Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbandonata

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Scultura e pittura d'oggi. Ricerche

265982
Boito, Camillo 2 occorrenze
  • 1877
  • Fratelli Bocca
  • Roma-Torino- Firenze
  • critica d'arte
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Nella chiesa di San Marco, oltre alle radicali riparazioni esterne ed interne, fu eseguito un utile lavoro, l’asciugamento della cripta, che sino dal 1569 era stata abbandonata, perchè l’acqua, salvo nelle bassissime maree, vi filtrava, rendendola impraticabile. Fu steso sotto il suolo uno strato del cemento idraulico bergamasco e fu rifatto il pavimento di marmo; e così, riaperti gli ingressi, si scende al sotterraneo da due scale laterali, e si possono ammirare le cinquanta colonnette coi loro strani capitelli, su cui piantano gli archi e le vôlte, dove stanno alcune traccie di antichi dipinti. Nel mezzo è l’altare tutto a trafori, con la cassa di marmo, in cui fino al 1811 era stato nascosto il corpo di Marco evangelista. O pensate ora che la cripta misteriosa è illuminata a gas da certe candele fìnte, infisse su certi bracciuoli da osteria, che escono dai muri e dai peducci delle vôlte! Questo spirito di modernità volgare muove a riso e disgusta. E non v’è cosa più fastidiosa che il vedere guastare con qualche goffaggine secondaria un’opera fatta bene. Per esempio, l’interno della Madonna dell’Orto, una bella chiesa veneziana del Trecento, già qualche anno addietro rimessa nella sua vecchia semplicità, è ora nuovamente ingombrata sulla porta maggiore dall’architettura e dalla pittura di un organo farragginoso. Restaurare per risciupare, è peccato!

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Alle pareti bianchiccie e monde sono appiccati pochi studietti, pochi bozzettini, qualche fotografia; non una tela abbandonata, un quadro invenduto, una cornice che aspetti per mutare destinazione. Nel mezzo un cavalletto, in un angolo un modello di legno; nessuno di que’gingilli, de’ quali tanto si compiacciono gli artisti. V’è tutta la semplicità, la parsimonia fiorentina. A primo tratto sembra la stanza di un giovine ch’esca appena dalla scuola, che non abbia mai fatto nulla, che sia impacciato e povero. Gli è che il Sorbi — Raffaele Sorbi, per chi non lo sapesse — non ha tempo di lavorare per sè, non ha tempo di pensare a sè. Gli spazzano la stanza di ogni cosa ch’esca dalla sua mano, appena egli ci ha messo sotto la cifra; ed egli fa presto, presto e bene, e quando ha cominciato un quadro, non si svaga, non divaga, ma lo finisce. Così nella sua stanza non si può vedere mai nulla. NuIla dies sine linea, ma neanche un segno perduto. Egli che ha dipinto delle tele grandissime, la sua Madre dei Gracchi, per esempio, schicchera de’ bozzetti più piccoli di un polizzino da visita con tre colpi di pennello. De’ suoi quadri non gli restano che certi studii di qualche figura, alti pochi centimetri, e de’ disegni in una cartella, pur piccoli, ma tracciati con rara sapienza de’ moti e della forma. Non ha neanche gli schizzi dell’insieme, neanche le fotografìe delle sue opere migliori.

Pagina 196

Racconti 1

662663
Capuana, Luigi 9 occorrenze
  • 1877
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
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Al tocco dopo la mezzanotte Alberto era ancora al club disteso sul canapè, con le gambe allungate, con le braccia incrociate sullo stomaco e la testa abbandonata sulla spalliera. - Un poema, caro amico! - gli diceva sotto voce il Cardini. - Un vero poema! È arrivata in casa mia alle tre e mezzo, inaspettata, come un'apparizione ... - Cardini parlava da una mezz'ora, profondendosi in esclamazioni, perdendosi in un lirismo di frasi e di gesti da far comprendere, povero diavolo! che aveva bisogno di uno sfogo perché la sua felicità non lo uccidesse ... Ma appena aveva inteso pronunziare il nome della signora Moroni, Alberto si era inabissato in una rêverie cosí profonda da non sentire una sola parola delle confidenze del suo amico. Milano, 15@ 15 dicembre 1877@. 1877.

