarsi tanto forte che con le quattro zampe forò lo stomaco del ghiottone. Allora comparve fra' Cirillo, che aveva veduto tutto. Egli recava la croce, e gridò: - Via, razza nata dal Diavolo! Questa ragazza non vi appartiene più perché ha adempiuto la sua promessa. A te, topo, ha dato le ali, perché oramai sei una cosa sola col corvo; a te, corvo, ha dato le quattro zampe che volevi. Andate dunque, e restate così come avete voluto essere, fino al giorno del Giudizio. I due Maghi, scorbacchiati, se ne andarono, ma non per questo la ragazza fu salva. Il grande spavento che aveva avuto nella caverna la fece ammalare, e presto presto si ridusse al lumicino. Il tessitore si rodeva le mani dal dispiacere. Avere una figliuola così bella, la bella fra le belle, e vedersela morire nel fiore degli anni! Il padre mandò a chiamare un forestiero che curava gl'infermi; costui le dette intrugli sopra intrugli, ma Amabile non risanò. Mandò a chiamare fra' Cirillo, e fra' Cirillo l'asperse di acqua benedetta; ma Amabile non risanò. Allora mandò a chiamare una vecchia, che stava in una capannuccia su verso la Beccia, e che tutti chiamavano la Strega, e costei, guarda e riguarda, esamina che ti esamino, disse che Amabile non sarebbe guarita, perché il suo male aveva sede nel cervello. E infatti non guarì. Di giorno era un po' più tranquilla, ma la notte pareva una indemoniata, perché appena l'aria si faceva buia, lo scheletro si alzava dal fondo della cava, si avvolgeva nel lenzuolo sbrandellato, e via accanto a lei a tormentarla, a coprirla di rimproveri per la fede mancata e per esserle fuggita con l'inganno. - Spergiura! Spergiura! - le diceva, e con le mani scheletrite le cingeva il collo, e con le guance ghiacciate toccava il viso infocato di Amabile. La malata urlava, si dibatteva tutta la notte, e ogni momento faceva atto di gettarsi giù dal letto; ma lo scheletro la tratteneva con le lunghe braccia, Amabile lo vedeva e lo sentiva, ma il padre, che l'assisteva, non vedeva nulla e attribuiva quelle smanie alla febbre che divorava la figliuola. Una sera Amabile morì. Le donne del vicinato la vestirono dei suoi abiti più belli, accesero molti ceri attorno al cadavere e le misero una croce fra le mani. Prima esse pregarono per l'anima di lei, poi, stanche, cederono al sonno. Quando si destarono all'alba, che è che non è, il cadavere era sparito. Figuriamoci lo spavento del padre e delle donne! Chi diceva che i ladri lo avevano rubato per spogliarlo degli abiti! Chi diceva che il Diavolo se l'era portato via! Figuriamoci se il padre cercò il cadavere della sua Amabile per fargli dare onorata sepoltura! Si mise alla testa di una comitiva di amici, e frugò per le macchie, per i burroni; tutto fu inutile. Allora fece fare delle novene; ma sì, il corpo d'Amabile era sparito e nessuno l'aveva veduto, né in città, né nel contado. Poi, come succede sempre, egli si stancò di cercare e riprese a tessere pensando sempre alla figliuola. Ecco com'erano andate le cose. Il corvo e il topo, che ormai formavano una sola persona, perfida per cento, appena che furono burlati a quel modo da Amabile pensarono di vendicarsi atrocemente di lei, e, aspettato il sabato notte, si recarono a un luogo dove sapevano d'incontrare il Diavolo, e gli esposero l'accaduto. - Che cosa posso fare per compiacervi, figli diletti? - domandò Satanasso quando ebbe udita tutta la narrazione. - Noi vorremmo un piccolo favore soltanto, - rispose il corvo che era molto loquace e parlava anche per il compagno. - Vorremmo cioè che ogni notte lo scheletro di messer Desiderio si destasse dal sonno della morte e andasse a tormentare Amabile. All'ora della di lei morte, poi, sarebbe nostra brama che Desiderio portasse la sua promessa sposa nella cava abbandonata, e se la tenesse a fianco fino al giorno del Giudizio. - Compare, - disse il topo, che vinceva in perfidia il corvo, - non ti pare che sarebbe meglio ottenere che tanto Desiderio quanto Amabile tornassero in vita per alcune ore; così il tradito continuerebbe a tormentare la spergiura? - Bravo! - esclamò il corvo. Il Diavolo, che era stato a sentire, si dette una fregatina alle mani in segno di allegrezza, e concesse ai due Maghi quello che volevano. - Ora, - disse il topo, - voliamo pur via e andiamo a godere dello spettacolo di Amabile alle prese con lo scheletro. Quella vista ci farà buon sangue, Infatti il corvo, nelle notti della malattia di Amabile, non si mosse più di sul davanzale della finestra, e quando la ragazza fu morta volò dietro allo scheletro, che se la portava nella sua caverna umida. Nel destarsi in quel luogo d'orrore, Amabile gettò un grido, e il topo le disse: - Perfida fra le perfide, ora non c'è nessuno che ti roda la corda. - Né che ti prenda sulle proprie ali per cavarti di qui, - aggiunse il corvo. - Sposa mia, sei diventata tanto brutta che mi fai orrore; - le diceva lo scheletro, - ma posa la testa più qua, affinché mi serva da guanciale. E allora lo scheletro posava il teschio sul viso di Amabile e la copriva d'improperî. - Spergiura! ... Vile! ... Anima nera! ... Strega! ... Questa scena si ripeteva ogni notte, e il corvo e il topo non la perdevano mai; venivano da lontano per assistervi, e a tutti e due pareva di andare a nozze. Ora avvenne che, dopo un certo tempo, fu stabilito a Bibbiena di costruire una nuova chiesa in onore della Madonna, e pensarono di prender la pietra nella cava abbandonata dove giacevano insepolti i cadaveri di Desiderio e di Amabile. Gli scavatori, appena vi scesero e videro quei due corpi, corsero a Bibbiena a raccontare il fatto, e il povero tessitore, che non aveva dimenticata la figlia, andò subito nella cava con la speranza di riconoscere in uno dei due cadaveri la sua Amabile. La riconobbe infatti dalle vesti, e con molta solennità fece trasportare la salma nel sagrato della Pieve, dove le dette onorata sepoltura. Le ossa di Desiderio furono poste in altro luogo. Da quel momento in poi Amabile riposò in pace, aspettando il giorno del Giudizio, e Desiderio la cercò invano accanto a sé. Si dice che per anni e anni un corvo stesse sempre, di notte, sul sagrato della Pieve gracchiando. Era il Mago col topo in corpo. Nessun dei due aveva potuto dimenticare il tradimento. Ora saranno crepati di vecchiaia, almeno si spera. E qui la novella è finita. - Mamma, - disse Cecco, - non so perché stasera ci abbiate raccontato questa novella che mette i brividi. Pare che l'abbiate detta per la Vezzosa. La ragazza rise di cuore mettendo in mostra i bellissimi denti, e fu lei che rispose: - No, la mamma non l'ha detta per me, prima di tutto perché non son la bella fra le belle, esposta a grandi tentazioni, e poi perché sa come la penso, - e qui guardò Cecco con occhio affettuoso. - Se ha scelto stasera questa novella, è perché si suol raccontare alle future spose. La mamma ha fatto bene a seguir l'usanza; è tanto bello di fare ciò che hanno fatto quelli che vissero prima di noi. Ma quell'Amabile, sentite, mamma, è vero che fu cattiva, ma ebbe una punizione che più tremenda, credo, non avrebbe saputo inventarla neppur Dante, che ha scritto l'Inferno! - E che ne sai tu di Dante? - le domandò Cecco. - Poco o nulla. Quand'ero piccola andavo per la vendemmia da certi cugini del babbo a Rassina, e là c'era una vecchia che sapeva a mente il canto del conte Ugolino, quello dei Serpenti, e non so più quali altri. Non sapeva neppur leggere, ma li diceva così bene da farci piangere. Ella ci raccontava che al tempo dei tempi questo Dante era stato in Casentino, a Poppi, a Romena e altrove, sempre ne' palazzi de' Guidi, e qui aveva scritto anche qualcuno di quei canti. Dice che i fiorentini lo avevan messo al bando e lui, sdegnato, se n'era venuto in questi poggi a sfogare il suo risentimento. - Non sai che cosa è avvenuto di quella cugina di tuo padre, che sapeva a mente i canti di Dante? - domandò la Regina alla sua futura nuora. - Ho sentito dire che era morta, - rispose la ragazza. - Morta sì, ma prima di scender nella fossa aveva fatto una tappa al manicomio. La povera Rosa s'era tanto empita la testa di quei canti, della descrizione delle pene dei dannati, che si figurava di esser lei nell'inferno circondata di serpenti. Era uno strazio a vederla. Credimi, Vezzosa, certi libri non son fatti per gli ignoranti come noi. Se ci si comincia a riflettere, s'ammattisce, perché il nostro cervello non è avvezzo a certo cibo. Maso fece osservare alla Vezzosa che era tardi e occorreva interrompere la veglia. La ragazza salutò tutti, prese in collo i bambini per baciarli, e avanti d'uscire chiamò da parte l'Annina e le regalò le buccole che aveva prima agli orecchi. Maso la riaccompagnò fino a casa, insieme con Cecco. Sulla porta c'era la matrigna ad aspettarla, che le urlò da lontano: - Dovevi farti aspettar dell'altro! È questa l'ora? Se tardavi un momento, trovavi tanto di catenaccio. Cecco sussurrò a Vezzosa: - Coraggio, ce n'è per poco; lasciala urlare e dormi bene.

. - Santo vecchio, - dissero allorché furono alla presenza del Romito, - perché hai abbandonata la nostra Bibbiena? - Io non avrei altro desiderio che quello di ritornarvi; - rispose il Romito, - ma il Diavolo vi ha stabilito il suo dominio e ogni tentativo per sloggiarlo mi pare inutile. - Vieni e tenta di cacciarlo. La fede non ti può mancare, e la fede opera miracoli. Il Romito pronunziò una breve preghiera, invocando l'aiuto del Cielo sulla impresa sua, e, accompagnato dai tre uomini, salì a Bibbiena. Nessuno guardava più le porte, perché il popolo faceva continua baldoria, e il Romito poté giungere sulla piazza della Pieve, senza che alcuno lo riconoscesse. Ma invano egli fece udire la sua voce dolce e persuasiva. Intorno a lui non vi erano altro che il padre e i due figli; il popolo, adunato nelle osterie e schiamazzante, non poteva afferrare le parole del santo uomo, il quale tornò nel bosco dopo lungo predicare. Però il Diavolo, che sapeva tutto ciò che avveniva in città, fu informato che i Bibbienesi non avevano tenuto il patto, e, adunatili la sera sulla piazza, li rimproverò acerbamente, minacciandoli di una nuova invasione di rettili, e designò i tre colpevoli, i quali vennero legati dal popolo inferocito, e rinchiusi in una prigione sotterranea. Ciò nonostante, il Romito tornò a Bibbiena dopo pochi giorni, attrattovi dalla carità verso quel misero popolo, e si mise di nuovo a predicare in piazza. Questa volta il suo uditorio si componeva di una vecchia, abbandonata nella miseria dai figli, i quali non lavoravan più per andare all'osteria a giuocare e a bere, e della moglie di un uomo ucciso in rissa. Le due povere donne piansero amaramente alle parole del Romito, il quale cercò di consolarle come meglio poteva. Anche questa volta il Diavolo fu informato di tutto, e disse fra sé: - Qui ci vuole un esempio, se no Bibbiena mi sfugge dalle mani. E appena calò la sera fece apparire sulla città tante lingue di fuoco che, abbassandosi, lambirono le mura e i tetti delle case. La gente, impaurita, temendo che l'incendio distruggesse le loro abitazioni, corse nelle vie e nelle piazze urlando e strascicandosi dietro i bambini. Il finto frate s'insinuò tra la folla e incominciò a pronunziare misteriose parole, che i grandi non udivano, ma che i piccini capivano bene. Con quelle parole prometteva loro giuochi, sollazzi, ghiottornie, ogni cosa che alletta la fantasia dei bimbi. E questi gli correvano intorno giulivi e lo seguivano. Quando ebbe radunati tutti coloro che potevano camminare, uscì da Bibbiena e si diresse verso un bosco, dove sapeva che vi era una grotta immensa, praticata nei fianchi di un monte, e ve li rinchiuse. Allora le lingue di fuoco cessarono di lambire le case, e la gente, dopo aver domato alcuni incendi prodotti da quelle, si diede a cercare i bambini. Le donne correvano sgomente per le vie chiamandoli con alte grida, gli uomini si spingevano fuori del paese, frugavano i boschi, urlavano, ma nessuna voce infantile rispondeva al loro appello e soltanto l'eco dei boschi ripeteva quei suoni desolati. Il finto frate, dopo aver compiuto il ratto dei bambini, ritornò in paese fra la gente afflitta e sconsolata. Appena i Bibbienesi lo videro, rammentando che li aveva liberati dai rettili, ricorsero a lui. - Rendeteci i nostri bimbi, - supplicarono essi, - e la nostra gratitudine sarà eterna. Il Diavolo fece un ghigno spaventoso. - Due volte, - egli rispose, - avete calpestati i nostri patti; due volte il Romito ha predicato in piazza. - Abbiamo punito coloro che lo fecero venire la prima volta, - risposero gli afflitti cittadini. - Ma non avete punito le donne che lo hanno ascoltato la seconda; mettetele a morte. - E chi sono? - domandò la folla. Il Diavolo le nominò. - Voi chiedete troppo, - risposero i cittadini, - la prima è una infelice già abbastanza provata dalla sventura; la seconda è una povera vedova; lasciatele dunque vivere, giacché non hanno mai fatto alcun male a nessuno. - Riflettete, - disse il Diavolo. - Se le ucciderete, i vostri bimbi ritorneranno in paese; se le lascerete vivere, non li vedrete più. Il finto frate, dopo aver pronunziate queste parole, sparì. I cittadini rimasero perplessi. Però non potevano risolversi a mettere a morte due innocenti; no, non potevano. - Il loro sangue ricadrebbe su noi in tanta maledizione, - dicevano i più saggi, - lasciamole vivere; Iddio ci renderà i nostri figli. E inteneriti e resi migliori da quella grande sventura, si riversarono nelle chiese, si prostrarono dinanzi agli altari e ripresero a recitare le preci che eran soliti innalzare a Dio allorché il Romito era di continuo in mezzo a loro, sostenendoli con la dolce e persuasiva sua parola. E spinti di nuovo sulla via del bene, liberarono i tre prigionieri che avevano condotto a Bibbiena il Romito, e le preci di questi e delle due donne salvate dalla carità popolare, operarono un vero miracolo. Il Romito, nella sua capannuccia, ebbe un avvertimento nel sonno. Egli si sentì chiamare da una voce celeste, che gli disse: - Va' in città; lassù hanno bisogno di te. Il Romito si alzò nel cuor della notte dal suo giaciglio di foglie secche, e si avviò, in mezzo alle tenebre, verso Bibbiena. Il Diavolo però, che non lo perdeva di vista, gli suscitò contro una quantità di ostacoli. Prima di tutto il sant'uomo fu avvolto da una nebbia impenetrabile, ed egli, in mezzo alle alte piante, non trovava il sentiero battuto tante volte, di modo che dovette fermarsi per non camminare in una direzione opposta alla sua mèta, attendendo che sorgesse il sole. Poi, quando questo ebbe diradata la nebbia, si scatenò all'improvviso un temporale fortissimo. Fulmini spaventosi squarciavano le nubi, il vento turbinoso schiantava gli alberi, l'acqua torrenziale convertiva in fiumi i rigagnoli, la grandine percuoteva il volto del viandante, il quale dovette di nuovo fermarsi. Quando il temporale si fu sfogato, due serpenti, sbucati fuori da un ciuffo di felci, gli si avviticchiarono alle gambe, in modo che egli non poteva più camminare. Allora il Romito, supponendo che tutti quegli ostacoli fossero creati dal Diavolo, toccò con la croce i due rettili spaventosi, e questi si sviticchiarono e fuggirono via. Da quel momento egli poté continuare il cammino senza ostacoli, e giunse a Bibbiena. Il popolo, vedendolo, gli corse incontro esultante, e inginocchiatosi intorno a lui, gli disse: - Rendeteci i nostri figli; noi siamo peccatori indegni di perdono, ma intercedete per noi. E allora il sant'uomo s'inginocchiò in mezzo alla piazza della Pieve, e il popolo unì le sue preci a quelle di lui. Dopo aver lungamente pregato, il Romito volle venti uomini robusti e disse loro: - Seguitemi. Ed essi lo seguirono giù nella valle, ubbidienti ad ogni suo cenno. Mentre camminavano, egli pregava ancora. Allora si vide una bianca colomba staccarsi da un albero e volare prima verso un balconcino dove erasi affacciata una giovanetta e poi volare dinanzi a lui. Il Romito la seguiva, e finalmente ella si fermò sopra un grosso macigno. - Qui sono i vostri figli, - disse il Romito, - qui deve averli celati il finto frate. E i venti uomini si diedero, con quanta forza avevano, a smovere il macigno, ma non riuscirono neppure a scostarlo. - Qui è inutile arrabattarsi, - dissero, - ci vogliono delle corde e diverse paia di manzi! E lasciando il Romito a guardia del luogo, gli altri tornarono al paese a provvedersi dell'occorrente. La colomba intanto non si moveva dal posto ov'erasi posata, come per dire che i piccini di Bibbiena erano lì davvero. E vi rimase finché gli uomini andati in città non furono tornati con cinque coppie di bei manzi alti e poderosi, e muniti di corde e di catene. Avvolsero queste intorno al macigno, vi legarono le corde, e i buoi si misero a tirare; ma tira tira, il sasso non si moveva. Gli uomini sudavano freddo, il Romito era sgomento, e i buoi, stanchi, si rifiutavano di tirare ancora. - Figli miei, - disse il sant'uomo, - mi accorgo che il macigno è sigillato al monte da una forza soprannaturale. Andate, abbiate fede, e se le mie preci saranno ascoltate lassù ove tutto si può, io vi ricondurrò a Bibbiena i vostri figliuoli. Fra i venti uomini andati nel bosco a liberare i bambini, v'erano i due giovani figli del vecchio, quelli, cioè che nonostante il divieto del finto frate, avevano ricondotto il Romito a Bibbiena ed erano stati rinchiusi in prigione. Essi pregarono il santo vecchio di conceder loro di rimanere a fargli compagnia, e il Romito non seppe rifiutare a quei due buoni giovani ciò che gli chiedevano. Gli altri diciotto se ne tornarono dunque in paese a testa bassa, tutti pensosi, disperando quasi di rivedere i loro piccini, e non sapendo come dar la dolorosa notizia, che non erano riusciti a nulla, alle mamme ansiose e piangenti. Il Romito, appena rimasto solo con i due fratelli, disse: - Figli miei, preparatevi a passar una notte angosciosa; il Diavolo cercherà di sgomentarci con ogni mezzo. - Siamo pronti a tutto, - essi risposero. Appena le ombre della sera si allungarono sul bosco, un'aquila gigantesca incominciò a descrivere giri attorno al macigno. La bianca colomba, spaventata, volò via, ma l'aquila la inseguì e la ghermì. Un grido straziante echeggiò nel bosco, indicando che l'innocente uccello era stato vittima del suo poderoso aggressore. Poco dopo il bosco fu pieno di urli di lupo. Pareva che quei famelici animali fossero scesi a branchi dalle vette più alte in cerca di cibo. Uno di essi si accostò ai due fratelli, con la bocca spalancata, pronto ad azzannarli, ma il Romito si fece avanti coraggiosamente e invece di lanciargli contro un sasso, lo toccò con la croce del rosario. L'animale barcollò e diedesi a fuga precipitosa. Allora, sul macigno comparvero due diavoli, che mandavano fuoco dagli occhi e dalla bocca e tenevano a distanza chiunque per il fetore che emanava dai loro corpi. Il Romito alzò la mano e fece tre grandi croci nell'aria, e subito i diavoli sparirono. Ma le prove dei tre uomini non eran terminate, e poco dopo che avevano visto sparire i diavoli, si presentò Satana in persona, non più sotto le sembianze del frate francescano, ma con la sua effigie stessa, spaventosa a vedersi. - Romito, - diss'egli, - tu hai troppo potere sull'animo dei mortali; io non voglio che tu continui a vivere. - Io vivrò finché piacerà al Signore Iddio di tenermi su questa terra e con l'aiuto del Cielo spero che la mia anima non ti apparterrà mai. Il Diavolo pronunziò due parole magiche, due sole, e una schiera di demoni s'impossessò del vecchio e diedesi a soffiargli fuoco sulle carni. Queste bruciavano orribilmente, e il santo vecchio pregava, con lo sguardo rivolto al cielo. A un tratto comparve su quello una stella luminosa che via via si avvicinava alla terra spandendo una luce più mite del sole, ma egualmente bella. Quella stella si fermò di fronte al Romito e lo avvolse tutto nei suoi raggi, come avvolse il macigno, il quale incominciò a liquefarsi come se fosse stato di cera molle esposta al fuoco. Quando il macigno, ridotto liquido, ebbe lasciato aperto l'ingresso della grotta, la stella lentamente si allontanò per andarsi a confondere con le sue sorelle del cielo. Allora il Romito, cessando di pregare, chiamò a sé i compagni e disse loro: - Andiamo, con l'aiuto di Dio. E s'internarono nelle viscere della terra. Giunti che furono a una vôlta bassissima, sotto la quale bisognava andar carponi, la stella ricomparve, e i raggi di lei, invece di battere in faccia al Romito e ai due fratelli, si mossero verso il punto opposto. - Là, là debbono essere i bambini, - disse il santo vecchio, e strisciando il corpo sul terreno si avanzò seguìto dai compagni. Giunto nel punto in cui la vôlta toccava quasi il suolo, il Romito vide una pietra posata in modo da far supporre che al di là vi fosse una grotta, e rimossala fu sorpreso di scorgere una specie di sala che prendeva luce dall'alto, nella quale centinaia di bambini erano distesi per terra come morti. La stella allora li toccò con i suoi raggi, ed essi, stropicciandosi gli occhi, si alzarono e vedendo aperta la porta della prigione, ne uscirono frettolosi, curvandosi per passare. Il Romito li trattenne e disse loro di lasciarlo prima uscire con i due giovani ed essi sarebbero venuti poi; i bimbi si fermarono ubbidienti, poi lo seguirono in silenzio. Giunti che furono all'imboccatura della camera, la stella, che fino allora aveva rischiarate le buie gallerie, s'alzò splendente nel cielo e andò a posarsi sulla città di Bibbiena. Gli abitanti, vedendola, sperarono subito che essa fosse annunziatrice di felicità e mossero incontro al Romito. Questi camminava in mezzo alla turba dei bimbi, esultanti per la ricuperata libertà. Così lo videro i Bibbienesi da lungi. Impossibile descrivere la loro gioia. Ognuno chiamava a nome i figli, ognuno se li prendeva fra le braccia, e quando furono tornati in paese, le grida, le esclamazioni, i pianti delle mamme coprirono ogni altro rumore. Il Romito riprese da quel tempo le sue prediche, e Bibbiena ebbe un lungo periodo di calma dovuta alle parole del santo vecchio. Il Diavolo, per quanto facesse onde combatterne il potere, rimase sempre vinto e scorbacchiato e dovette rinunziare all'impresa, aspettando rabbiosamente che il Romito morisse. E quando questi ebbe chiusi gli occhi nella pace del Signore, tornò a regnare in Bibbiena, come regna in molti paesi, ove non c'è un'anima santa per tenerlo lontano. - E qui la novella è finita, bambini, - disse la Regina, - e forse per qualche settimana non ne racconterò altre. - Perché? - domandarono essi. - Perché la signora Durini mi vuole per un po' di tempo a Camaldoli per insegnarle a conservare le frutta, e io non posso rifiutarle questo favore. I bimbi fecero il broncio, ma tacquero, perché erano assuefatti a rispettare la volontà della nonna.