- ella mormorava abbandonata deliziosamente su la poltrona. Eugenio, in piedi, la guardava; e aveva su le labbra l'equivoco sorriso - quasi contrazione - di chi, non piú amante, vede ribadirsi la catena creduta già vicina a spezzarsi. Mineo, 25@ 25 marzo 1885@. 1885.

. - Ella continuava a piangere, a singhiozzare, abbandonata sulla spalliera del divano e si torceva violentemente le mani. Cominciavo a sentirmi commuovere in modo strano - Si calmi - le dicevo - farà peggio: si calmi. - Mi lasci sfogare - rispondeva - mi lasci sfogare un pochino. Ho un nodo al cuore Soffro! - Ero in piedi innanzi a lei e la guardavo con un sentimento di pietà intimo, quasi la fosse stata una amica di antica data. - Il pianto le farà bene - pensavo; e continuavo a guardarla. Ella di tanto in tanto alzava verso di me gli occhi bagnati di lagrime, e tentava di sorridere quasi avesse cercato scusarsi di quell'involontario sfogo; poi tornava a singhiozzare piú forte e si stringeva convulsa le mani. Ho vergogna di dirlo! (Ma io ti racconto quest'avventura per darti appunto una prova di piú delle stranezze del cuore umano.) Ho vergogna di dirlo! Quel pianto, dopo pochi minuti, cominciò a diventarmi sospetto. Gli sforzi ch'ella faceva per rattenersi, per ridursi in calma mi parvero insomma un abile tratto di commedia. Mi compiacqui di questa idea, applaudii segretamente alla mia finezza di intendimento, e dissi tra me: - Facciamo il grullo! Vediamo dove l'amica vorrebbe condurmi. Questa scena ha uno scop o! - La Giulia potè finalmente vincere se stessa, rasciugò le sue lagrime, e levatasi da sedere, accostossi a me con un'aria di timidezza e d'ingenuità che mi fece dispetto. - Perdoni - disse con quel suo tono di voce incantevole: - non ho potuto frenarmi. Ella è cosí buono, che non se l'avrà, spero, avuto a male. - A male niente affatto! - risposi dimenticando per un istante la parte che volevo rappresentare - Sarei troppo fortunato se potessi giovarle a qualcosa. - E appena pronunziate queste parole mi arrabbiai nel mio interno di essermi già lasciato trarre in inganno dalla creduta apparenza. - Grazie - ella rispose - grazie, di cuore - Questo quartierino è una delizia - ripresi io, tanto per non far languire il discorso. - Bene esposto ed arieggiato, ma un vero guscio di noce. Per me, se si vuole, è anche troppo largo. - Sta sola? - Sí sola ... colla donna di servizio. - E abbassò gli occhi sospirando. - Forse sbaglio, ma lei non mi par fiorentina. - Sono di Siena, però vivo in Firenze da due anni. - Sempre sola? - osai chiederle con un accento che non voleva sembrare impertinente. Ella non rispose, ma divenne prima rossa, poi pallida in viso. - Soffre? - fec'io, pentito a un tratto di quella domanda. - Un poco - rispose - ma ormai ci ho fatto il callo. Patisco talvolta dei mancamenti di cuore. - Da parecchio tempo? - Da due anni. - E non ha pensato a curarsi? - Che! - ripose con una leggiera scrollatina di spalle. - Fa male - soggiunsi involontariamente premuroso di scancellare l'impressione di quelle mie parole. - Bisognerebbe esser tranquilla. - Chi glielo impedisce? - Tutto! - La guardai fisso in volto. Provavo ad ogni sua parola delle sensazioni forti e diverse. Mi sentivo ammaliato da quella fresca bellezza, ma temevo di fare al suo cospetto la figura di un grullo. Ero spinto a darle a capire che avevo già indovinato la sua condizione e che era inutile ogni arte per celarmela; ma non volevo nello stesso tempo parere scortese. Noi siamo curiosi! Non sappiamo supporre che anche