Capì allora che non si trattava di cosa caduta dal dorso di un mulo o da una carretta, ma abbandonata in quel luogo con intenzione, e, tolti i sassi, rimase come di sale nel vedere che il fagotto conteneva una bella bambina di pochi mesi, placidamente addormentata. - E ora che ne faccio? - disse fra sé il monaco, che avea nome Buono. - In monastero c'è clausura e non ve la posso portare; ad ogni modo non ci sarebbe carità a lasciarla qui. E presa la bimba fra le braccia, risalì a cavallo alla mula e giunse al monastero di Camaldoli, allora chiamato Ospizio di Fonte-Buona, dove i monaci facevano una specie di prova prima di passare all'Eremo, che era ed è più su, a un'oretta di cammino. Frate Buono depose la bimba, così avvolta com'era, sopra una panca nello stanzone del portinaio, e saputo che l'Abate maggiore si trovava in quel giorno a Fonte-Buona, chiese di parlargli. - Padre santo, - gli disse dopo avergli riferito l'ambasciata affidatagli dall'abate di Strumi, - io ho trovato fra la neve, venendo quassù, una creatura umana. - Spero che l'avrai fatta riscaldare e le avrai dato da mangiare. - Gli è, padre santo, che quella creatura non può mangiare. È una bimba di pochi mesi che avrebbe bisogno del latte e delle cure di una donna. L'Abate maggiore rimase perplesso e poi disse: - Tu sai, fra' Buono, che i nostri statuti ci proibiscono di tener donne quassù; come faremo dunque ad allevare quella creaturina? - Padre santo, per ora diamola al padre forestale, e cercheremo poi una vacca, una pecora o un'asina che la nutrisca. - La carità cristiana c'impone di non abbandonarla. Intanto battezziamola, poiché non sappiamo se ella sia cristiana. La bimba dormiva ancora, ma quando l'Abate maggiore in persona le gettò l'acqua lustrale sulla testa, ella aprì gli occhi, e, invece di mettersi a piangere, schiuse la bocca a un sorriso e stese le manine al monaco. Questi le impose il nome di Buona, e si sentì intenerire a veder quella piccina così bella e gaia, che non aveva altra famiglia che i monaci, altra casa che il convento di Fonte-Buona. Il padre forestale scelse un'asina più giovane e forte delle altre, e, fattala mungere, dette a bere quel latte caldo a Buona. Così fu nutrita la bimba per alcuni mesi. Ogni giorno l'Abate maggiore diceva al forestale che doveva cercare una contadina che avesse cura della piccina, e ogni giorno quel monaco trovava un pretesto nuovo per tenerla presso di sé. Ora diceva che era raffreddata e non voleva farla uscire; ora nevicava, ora tirava vento. Contadine ce n'erano molte nei poderi dipendenti dal monastero, ma il fatto si è che il forestale non voleva staccarsi da quella creaturina, e fra' Buono neppure. Così passò l'inverno, e quando già Buona aveva circa un anno e camminava spedita, il forestale un giorno la prese in collo e si avviò giù per la scesa per portarla in una casa di contadini; ma gli rincresceva quanto mai di separarsi da Buona, che lo abbracciava, gli metteva le manine nella barba e lo chiamava babbo. Giunto al di là della spianata del convento, il forestale vide una capannuccia abbandonata, dove solevano rifugiarsi i pastori, e pensò: - Perché devo portare Buona in casa d'altri, quando qui potrebbe essere come in casa sua? Le porterei da mangiare, la verrei a vedere, e a guardia della bimba potrei lasciar Lupo, il can da pastori di cui tutto il vicinato ha paura. Quest'idea parve così bella a fra' Ilario, il forestale, che, invece di andar oltre, posò la bimba sopra un mucchio di fieno e, chiusa alla meglio la porta, corse al monastero a prendervi coperte, guanciali e utensili per arredare la capanna. Dopo poco egli tornò da Buona recandosi dietro Lupo, e trovò la bimba placidamente addormentata. Egli approfittò di quel momento per ripulire la capanna, per rimettere alcune assi che mancavano alla porta e cogliere sul prato tanti fiori per allietare la sua Buona. Poi munse una bella vacca che pascolava, e quando Buona si destò, vedendo tutti quei fiori, batté le manine esclamando: - Babbo, belli! Fra' Ilario dette del latte alla bimba e le mostrò che era in una ciotola sopra una panchetta; poi le raccomandò di esser buona, e, dopo aver ordinato a Lupo di accucciarsi accanto alla creaturina, alla quale era tanto affezionato, tornò al suo monastero. Ma prima di varcare la soglia della capanna, alzò le mani al cielo, esclamando: - Vergine santa, io pongo quest'anima benedetta sotto la vostra protezione; vegliate su di lei! Dopo questa invocazione, fra' Ilario chiuse la porta, si mise in tasca la chiave, e quindi si avviò verso il Cenobio di Fonte-Buona. Mattina e sera il monaco, appena aveva accudito ai suoi doveri, correva da Buona e la trovava sempre allegra, sana, sorridente. Ella si baloccava con Lupo, si gingillava con i fiori, cantava con una vocina dolce le canzonette sacre che le insegnava fra' Ilario e correva sotto gli alberi durante il giorno. La notte dormiva saporitamente, e mai nessun male l'aveva tormentata. Di vestiti non aveva che una specie di camicia di lana bianca, tagliata da una tonaca vecchia di fra' Ilario. I capelli biondi le scendevano sulle spalle a guisa di manto, e i piedini rosei parevano quelli di una regina. Buona cresceva a vista d'occhio, e appena fu grandicella andò da sé a far legna nel bosco e a cogliere fragole e lamponi, che insieme col latte, con le uova e col pane che le portava fra' Ilario, costituivano tutto il di lei cibo. Così Buona raggiunse i tre anni. Il forestale aveva già confessato a fra' Buono e all'Abate maggiore come l'aveva allevata e come l'aveva posta sotto la protezione della Madonna, e i due monaci non lo avevano biasimato. Ogni volta che essi uscivano a passeggiare, passavano dinanzi alla capanna, e la bimba, che li conosceva, correva loro incontro e parlava loro con affetto. Appena ella ebbe sette anni, l'Abate, che molto si occupava di quella creaturina affidata al monastero, disse che bisognava darle un'occupazione, e a tale scopo le affidò alcune pecore affinché ella le portasse a pascere. Poi l'Abate diede incarico a fra' Buono d'istruirla come si conveniva a buona cristiana, e il monaco ogni giorno si avviava, dopo il vespro, alla capanna e insegnava a Buona a leggere in latino e in volgare, affinché potesse imparare le preci e le laudi della Madonna sua protettrice. La capanna intanto non era più così spoglia come quando il padre forestale vi aveva portato la sua protetta. Vi era una tavola con alcuni libri, vi erano due sgabelli, un lettuccio e un focolare, nel quale Buona aveva cura di mantenere sempre il fuoco. Ella imparava con una facilità straordinaria, ed era così cortese e nobile nelle maniere, che l'Abate maggiore, ogni volta che parlava di lei, diceva: - Quella Buona si direbbe nata in una corte! Passavano gli anni e la bimba si faceva grande, ma non aveva mai portato altro vestito che una tonaca bianca simile a quella dei Camaldolensi, e chi la vedeva da lontano guidare le pecore al pascolo, la prendeva per un novizio. La vita all'aria aperta l'aveva fatta crescere forte e robusta, e la convinzione di esser protetta dalla Madonna la faceva esser coraggiosa, quasi temeraria. Un giorno di autunno ella aveva spinto il gregge verso l'Abetiolo, per trovare un po' d'erba fresca. L'accompagnava, come di solito, il grosso cane da pastore, che era stato il suo compagno d'infanzia e che ora s'era fatto alquanto vecchio; ed ella camminava svelta, chiamando le pecore quando cercavano di sbandarsi per salire qualche piaggia erbosa. Era sola sola in quel luogo deserto, ma quella solitudine non le ispirava alcun timore, perché nessuno le aveva mai fatto alcun male, e quando i pastori vedevan comparire su qualche poggio la sua figurina tutta bianca, si mettevano le mani alla bocca, affinché la loro voce le giungesse, e le gridavano: - Figlia della Madonna, prega per noi! Ella era davvero sicura in quel paese deserto, e mentre filava, pregava. Quel giorno dunque, mentre badava al gregge, ella vide Lupo diventare inquieto e correre di qua e di là, abbaiando. Buona, con la voce e col gesto, cercava di calmarlo, quando a un tratto si vide davanti un lupo, che si gettò nel branco delle pecore. Queste, spaventate, corsero via; ma una, più vecchia delle altre, fu raggiunta dalla fiera, che l'avrebbe certamente sbranata, se il cane non si fosse buttato a difenderla a corpo morto. Allora, fra il difensore e l'assalitore s'impegnò una lotta tremenda, nella quale il buon cane stava per soccombere. La pastorella del Pian del Prete assisteva piangendo a quella lotta. Il lupo azzannava il suo avversario e lo faceva sanguinare da tutte le parti, inferocito. Buona, senza riflettere al pericolo che correva, alzò il bastone sull'animale feroce, e disse solennemente: - In nome della Madonna, mia protettrice, ti ordino di rispettare ciò che mi appartiene! Il lupo, da furente che era, si fece mansueto a queste parole, e a coda bassa andò a leccare la mano della pastorella, la quale, intenerita, tolse dal canestro il pane destinato alla sua colazione e lo gettò alla fiera. Il cane intanto era fuggito cacciandosi avanti le pecore, ed era corso da fra' Ilario. Il forestale, vedendo Lupo solo e le pecore senza la loro guardiana, temé che a questa fosse accaduta qualche sventura; ma poco dopo rimase meravigliato vedendola comparire sulla viottola, col lupo accanto, che la seguiva come un agnellino. - È un miracolo! - esclamava fra' Ilario. - Figlia mia, tu sei già santa in vita, tu sei una benedizione per il monastero! E tutto commosso da quel fatto, corse da fra' Buono e dall'Abate maggiore a raccontar l'accaduto. - Erigeremo un santuario nel luogo ove Buona è stata salvata! - disse l'Abate, - e faremo venir da Firenze un abile pittore per dipingere sulle mura di quello, la storia della bambina, da quando fu trovata fra la neve fino al momento che ha ammansito il lupo. - Sarà meglio lasciare due pareti bianche per dipingervi in seguito altri fatti della vita di questa fanciulla, cara alla Madre del Signore; - disse fra' Buono, - poiché ella è veramente santa, e la Madonna si servirà di lei per operare altri miracoli. - Da che lo arguisci, fra' Buono? - domandò l'Abate. - Padre santo, l'umile capanna ove ella abita è sempre olezzante di gigli e viole; il corpo di lei non è stato mai soggetto a nessuna infermità; quando ella canta le laudi della Vergine, gli uccelli corrono a stormi dai boschi e le si posano sulle spalle; le piante che ella coltiva dànno fiori, anche quando soffia il tramontano. Ed era vero quel che diceva fra' Buono, perché tutti i fatti da lui citati erano avvenuti sotto i suoi occhi; ma quello che il buon frate non sapeva, si era che appena la notte avvolgeva la terra, una luce viva illuminava la capanna, e appena Buona chiudeva gli occhi, due angeli scendevano dal cielo a vegliare sulla fanciulla dormente. E l'umile monaco non sapeva neppure che tutta questa protezione che la Vergine concedeva alla fanciulla, raccolta da lui in mezzo alla neve, era fervidamente implorata da più anni da un cuore desolato di madre. Bisogna sapere che un terribile dramma di famiglia aveva cagionato l'abbandono di Buona. Il conte di Poppiano e il conte di Romena erano fra loro nemici acerrimi; questa inimicizia era nata quando Corso, figlio del primo, era già un giovinetto, e Selvaggia, figlia del secondo, era una bella e graziosa fanciulla. L'inimicizia era scoppiata per una contestazione di confini fra i loro feudi, e i due signori avevan fatto ricorso all'Imperatore, il quale aveva dato ragione al conte di Romena. Tanto il vincitore quanto il vinto s'erano giurati odio vicendevole ed eterno. Ma lo scoppiare di quest'odio aveva fatto sentire a Corso e a Selvaggia, educati e cresciuti insieme, quanto bene si volevano; e si erano scritti, prima per deplorare l'inimicizie dei loro padri, poi per sfogare il dolore che risentivano di non vedersi più. E queste lettere, recate dalla balia di Corso alla balia di Selvaggia, alimentarono tanto il loro affetto, che i due giovani, non vedendo mezzo alcuno per ottenere una riconciliazione fra le loro famiglie, stabilirono di sposarsi senza il consenso dei loro padri. Corso, col pretesto di una caccia nei monti, uscì dal castello di Poppiano molto segretamente; ma ad un certo punto, fingendo d'inseguire un animale, si sottrasse allo sguardo dei suoi, e, spronato il cavallo, giunse in prossimità di Romena. Costì rimase nascosto fino a notte inoltrata nella casa della balia di Selvaggia, dove verso sera erasi recata la fanciulla sotto pretesto di visitarla e portarle dei doni; e quando l'oscurità fu completa, messer Corso pose in groppa al suo cavallo la bella figlia del conte di Romena, e la portò fino ad Arezzo. Era appena giorno quando vi giunsero, e senza prendere nessun riposo, entrarono in una chiesa e fecero celebrare il loro matrimonio da un prete che ufiziava. Poi i due sposi andarono ad alloggiare da una vecchia zia del signor di Poppiano, dove menarono vita oscurissima. Nessuno può figurarsi l'ira del conte di Poppiano quando, dopo aver cercato inutilmente per più giorni il figlio, supponendo gli fosse accaduta una disgrazia alla caccia, seppe che anche la figlia del suo nemico era sparita! Né minore fu l'ira del conte di Romena quando non trovò più la figlia. Tutti e due i vecchi si chiusero nei loro rispettivi castelli mulinando una vendetta, e intanto spedirono fidi messi in traccia dei fuggiaschi. Passarono i mesi senza che questi tornassero. Furono fatte ricerche a Firenze, a Siena, in Romagna, in Umbria, e anche ad Arezzo; ma i due sposi stavano così celati agli occhi di tutti, temendo l'ira dei genitori, che anche ai bracchi dal fino odorato, riusciva impossibile scoprirli. Intanto i due vecchi fremevano nell'attesa di notizie; essi temevano di chiuder gli occhi prima di avere sfogata la vendetta, e ogni giorno che passava la ideavano più atroce: il conte di Romena, contro Corso che accusava di avergli rubata la figlia; il conte di Poppiano, contro Selvaggia. Frattanto la bella moglie di messer Corso aveva dato alla luce una bambina. La madre la nutriva col suo latte, il padre vegliava sempre sulla culla di lei; ma l'odio del vecchio conte di Poppiano per la nuora minacciava la felicità di Corso e di Selvaggia. Infatti, il vecchio scriveva lettere sopra lettere agli uomini che aveva sguinzagliati contro il figlio, e uno di questi, che si trovava appunto ad Arezzo, per non esser più incitato, si mise a ricercare messer Corso, facendo la posta di giorno e di notte vicino alle case dei parenti e degli amici, che il giovane aveva nella città. E una notte d'inverno lo vide uscire cautamente da una porticina della casa della zia, che dava sopra un chiassuolo, accompagnato dalla moglie, la quale reggeva una creaturina lattante. Il giorno dopo quell'uomo era già a Poppiano a informare il Conte della scoperta fatta. Quali ordini gli desse il vecchio, è inutile dirvi. Vi basti sapere che la sera successiva quattro uomini erano appostati nel chiassuolo, dentro una rimessa, e tre cavalli sellati aspettavano sotto le mura della città, sulla via del Casentino. Appena messer Corso, come di consueto, fu uscito nella strada insieme con la moglie per farle prendere una boccata d'aria, due dei quattro appostati gli saltarono addosso e due altri imbavagliarono Selvaggia per portarla via insieme con la piccina. La donna si difendeva, e Corso, sguainata la spada, menava colpi da ogni lato per proteggere la sua cara sposa; ma tutto fu inutile. Un colpo ricevuto al fianco lo fece cadere, mentre Selvaggia veniva portata via svenuta. Dopo un'ora, circa, dal fatto, i quattro malfattori calavano, da una casa addossata alle mura, una donna e una bambina, e per la stessa via essi pure uscivano dalla città, temendo il bargello e il capestro. - Eccovi la moglie del figlio vostro, - disse il capo della spedizione giungendo a Poppiano. - Che sia rinchiusa nella prigione più oscura del castello, - ordinò il Conte. - E della figlia che dobbiamo farne? - domandò il ribaldo. - Abbandonatela sui monti affinché i lupi la divorino. E Corso dov'è? - chiese il signore. I ribaldi aspettavano la domanda e avevan pronta la risposta. Essi non volevano confessare di averlo mortalmente ferito, perciò dissero che Corso, quella sera, non era uscito insieme con la moglie, ma l'aveva affidata bensì a due parenti suoi, i quali, difendendola, erano caduti feriti da più colpi. Il Conte si mostrò pago dell'esito della impresa e non permise che la bambina rimanesse neppure un'ora nel castello. Così il capo della spedizione dovette risalire a cavallo e portarla lontano, e fu allora che la depose nel Pian del Prete, ove la trovò fra' Buono. Ma torniamo a Corso. La ferita lo inchiodò per più settimane nel letto. Appena rimesso, l'infelice andò a Romena, supponendo che il ratto fosse stato operato ad istigazione del suocero: ma per quanto interrogasse i terrazzani, e soprattutto la balia della sua sposa, nessuno poté dirgli di avere veduto la figlia del Conte in quel luogo. Allora Corso andò a Poppiano e fece chiedere al padre di essere ricevuto. Il vecchio lo fece entrare nella sala d'armi e lo squadrò da capo a piedi. - Quale ragione ti riconduce sotto questo tetto, che hai abbandonato come un malfattore? - gli domandò severamente. - Nessun'altra che l'ardente desiderio di sapere che cosa sia avvenuto della mia sposa, - rispose il giovine. - Come supponi che io possa dirtelo? Corso allora chinò la testa e tacque; ma invece di rimanere in quel luogo, si mise in viaggio per cercare la sua Selvaggia. Dopo un anno d'inutili ricerche, il giovane signore intraprese il pellegrinaggio di Terra Santa, per ottenere dal Cielo la grazia di esser riunito all'adorata consorte. Ma la nave fu assalita dai pirati ed egli, come i suoi compagni, vennero fatti prigionieri da un capo barbaresco e condotti sulle coste africane a lavorare la terra. Però, la sorte di Corso non era tanto dura quanto quella di Selvaggia. Egli almeno respirava l'aria libera, mentre l'infelice donna era rinchiusa in una prigione e s'era veduta strappare la sua creaturina. Selvaggia, in quel carcere, non faceva altro che piangere e pregare; ella piangeva Corso, che supponeva morto in seguito alle ferite, e pregava per la sua bambina, che una voce interna le diceva che era viva. E le sue preghiere, rivolte specialmente alla Madonna, erano così fervide che giungevano fino al trono della Madre di Dio e la commovevano. Passarono molti anni dal giorno che la fanciulla fu raccolta da fra' Buono, ed ella s'era fatta bellissima di viso e di corpo, e tale appariva agli occhi della gente che la scorgeva andando in pellegrinaggio a Fonte-Buona. Tutti le tributavano un gran rispetto, vedendola vestita dell'abito dato da san Romualdo ai suoi monaci, e intenta sempre a leggere nei grossi volumi che le recava fra' Buono, o a guardare le pecore al pascolo, o coltivare i fiori, che crescevano intorno alla sua capanna come se fosse stato primavera. Inoltre il padre forestale raccontava a tutti il miracolo del lupo e faceva vedere a quanti si recavano al monastero la bella Buona, seguìta dalla fiera. In poco tempo la venerazione per Buona era tanto cresciuta nella gente del Casentino, che gl'infermi, gli storpi, i malati d'ogni genere, si facevano portare alla capanna di lei, e la pregavano supplichevolmente di suggerir loro un rimedio o soltanto di toccarli, sperando da quel semplice contatto la guarigione. Buona rispondeva a tutti quegli infelici: - Pregherò la Madonna per voi! E siccome talvolta essi risanavano, così nessuno più dubitava che ella fosse già santa in vita. Ora avvenne che il conte di Poppiano ammalasse gravemente, di una malattia che aveva sede nell'anima. Egli era torturato dal dolore di non vedere più l'unico figlio suo, e invece di mostrarsi più umano verso Selvaggia, la rendeva responsabile della gran sciagura che lo faceva morir disperato. Per curarlo, erano stati chiamati tutti i dottori del Casentino, ma la sua malattia resisteva a ogni rimedio. Allora, siccome egli non poteva più muoversi, gli fu suggerito di chiamare al suo letto la pastorella del Pian del Prete. E Buona, pregata da un frate che bazzicava al castello, se ne andò, scalza e vestita della bianca tunica, presso il vecchio signore, che teneva rinchiusa sua madre in un sotterraneo e che aveva fatto abbandonar lei alla voracità dei lupi. - Signore, - disse Buona quando fu alla presenza dell'infermo, - io non so altro che pregare, e pregherò per voi. Quella voce dolce scese come un balsamo al cuore del vecchio, il quale incominciò subito a migliorare. - Chi sei? - le domandò il vecchio, - e dove stanno i tuoi genitori? - Non lo so. Quindici anni fa, frate Buono mi raccolse fra la neve nel Pian del Prete. Io non ho altra famiglia che i frati camaldolensi, altra madre che la Madonna. - Quindici anni fa, tu dici! - Sì, avevo allora pochi mesi. Tacque il vecchio, e il suo volto rivelava la lotta che si combatteva dentro di lui. - Dimmi, sapresti tu perdonare a chi ti avesse privato della madre? - Io ho imparato da fra' Buono, che non sta a noi giudicare le azioni altrui. - Avvicinati! - ordinò il Conte. Il vecchio le prese le mani e la esaminò attentamente. Non poteva ingannarsi: erano proprio quelli gli occhi grandi e dolci del suo Corso, eran quelli i lineamenti del figlio perduto. Allora, preso dalla tenerezza, il vecchio attirò a sé Buona e disse: - Figlia del figlio mio, ti benedico! Buona non capiva nulla. Soltanto quando il Conte le narrò la storia truce, ella comprese e disse: - Liberate l'infelice madre mia! Questo desiderio fu subito appagato; ma quando Buona fu in presenza della madre, credé di vedere uno spettro. - E tu, Selvaggia, puoi perdonarmi? - domandò il vecchio. - Mi rendete la mia creatura e io dimentico tutto per non rammentare altro che questo momento felice. Il Conte in breve si rimise in salute e appena ebbe riacquistate le forze, cavalcò fino a Camaldoli per fare una ricca offerta al monastero che aveva tenuto Buona come figlia e visitare il santuario eretto in onore di lei. Ma, nonostante che egli fosse circondato dalle cure amorevoli delle due donne, il suo pensiero era sempre rivolto a Corso. Una sera gli fu annunziato che un cavaliere chiedeva l'ospitalità. Il signore ordinò che fosse subito introdotto, e quando il viaggiatore entrò nella sala, gli occhi affievoliti del vecchio Conte non lo ravvisarono; ma dalla bocca di Selvaggia uscì un grido, riconoscendo in quel cavaliere il proprio marito. Corso raccontò che era riuscito a fuggire, e, raccolto da alcuni marinari sulle coste d'Africa, era passato in Sicilia, e di là era tornato in patria. Buona fu per molti anni la consolazione dei genitori, com'era stata la consolazione del vecchio Conte; ma nonostante le ricche offerte di maritaggio, ella volle rimanere libera e non dismise mai l'abito bianco dei Camaldolensi. Rimasta orfana, ella cedé ai parenti il castello di Poppiano e i feudi annessi, e costruitasi una piccola casa all'Abetiolo, accanto al santuario eretto in memoria della sua miracolosa salvazione dal lupo, vi morì in odore di santità. La novella terminò senza che Cecco fosse tornato. Regina, per distrarre Vezzosa, che vedeva malinconica, avrebbe incominciato volentieri a raccontarne un'altra; ma gli uomini si erano già alzati per andare a letto, meno Maso, il quale disse: - Cecco si meriterebbe di dormire sull'aia; stasera lo aspetto io e gli dico il fatto mio! Vezzosa si sentì gelare. Le dispiaceva l'assenza del marito, ma più ancora l'affliggeva che il capoccia lo biasimasse. Per questo disse al cognato che Cecco lo avrebbe aspettato lei. - Tu puoi rimproverarlo quanto vuoi in camera tua, come moglie, ma io voglio rimproverarlo come capo di casa, - rispose Maso. - Nella nostra famiglia nessuno ha mai bazzicato le osterie con gli amici, e non deve essere il primo lui. Vezzosa dovette ubbidire e andare in camera sua, ma non si spogliò finché non udì il passo di Cecco, e rimase inchiodata alla finestra per udire il colloquio fra i due fratelli. I rimproveri che rivolse Maso a Cecco furono così aspri, che Vezzosa non ebbe coraggio di fargliene altri. Ma piangeva la povera donna, come una vite tagliata, e quelle lacrime inasprirono il colpevole, invece di rabbonirlo.

Tendegrimo, che aveva il cuore buono, si fermò per domandarle che cosa aveva, e la poveretta gli rispose di aver perduto da poco un figlio, il quale era l'unico appoggio che le restasse al mondo, e che si trovava abbandonata alla carità dei cristiani. Il giovanetto s'intenerì, ma il fratello minore, che s'era fermato a pochi passi, gli disse con piglio di canzonatura: - Non prestar fede, Tendegrimo, a tutto quello che ti dice la prima venuta! Scommetto che quella donna ha scelto questo luogo dal quale passano molti viaggiatori, per fare miglior bottino. - Chètati, fratello mio, - rispose Tendegrimo, - chètati per carità! Le tue parole la fanno pianger di più. Non vedi che la misera ha l'età di nostra madre, che Iddio ci conservi, e che inoltre le somiglia! Poi si chinò verso la mendicante e, porgendole la borsa, aggiunse: Tenete, poveretta, io non posso far altro che soccorrervi, ma pregherò Iddio che vi consoli. La mendicante prese la borsa e disse: - Poiché voi, gentil signore, avete voluto arricchire una povera donna, spero non ricuserete questa noce che contiene una vespa col pungiglione di diamante. Tendegrimo prese la noce, e, dopo aver ringraziato la povera donna del suo dono, proseguì il cammino. I due fratelli giunsero ben presto al limitare di un bosco e videro un bimbo mezzo nudo che frugava nel tronco vuoto degli alberi, cantando una canzone così triste da far piangere. Ogni tanto cessava di frugare per battere insieme le manine gelate, e diceva: - Ho freddo! Ho freddo! Anche a distanza si sentiva che batteva i denti, e si vedeva che aveva il visino livido dal freddo. Tendegrimo s'intenerì alla vista del bimbo, e volgendosi al fratello disse: - Gesù buono, non vedi, Tegrimo, come quella creatura soffre dal freddo? - Dev'essere molto freddoloso, - rispose Tegrimo, - poiché a me non pare che sia freddo. - Perché tu hai un farsetto foderato di vaio, e sopra codesto mantello, mentre lui è quasi nudo. - È vero, ma è un contadino. - Dio mio! - esclamò Tendegrimo, - se penso che tu saresti potuto nascer povero come lui, sento spezzarmi il cuore e non posso vederlo soffrire! Così dicendo fermò il cavallo e domandò al bimbo che cosa faceva. - Raccatto le castagne che i contadini non hanno vedute, e quando ne avrò molte le andrò a vendere e potrò comprarmi un vestito di saio. - E ne hai trovate già molte? - gli domandò Tendegrimo. - Una sola, signor mio; - rispose il bambino aprendo la mano, - ma questa contiene una mosca con le ali d'oro. - Ebbene, te la prendo, - disse Tendegrimo gettandogli il suo mantello. - Ravvolgiti in questo e la sera recita un'avemmaria per Tendegrimo e una per colei che lo ha messo al mondo. I due fratelli ripresero la via, e il maggiore, che s'era spogliato del mantello, soffrì assai, in sulle prime, per il vento freddo, non avendo più come ripararsi; ma quando ebbero traversato il bosco, il vento si fece più dolce, e il sole, squarciando le nubi, rallegrò la campagna. Allora giunsero a un prato dove c'era una fontana, e sul margine di quella stava seduto un vecchio tutto coperto di stracci, con una bisaccia sulla spalla. Appena scòrse i cavalieri e il loro seguito, costui si diede a chiamare con voce supplichevole. Tendegrimo si accostò a lui e gli domandò, salutandolo rispettosamente: - Che cosa volete, buon vecchio? - Ohimè, signorini, - replicò egli, - vedete come ho bianchi i capelli e rugose le guance? Invecchiando mi sono indebolito, e le gambe non mi reggono più. Dovrò dunque morire a questo posto, se uno di voi non mi vende il suo cavallo! - Venderti uno dei nostri cavalli? pezzente! - esclamò Tegrimo con aria di disprezzo. - E con che lo pagheresti? - Vedete questa ghianda bucata? - riprese il mendicante. - Ebbene, essa racchiude un ragno che sa fabbricar tele più forti che se fossero fatte di fili d'acciaio; lasciatemi uno dei vostri palafreni e io vi darò in cambio la ghianda col ragno. Il minore dei due fratelli si mise a ridere. - Lo senti, Tendegrimo; bisogna che egli non abbia sale in zucca per farci una siffatta proposta. Ma il maggiore dei conti di Papiano rispose dolcemente: - Il povero non può offrire altro che quello che ha. Poi, scendendo di sella e avanzandosi verso il vecchio, aggiunse: - Vi do il mio cavallo, buon uomo, non per il prezzo che me ne offrite, ma per amor di Gesù, il quale ha detto che i poveri sono i suoi eletti. Prendetelo, e io ringrazierò Iddio che si è servito di me per beneficarvi. Il vecchio mormorò tante e poi tante benedizioni, e, salito a cavallo con l'aiuto di Tendegrimo, s'allontanò nel prato. Tegrimo non poté perdonare al fratello quest'ultima elemosina, e si mise a rimproverarlo, dicendogli: - Stupido, dovresti vergognarti di esserti spogliato di tutto per la tua pazzia! Se hai pensato che quando tu fossi stato sprovvisto di tutto ti avrei permesso di prender metà del mio denaro, del mio mantello e del mio cavallo, hai fatto i conti senza di me. Voglio che la lezione ti sia d'esempio e che, sentendo le conseguenze della tua prodigalità, tu sia più economo per l'avvenire. Gli uomini che la contessa Costanza aveva dato come scorta ai figli, offrirono il loro cavallo al conte Tendegrimo, ma questi rifiutò e, rispondendo al fratello, disse: - È infatti una buona lezione, e non mi rifiuto ad averla. Non ho mai pensato a toglierti metà del danaro, del mantello e del cavallo. Segui anzi la tua via e fatti scortare come si conviene a gentiluomo, senza occuparti di me. Che la Signora del Cielo ti protegga! Tegrimo non rispose, ma fece cenno alla scorta di seguirlo e partì di trotto, mentre il fratello maggiore continuava il viaggio a piedi senza movergli neanche in cuor suo nessun rimprovero. Il minore dei conti di Papiano giunse così a un angusto passaggio fiancheggiato da due montagne altissime. Quel passaggio era chiamato il Sentiero Maledetto, perché un Orco abitava sulla vetta di uno dei due monti, e stava in agguato attendendo i viaggiatori, come farebbe una fiera nel bosco. Quest'Orco era un omone cieco, senza piedi, ma aveva l'udito così fino, che sentiva perfino una talpa se si scavava un buco sottoterra. Teneva al suo servizio due aquile che aveva addomesticate e che mandava ad afferrar la preda, quando la sentiva vicina. Le persone del paese, per passar da quel sentiero, si levavano le scarpe e non osavano respirare dalla paura d'esser sentite dall'Orco. Tegrimo, che non lo sapeva, entrò a cavallo nel sentiero con tutta la scorta. Il Gigante, udendo rumore di ferri sui sassi, si destò e disse: - Su, miei bracchi, dove siete? L'aquila bianca e l'aquila rossa accorsero alla chiamata. - Andatemi a ghermire chi passa, e così avrò la cena! - esclamò l'Orco. I due uccelli smisurati fenderono l'aria come due dardi, piombarono sul sentiero scavato nella terra e, afferrato che ebbero Tegrimo, lo portarono alla casa dell'Orco. La scorta, spaventata, voltò briglia e si diede alla fuga. In quel momento Tendegrimo giungeva all'imboccatura del sentiero, e vedendo il fratello trasportato in aria dalle aquile, gettò un grido e corse dietro a lui; ma Tegrimo e i suoi due assalitori sparirono in un battibaleno nelle nuvole, che avvolgevano le due montagne. Il giovinetto rimase per un momento fermo, guardando il cielo e le montagne che sorgevano a picco, e poi cadde in ginocchio e congiungendo le mani, esclamò: - Iddio onnipotente, che avete creato il mondo, salvate Tegrimo, il fratel mio! - Non scomodare Iddio per tanto poco, - dissero tre vocine a poca distanza da lui. Tendegrimo