certe donne possano avere delle verecondie, delle delicatezze di sentimento, delle alterezze di carattere quanto ogni altra, e stentiamo a scomodarci per risparmiar loro un'umiliazione. Vogliamo forse vendicarci dell'incanto che proviamo; cerchiamo forse scusare con un'indecente rivolta la nostra fiacchezza di sensi. In quel momento io facevo queste rapide riflessioni, però non mi decidevo a tagliar corto al discorso per non andare piú in là. Sentivo un'ebbrezza voluttuosa montarmi al cervello; vedevo in quei vapori, a poco a poco, sparire i nobili sentimenti della mia coscienza di uomo, e non mi sforzavo alla menoma resistenza. In pochi minuti avevo bella e accomodata una di quelle transazioni del cuore che indicano ordinariamente il marcio del carattere di una persona, e ripigliavo con curiosità: - Come tutto? - La mia domanda fu accompagnata da un gesto confidenziale che invitava la bella donnina a sedersi di bel nuovo. - Signore! - ella disse ubbidendo rassegnata; - noi siamo due sconosciuti. Se io, per rispondere alla sua gentile interrogazione, le facessi delle confidenze, sarei forse sicura di esser creduta? Lei, dal canto suo, non ha davvero nessuna ragione di prestar fede alle mie parole. Le infelici mie pari sono condannate al martirio della diffidenza. Oh! I nostri dolori veri non li diciamo a nessuno. Il meglio che possiamo fare è tentare di dimenticarli -. Con la fina penetrazione della donna ella mi aveva letto nell'animo e aveva risposto franca, schietta. Mi sentii piccino innanzi a lei. - Non esigo delle confidenze - risposi, onde celare la mia sconfitta; - sarei troppo ardito Volevo solamente rammentarle ch'ero un dottore come un altro, e che le offrivo i servizi della mia poca scienza. - A che pro? Ella curerebbe i miei nervi, e il cuore e l'anima disfarrebbero l'opera sua. Ho inteso dire che in questa sorta di malattie la tranquillità interna val piú di qualsiasi rimedio: è difficile averla! - Ma dunque? - Si lascia correre l'acqua per la china, e quel che succede è bene -. Durante il ragionare avevo guardato l'attaccatura del suo collo, una vera perfezione. La pelle di una bianchezza quasi scintillante lasciava trasparire certe piccole vene azzurrognole che sembrava volessero svelare il sorprendente congegno della vita di quel bellissimo corpo; mentre il respiro un po' rotto e frequente dava ai movimenti della gola un che di cosí molle e voluttuoso da metter la voglia di mangiarsela dai baci. Mi sentivo un pochino girare il cervello. Non ho mai compreso, come in quel momento, il predominio che possono i nervi prender talvolta sulla ragione. Fosse l'ora, il locale, le circostanze e quella bella figurina di donna seduta al mio fianco, cosí poco lontana da sentirmi di quando in quando sul viso il lievissimo e tiepido alitare del suo fiato; fosse in quel giorno una facile disposizione del mio spirito a vagare nell'indefinito, a trarre dalla stupida realtà imagini e visioni che la rendono trasformata; fosse qualche altra recondita ragione ch e non vo' star a cercare, certo è insomma che io provavo dentro di me una insistente e piacevole violenza, la quale ricacciava indietro tutte le riflessioni sagge ed oneste, e lasciava libere le dorate tentazioni uscenti a nugolo in mille forme dalla fantasia riscaldata. Il ragionare aveva preso un tono troppo serio. Tentai condurlo ad una certa gaiezza. - Se lei avesse delle ragioni per non amare la vita - risposi - questo disdegno starebbe bene Ma lei è giovane, è bella, ricca delle piú liete promesse dell'avvenire ... - Promesse! - m'interruppe - ha detto bene - Che spesso valgon meglio della realtà - soggiunsi. - Secondo me, la felicità della vita non consiste nel possedere, bensí nel correre dietro un fantasma che sempre ci fugge di mano. Il possesso è la morte. - Senta! - mi rispose - Nessuno sa prendere la vita pel suo meglio piú di noi povere donne. Siamo, come lei dice, sempre alla rincorsa del fantasma che fugge; ma se lei crede che non ci si stanchi, che non ci si sfinisca è perché non l'ha mai provato. Noi rifacciamo la tela di ragno della nostra situazione nel mondo con una buona fede che gli uomini non sanno capire. La dicono leggerezza di cuore! Volubilità! Che! Noi vogliamo solamente carpire la realtà come ella è, ed è brutta assai. Quella leggerezza, qu ella volubilità ci costano lagrime, tormenti impossibili a dire; ed è per istanchezza, per disperazione, per ispavento da cui ci vien tolto di veder bene, se infine ci buttiamo capofitto in una vitaccia che Dio solo sa quanto pesa! Andiamo! Ne convenga: voialtri uomini siete crudeli! - E le donne? - feci io con un sorriso che voleva esser malizioso e che nessuno può dire quanto fu da imbecille. - No, no! - rispose con fiera energia - Vi sono delle azionacce che noi, per tutto l'oro del mondo, non sapremmo commettere. Debolezza o delicatezza d'animo che sia, nemmeno ci passano pel capo; non arriviamo neanche a spiegarcele! - E la sua voce tremava commossa. I suoi occhi riscintillanti dell'improvviso sdegno mi si fissarono in volto, non saprei dire se per farmi una terribile interrogazione o se per trionfo. Ella si mordeva leggermente il labbro inferiore e colla mano destra mantrugiava un lavoro di trine steso sulla spalliera di una poltroncina lí presso. - Oh, noi siamo fatte male! - continuò dopo un istante; - dovremmo esser piú forti. Dovremmo una volta finalmente trar profitto della trista esperienza e non piú lasciarci ingannare! - Via! Non si arrabbi! - esclamai con un tono di confidenza quasi bambinesco; e le presi una mano e cominciai a lisciargliela colla mia come se quella carezza avesse potuto attutire il suo sdegno. Lasciò fare. Io le lanciavo da un pezzo certe occhiate ardenti di desiderio, lunghe, esprimenti quel languore delizioso, proprio delle persone innamorate. E non erano mica bugiarde. Mi ribollivano in cuore mille cose; il sangue vi affluiva con febbrile frequenza e spargeva indi per tutto il mio corpo un calore che doveva accendermi il viso piú che se io non fossi rimasto alcun tempo innanzi la brace. - Non è rabbia - ella rispose, - è indegnazione. Ma, dica, la mano posta davvero sulla coscienza, abbiamo noi donne altro torto che quello di prestarvi fede con un'ingenuità troppo balorda? - Siete fatte per questo. - È un'infamia! - È la natura. - Credevo lei di piú bel cuore! - sclamò con aria di cortese rimprovero. - E si è ingannata, e sta bene. - Fa per celia, per isvagarmi dalla mia fissazione; non è vero? - Faccio per vederla imponente nello sdegno e maestosa come una Dea -. E stesi il braccio onde ravviarle una piccola ciocca di capelli che le si sbizzarriva sulla fronte. Ella venne incontro alla mia colla sua mano, e impedí quell'atto senza parere di aver avuto una intenzione severa. - Parliamo degli uomini e lasciamo stare la Dea - disse sorridendo a fior di labbra. - Ne parli a sua posta; - risposi - io mi gusterò zitto zitto la felicità di ascoltarla. - Come siete crudeli voi altri! - continuò attaccando forse il discorso a delle idee che rapide le passavano per la mente. - Vuol