si volse meravigliato. - Chi ha parlato? Dove siete? - domandò. - Nella tasca del tuo farsetto, - risposero le tre voci. Il giovinetto tolse di tasca la noce, la castagna e la ghianda, dov'erano rinchiusi i tre piccoli insetti. - Siete dunque voi che volete salvare Tegrimo? - Noi, noi, noi, - risposero in coro le tre vocine. - E come farete, poveri animalucci? - Apri le nostre prigioni e vedrai. Tendegrimo fece come volevano le tre bestioline, e allora il ragno si accostò ad un albero e su quello cominciò a tessere una tela lucente e solida come se fosse stata d'acciaio; poi montò in groppa alla mosca dorata, che lo sollevò pian piano nello spazio, mentre il ragno continuava la trama i cui fili erano radi per modo da formare una scala che si allungava sempre più. Tendegrimo seguiva i due insetti salendo per quella scala miracolosa finché non ebbe raggiunto la cima della montagna. Allora la vespa si mise a volargli intorno al capo, ed egli, seguendola, giunse alla casa dell'Orco. Questa casa era una grotta scavata nel masso e alta come la navata di una chiesa. L'Orco, cieco e senza gambe, stava seduto nel centro della caverna e cantava una canzonaccia mentre tagliava le fette di lardo per fare arrostir Tegrimo, che era sdraiato per terra con le gambe legate e le braccia dietro la schiena. Le due aquile stavano a poca distanza; una attizzava il fuoco e l'altra caricava il girarrosto. Il rumore che faceva il Gigante cantando, e l'attenzione che prestava a preparar le fette di lardo, gl'impedirono di sentire che Tendegrimo si avvicinava con i suoi tre insetti; ma l'aquila rossa vide il giovinetto e stava già per afferrarlo, quando la vespa le bucò gli occhi col pungiglione di diamante. L'aquila bianca accorse in aiuto della compagna, ma fu accecata subito anche lei. Allora la vespa volò intorno al capo dell'Orco, che s'era alzato udendo il grido dei suoi servi, e si die' a pungerlo furiosamente nella faccia. Il Gigante muggiva come un toro ferito e agitava le braccia a guisa delle ali di un mulino a vento, ma non poteva acchiappar la vespa, perché non la vedeva, e neppur poteva fuggirla perché non aveva piedi. Alla fine si lasciò cadere col viso in terra per sottrarsi al pungiglione del rabbioso animale; in quel momento però giunse il ragno e tessé sopra a lui una rete, nella quale rimase come un topo nella trappola. L'Orco urlava chiamando le aquile; ma queste, che erano imbestialite dal dolore e s'accorgevano che egli era vinto, avevano cessato di temerlo; anzi, volendo vendicarsi su di lui della lunga schiavitù in cui le aveva tenute, gli si gettarono addosso e, attraverso la rete, gli lacerarono le carni col becco. A ogni colpo esse strappavano un lembo di carne sanguinante, e non cessarono, se non quando furono giunte all'osso. Allora si coricarono sulla carcassa dell'Orco, e siccome la carne del Diavolo non si digerisce, creparono d'indigestione. Intanto Tendegrimo aveva sciolto il fratello, e dopo averlo abbracciato piangendo dalla gioia, lo aveva menato fuori della casa dell'Orco, sul picco della montagna. Costì giunsero la vespa e la mosca coll'ali d'oro, attaccate a un carro, e pregarono i due fratelli di salirvi. Il ragno si mise davanti sul timone, e i due insetti volarono via rapidamente. Tendegrimo e Tegrimo attraversarono così i prati, i boschi e le montagne, e giunsero a Ravenna, dinanzi al palazzo del loro nonno. Il carro passò sul ponte levatoio e i due fratelli videro nel cortile i loro cavalli, che li aspettavano, e la loro scorta. Ma sull'arcione di Tendegrimo erano appesi la borsa e il mantello che aveva donati per via; soltanto la borsa era più grande e più piena, e il mantello era ornato di ricchi fermagli di diamanti. Il giovinetto avrebbe voluto rivolgersi ai tre insetti che lo avevano aiutato a salvare il fratello, per saper qualche cosa, ma il carro era sparito e, invece di tre insetti, vide dinanzi a sé tre angioli splendenti di luce. Tendegrimo cadde in ginocchio. Allora uno dei tre angioli gli disse: - Non temere, mio buon giovanetto, perché la donna, il bambino e il vecchio, che tu hai soccorsi, erano Maria, Gesù e san Giuseppe. Ci hanno dati a te perché tu potessi fare il viaggio senza pericolo e, ora che sei giunto, noi torniamo al Paradiso. Dette queste parole gli angioli avevano allargate le ali ed erano volati su in Cielo, cantando la gloria del Signore. Ciò che il fratello aveva operato per la sua salvezza avrebbe dovuto raddolcire l'animo duro di Tegrimo; invece lo inasprì maggiormente contro il fratello, tanto più che il nonno, che era il conte da Polenta, faceva più festa a Tendegrimo che a lui, e, come si conveniva al primogenito della famiglia, lo poneva alla sua destra a tavola e a cavallo, e lo chiamava messer il Conte, mentre a lui non dava nessun titolo. Il Diavolo forse, che si attacca ai malvagi, sul cui animo ha maggior presa, come la crittogama attacca le viti più deboli, incominciò a insinuare a Tegrimo che non era giusto che egli non fosse onorato come Tendegrimo e che a questi spettasse tutta l'eredità paterna. Questi pensieracci infiammarono il giovine alla ribellione; ma seppe nasconderla e covarla per poterla meglio effettuare al momento opportuno. Intanto era trascorso il tempo che i due fratelli dovevano passare alla Corte del nonno, e la contessa Costanza li richiamava con insistenza presso di sé, tanto più che aveva chiesto all'Imperatore l'investitura della contea e dei feudi per il figlio maggiore, e attendeva il ritorno del mèsso. Il vecchio conte da Polenta fece ricchi donativi ai nipoti prima che partissero; egli raccomandò al maggiore di osservare sempre le regole di buona cavalleria, e al minore di ubbidire in tutto e per tutto al fratello come suo signore e padrone. Queste parole fecero fremere Tegrimo; ma il Diavolo, che s'era impossessato dell'animo suo, gli dette la forza di non mostrarsi turbato, anzi, di promettere al nonno d'uniformarsi in tutto e per tutto ai voleri del fratello. Molta turba di cavalieri accompagnò i due giovani oltre le porte della città, e Tendegrimo e Tegrimo continuarono il viaggio con la loro scorta. Essi dovevano ripassare dall'angusto sentiero fra le due montagne, nel quale il secondo era stato involato dalle aquile. Giunti in quel punto, Tendegrimo scese da cavallo e ringraziò Gesù, la Madonna e san Giuseppe per la liberazione del fratello. Quindi rimontò a cavallo e proseguì il viaggio scambiando poche parole col fratello. Tendegrimo era triste come se lo minacciasse una sventura, e Tegrimo ruminava nella mente pensieri malvagi ed evitava di guardare in faccia il suo primogenito. Quando il loro arrivo fu segnalato alla contessa Costanza dal soldato che stava sempre in vedetta sulla più alta torre merlata del castello, ella mosse incontro ai figli, lieta e sorridente, e s'imbatté in essi mentre varcavano il ponte levatoio. I due giovani balzarono da cavallo per baciarle la mano, ed ella, stendendo la sinistra a Tegrimo e la destra a Tendegrimo, disse a questi: - Vi saluto, conte di Papiano. Per volontà dell'Imperatore voi siete investito de' feudi del padre vostro. Che possiate, messere, difenderli ed aumentarli! Tegrimo divenne cupo a quella notizia e sentì ribollirsi nel cuore tutto l'astio che aveva per il fratello, mentre questi, con fare umile, rispose alla madre: - Madonna, con l'aiuto di Dio cercherò d'esser buon figlio, buon signore e buon cristiano. La Contessa ordinò subito grandi feste per solennizzare l'investitura di Tendegrimo nei feudi paterni, e spedì messi a Poppi, a Romena, a Porciano, a Montemignaio, per tutto dove avevano dominio i Guidi, e anche ad Arezzo e a Firenze. Tegrimo, dominato il turbamento momentaneo, si mostrò lieto delle imminenti feste; ma sotto sotto si diede a cospirare contro il fratello. Prima di tutto fece intendere ai terrazzani che Tendegrimo, inclinato alla devozione più che alle armi, non avrebbe permesso scorrerie sulle terre vicine e si sarebbe mostrato severissimo con i predoni. Ora, siccome era dalle scorrerie in Romagna o sul territorio della Repubblica fiorentina che i terrazzani traevano il maggior guadagno, essi s'impensierirono di dover ubbidire al nuovo signore e incominciarono a dire che i devoti dovevano rinchiudersi nei conventi, e che non era giusto che gli uomini forti e valorosi avessero a poltrire nell'ozio. Quando Tegrimo fu sicuro di aver suscitato nei terrazzani il malcontento contro il fratello, parlò dei suoi sentimenti, disse che non sognava altro che guerre e conquiste, e che se il dominio gli fosse spettato, egli avrebbe meritato il nome del più ardito e intraprendente cavaliere d'Italia. Naturalmente, dopo questi discorsi, ci fu chi gli disse: - Peccato che voi non siate signore di Papiano! E siccome una parola detta abilmente tira un'offerta, così ci fu anche chi gli propose di far sparire Tendegrimo. Il giovane finse di raccapricciare a quella proposta, ma poi si lasciò convincere, e fra Tegrimo e i congiurati fu stabilito il come e il quando metterla ad effetto. Intanto il castello di Papiano era pieno di ospiti, e fra questi si trovavano molte dame e fanciulle, parenti della contessa Costanza. Una sera tutta la comitiva era adunata nella grande sala, intenta ad ascoltare due trovatori provenzali, che sonavano il liuto accompagnando il canto, quando sulla porta si presentò uno dei congiurati, cui era affidata la guardia del castello, e dopo aver rivolto uno sguardo d'intesa a Tegrimo, si accostò a Tendegrimo e gli disse: - Messer il Conte, è giunto ora un cavaliere seguito da due valletti, che chiede l'ospitalità. - Il suo nome? - domandò Tendegrimo. - Ha detto che non può rivelarlo in segretezza altro che al signore di Papiano. - Fatelo entrare nella sala terrena, - ordinò Tendegrimo; e poco dopo, scusandosi con la radunanza, usciva per recarsi presso lo sconosciuto. Tegrimo lo seguì con lo sguardo, e siccome i trovatori avevano interrotto il suono e il canto, egli disse: - Gentili dame, diamo principio alle danze intanto che il Conte confabula col misterioso cavaliere. Al suo invito i trovatori ripresero a suonare, le dame si alzarono dagli scanni stemmati, i giovani le pregarono del favore di poterle accompagnare, e ben presto la sala vastissima echeggiò dello stropiccio dei passi di tante e tante coppie allegre. La contessa Costanza e alcune matrone soltanto erano rimaste sedute, e guardavano le coppie svelte di bei cavalieri e di belle dame, ammirando Tegrimo, che si distingueva fra i giovani per la bella persona e per la foga nella danza. A un tratto, mentre i paggi entravano recando i preziosi vasi d'argento per mescer rinfreschi alla nobile comitiva, si sentì un rumore secco, come di fulmine caduto sul castello. Le danze cessarono, il liuto cadde dalle mani dei trovatori, i paggi lasciarono scivolare in terra i vasi d'argento, e le torce che illuminavano la sala si spensero a un tratto. Ma subito dopo si vide un gran chiarore, come d'incendio, e dalle finestre, che si erano spalancate, penetrò in sala il Diavolo; piombò su Tegrimo e, afferratolo per un braccio, lo portò via. Sparì il chiarore, e nella sala buia nessuno osava fiatare. La contessa Costanza era caduta in terra, le altre dame avevano perduto i sensi; e gli uomini si facevano in silenzio il segno della croce. Nel castello però echeggiavano i gridi di trionfo dei congiurati. - Evviva il conte Tegrimo! - urlavano avvicinandosi alla sala per annunziare al nuovo signore che la sua volontà era compiuta. A quelle grida i signori di Poppi, di Romena, di Porciano e di Montemignaio, tutti i Guidi, per farla breve, capirono che un delitto doveva essere stato commesso, e sguainarono tutti la spada. Così, quando i congiurati entrarono con le torce in mano per acclamare Tegrimo, furono assaliti e disarmati e rinchiusi in una torre. I prodi signori, dopo aver compiuto quest'atto di giustizia, scesero al pianterreno, e, chiamando in loro aiuto i valletti che li avevano accompagnati, s'impadronirono degli altri congiurati. Poscia, entrati nella sala dove era stato attratto Tendegrimo, lo trovarono steso in terra con una ferita di pugnale al petto, da cui sgorgava abbondantissimo il sangue. Alcuni dei congiurati, impauriti, rivelarono che il Conte era stato tratto in quell'agguato, col pretesto del cavaliere misterioso, per ucciderlo più facilmente in quella sera che egli non vestiva la maglia, e che Tegrimo era stato l'istigatore del delitto. - Tegrimo lo ha preso il Diavolo, - disse il conte di Romena. Udendo questo, i congiurati furono assaliti da grande paura, e colui che aveva vibrato il colpo, si gettò in terra supplicando che lo lasciassero in vita, affinché potesse pentirsi e far penitenza. In quel mentre il ferito, che tutti avevano creduto morto, aprì gli occhi, si sollevò a sedere, e disse: - Perdono a tutti, anche a mio fratello. - Troppo tardi! - esclamò il conte di Romena. - Come, lo avete ucciso? - domandò Tendegrimo spalancando gli occhi. - No, il Diavolo l'ha portato seco. - Gesù, Giuseppe e Maria! - esclamò il ferito, e ricadde con la testa per terra. Fu adagiato sopra una barella e portato in camera sua, dove frate Egidio gli curò la ferita con certi suoi farmachi, e la madre, ritornata in sé, gli preparò le bende. La ferita si rimarginò in pochi giorni e il Conte non soffriva nulla, anzi diceva di sentirsi bene e di veder sempre tre angeli che non si staccavano mai dal suo letto. Il poveretto non lamentava altro che la dannazione dell'anima del fratello. Quando fu guarito, cedé il suo feudo a un figlio del suo cugino di Romena, ed egli si ritirò nell'Eremo di Camaldoli, dove si raccolse in ardenti preghiere per riscattare i peccati del fratello e dove morì in concetto di santità. Se qualcuno va a Papiano, sentirà raccontare ancora della visita del Diavolo che andò a rapire in piena festa il conte Tegrimo. - E qui la novella è terminata, - disse la Regina. Tutti quelli che avevano ascoltato la narrazione, rabbrividivano e dicevano: - Ma sarà vero? Maso, per levar la paura da dosso ai bimbi, cominciò a dire: - Non lo sapete che le son fole! Uno comincia a dire che un uomo brutto capitò in mezzo alla festa; un secondo aggiunge che era brutto da far paura; un terzo afferma che era il Diavolo in persona, e così la notizia, aumentata dalle fantasie, passando di bocca in bocca, fa come un torrente che raccolga l'acqua di tanti fossi prima di giungere al piano. Quando arriva a noi, quella tale notizia ha perduto tutta l'apparenza della verità, e serve soltanto a rallegrare le nostre veglie. Ma né Diavolo né Santi bazzicano nel mondo, e i morti non risuscitano. La parola autorevole del capoccia rassicurò i bimbi, che si fecero intorno alla Vezzosa per chiederle i confetti che aveva cavato di tasca e che offriva. - Quando si mangeranno i vostri? - domandò Maso. Ella fece spallucce e abbassò gli occhi; Cecco si voltò da un'altra parte, e le cognate sorrisero guardandosi fra loro di sottecchi. Quella sera Cecco uscì a fumare prima che si sciogliesse la veglia, e poco dopo passò la Vezzosa, imbrancata con le altre ragazze, che cantava a squarciagola: Giovanottin che semini fra' sassi, Non lo sperar d'aver buona raccolta: Tu cerchi di venir dietro a' mi' passi, Ma sai che ci se' stato un'altra volta. - Vorrei sapere se canta così per me! - disse Cecco mordendosi un dito.

A farla breve, la bella fanciulla, invece di prendere il velo, com'era sua intenzione, credendosi abbandonata da Gentile, sposò il giovane conte di Porciano con grandissimo piacere del padre e con dispetto immenso delle sorelle. Gentile condusse la sua sposa con molta pompa in Casentino, dove vissero lungamente felici. - E qui, cari miei, la novella è finita; - disse la Regina, - ma nel parlare di Porciano, me n'è venuta in mente un'altra molto bella, che vi racconterò la settimana ventura. Per ora, buona notte, io sono stanca e vado a dormire.

Ma allorché fu a poca distanza, vide l'aia abbandonata, le macerie fumanti, e i cadaveri dei suoi bimbi, stretti l'uno all'altro. In quel momento Bardo capì il suo misfatto e soffrì più per il rimorso che per le bruciature delle carni. Egli sentì che il suo corpo, ridotto come un cero di carne fumante, prendeva radici nel suolo. Volle di nuovo fuggire da quel luogo, ma non poté, e dopo poco, i pietosi contadini, preceduti dal prete e dalla bara, andando a prendere i cadaveri di Nando e di Lisa, lo videro piantato in terra, ardente nella sommità e gocciolante lacrime di cera, che erano le lacrime della sua anima desolata. Il sacerdote e i pii uomini che lo seguivano, si accòrsero che quel cero umano era il corpo di Bardo e non tardarono a capire che egli era l'autore dell'incendio. Nonostante ebbero pietà dei suoi patimenti; il prete lo asperse di acqua santa e i contadini pregarono affinché fosse liberato da quel supplizio atroce. Ma Bardo rimase piantato in terra. Durante la notte egli mandava una fiamma viva e continui lamenti, e durante il giorno una luce assai più mite e copiose lacrime. La Fortunata e il marito non ebbero coraggio di riedificare la casa. Dopo avere tolte le macerie e ricuperati i denari che vi erano rimasti sotterrati, essi si costruirono, lontano da quel luogo, un'altra casa, e lì eressero una cappella, detta del Perdono, alla quale affluiva la gente da ogni parte del Casentino per pregare riposo a Bardo ed anche per vedere quel prodigio di cero umano. Ma le preghiere di tutta quella gente non ottenevano nulla; Bardo continuava a patire l'atroce supplizio. Allora un giorno, fra tanta folla di gente, comparve una donna pallidissima e scarna, con i capelli scendenti sulle spalle, i piedi scalzi e una pesante croce di legno sulle spalle. Ella, invece di andare alla cappella del Perdono, s'inginocchiò dinanzi al cero ardente, e, piantata in terra la croce, si mise a pregare e vi rimase tutta la notte. La folla, allorché fu sopraggiunta la sera, si allontanò da quel luogo; peraltro, alcune persone, fra le più curiose, vi rimasero, e a un certo punto videro scendere dal Cielo due angioletti, i quali si posero ai fianchi della donna pregante e unirono le loro orazioni a quelle di lei. Alcuni fra i presenti pretesero di riconoscere in quei due angioletti i figli di Bardo, morti nella casa incendiata. Però, prima che l'alba imbiancasse la campagna, gli angioletti erano rivolati in Cielo, lasciando la donna, la quale, senza alzarsi mai, continuava a pregare. La gente, commossa, le portava cibo e acqua per ristorarsi; ma ella, con un gesto umile della mano, ricusava tutto, e rimaneva inginocchiata senza voler rompere il digiuno che pareva si fosse imposta, senza toglier neppur un istante lo sguardo di sul cero ardente. L'unico sollievo che costei si concedesse, consisteva nell'aprir la bocca ogni tanto durante la notte e all'alba per ricevere la carezza del vento fresco. A forza di pregare, la sua voce si era fatta rauca, e dopo tre giorni non le usciva dalla gola altro che un suono inarticolato. La folla non si moveva più dalla cappella del Perdono, per vedere la donna e accertarsi che non mangiava né dormiva mai, e per attendere la discesa degli angioli dal Cielo. La quarta notte, i due angioletti, invece di collocarsi accanto alla donna genuflessa, andarono ai fianchi del cero umano e con le loro manine rosee lo afferrarono là dove stava conficcato nella terra e da quella lo divelsero. Il cero gemé più forte del solito, ma essi, senza badare a quei gemiti, lo portarono, volando per l'aria, su alla cappella degli angioli della Verna, collocandolo dinanzi all'altare. Intanto la donna s'era alzata e, caricandosi sulle spalle la pesante croce, si avviava su per l'aspro monte, inciampando ogni momento e rialzandosi con fatica. Quando ella fu giunta alla Verna, stramazzò e cadde senza potersi rialzare. I frati, vedendo gli angioli, il cero umano e quella donna caduta sotto la croce, immaginarono che stesse per compiersi un miracolo e mossero in processione verso la chiesina. Ma gli angioli erano già volati via e il cero rimaneva dritto, senza alcun sostegno, dinanzi all'altare. Allora la donna fu sollevata di sotto la croce, ed ella fece cenno che desiderava di esser portata dinanzi all'altare insieme con la croce. I frati si misero a pregare, ed ella, non potendo più articolare nessuna parola, pregava con lo sguardo supplice, rivolto sull'immagine di san Francesco, dipinta sull'altare, e su quella della Madonna. A un tratto si vide il Santo muovere le labbra e si udì una voce dolcissima domandare: - Bardo, sei pentito? - San Francesco beato, - rispose il cero spargendo lacrime abbondanti, - è tanto il mio pentimento che ringrazio il Signore del supplizio che mi ha imposto, e lo supplico di prolungarlo, se questo può lavarmi dall'orribile peccato. Il Santo sorrise di beatitudine e allora la donna, che pareva morta, si riebbe e, alzatasi, si avvicinò al cero e lo abbracciò. In quel momento si aprì la vôlta della chiesina e scesero da quella i due angioli, i quali, con le loro manine, unsero di un balsamo celeste tutto il cero. La fiammella si spense e Bardo riprese effigie umana. Quindi gli angioli, cantando, sollevarono sotto le ascelle la povera donna e insieme con essa volarono al Cielo. Nel medesimo tempo la vôlta della chiesina si richiudeva, e san Francesco faceva udire di nuovo la sua dolce voce: - Bardo, tu sei perdonato. Le preghiere dei tuoi figli, convertiti in angioli di Dio, e le suppliche di tua moglie, la quale, per salvarti, aveva rinunziato alla gloria del Cielo, hanno operato il miracolo. Ora ritorna fra gli uomini e cerca, col buon esempio, di cancellare la memoria del tuo peccato. Bardo si alzò e uscì dal convento. Egli, invece di fuggire i luoghi ove era conosciuto, andò per primo alla casa della Fortunata. La buona donna, nel vederlo, si mise a gridare dalla paura; il marito prese un forcone per cacciarlo, minacciandolo di morte. Ma Bardo non si mosse e disse: - Colpitemi, uccidetemi pure, io non temo né i patimenti né la morte. Vi ho fatto un gran danno e voglio cercare di rimediarlo. Lavorerò per voi come un cane e non avrete servo più devoto di me. E da quel giorno lavorò i campi del capoccia, fece l'erba per le bestie, badò che nessuno gli rubasse l'uva e non chiese mai nulla, cibandosi di radici e d'erbe. Il capoccia avrebbe voluto mandarlo via con la forza, ma la Fortunata, impietosita da quel pentimento, lo lasciava lavorare e gli avrebbe dato qualcosa di meglio da mangiare e un ricovero per la notte. Bardo, però, ricusava il cibo come ricusava l'alloggio, e passava le nottate sulla nuda terra, sotto la vôlta del cielo. Per anni e anni egli servì così la famiglia della Fortunata. Dopo un certo tempo, anche il capoccia si abituò a lui e cessò dal vilipenderlo e dal maltrattarlo, accettando l'opera di Bardo con piacere, vedendo che l'infelice, profondamente pentito, vegliava di continuo sulla casa sua e sui suoi. Un giorno, la figlia minore della Fortunata e del capoccia era andata a guardare le pecore sul monte. Bardo, che non aveva nulla da fare, la seguì. Dopo aver lungamente camminato per trovare una piaggia erbosa, perché l'autunno era inoltrato, la ragazzina si fermò sopra un ripiano, a fianco di una selva di abeti, e, sedutasi sopra un sasso, lasciò le pecore pascere a loro piacere. Bardo s'era posto dietro un masso e intrecciava un canestro di vimini, senza perder d'occhio la ragazzina, la quale, stanca per la lunga corsa, reclinò il capo sul petto e si addormentò profondamente. Di lì a poco, un lupo sbucò fuori dal bosco, seguìto da una lupa. Ristette un momento, poi, assalito alle spalle il cane della pastorella, gli ficcò i denti nella carne, mentre la lupa si avvicinava alla ragazzina dormente. Le pecore s'erano date a fuga precipitosa vedendo i loro nemici. Bardo, veloce come il lampo, uscì dal suo nascondiglio e, afferrato un sasso, lo lanciò contro la lupa famelica senza colpirla. Quindi, vedendo che essa stava per azzannare la mano della ragazzina, fece un lancio e si mise fra la dormente e la belva. Questa, infuriata, gli saltò addosso sbranandogli le carni. Il poveretto, non curante del dolore, urlava: - Salvati! Salvati! La ragazzina si destò e, sentendo l'avvertimento, diedesi a fuga precipitosa. Appena vide un albero vi si arrampicò sopra come uno scoiattolo. Bardo, che era rimasto alle prese con la lupa, mentre il cane lottava col lupo, cessò di difendersi appena vide in salvo la figlia della Fortunata e fu orribilmente sbranato. Le due belve, allorché furono sazie, tornarono nel bosco, e la ragazzina, vedendo passato il pericolo, scese dall'albero, riunì le sue pecore e tornò a casa tremante e spaventata, narrando il tragico fatto. La Fortunata, che aveva perdonato da un pezzo a Bardo, non volle che il corpo di lui rimanesse insepolto, e tanto disse e tanto fece che indusse il marito e alcuni altri uomini ad andarlo a prendere, insieme con un prete. Il cadavere, orribilmente mutilato, fu portato al camposanto, e gli venne data onorevole sepoltura. Quello che sia avvenuto di Bardo nel mondo di là, non lo so davvero; so che in casa della Fortunata nessuno malediva la sua memoria, anzi, parlavano di lui con riconoscenza, e la buona donna non sapeva darsi pace che egli fosse morto per salvare la figlia di lei. Ogni giorno la buona famiglia di contadini recitava preci per il riposo dell'anima di Bardo, e la ragazzina specialmente gli serbava un grato ricordo di lui. - Ora la novella è finita, - disse la Regina, - e presto non potrò più raccontarvene. - Perché, nonna? - domandarono i bimbi. - Perché tutte quelle che sapevo le ho già dette, meno una, la più bella, che vi narrerò domenica prossima. Io non sarei capace di cavarmele dal cervello. Tutte quelle che ora ho raccontate, mi erano state dette più di una volta, e perciò le sapevo quasi a mente; ma ora non ne so più e non saprei inventarne altre. Dunque, per l'inverno prossimo, per le lunghe veglie settimanali, dovremo ricorrere a qualche altro passatempo. - Purché sia divertente! - esclamarono i bimbi. - Il solo divertimento non basta, - replicò la Regina. - Fin d'ora dovete assuefarvi a cercare nelle cose più il lato utile che quello divertente; dovete pensare che la missione dell'uomo è molto seria, e bisogna prepararvisi fino da piccoli con la riflessione. Chi cerca nella vita solo il divertimento, va avanti poco bene, ve lo assicuro io. Maso confermò le osservazioni della vecchia, e disse ai figli e ai nipoti che, durante le veglie dell'inverno, avrebbero ascoltato la lettura di buoni libri, fatta da Cecco alla famiglia riunita. - Tu ci leggerai Le mie prigioni di Silvio Pellico, - disse Vezzosa, la quale ricordava con tenerezza l'episodio che si riferiva a quel libro e che era il primo forse della catena dolcissima del loro affetto. - Leggerò tutto quello che mi chiederete, - rispose Cecco, - ma credo che sarà difficile che in essi troviate maggior diletto e maggior utile che nelle novelle della nonna. Ella, in mezzo a narrazioni fantastiche, vi ha insegnato tante cose; ogni novella racchiudeva esempi di fortezza di carattere, di virtù e di rassegnazione nelle sventure, e con tatto squisito ella sceglieva quelle più adattate al presente stato dell'animo nostro ... Mamma, - aggiunse volgendosi verso di lei, - voi non sapete quanto bene ci avete fatto nei momenti di scoraggiamento e di dolore. La vecchia non rispondeva, e grossi lacrimoni le scendevano lungo le guance e le bagnavano il viso. Anche Vezzosa, che s'era fatta pallida e sofferente in quegli ultimi tempi, piangeva. Ogni piccola commozione la turbava, e pareva che attendesse trepidante la nascita del bambino, della cui venuta non si parlava nemmen più, ora che il matrimonio dell'Annina occupava tutti quelli di casa. - Maso, - disse la Regina riportando il pensiero a Camaldoli, - aspetta che siano tutti a letto; ho da parlarti. - Mamma, - rispose il capoccia turbandosi, - forse che quel che dovete dirmi è cosa che la famiglia non possa sentire, è cosa che faccia vergogna? - No, Maso; ma certe cose si dicono meglio a quattr'occhi; sai bene che io non sono buona a chiedere. Dopo questa dichiarazione, le donne portarono a letto i figliuoli. I fratelli andarono a fumare sull'aia, e quando la vecchia e il capoccia furono soli, questi disse: - Ora, mamma, parlate? - Parlate! - ripeté la Regina. - Ti assicuro che ricomincerei fin da principio tutte le novelle, piuttosto che dirti quello che devo; e se non l'avessi promesso, tacerei. - Mamma, mi spaventate! - Non c'è motivo. Ebbene, sappi dunque che Carlo, conoscendo sempre meglio l'Annina, vorrebbe sposarla prima del termine fissato per il loro matrimonio. Egli deve tornare subito a Firenze, e d'inverno sarà per lui molto difficile di assentarsi per venirla a vedere. Io ti consiglierei di appagare il suo desiderio. Un anno è lungo a passare. - Son tutte belle parole quelle che dite, mamma, - rispose il capoccia interrompendola, - ma il matrimonio è una cosa seria e non bisogna contrarlo altro che dopo averci pensato bene. Mi pare che Carlo abbia il difetto di tutti i giovani e degli uomini d'oggigiorno: l'impazienza e la fretta. Vi ricordate che, prima di sposare la Carola, andai a veglia da lei tre anni, e quando il mio suocero, buon'anima, mi metteva con le spalle al muro per farmela sposare presto e dare intanto la via a una delle sue quattro figliuole, io gli rispondevo che al matrimonio, come a tutte le risoluzioni gravi che si prendono nella vita, bisognava pensarci prima, per non pentirsi poi. Vedete che a tardare me ne son trovato bene, e quando ho sposato la Carola, sapevo che virtù e che difetti aveva, e per questo siamo andati sempre d'accordo. - Tu hai ragione, ma la Carola potevi vederla quando volevi, perché le nostre case erano a poca distanza e la sera andavi sempre da lei; ma Carlo sta a Firenze, l'Annina a Camaldoli, e in capo a un anno essi si conosceranno quanto ora e non più di certo. In quest'anno, se Carlo avrà moglie, farà maggiore economia, e così potrà ricondurre più presto l'Annina in Casentino e incominciar quella vita di proprietario ch'è il suo sogno. Non ti pare che, in vista di queste considerazioni, tu potresti cedere e non ostinarti a restar fedele ai principî di quel che è detto è detto? Nella vita sopravvengono spesso tanti avvenimenti, che ci costringono a derogare dalle risoluzione prese, e questo prepotente affetto di Carlo per l'Annina è cosa da esser presa in considerazione. Rifletti, e poi dimmi che cosa debbo fare scrivere da Vezzosa a Carlo. Il capoccia rifletté qualche tempo e poi disse: - Io non lo capisco quest'affetto che non può aspettare un anno, come se un anno fosse la vita di un uomo. Ma se voi credete che l'Annina sia seria abbastanza per maritarsi e che Carlo sia capace di tenerla bene e dimostrarle affezione, derogherò volentieri dal mio principio per compiacervi; ma badiamo poi che voi, mamma, non dobbiate pentirvi della vostra bontà, ed io della mia condiscendenza. - Spero che Iddio mi risparmi questo dolore, - disse la vecchia sorridendo, - e finché sarò in vita aiuterò la giovane coppia con i miei consigli, e, dopo morta, con le mie preghiere. - E batti! - esclamò Maso che non voleva sentir parlar di malinconie. - Quando la finirete di parlar di cose tristi? Regina non rispose, ma sorrise affettuosamente al figliuolo per la concessione fattale.