dire che nella vostra vita arriva un punto in cui scherzate coi dolori altrui senza rimorso e senz'onta! Arriva un'ora in cui la ebbrezza, e la sazietà vi fanno calpestare ogni cosa piú gentile e piú sacra. Diciamolo senza rossore, senza sottintesi, senza reticenze di sorta: quando noi concediamo qualcosa, concediamo tutto; corpo ed anima, vita e felicità: non sappiamo fare a mez zo. Voialtri non volete capirlo; fingete, forse, perché cosí vi torna conto. Siete delle bestie feroci, ingorde di piacere, di sensazioni violente. Non avete, amando, altro scopo. E cosí quando incontrate una infelice che per mezzo del suo corpo vorrebbe attaccarsi ad un'anima, vi mettete a ridere, gli date la berta e cavate di tasca il salvacondotto della morale per insultarla impunemente o precipitarla giú a rotta di collo in un baratro senza fondo. Dio mio! Anche lui! ... - Aveva pronunziato queste parole con un'inflessione monotona, repressa, piena di emozione crescente; si era fermata un pochino prima di esclamare: "Dio mio! Anche lui! ... " e incrociate le mani in atto di strazio profondo, ricominciò a singhiozzare. Ci voleva poco ad intendere che quel "lui" non ero io. - Che! - pensai stizzito; - si torna da capo? - Ed era la conclusione di un ragionamento opposto al suo, fatto nel mio interno mentr'ella parlava - Ecco - avevo detto - le solite cose! Pare una lezioncina imparata a memoria. Infine, se il resultato dev'essere sempre uno, e si potrebbe anche fare a meno di queste noiose storielle! Già se sto qui a recitar la parte del collegiale andremo nell'un via uno. Furba, permío! - Ma pensavo cosí per isforzo; il cuore non stava piú a bada. Dentro aveva un tumulto di sentimenti diversi che si facevano guerra tra loro, e c'era in mezzo anche la vergogna di quello stentato scetticismo con che volevo dar ad intendere a me stesso che ero un uomo di mondo. Oh, la vanità! Quante perfidie suggerisce! Però mi mancava il coraggio di quei sentimenti. Contavo di arrivare all'intento per via di finezze diplomatiche, di passaggi graduati, senza parere insomma, e mulinavo. - Scusi, veh - diss'ella all'improvviso, reprimendo colla volontà la sua viva agitazione; - è piú forte di me. - O lasci andare! - risposi; - si è fissata sul caso di poco fa! - Ma senta che infamia! - esclamò con improvviso abbandono - Non voglio occultarmi ... E poi sarebbe inutile! ... Avevo un amante -. Io sorrisi. Ella capí - Non era il primo - soggiunse con altiera franchezza - ma l'amavo piú del primo. Questo voialtri non lo intendete; vi pare un assurdo: ma è la verità. La lusinga di attaccarsi ad un affetto durevole ci rende piú appassionate e migliori. Basta! Si era fatta vita insieme per quasi un anno. Già fabbricavo dei castelli in aria e mi confortavo con essi: mi sentivo felice! Quando si è cadute in questa miseria non abbiamo altra smania che di uscirne. Ci illudiamo facilmente; proviamo un gran bisogno di illuderci. A poco a poco intanto mi accorsi che lui non era piú quello di prima: si annoiava meco, diventava stizzoso e quasi inurbano ... Ebbi un gran colpo al cuore! Ma, gua'! Ero abituata ai disinganni. Un giorno feci un gran sforzo (pativo a vederlo in quel modo) e gli dissi: "Pierino, non so come sia avvenuto, ma non ti voglio piú bene" "Toh! - rispose ridendo sgangheratamente - e siamo in due!" "Tanto meglio! - esclamai colla morte nel cuore; - separiamoci amici. Non ci vedremo piú!" "I morti non si rivedono!" fece lui, scendendo le scale come sgravato di un gran peso. Io diedi in un pianto da