Il signor di Poppi, rimasto padrone del campo, si avanzò, e, sceso da cavallo, raccolse la preda abbandonata dal suo competitore; ma nel vedere che i due strali avevano colpito un fagotto di cenci bianchi, die' in una sonora risata; poi, ripensando che quel fagotto di cenci era stato cagione della morte del suo bel falco, così sapientemente ammaestrato, ordinò a uno de' suoi paggi di raccoglierlo e di bruciarlo nel cortile del castello di Poppi, tanto più che egli pure credeva agli incantesimi e temeva che da quei cenci gli venisse qualche grande malore. Il fiero conte Guido rifece dunque l'erta salita che conduceva alla sua dimora, e, giuntovi, ordinò si preparasse un rogo sul quale fece porre il turbante. Appiccato il fuoco alle legna, queste incominciarono a friggere, si fecero nere come se fossero state verdi, mentre da esse si sprigionava una bava bianca e molto fumo, ma nessuna fiamma viva. Le legna furono cambiate tre volte, ma ogni volta si spensero, senza bruciare il turbante. Il signor di Poppi si faceva sempre più cupo e accigliato. Ormai non dubitava più che quel turbante fosse incantato e possedesse una virtù nascosta. - Gettatelo nei vortici dell'Arno, - ordinò ai suoi uomini. Ma appena ebbe espresso questo comando, il turbante volò in aria e andò a posarsi sopra uno dei merli ghibellini dell'altissima torre che si ergeva nel centro del castello, e vi rimase come inchiodato. Ora torniamo un passo addietro e andiamo a vedere che cosa era successo al vecchio dalla cappamagna, rinchiuso nella capanna del Diavolo. Egli non cessava d'invocare i suoi santi protettori, ma nessuno veniva in suo soccorso, perché la casa apparteneva al Diavolo, e in casa del nemico i santi non potevano operare miracoli. Il povero vecchio vedeva con raccapriccio calare il sole, poiché temeva che allo scoccar della mezzanotte il Diavolo sarebbe tornato a molestarlo. Ma passò la notte senza che nessuno si presentasse, perché Satanasso, nelle poche ore che poteva scender sulla terra, aveva altre faccende da sbrigare e doveva cacciar gli angeli bianchi dalla grotta di Montecornioli, e insediarvi i suoi angeli neri. Ma intanto la fame, e più il freddo, scemavano le forze del vecchio, e il Diavolo, abbandonandolo in quel modo a tutte le intemperie, aveva calcolato che alla fine il vecchio, sentendosi morire, lo avrebbe invocato, e così quell'anima sarebbe stata conquistata all'inferno. Ma il vecchio tenne saldo, e, finché ebbe fiato, invocò tutti i santi del Paradiso e per ultimo san Francesco, che aveva ricevute da Gesù le stimate sul fiero monte della Verna. Il gran Santo, che non aveva temuto il Diavolo sull'orlo del precipizio e si era abbrancato con fede al masso, il quale, fattosi molle come cera, gli aveva permesso di piantarvi le mani, non lo temé neppure in questa occasione, ed impietosito della sorte del vecchio, scese in terra sotto le spoglie di un fraticello cercatore del suo ordine, e salì il monte di Poppi. Giunto colassù, vedendo tutto il popolo radunato in piazza a mirare quel turbante posato sul merlo della torre, e udendo narrare le meraviglie avvenute a Montecornioli in quei due giorni, si diresse verso il castello e chiese del conte Guido. - Signore, - gli disse quando fu ammesso alla sua presenza, - odo che tu sei stato turbato da avventure soprannaturali; vuoi permettere a me, umil fraticello, di usare contro queste maraviglie il segno della salute? - Fa' ciò che ti aggrada, buon frate, - rispose il conte, - e se tu riesci a liberarmi da quel fagotto di cenci che s'è posato sul merlo della mia torre, io farò larghe elemosine alla Verna. San Francesco andò sotto la torre, e alzando le palme, in cui erano i segni gloriosi della passione di Gesù, disse: - San Luca ti ha mandato qual messaggio di dolore; io ti comando d'indicarmi la via che conduce al tuo padrone, per liberarlo dall'eterno nemico. Appena il Santo ebbe pronunziate queste parole, il turbante scese dinanzi a lui e incominciò a volare lentamente nell'aria come un augello. I due dardi conficcati nel turbante dal signor di Poppi e dal signor di Lierna, gli facevano da ali. Il Santo si pose in cammino dietro al turbante e il conte Guido, meravigliato del miracolo, seguì il fraticello e traversò il paese, scese all'Arno e poi andò su per i monti boschivi fino alla capanna del Diavolo. Il conte Guido non era stato solo a tener dietro a san Francesco. I suoi famigli, i suoi vassalli e la gente che incontravano per via, ingrossava il corteo. San Francesco pregava a voce alta, e tutti quelli che lo seguivano rispondevano a quella prece. Le fiere uscivano dai boschi e si prostravano dinanzi al Santo; dalle cime dei monti scendevano gli uccelli a stormi e formavano uno stuolo, che precedeva la processione gorgheggiando come se la terra fosse stata coperta di erbe novelle e di fiori, invece che di neve gelata. Il turbante si fermò a poca distanza dalla capanna, e così fecero gli uccelli, le belve, il conte Guido e tutti i suoi terrazzani. Il fraticello si avanzò solo, e con la sua dolcissima voce, disse: - Che in nome del Signore, morto in croce per il suo popolo, tu sia liberato! Subito dalla capanna uscì il vecchio che aveva miracolosamente riacquistato l'uso delle gambe e del braccio destro, e si prostrò dinanzi al Santo piangendo di gioia. In quel momento la capanna incominciò a crepitare ed arse come un fascio di paglia. Mentre il popolo, che era caduto in ginocchio come il conte Guido, pregava, una nuvoletta bianca scese dal cielo, avvolse il fraticello e lo sollevò nell'aria. Il vecchio dalla cappamagna riprese il suo turbante e se lo mise in testa piangendo di gioia, e alzando le palme verso la nuvola bianca, che si perdeva nel cielo, esclamò: - Gloria a san Francesco! - Gloria! - risposero i terrazzani in coro. Il conte Guido allora si accostò al vecchio e gli rivolse la parola nella lingua d'Oriente, che egli aveva appresa da un monaco di quel paese, e lo invitò ad esser suo ospite, assicurandolo che gli avrebbe fatto un onore abitando il suo castello, poiché un uomo per il quale san Francesco scendeva dal Cielo, era una benedizione per una casa. Il vecchio accettò l'invito, e la lunga processione si rimise in cammino cantando le lodi del poverello d'Assisi, del gran Santo che proteggeva il Casentino. Nel castello di Poppi, il vecchio fu accolto con ogni riguardo dalla contessa, che era figlia di un altro Guido da Romena, signore di un forte castello verso Pratovecchio. La Contessa era giovine e molto bella e di un carattere così compassionevole che non poteva veder uccidere una mosca. Costei viveva in continue angustie a fianco del marito, uomo battagliero, che era sempre in guerra con i signori di Chiusi e Caprese, e con i castellani di altri luoghi forti sul versante dell'Appennino di Romagna. Ella non sapeva farsi intendere dal vecchio, perché non parlava la sua lingua, ma ponendogli sotto gli occhi il libro delle preghiere, che era scritto in latino, e accennandogli alcune parole, gli fece capire che sperava che egli riuscisse a distogliere il Conte dal guerreggiare di continuo ed a volger la mente del Signore, alle opere pacifiche dei campi e alle opere di carità, che meritano il Paradiso. Il vecchio promise il suo aiuto alla nobile dama e incominciò subito ad ammansire il Conte; ma questi, che già aveva dimenticato le sue promesse, noiato dalle prediche del vecchio, gli disse che nessuno aveva mai osato riprenderlo, e che, se continuava, gli avrebbe dato un bordone da pellegrino e lo avrebbe mandato con Dio. Al pio vecchio quelle parole arrivarono prima all'osso che alla pelle, e preso il bastone, come soleva per andare all'abbazia di San Fedele, scese al piano; quindi, mirando sempre il gran sasso della Verna, pian piano come glielo concedevano le sue gambe, alquanto intorpidite dall'età, salì a Bibbiena. Costì, fermatosi a pernottare in un convento, a giorno riprese l'aspra via. Ma il crudo inverno era stato cacciato dalla ridente primavera, e i boschi erano tutti coperti di erba fresca e di fiori odorosi. Il vecchio giunse senza intoppo alla Verna, e siccome fin lassù erasi propagata la fama del miracolo operato da san Francesco in favore del vecchio di Gerusalemme, come lo chiamava il popolo dei dintorni, così i frati lo accolsero festosamente e lo trattarono con ogni specie di riguardi. Ora avvenne che il conte di Lierna, che serbava sempre rancore al conte di Poppi, aveva riunito nel suo forte castello quanti uomini armati aveva potuto, e le sue fucine avean lavorato giorno e notte per preparare aste, lance, dardi ed altre armi. Quando credé di essere abbastanza forte per circondare d'assedio Poppi, fece alzare di nottetempo il ponte levatoio del castello, e, traversato l'Arno, salì quatto quatto con i suoi al forte dominio del conte Guido, e in quella notte stessa si diede a batter le mura e a lanciar dei sassi nell'abitato. I terrazzani si destarono sgomenti e corsero ad avvertire il conte Guido, il quale già era sveglio e armato, e disponeva i suoi uomini alla difesa. La Contessa pure era balzata dal letto, e, circondata dai figli, andava in cerca del marito; raggiuntolo, lo chiamò da parte e gli disse: - Signor mio, prima ancora che io fossi scossa dal sonno da questo trambusto, ho avuto una visione che debbo narrarti. - Non è tempo questo di ascoltare le parole di una femmina, - rispose il Conte con disprezzo, - ritirati nelle tue camere e lasciami fare. - Signor mio ascoltami, - insisté la Contessa. - Io ho veduto in sogno il poverello d'Assisi, il quale, mostrandomi le palme trafitte, mi ha detto: "Che ne ha fatto il tuo Signore del pio vecchio che gli avevo affidato? Sappi che egli era una benedizione per la vostra casa, e se il conte Guido non lo riconduce a Poppi, tutte le sventure si abbatteranno sulla sua famiglia, sulla sua casa, su tutti voi. Il conte Guido aveva promesso larghe elemosine alla Verna, e non ha mantenuto la parola. Io sono impotente a stornar da lui l'ira celeste". - Quando avremo battuto quel ribaldo conte di Lierna, penseremo ai tuoi sogni, - rispose il Conte, e spinse la moglie e i figli dentro una stanza, di cui tolse la chiave. La Contessa piangeva come una vite tagliata, ma nessuno l'udiva, perché ogni persona era intenta alla difesa del castello. L'infelice rimase in quella stanza fino a sera, ma in quel giorno il conte Guido vide cadere il fiore dei suoi soldati, e quando la moglie a notte lo rivide, egli non era più il baldo cavaliere della mattina, tutto infiammato dal desiderio della pugna. - Signor mio, - ella disse, - io non posso esserti di aiuto alcuno nella difesa del nostro castello. Lascia che, passando per il cammino sotterraneo, che è scavato nei fianchi del monte, io esca nell'aperta campagna e mi riduca alla Verna a portar le elemosine da te promesse al convento, e a supplicare il vecchio di Gerusalemme di tornar fra noi. - Va', e che Dio t'accompagni! Quella notte stessa la Contessa spogliò i ricchi guarnelli di seta, trapunti di oro, tolse le gemme che le ornavano il collo e i polsi e, indossata una gonnella di mezza lana e un busto di panno, scese nei sotterranei del castello senza nessuna scorta, varcò l'Arno e s'inerpicò sul monte. Ella aveva le bisacce ben guarnite di gigliati d'oro, ma sotto quelle umili vesti nessuno supponeva si nascondesse la nobile signora, che vedevano di tanto in tanto cavalcare da Romena a Poppi e fino ad Arezzo, sulla giumenta bianca, riccamente bardata, e con numerosa scorta di cavalieri, paggi, valletti ed armigeri. Senza esser molestata da alcuno, giunse la pia donna al convento, e dopo aver deposta sull'altare della Cappella degli Angeli la sua ricca elemosina, fece chiamare il vecchio di Gerusalemme e lo pregò umilmente di seguirla, facendogli capire coi cenni più che con le parole, il pericolo che minacciava la propria casa. Il vecchio accondiscese alle preci di lei e, indossato il saio dei Francescani per non dar nell'occhio alla gente, scese insieme con lei al piano, e per il cammino sotterraneo giunse al castello. Bisogna sapere che il vecchio non aveva lasciato alla Verna la sua cappamagna né il turbante, perché gli rincresceva molto di separarsi da quei ricordi della sua patria. Egli aveva nascosto l'una e l'altro in una bisaccia, come usano portare i frati che vanno alla cerca. Appena che la Contessa e il vecchio giunsero al castello di Poppi, appresero che la giornata era stata ancor più funesta agli assediati che quella precedente, perché molti altri soldati del conte Guido erano caduti, e il signore stesso era stato colpito da un dardo alla spalla sinistra. Pallido e affranto, questi stava nella sala d'armi del castello. Allorché vide la sua donna e il vecchio, li chiamò accanto a sé e li ringraziò con grande effusione. - Che cosa mi consigli di fare, saggio vecchio? - domandò quindi allo straniero. - Eccoti il mio turbante, - rispose questi. - Sai come il conte di Lierna fuggisse quando lo vide sul ponte che è a valico dell'Arno. Ordina che questo turbante sia posto a una delle finestre del castello. Quando il conte Odeporico lo vedrà, toglierà l'assedio. - Che tu possa dire il vero! - esclamò il conte Guido. E quella notte stessa fece issare un'asta alla finestra centrale del castello, e in cima a quella ordinò fosse infilato il turbante. Allorché le tenebre furono diradate dal sole nascente e il conte di Lierna vide quel turbante in cima all'asta, disse: "Povero me; qui si combatte con armi disuguali; io col ferro, e il mio nemico con gl'incantesimi!", e come aveva predetto il vecchio di Gerusalemme, Odeporico riunì le sue genti, e tolse l'assedio in un battibaleno. Da quel giorno nessuno osò più molestare il conte di Poppi, che si diceva in possesso di un talismano, e la Contessa visse tranquilla finché la morte non la colse. Il vecchio di Gerusalemme l'aveva preceduta nella tomba, e il conte Guido gli aveva fatto erigere un mausoleo nella cappella del castello. Il turbante poi era stato rinchiuso in una cassa d'argento di lavoro pregevolissimo, e i conti Guidi lo conservarono nel tesoro di famiglia finché il conte Francesco fu battuto da Neri Capponi, capitano de' fiorentini, il quale lo portò a Firenze con le altre robe. - E qui la storia del turbante è finita, - disse la Regina, e se mi sono scordata di qualche cosa, Cecco ve l'aggiunga. - Di nulla, mamma; voi la raccontate ora come vent'anni fa. - Come trentacinque! - ribatté Maso, - e io provo piacere a sentirvi ora, come quando ero alto quanto un soldo di cacio. - Anche noi ce l'abbiamo il nostro turbante, il nostro talismano, - disse Cecco battendo una palma sull'altra, - e non saranno di certo i fiorentini che ce lo porteranno via! - E qual è? - domandò la vispa Annina. - È la nostra vecchietta, la nostra mamma, che Iddio ce la conservi! Ora bevete un buon bicchieretto di vino, perché dovete aver la gola secca. - E preso il fiasco ne mescé prima alla Regina e poi agli altri. Quando tutti i bicchieri furono colmi, Maso per il primo alzò il suo e disse: - Alla salute del nostro talismano! I fratelli, i bimbi e le nuore fecero coro al capoccia, e dopo essersi trattenuti un altro po' a ragionare del più e del meno, i Marcucci se ne andarono a letto e tutti i lumi si spensero al podere di Farneta, sul quale vegliava la concordia e la pace, meglio che il turbante del vecchio di Gerusalemme sul castello del conte Guido di Poppi.

Passando accanto a una casa abbandonata, sentì la banderuola che diceva: - Torna addietro! Torna addietro! Torna addietro! Messer Cione non badò a quell'avvertimento, e giunse a un rigagnolo, ingrossato dalla pioggia caduta poco prima, che diceva: - Non passare! Non passare! Egli non badò neppure a questo secondo avvertimento, e, posato il piede sui sassi che erano attraverso il rigagnolo, passò dal lato opposto. Giunto che fu a una vecchia quercia, col tronco vuoto e coi rami scossi dal vento, sentì dire: - Resta qui! Resta qui! Resta qui! Ma ser Cione percosse l'albero col bastone che aveva in mano e affrettò il passo. Alla fine penetrò nel luogo dove bazzicavano le anime. In quel momento, all'orologio di Poppi e a quelli dei castelli vicini, scoccò la mezzanotte. Un altro sarebbe scappato; ser Cione invece, per dar prova di coraggio, si mise a cantare una canzonaccia. Ma nel tempo che cantava la quarta strofa sentì il rumore di una carretta tirata da cavalli senza ferrare, e la vide, infatti, nel buio, che si avvicinava a lui, coperta di una coltre da defunto. Allorché la carretta fu a breve distanza, la riconobbe per la carretta della Morte. Era tirata da quattro cavalli neri, con le code così lunghe che spazzavano il terreno. Seduta sopra una stanga stava la Morte in persona, con una frusta di ferro in mano e ripeteva sempre: - Tirati da parte o ti metto sotto! Tirati da parte o ti metto sotto! Ser Cione si scansò, ma senza turbarsi. - Che fai qui, madonna Morte? - le domandò sfacciatamente. - Prendo, sorprendo e porto via, - rispose il brutto fantasma col viso di scheletro. - Sei dunque una ladra e una traditrice? - continuò ser Cione. - Sono quella che colpisce senza sguardo e senza riguardo. - Cioè una sciocca ed un'assassina. Allora non mi stupirebbe che in codesta carretta tu ci avessi dei compari per darti manforte a commettere le tue infamie. Ma, dimmi un po', perché hai tanta fretta e martorizzi i poveri cavalli con codesta frusta di ferro, che non ho mai veduto usare da nessuno? - Sappi, - rispose il fantasma, - che debbo andare a prendere messer Cione, l'oste di Poppi. Addio! Ciò detto frustò i cavalli, e via. Ser Cione si mise a ridere e non si turbò per questo. Nel giungere a una siepe di pruni, che metteva al lavatoio, vide due donne bianche e belle, che sciorinavano i panni di bucato. - Perbacco! - disse, - ecco due ragazze che non hanno paura del sereno! Perché, belle fanciulle, state fuori a quest'ora? Il coprifuoco è sonato da un bel pezzo, e a Poppi non potrete entrare fino a domattina. Siccome io pure ho fatto tardi, non sarebbe male d'ingannare il tempo ciarlando; che cosa fate? - Noi laviamo! - risposero le due donne. - Me ne rallegro tanto, ma ora non lavate. - Ora rasciughiamo, - soggiunsero le due donne. - Con questa nottata non rasciugherete neppure un moccichino. - Non dubitare, rasciugheremo, e intanto ci metteremo a cucire. - Che cosa? - domandò l'oste. - Il lenzuolo del morto che cammina e parla ancora. - Ditemi un po', come si chiama questo morto? - Messer Cione, l'oste di Poppi, - risposero le donne. Ser Cione rise più forte della prima volta quando aveva inteso pronunziare il suo nome dal fantasma della carretta, e salì per la viottola che menava al paese. Ma più andava avanti e più gli giungevano distinti all'orecchio i colpi che facevano altre lavandaie di notte, sbattendo i panni sulle pietre del rigagnolo. A un tratto le scòrse e vide che battevano un lenzuolo funereo, cantando il triste ritornello: Se cristian non ci viene a salvare, Sempre sempre bisogna lavare; Prepariamo il lenzuolo pel morto, Che dev'esser qui dentro ravvolto. Appena le lavandaie di notte videro giunger l'oste, cessarono il canto, si misero a gridare, e, correndogli incontro, gli presentarono il lenzuolo imponendogli di aiutarle a torcerlo per farne uscir l'acqua. - Non si rifiuta mai un piccolo servigio ... - rispose ser Cione. - Ma aspettate un momento, perché non ho altro che due mani. Allora posò in terra il bastone, e preso uno dei due capi del lenzuolo che gli presentava la morta, si diede a voltolarlo nello stesso senso in cui ella lo torceva, perché aveva sentito dire dai vecchi che quello era il solo mezzo per non essere torto come il lenzuolo e spremuto. Ma appena ebbe strizzato l'acqua dal lenzuolo della prima morta che gli s'era avvicinata, ne giunse una seconda, poi una terza e molte altre ancora, e tutte circondarono ser Cione pregandolo di aiutarle. Fra tutte quelle donne riconobbe sua madre, sua moglie, le sorelle e le figlie, e quando s'era affaticato a torcere il lenzuolo che gli presentavano, per ringraziamento glielo sbattevano in faccia e gridavano: - Maledetto colui che lascia patire i suoi nel Purgatorio! Maledetto in eterno! E tutte quelle morte scotevano i capelli, alzavano i lenzuoli bianchi, e lungo tutti i fossi del monte e della valle, lungo tutte le siepi, da tutte le vette, migliaia e migliaia di voci ripetevano: - Maledetto colui che lascia patire i suoi nel Purgatorio! Maledetto in eterno! Ser Cione si sentì rizzare tutti i capelli sulla testa, ma seguitava a voltare il lenzuolo nel senso che torceva la morta per non essere torto e spremuto anche lui. Così lavorò fino all'alba sudando freddo, circondato da uno stuolo di morte, che urlavano: - Maledetto colui che lascia patire i suoi nel Purgatorio! Maledetto in eterno! E dalla valle, dalle balze dei monti, dalle vette, partiva lo stesso grido di maledizione, che l'eco ripeteva migliaia e migliaia di volte. Ma appena l'alba incominciò a imbiancare il cielo, le morte sparirono a una a una, e ser Cione, spossato da tanto terrore, cadde in terra e dormì come un ciocco. Credete che ser Cione nel destarsi fosse pentito? Neppur per idea! Si stropicciò gli occhi e disse fra sé: - Guarda un po' che brutti sogni si fanno quando s'è bevuto un bicchiere di vino di più! Pare impossibile! E cantando tornò a casa sua, aprì l'osteria come al solito, senza serbare sul faccione di luna piena nessuna traccia della paura della notte. E per tutto quell'anno seguitò, come se non fosse stato nulla, a canzonar quelli che andavano in chiesa, che si levavano il boccon dalla bocca per fare elemosine, e ascoltavano messe per i loro defunti. E anche quell'anno ser Cione commise un sacco di ribalderie insieme con altri furfanti del vicinato, e andò lì lì per esser preso sul fatto e impiccato. Ritornò il giorno dei Morti, la triste giornata autunnale in cui tutti avevano la mente rivolta ai loro defunti e pregavano, affinché fossero sollevati dalle pene del Purgatorio. Ser Cione, fin dalla mattina, si mise sulla porta dell'osteria a canzonare quelli che andavano in chiesa, e vedendo passare un lungo stuolo di donne, che dicevano devotamente il De profundis si mise a urlare: - Sgolatevi pure, tanto i ragli degli asini non giungono in Paradiso! Tutto il paese era scandalizzato dalle parole di ser Cione, il quale, avendo invitato come di solito a far baldoria tutti i malanni di Poppi e dei paesi vicini, bevve per dieci, e dopo si diede a percorrere la campagna cantando a squarciagola. A uno a uno i suoi compagni lo lasciarono per tornar alle loro case, ed egli, vedendo che aveva fatto tardi e che al paese non poteva tornare, perché a quell'ora le porte eran chiuse, si rassegnò a passar la notte al sereno, tanto la serata era calma e la pioggia né la neve minacciavano di cadere. Tagliò dunque col coltello, che portava sempre seco, alcuni rami secchi dalle siepi e dagli alberi, e accese una bella fiammata in un punto riparato, a ridosso di un vecchio muro. Appena la fiamma divampò, ser Cione vide un fantasma bianco, rinvoltato in un sudicio lenzuolo a brandelli, accostarsi a lui. - Vattene! - disse ser Cione, - non permetto che altri si scaldi alla mia fiamma. - Lo so che sei un uomo senza cuore, che non hai pietà né dei vivi né dei morti, ma per questa notte io non mi muoverò di qui, - rispose il fantasma, e si sedé davanti alla fiamma. Poco dopo giunse un secondo fantasma avvolto in un lenzuolo anche più sudicio e più sbrandellato di quello dell'altro. - Vattene! - gli disse ser Cione, - non voglio tanta marmaglia d'intorno a me. - So bene che hai una pietra nel posto del cuore, - rispose il secondo fantasma, - che non hai pietà né dei vivi né dei morti; ma per questa notte non mi moverò di qui. Si sedé accanto al fuoco, e quindi soggiunse, rivolgendosi all'altro fantasma: - Ti rammenti come eravamo felici quando ci nacque quel figlio, moglie mia? - Se me ne rammento! Ogni lacrima che mi è costato, mi ha fatto ripensare a quel momento di gioia, marito caro. Io ti ho sopravvissuto, e non puoi credere quello che egli mi abbia fatto patire. Mi sottoponeva alle più dure fatiche, mi maltrattava, mi contava i bocconi, e lui stava tutto il giorno a bere, a bestemmiare e a far di peggio. Tuttavia gli avrei perdonato tutto, se una volta avesse ascoltato una messa, o avesse fatto un'elemosina per sollevare l'anima mia dalle pene del Purgatorio; ma invece quel birbante gozzoviglia in questo giorno sacro a noi, e non ha un pensiero per i suoi morti. Ser Cione, seccato da quei discorsi, si era già alzato per andarsene, maledicendo gl'importuni, ma sentì due mani gelate prenderlo per il viso e trattenerlo dov'era. - Questo è troppo! - esclamò egli. - Io voglio stare dove mi pare e andarmene dove mi accomoda. - Per questa notte, - disse il terzo fantasma, che lo aveva trattenuto, - tu devi ascoltare i nostri lamenti, poiché avrai capito che quei due che parlavano di te furon tuo padre e tua madre, come io fui tua moglie. Ora verranno gli altri morti della nostra famiglia, e spero che t'impediranno di andartene. Ser Cione, di riffa o di raffa, dovette star dov'era, e i due vecchi continuarono i loro lamenti, intanto che la moglie guardava di qua e di là come se aspettasse qualcuno. Finalmente si alzò e corse incontro a due angioletti bianchi, che volarono a lei con le faccine sorridenti, soffuse di luce. La donna li baciò piangendo di gioia: - Ecco i nostri figli, - diss'ella a ser Cione. - Come vedi non hanno bisogno delle tue preghiere, perché sono in Cielo; ma se tu avessi fatto dire qualche messa per me, non sarei più divisa da loro. Di questo solo mi dolgo con te, perché ti era così facile far cessare la nostra separazione. Ser Cione non parlava e neppure osava avvicinarsi ai due angioletti, che s'erano accostati alla mamma e le facevano mille carezze, mentre per lui non avevano nessuno sguardo, nessuna parola. I due vecchi intanto continuavano a imprecare a quello snaturato figliuolo, e alla loro voce si univa quella delle sorelle di ser Cione, sopraggiunte allora e anch'esse avvolte in lenzuoli funerei. Il solo vivo, in mezzo a tutti que' morti, non era più calmo e sprezzante come l'anno prima quando capitò in mezzo alle lavandaie di notte, che gli fecero torcere i lenzuoli funerei, né come poco avanti quando sentiva parlare il padre, la madre e la moglie. Dacché aveva veduto i suoi due bimbi, si sentiva una smania, una irrequietezza che non aveva mai provate. Avrebbe voluto baciare quei due angioletti, ma temeva di vedersi respinto da loro e stava a guardarli intenerito, ripensando a come era triste, ora, nel mondo, senza nessuno. Intanto il vecchio, la vecchia e le sorelle di ser Cione gridavano: - Maledetto colui che non ha pietà dei suoi morti! Maledetto in eterno! - Maledetto in eterno! - rispondevano le anime sparse nella campagna e alle quali è concesso, una volta l'anno, di tornare in terra. A un tratto ser Cione scoppiò in singhiozzi. - Son dannato, - diceva, - chi mi salverà? Tutti, tutti mi maledicono! La moglie del ribaldo strinse a sé i due bambini e alternava i baci con le parole che sussurrava loro nell'orecchio. I due piccini risposero alle suppliche di lei: - Non dubitare, mamma, addio! - E per me non c'è neppure un saluto? - domandò ser Cione ai figli. - Per ora no; ma torneremo presto, prestissimo. E volarono su, agili come due colombi. In breve, il chiarore che mandavano si confuse con quello delle stelle che erano sparse nel firmamento. I fantasmi, adunati intorno a ser Cione, non cessavano di lagnarsi di lui, ma egli non li udiva. Aveva nascosta la testa fra le mani e continuava a piangere dalla vergogna dei suoi peccati. La moglie sola non univa la sua voce a quella degli altri, non imprecava contro di lui, ma sibbene pregava per il suo ravvedimento e teneva l'occhio rivolto al cielo, da cui sperava di veder discendere i suoi due angioletti, che erano andati messaggieri a Dio. Ser Cione accostò la bocca all'orecchio della moglie, e le disse: - Credi tu che un uomo macchiato di peccati possa salvarsi? - Lo credo fermamente, - rispose ella. - E con qual mezzo? - Col vero e sincero pentimento, col pentimento che nasce più dal dolore di avere offeso Iddio e di aver recato danno al prossimo, che dal desiderio di sfuggire una punizione eterna, meritata dai peccati. - Io lo provo, questo pentimento, perché ho vergogna di quel che ho fatto, perché soffrirei mille pene, pure di cancellare la mia vita. - Ma senti tu, insieme a questo pentimento, la forza di incominciare un'altra vita, onesta, tutta diversa da quella passata? - La sento, anima santa, e il miracolo non l'hanno operato i miei vecchi con le loro aspre parole, non l'hanno operato le altre anime di morti con le loro maledizioni, ma l'hai operato tu, con la tua dolcezza. Nel vedermi guardare a quel modo dai nostri angioletti ho conosciuto la mia abiezione, ho avuto vergogna e ho sentito che cos'è rimorso e pentimento. In quell'istante ser Cione vide una striscia luminosa solcare lo spazio, e pochi secondi dopo udì due vocine dolci, due vocine care che cantavano: - Osanna! Iddio è grande e misericordioso verso i peccatori pentiti! - Senti, - disse il fantasma della moglie di ser Cione, - sono i nostri figli che tornano dal Cielo e ti portano la grazia; cerca di meritarla. Il solo vivente in quel consesso di morti, cadde in ginocchio, e le sue labbra mormorarono le preghiere imparate da bambino, mentre il suo cuore si dischiuse alla speranza. I due angioletti gli posarono le manine sulla testa, accarezzarono il volto paterno e volarono su nell'etere cantando: - Osanna! Osanna! L'alba incominciava a imbiancare il cielo, e i defunti di ser Cione sparirono a uno a uno, gridandogli: - Maledetto colui che non ha pietà dei suoi morti! Maledetto in eterno! La moglie lo lasciò, invece, dicendogli: - Persevera nel pentimento, lavora per meritarti il Cielo, e allora saremo uniti, uniti per sempre. Il sole, nel levarsi, trovò ser Cione allo stesso posto nel quale lo avevano lasciato i suoi morti, con le mani congiunte e l'occhio rivolto al cielo, dove aveva veduto salire i suoi angioletti. - Che sia stato un sogno? - esclamò egli; ma subito dopo aggiunse: - Anche se così fosse, che bel sogno! Salì a Poppi, e invece di andare a casa sua e mettersi a schernire i devoti dalla porta dell'osteria, entrò nella chiesa di San Fedele, s'inginocchiò in un angolo e si mise a pregare come ogni buon cristiano. Dopo aver lungamente pregato, specialmente per i suoi morti, andò in sagrestia e pose nella mano di un frate tutti i soldi che aveva in tasca, dicendo: - Dite tante messe per le anime dei miei poveri defunti! Il frate, che lo conosceva per un malandrino, sgranò tanto d'occhi, e tutti quelli che lo videro in chiesa, andarono a sparger la voce che ser Cione s'era ravveduto, che ser Cione voleva diventar santo. Quel giorno egli non aprì l'osteria e non l'aprì mai più. Dava ai poveri larghe elemosine, pregava, faceva dir messe per i suoi morti ed evitava d'incontrare i suoi antichi compagni di vita peccaminosa. Se però li vedeva, diceva loro: - Fratelli, ravvedetevi! Le soddisfazioni terrene sono fugaci, le punizioni sono eterne! A Poppi tutti erano edificati di quel cambiamento repentino, e le persone buone e pie, che prima egli aveva offese, ora si avvicinavano a lui e lo esortavano a perseverare nella via del pentimento, nella via che conduce alla salvezza. Ma tutte queste esortazioni non sarebbero bastate, se, durante la notte, non fossero scesi al capezzale dell'uomo solo, privo di famiglia, i suoi due angioletti bianchi, e non gli avessero fatto sulla fronte una lieve e dolce carezza. Così pregando, facendo elemosine e lavorando faticosamente per alleviare le fatiche di quelli che erano deboli o vecchi, ser Cione visse un anno ancora, e la notte dei Morti spirò dolcemente, sentendosi accarezzare la fronte dai suoi due angioletti; spirò da buon cristiano, e le benedizioni di quelli che aveva beneficati lo accompagnarono fin alla tomba e financo al di là, perché molti cuori sono riconoscenti anche dopo che il beneficio è cessato. Si dice che l'anima di ser Cione, che sconta ancora in Purgatorio una parte dei peccati che non ha potuto scontare in vita, torni, nella notte dei Morti, a esortare i peccatori di Poppi a ravvedersi e li attenda per le vie. Almeno così dicono molti che si sono pentiti e che da quell'anima hanno saputo la storia della vita di ser Cione e della sua morte, che altrimenti sarebbe da lunghi e lunghi anni dimenticata. - E qui, figliuoli, la novella è finita, - disse la Regina. - Quest'altra domenica ve ne racconterò una più lieta, più gaia, che vi farà ridere e non vi farà sognare i morti e le anime del Purgatorio. - Come la intitolerete, nonna? - domandò l'Annina. - Non te lo voglio dire; lo saprai domenica. - E domenica sapremo anche quando si faranno le nozze, perché fra otto giorni la tua matrigna sarà guarita, - aggiunse la bambinetta rivolgendosi a Vezzosa. - E domenica, - disse la Carola, - faremo anche i regali alla nostra cara sposina. Non son doni ricchi, ma glieli faremo col cuore. Noi donne specialmente non abbiamo altro che quei pochi soldi che si ricavano vendendo le uova, i polli e i piccioni, e possiamo spender poco; ma quei regalucci le mostreranno che le si vuol bene e che si accetta volentieri in casa nostra. La massaia, come al solito, aveva parlato a nome di tutte le cognate. Cecco era così commosso da quelle buone parole, che uscì e si mise a fischiare per non far vedere i lucciconi; la Vezzosa si era stretta un bambino al petto e lo baciava, tanto per isfogare il suo bisogno d'espansione, e la Regina piangeva. - E che son cotesti lacrimoni! - esclamò Maso. - Mamma, bisogna ridere e non far codesta faccia da funerale. - Quando siam vecchi, - rispose la Regina, - ci si commuove e si piange facilmente. Ma vedrete che saprò ridere il giorno delle nozze, e voglio fare anch'io due sgambetti quando gli altri balleranno. - Così va bene! - esclamò Maso. - Gente allegra, Iddio l'aiuta! Uscirono tutti, meno che le donne, per riaccompagnare le ragazze che erano state a veglia, e s'imbatterono nel padre di Vezzosa, che veniva di corsa a chiamarla. - Che è stato? - gli domandò la figlia. - Vieni presto, devo correre dal medico, la Maria delira, si vuol levare dal letto e le tre ragazze non son buone a trattenerla. Vezzosa disse appena buona notte a tutti e corse via. Cecco la seguì a distanza insieme con gli altri. E quando tutte le ragazze che erano state a veglia furono riaccompagnate a casa, egli, invece di tornare insieme con i fratelli al podere di Farneta, se ne andò mogio mogio a casa di Vezzosa. Ma per non disturbarla bussando, poiché la porta era chiusa, si sedé sopra un muricciuolo aspettando che qualcuno comparisse alla finestra o sull'uscio; e con l'occhio fisso sulla casetta bianca, che pareva un masso di neve illuminata in pieno dalla luna, si mise a pensare all'avvenire. Egli si struggeva non potendo aiutare Vezzosa nelle sue faccende, e non vedeva il momento di essere unito a lei per sempre e di dividerne le gioie e i dolori. A un tratto, senza riflettere, si mise a cantare una canzone del paese. Sentiva il bisogno di dire a Vezzosa che le era vicino e che vegliava anche lui. Dopo poco che aveva incominciato a cantare, sentì aprir l'uscio della cucina, e nel vano vide comparire la bella ragazza. Cecco corse a lei con uno slancio, come se non l'avesse veduta da un anno. - Grazie, - gli diss'ella, - di esser rimasto vicino a me. Cecco mio, la mia matrigna lotta davvero con la morte. In questo momento svaniscono in me tutti i risentimenti, e mi pento e mi dolgo di non essere stata più buona con lei in passato. Cecco strinse le mani della sua fidanzata, quasi volesse ringraziarla di esser così buona. In quel momento si udì un rumore di sonagli sulla via maestra, e di lì a poco comparve il calesse del dottore. Momo era stato a chiamarlo sull'imbrunire, e il dottore, scendendo, si scusava di non esser potuto venir prima. Cecco entrò in casa dietro al medico, e fu lieto di perder la nottata per potere ammirare la diligenza e l'affetto di cui dava prova la sua Vezzosa nell'assistere la matrigna.

Questi, per ricompensarlo della sua sottomissione, gli restituì l'abbazia di Strumi abbandonata da fra' Lamberto, che tornato dopo alcuni anni dal pellegrinaggio di Terra Santa, senza essersi mai tolto di capo la corona che gli attirava le beffe di quanti lo incontravano, venne a stabilirsi in un Eremo poco distante da Strumi, menando vita solitaria ed esemplare. Quando Lamberto venne a morte, lasciò detto che desiderava esser sepolto con quella corona, che era stata per lui una vera corona di spine. L'abate Giovanni Ungheri non rimase molto a governare l'abbazia di Strumi. Papa Alessandro lo nominò arcivescovo di Benevento e la sua carica passò all'abate Ridolfo, il quale, edificata l'abbazia di San Fedele a Poppi, andò a stabilirvisi abbandonando Strumi. Ora dell'abbazia e del palazzo non restano altro che pochi avanzi, sui quali è stata costruita una casa di contadini; ma chi scava nei dintorni, trova scheletri grandissimi, e chi dice che sian di monaci, chi dei conti Guidi. In quella casa ci andò sposa una mia sorella, e per questo so tanto bene vita, morte e miracoli dell'abate Lamberto e dell'antipapa. Le mura non parlano, la terra neppure, ma parlano gli uomini, e così parlando, la storia dell'abate Lamberto si è risaputa di padre in figlio e io ho potuto raccontarvela, - terminò la Regina. - Grazie, mamma, - disse Maso, - ma non sarò io che potrò raccontarla come voi; farei un bel pasticcio se mi risolvessi a farlo. - Io però la so benissimo, - disse l'Annina, - e non dubitate, nonna, che questa e le altre novelle che ci avete raccontate, le ho tutte qui, - e accennò il capo. - Così potessi narrarle ai miei nipotini, come fate voi! I Marcucci continuarono un bel pezzo a parlare del monastero di Strumi e delle sue vicende, senza accorgersi che Cecco era sparito alla chetichella. Tutta la sera era stato inquieto, pareva che non avesse terren fermo, e appena la mamma aveva cessato di narrare, era uscito dalla parte che metteva nel cortiletto della stalla, e una volta fuori s'era diretto a passi precipitati verso la casa di Vezzosa. In cucina il lume ardeva ancora e il padre della ragazza stava sull'uscio a fumar la pipa. - Buona sera, Momo? - aveva detto Cecco. L'altro aveva risposto, e da un discorso all'altro eran venuti a parlare delle veglie, e Cecco aveva domandato al contadino: - Come mai non ci avete mandate le vostre figliole stasera? - Oh! queste donne! - esclamò Momo. - Non sanno star d'accordo. Che volete che vi dica; la massaia ha rimproverato Vezzosa perché dice che coll'andar fuori a veglia la domenica, svia tutti quelli che verrebbero da noi a far due chiacchiere; e Vezzosa se l'è avuto a male ed è andata a letto. Vedete, io voglio bene alle figliuole ed è per loro che ho ripreso moglie; ma se sapevo che sarebbero state insieme come cani e gatti, vi giuro io che non avrei messo un'altra donna in casa. - La pace tornerà appena avrete maritate le figliuole, - rispose Cecco. - Maritarle! È una parola. Per Vezzosa s'era presentato un partito; Felice del Masi, lo conoscete? Ebbene, lei non lo vuole; la mi' moglie vorrebbe darglielo, e da qui scene continue, e addio pace! Cecco sossultò a quelle parole, ma non ebbe coraggio di spiegarsi. Bisognava che prima interrogasse la mamma, i fratelli, le cognate, e se il maggior numero di loro si fosse opposto al parentado con Vezzosa? Quella sera Cecco andò a letto tutto turbato e dormì male, cosa che non gli era accaduta mai.