matta, e giurai di mutar vita. Non è come dirlo! Pare impossibile! Il lavoro ci schiva, quasi la nostra colpa lasciasse del sudiciume sulle cose che non si possa levar piú via. Stentai dei mesi, vivucchiando di certi lavoretti di cucito che mi costavano molto e mi recavano poco piú che nulla; ero decisa a lasciarmi morire! Non avevo voluto vendere un solo dei piccoli oggetti che mi ricordavano lui. Questo salottino è proprio come lui l'ha lasciato; non vi è fuori posto nemmeno una s edia; giacché, per quanto facessi, non me lo ero cavato di mente. Ieri l'altro, ad un tratto, me lo veggo davanti. Trasalii, volevo mostrarmi sdegnata e non dargli retta: ma lui disse e fece tanto! Mi lasciai accalappiare! Diemmi ad intendere che aveva mutato casa, che teneva in serbo un progetto per farmi del bene, e mi disse che voleva ad ogni costo mostrarmi la sua nuova abitazione. La sua zia era morta (aveva soltanto una zia): poteva omai starmene liberamente con lui e far da padrona di casa. Perché non dovevo credergli? Chi l'aveva costretto a venire? Ero lieta e trista: non mi diceva il cuore di andarvi. Tutta la notte arzigogolai, mi pentii parecchie volte di aver promesso, ma poi non seppi resistere e non mi parve vero che fosse giorno. Andai, esitando, con un cattivo presentimento, e picchiai a quell'uscio che egli mi aveva indicato. Un servitore che io non conoscevo m'introdusse in una bella stanza e mi lasciò lí ad attendere. Dopo un pezzetto entrò un uomo sulla cinquantina, alto, grigio di capelli, vestito tutto di nero. Rimasi! Impalai! "Siete voi, carina?", mi disse con un accento straniero (era forse inglese, che so io?). Cascai dalle nuvole! Mi scese una benda sugli occhi e fu miracolo non mi svenissi. Ma ripresi subito ardire; e quando quell'uomo mi si accostò e stese la mano per farmi una carezza, lo ributtai indietro con violenza e corsi verso l'uscio. Ei mi ritenne per un braccio. Sghignazzava e borbottava in gola non so che parole poi mi disse: "A che pro queste scenate? Non sei tu la donna di Pierino? Io sono l'amico di cui ti ha parlato". Divenni di bragia dalla vergogna e dal dispetto, ed ero intanto fredda, un diaccio. Tremavo a verga a verga. "Mi lasci andare! - balbettai; - non son io ... mi lasci!" "Senti - egli mi disse - far l'onesta è tempo perso. Chi per caso entra qui donna onesta, n'esce tutt'altra. Tienlo a mente". Mi voleva far sedere sulla poltrona vicina. Io resistetti dibattendomi, e poi me gli piantai innanzi inviperita dall'onta. "Signore! - urlai - posso anche esser quella che lei dice; ma non mi si vende o non mi si cede! Mi lasci! Altrimenti salto a quella finestra e mi metto a chiamar gente!" "Per pietà! - indi soggiunsi in tono di preghiera; - sono stata vilmente ingannata ... mi lasci andare. Ritornerò, se vuole, un'altra volta (dicevo tutto quello che mi veniva in bocca), ma ora mi lasci ... Per amor del cielo! ... Non vede come soffro?" Si persuase, e aperse l'uscio. "Grazie!" gli dissi; e stavo per mettere il piede fuori della stanza. "Verrai davvero?" fece lui. "Sí, verrò - risposi - domani". Avrei promesso ben altro per liberarmi! Osò offerirmi del denaro. Benché mi sentissi tratta a buttarglielo in viso, rifiutai urbanamente, e mi trovai per le scale mezzo morta. Fui subito in piazza Barbano, agitata, disordinata com'ella mi vide. Non riuscivo a infilare una via. Quei beceri che mi avevano veduta entrare, cominciarono ad urlarmi dietro. Dio mio! Mi pareva di ammattire. Le gambe mi si piegavano sotto. Volevo correre ed inciampavo ... Chi sa, se lei non era, che cosa mi sarebbe accaduto? ... Dica intanto - riprese ella dopo un a piccola pausa, - dica se per queste infamie non ci vogliano proprio gli uomini? Se non son prodezze unicamente da loro? - Ero tra commosso e non saprei definire che altro La musica di tutto quel suo racconto mi aveva dolcemente deliziato le orecchie come un gorgheggio di usignuolo. Ero stato a guardare, ad ammirare l'espressione del suo viso, il movimento delle sue labbra, tutta l'aria fiera, nobile della persona che si rizzava sul busto quasi minacciosa, ma bella nello stesso punto, ma magnifica, ma piena d'un fascino immenso. Non mi ero mosso; avevo quasi rattenuto il respiro: e intanto, tra la emozione, sorridevo internamen te con una forzata incredulità che mi faceva proprio comodo, ma che avrei però voluto celare a me stesso. Mi era uopo di credere ch'ella avesse fatto a quel caso un pochino di frangia; avevo bisogno di persuadermi che il caso non fosse poi andato davvero a finire com'ella aveva raccontato. L'uomo è cosí: quando non può trovar una scusa nella realtà delle cose, fa di tutto per persuadersi che le cose stiano preciso come giovano a lui. Nulla risposi alla focosa interrogazione, anzi le ripresi pian pianino la mano. Ma ella non fu contenta; voleva ad ogni costo dicessi qualcosa. - Eh? - fece, recando il suo viso rimpetto al mio e piantandomi in fronte quel suo par d'occhi divini. Trovai una scappatoia. - Come medico - risposi - le proibisco di piú occuparsi di quest'affaraccio. E spero di essere ubbidito - soggiunsi affettando una gravità semiseria che la fece sorridere. - Bisogna rifarsi! - esclamò con un sospiro. E rimase pensosa. - Oh! - disse dopo un momento - io non saprò mai come ricambiarle la sua squisita bontà. - Cominci con un bacio! - E la fissai per vedere l'impressione di quella mia sfacciataggine. Ella abbassò gli occhi, strinse un pochino le labbra, e poi, freddamente, mi diede il bacio richiesto. Volevo ricambiarglielo, ma trasse indietro il capo un po' rossa in viso - Ed ora che pensi di fare? - chiesi, reso piú ardito dal mio trionfo e mostrando, col darle del tu, che volevo andare piú innanzi. Stette a guardarmi, sorpresa che doveva essere di quel tono cosí confidenziale e, piú che sorpresa, addolorata; poi rispose: - Lo so io? Morire sarebbe meglio. - Al diavolo le ubbie! - Ci vuol poco a dirlo! - Piú poco a mandarle via! - Mi ero messo in vena di Don Giovanni e facevo il bellumore - Sai che qui, in due, ci si sta proprio bene? - soggiunsi tosto mettendole una mano sulla spalla. Ella tentò cortesemente di levarmela di quel posto; ma io le ritenni prigioniera la mano. Pareva contrariata, impacciata da quel mio modo di operare, ma non osava far resistenza. - Lascerò presto questa casa - rispose - vi son troppe memorie. - Non tutte tristi. - Tristissime! - Andiamo - feci, sdraiandomi sulla spalliera del divano e dandole certe occhiate che dicevano tanto. Però non mi riusciva di spingermi oltre; volevo risparmiato lo sforzo di una dichiarazione piú aperta. Giacché in mezzo a quell'ebbrezza di sensi appariva di quando in quando un bagliore di coscienza, e sentivo un'acuta punta di rimprovero ferirmi il cuore a guisa di sottilissimo ago; talché avevo una rabbia di me stesso e della mia debolezza, che mi avvelenava il piacere di quella situazione inattesa. Stetti cosí un pezzo, curioso di spiare i menomi movimenti di lei, stizzito di leggerle sul volto un misto di stupore, di pena mal celata e di rassegnazione sdegnosa; poi, con uno