- diceva la gente di Fronzola, che aveva una grande venerazione per quella povera abbandonata. Ecco, invece, in che consisteva il mistero. Bianca era stata sempre molto devota della Vergine Maria, e anche ridotta com'era a procurarsi il cibo nei boschi, ella non trascurava mai di ornare di fiori, o di rami di vischio, o di felci la rozza immagine del tabernacolo a poca distanza dalla Grotta, e alla Vergine narrava tutti i suoi dolori, come avrebbe fatto con la madre sua, se l'avesse avuta al fianco. Un giorno, mentre sentiva aggravarsi la malattia, pregava e piangeva dinanzi alla sacra immagine, quando vide le mani della Vergine stendersi verso di lei e la bocca di pietra dischiudersi come se stesse per articolare una parola. Bianca tremò tutta e la Vergine la rassicurò dicendole: - Non piangere, Bianca, la tua Chiara sarà sempre al coperto della miseria. Fila con le tue abili mani un grembiule per la tua bambina. Ogni volta che essa lo cingerà alla vita, quel grembiule, per voler mio, si empirà di tutto ciò che le abbisogna. Pianse, la povera madre, a quella promessa che le faceva la Madre di Dio, e non sapendo come procurarsi il lino per filare il grembiule, si trascinò fino al castello e chiese di madonna Laura. - Signora, - le disse appena si trovò alla sua presenza, - io mi sono privata dei ricchi abiti, delle gemme, di tutto ciò che costituiva per me un ricordo della passata esistenza, ma non ho mai osato separarmi da un anello con lo stemma del padre mio, sperando che quell'anello potesse un giorno servire di riconoscimento alla mia Chiara. Ora, madonna, mi occorre del lino, e io vi offro in cambio quest'anello. E nel dir questo le mostrò un cerchio d'oro, ornato di un onice nel quale era incisa la croce dei conti di Morienna. - E voi dite, - domandò Laura, - che questo è lo stemma del padre vostro? - Sì, o signora. Ma il padre mio mi ha discacciata dalla sua corte, perché ho osato amare un semplice cavaliere e seguirlo dopo averlo sposato. Mio marito è morto al servizio della Repubblica fiorentina, ed io, rimasta sola con Chiara in estraneo paese, sono venuta a nascondere la mia miseria e il mio dolore in questi boschi. La castellana pianse nell'udire quella triste storia e dette alla povera Bianca quanto lino voleva, pregandola di tenersi l'anello, che costituiva la sua ricchezza. La Forestiera, tornata alla sua Grotta, benché si sentisse stremata di forze, si diede a filare il lino per la sua bimba, e filò giorno e notte; poi, chiesto in carità a una contadina di farla tessere al suo telaio, tessé la tela necessaria al grembiule e lo cucì con le sue mani. Tre giorni dopo si spengeva dolcemente, raccomandando a Chiara di serbare sempre l'anello e di cingere il grembiule ogni volta che le occorreva qualche cosa. Appena al castello di Fronzola giunse la notizia della morte della Forestiera, madonna Laura ordinò che il cadavere di lei fosse onorevolmente sepolto, e che sulla lapide fosse scolpito lo stemma dei conti di Morienna e il nome della defunta. A una sua ancella poi ella disse di recarsi alla Grotta e di condurre Chiara al castello. La bambina, che contava allora appena quattro anni, vi giunse piangendo, e le carezze della signora e del piccolo Guglielmo non riuscivano a calmarla. Ma allorché si sentì rivolgere dalla Contessa la parola in lingua provenzale, nella favella della madre sua, Chiara cessò di piangere, e da quel giorno concepì un vivissimo affetto per la castellana. Madonna Laura addestrava Chiara nei fini lavori d'ago; Amato le insegnava a leggere le canzoni della Provenza, e la bambina cresceva bellissima nel castello di Fronzola, ed era così buona di carattere e così pia e caritatevole, che tutti ricorrevano a lei per soccorsi; ed ella, che non abbisognava di nulla, cingeva per i poveri il grembiule filatole dalla madre e scendeva di continuo dai castello per recare soccorsi di vesti e di cibo ai poveri del contado. Queste uscite di Chiara furono osservate da una donna del castello di Fronzola, certa Geltrude, creatura astiosa e maligna, la quale, non osando fare alla contessa insinuazioni contro Chiara, andò dal Conte a dirgli che la ragazza, raccolta per pietà dalla signora, rubava tutto ciò che trovava. - Osservatela, messere, quando ella esce furtivamente dal castello, e domandatele che vi mostri ciò che reca nel grembiule. Il Conte, senza dir nulla alla moglie, spiò Chiara quel giorno stesso mentre varcava il ponte levatoio, e fermatala le domandò bruscamente: - Che cos'hai nel grembiule? La bambina arrossì e lasciò andare le cocche, ma invece di cadere in terra cibi e vesti di cui era pieno in quel momento, piovvero ai piedi del Conte rose e garofani. Si pentì il Conte di averla, anche per un momento, sospettata, e aiutandola a raccattare i fiori, le disse: - Portali pure dove vuoi; suppongo che sieno destinati al tabernacolo della Madonna. Chiara, senza rispondere, corse via, ma aveva fatto pochi passi che, gettando appena gli occhi nel grembiule, vide che i fiori ne erano spariti e che esso conteneva di nuovo cibi e vesti per i poveri. Chiara capì però che qualcuno doveva averla calunniata presso il Conte, e non volendo che nessuno sapesse la virtù miracolosa del suo grembiule, fu più guardinga e non lo cinse altro che quando era già fuori del castello. Così passarono alcuni mesi, e Geltrude, la quale non aveva raggiunto l'intento suo, che era quello di far cacciare Chiara dal castello, perché era gelosa della preferenza che la contessa concedeva alla figlia della Forestiera sopra a tutte le sue donne, non cessava di spiarla, e saputo che portava soccorsi nelle case dei poveri, tornò alla carica col Conte, nominandogli le case dov'ella andava e la roba che vi recava. Il castellano, insospettito, chiamò a sé Chiara, e con fare burbero le disse: - Tu non hai nulla e vivi della carità nostra. - È vero, messere, e io vi sono così grata del bene che mi fate, che non cesso di pregare per voi e la vostra famiglia. - Ma intanto tu la danneggi, privandola di ciò che costituisce la sua ricchezza per darla a questa masnada di bisognosi che si aggruppa intorno al castello. - Io non ho mai donato un boccon di pane che vi appartenesse, - rispose Chiara con la voce strozzata dal pianto. - E di chi è dunque tutto quello che dispensi? - domandò il Conte. - Dei poveri, soltanto dei poveri, - disse con accento di sincerità la fanciulla; quindi aggiunse dignitosamente: - Signore, credetemi, poiché non ho mai mentito. - Allora tu hai fatto un patto col Diavolo, ed è lui che ti fornisce tutto. - Ho cercato di star sempre in grazia di Dio e non ebbi mai rapporti con l'eterno nemico. - Dunque c'è un mistero, e io voglio saperlo. - Cacciatemi, messere, poiché siete nel vostro diritto; ma dalla bocca mia non saprete mai nulla. - Ebbene, vattene, e guarda bene di non parlare prima di partire a madonna Laura, poiché non voglio che ella interceda per te. Chiara, offesa di tanta durezza, mostrò al Conte un volto afflitto, ma non lacrimoso, e disse, prima d'uscire: - Signore, concedetemi che io vi ringrazi dei vostri benefizî, e se le preghiere di una infelice non vi sono discare, io pregherò sempre per voi. Il Conte non rispose, e Chiara se ne andò dal castello senz'altro bagaglio che il grembiule miracoloso e l'anello di sua madre, e col cuore afflitto da tanta ingiustizia si rifugiò nella grotta del Serpente. Ma prima di coricarsi ornò di fiori il tabernacolo della Vergine, sua protettrice. Ho detto più sopra che Fronzola era una continua minaccia per il forte Castello di Poppi, e il conte Guido, che ne era signore, non meditava altro che la rovina del conte Tarlati, suo natural nemico. Erano continue guerre per impossessarsi di Fronzola, che finivano sempre con perdite dalle due parti, ma senza che i Guidi riuscissero a togliere ai Tarlati la fortissima rôcca. La notte dopo che il conte Tarlati ebbe cacciata Chiara dal suo castello, una numerosa schiera di uomini d'arme di Poppi salirono quatti quatti sul colle Tenzino e poi sul poggio di Fronzola, e prima che le vedette delle torri dessero l'allarme, erano penetrati nelle case del paese, avevano fatti prigionieri gli abitanti e stretto d'assedio la rôcca. Il conte Tarlati, quando fu destato da questa notizia, andò su tutte le furie e ordinò di lanciar sassi e quadrella sugli assedianti; ma essi resistettero all'offensiva e le file loro si accrebbero il dì seguente di nuovi armati, spediti da Papiano, da Porciano e da Romena. Il castello di Fronzola era ben fornito di vettovaglie, e per più giorni resisté all'assedio; ma le persone che vi stavano rinchiuse erano molte, e il conte Guido, disperando di prendere la rôcca con le armi, attendeva che la mancanza di cibo inducesse il conte Tarlati a offrire la resa. All'autunno era succeduto l'inverno crudissimo; e la povera contessa Laura, desolata della scomparsa di Chiara, e afflitta, vedendo che la gente intorno a lei languiva di fame e soffriva il freddo, temeva da un momento all'altro che la più orribile delle sventure si abbattesse sulla sua famiglia e che il conte Guido s'impossessasse di Fronzola. È vero che il marito e il figlio, giovinetto, davano l'esempio della più energica resistenza e dividevano le privazioni degli assediati; ma la fame é cattiva consigliera, e il grano era esaurito, esaurite le provviste di carne, e i soldati si stimavano felici quando potevano mettere in pentola qualche civetta o qualche corvo, scovati nei merli del castello. L'assedio, nonostante la carestia, si protraeva ancora. I cavalli erano stati uccisi, uccisi i muli, e non restava agli assediati che una scarsa razione di fagioli per otto giorni ancora, quando una sera Chiara, che dalla Grotta del Serpente aveva assistito alle vicende dell'assedio, si presentò nella casetta dalla quale il conte Guido dirigeva le operazioni della guerra, e chiese di essere ammessa alla presenza del signore. - Che vuoi? - le domandò bruscamente il signore di Poppi. - Messere, - rispose ella, - io sono una infelice immensamente beneficata dal conte e dalla contessa di Fronzola. So che la difesa è ormai inutile e che essi debbono arrendersi o morire. Concedetemi di penetrare nella rôcca e di morire insieme con i miei benefattori. La soave espressione del volto di Chiara, la voce dolcissima di lei, e più di tutto la nobiltà dei sentimenti che ella esprimeva, commossero il conte Guido, il quale ordinò ai suoi valletti di sventolare bandiera bianca per chiedere di parlamentare. Fu abbassato il ponte levatoio e un drappello di assediati, pallidi e macilenti, si avanzò verso i valletti del signore di Poppi, i quali consegnarono ai fronzolesi la bionda fanciulla. Il ponte levatoio fu rialzato, e Chiara venne condotta nella sala d'armi, dove passeggiava inquieto e turbato il conte di Fronzola. - Che vieni a far qui? - le domandò il signore. - Vengo a portarvi la salvezza, se la rôcca può resistere ancora. - Non far nascere nel mio cuore vane speranze, - disse il Conte. - La fame c'incalza e fra breve non avremo più forza di resistere. - Questa forza, signore, ve la saprò procurare io con l'aiuto della Vergine Santissima. Destinatemi un luogo ove io possa esser al coperto dalla curiosità, e ad ogni ora venite a prendere quanto può occorrervi di vettovaglie. Il conte di Fronzola aveva poca fiducia in Chiara e credeva che ella macchinasse un tranello per vendicarsi di essere stata espulsa dal castello; ma, ridotto a quei ferri, credé obbligo suo di non respingere l'aiuto che ella gli offriva. Tuttavia, a fine d'impedirle di nuocere agli assediati, la rinchiuse in una stanza attigua alla sala, che prendeva luce dalla vôlta, e si allontanò. Dopo un'ora il Conte andò ad aprire e fu molto meravigliato di vedere la stanza, che prima era vuota, essere ora piena di mucchi di farina, di cacciagione e di agnelli scannati. - Con quali arti ti sei procurata tutto questo ben di Dio? - domandò. - Con l'aiuto della Vergine Santissima, come mi procuravo tutto quello che dispensavo ai poveri del contado. Il signore riprese coraggio e ordinò subito che fosse fatto il pane e arrostita tutta la carne, che dispensò ai difensori. Intanto la stanza ove stava Chiara si riempiva sempre, ora di vino, ora di carbone, ora di sassi per lanciare sugli assedianti, e la rôcca resisteva validamente agli attacchi del conte Guido, il quale, dopo lunghi mesi d'assedio, stanco alla fine di tanta resistenza, tornò a Poppi insieme con i suoi, e Fronzola riprese a fronzolore con grande molestia di lui. Figuriamoci se, dopo quel fatto, Chiara si ebbe ringraziamenti dal conte e dalla contessa Tarlati! La chiamarono col nome di "liberatrice", e se fosse stata figlia loro, non avrebbero potuto amarla di più. Anzi, per non separarsi mai più da lei, le offrirono di sposare il loro Guglielmo. Le nozze furono celebrate con molta pompa, e quel giorno, quando Chiara cinse il grembiule, la Madonna glielo fece trovar pieno di pietre preziose, degne di una regina di corona. Così non entrò povera nella famiglia dei conti Tarlati, di cui fu la benedizione, poiché col grembiule miracoloso non solo sollevò tutti i miseri del contado, ma assicurò ai conti di Fronzola la ricchezza. Disgraziatamente, quando ella era già vecchia, un incendio distrusse le stanze di madonna Chiara e anche le vesti di lei, nonché il grembiule miracoloso, che era stato la salvezza del castello. Questo, dopo la morte di madonna Chiara, cadde in potere del conte Simone di Poppi, che lo prese con l'aiuto de' fiorentini. Il Conte ne rese grandi grazie al comune di Firenze, e andando egli in quella città vi mandò la campana di Fronzola in segno di ricordanza. - Oh, se l'avessi io pure un grembiule come quello! - esclamò l'Annina. - Che ne faresti? - domandò la nonna. - Vorrei farvi stare bene tutti e empir la casa di tanta roba che non si potesse finire per anni e anni. Me lo rammento, sapete, quando càpitano gli anni cattivi, quando le raccolte vanno male, quando il babbo si arrabbia e soffre e voi vi affliggete. - Bambina mia, tutto non è sempre sereno nella vita, e i giorni tristi sono più frequenti di quelli lieti; ma quando si lavora e si cerca, nell'adempimento del proprio dovere, il coraggio per resistere alle avversità, si finisce per vincere l'avversa fortuna. Il grembiule miracoloso sarebbe una bella cosa, ma noi dobbiamo invece affidarci al lavoro, nient'altro che al lavoro. La terra è il nostro grembiule miracoloso; le affidiamo un chicco di grano e ci rende una spiga granita. - Le vostre parole sono d'oro, mamma! - esclamò Cecco facendosele accosto, - e se i vostri nipoti le ricorderanno, sapranno certamente trionfare sempre in ogni avversità. - Per quest'anno, - disse Maso che era un po' superstizioso come molti contadini, e non sentiva parlar volentieri di disgrazie, - se Dio vuole, la raccolta promette bene. Già siamo alla porta co' sassi, e se non si scatena qualche diavolo contro di noi, potremo contarlo fra gli anni migliori. - Ma anche se fosse cattivo, - ribatté la vecchia, - voi trovereste la forza di lottare contro l'avversità. Avete fortuna di volervi bene, di star d'accordo, e l'unione nella famiglia è già una forza. Le famiglie disunite sono quelle che vanno in perdizione. Vi rammentate dei Ducci? Avevano un podere che era una fattoria, braccia robuste per lavorarlo; ebbene! Non andavan d'accordo, ognuno tirava l'acqua al suo mulino, e ora son tanti pezzenti. - A proposito, nonna, - disse l'Annina, - m'ero scordata di dirvi che oggi, su a Camaldoli, abbiamo visto il capoccia dei Ducci, il cieco, guidato dal nipotino. - L'avete incontrato lassù? E che faceva? - domandò la Regina. - È venuto dall'ispettore Carli a chiedere l'elemosina. Aveva il bussolotto di stagno in mano, proprio come gli accattoni di professione. - E i figliuoli lo lasciano andare a chieder la carità? - domandò commossa la Regina. - I figliuoli sono ora tutti sparsi per il mondo; - rispose Maso, - i nipoti si sono allogati per garzoni nei poderi, e se il capoccia mangia, è in grazia della gente caritatevole, se no sarebbe morto di fame, lui e quel piccinuccio che gli hanno lasciato. - Se lo aveste conosciuto, quel capoccia, una trentina d'anni fa, - riprese a dire la vecchia, - sareste anche più meravigliati di vederlo elemosinare. Pareva il padrone di questi posti. Non c'era fiera, non c'era mercato, non c'era festa dove non si recasse, guidando un cavallo che andava come il vento; e spadroneggiava, dava consigli, s'intrometteva nelle contese fra contadini, insomma era per tutto, sapeva tutto, pagava da bere e da fumare a quanti gli si accostavano. Intanto i figliuoli, seguendo le sue orme, trascuravano il podere, e la povera massaia se ne stava a casa a piangere e a disperarsi. È morta di dolore, quella infelice; poi, sparita lei, che lavorava, tutti sono andati in rovina, e quel che è peggio, hanno preso a odiarsi scambievolmente. I figli accusavano il padre, questi accusava loro, e adesso tutti soffrono. Brutta fine hanno fatto, ma il loro esempio è stato giovevole a molti, e ora, quando si vede fratello questionar con fratello o padre con figli, si dice: "Faranno come i Ducci". I bimbi avevano ascoltato con il solito religioso silenzio le parole della nonna, e Gigino, per mostrarle che ne aveva capito il significato, tirò per la manica l'Annina, che gli era seduta accanto, e le disse: - Io ti voglio tanto bene! Quella scappata del Rossino fece rider tutti, e l'ilarità dileguò nell'animo dei bimbi il ricordo delle meritate sventure della famiglia Ducci.

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