scatto, mi levai da sedere. - Va via? - ella chiese con un tono che pareva volesse assicurarsi se non partivo di lí offeso di quel suo contegno. Io non ero piú buono a nascondere ciò che in quel punto provavo. - Vo via - risposi; - che sto piú a seccarla? - Rizzossi e mi si fece innanzi con un'aria di profonda tristezza, ontosa di aver già troppo capito le mie balorde intenzioni e nello stesso tempo proprio decisa a sdebitarsi con me come meglio mi sembrava. - Se vuol restare! - pronunciò quasi sottovoce; e l'accento rivelava tutta l'amaritudine di quel cuore piú, forse, sdegnato della mia bassezza che del suo avvilimento. Parve mi avesse sputato in viso. Quella mia ebbrezza cessò ad un tratto. - Oh! oh! - esclamai inorridito - perdono! - E corsi in cerca del cappello per celarle il mio rossore e la mia estrema confusione. Quelle tre brevi parole: "se vuol restare!" erano state pronunziate in modo da significare: "Vilissima creatura! Io volevo pagarti di gratitudine; volevo darti per sempre un nobile posto nel mio cuore! Se tu ora non hai saputo un momento esser diverso da tutti gli altri; se hai vista un'infelice e non sei stato bono di resistere alla tentazione d'insultarla; via, pagati pure la tua buona azione col possesso d'un istante! Dopo almeno avrò il diritto di disprezzarti come tutti i tuoi pari!" - Addio! - le dissi senza nemmeno poterla guardare in faccia Ella prese allora la mia mano e la baciò con effusione, esclamando: - Grazie! Grazie! Quanto è stato generoso! - Scappai via Scendendo quelle scale e quando fui all'aria aperta, abbottonai con grande soddisfazione il mio soprabito; poi mi posi a camminare colla testa alta e col cuore in festa, come chi ha fatto il suo dovere.

Nel momento che William saliva le scale del palazzo ricordando la trista scena di parecchi anni fa, essa trovavasi nel suo elegante salotto, abbandonata su una poltrona, col viso fra le mani, piangente. Una cameriera levava della roba da un mobile antico incrostato di avorio e di madreperla, e nominato un oggetto, aspettava che la sua signora le rispondesse sí o no con un cenno del capo. William irrompeva nella stanza. La contessa pareva ammattita dalla gioia. Rideva, piangeva, lo abbracciava, lo carezzava, tornava ad abbracciarlo. William non rifiniva dal baciarla: - Il contatto di quelle labbra dovea fargli rivivere il cuore! Chiamami figlio! Chiamami figlio! - Figliuolo, figliuolo mio! - ripeteva la contessa. Il rimorso, il pentimento, la gioia rendevano sublime l'accento di lei. William smaniava; si scioglieva dalle braccia di sua madre, le metteva una mano sulla fronte per tenerle sollevato il volto: - Voleva contemplarlo bene e assorbire tutti gli splendori di quegli occhi! Qui le tue mani, sul mio cuore! ... Premi forte! ... Ancora piú forte! Ma no! No! Quel terribile gelo non voleva fondersi. Il suo cuore era morto per sempre! Non un palpito! Non una leggiera emozione! Baciava forse una statua? Era un'infamia! Oh, maledetta quella scienza che lo aveva cosí ridotto! - La mattina dopo, senza dir nulla al suo amico, William Usinger prese la strada che conduceva alla villetta del dottor Cymbalus. Era giorno di festa. Allegre brigate di uomini e di donne, sparse pei prati che fiancheggiavano la strada, conversavano allegramente o ballavano al suono del violino e del contrabasso. William si fermava a guardare quelle persone felici; ma non capiva piú nulla di quella loro musica, e di quelle loro canzoni. Quei visi sorridenti gli sembravano atteggiati a scherno o a disprezzo per lui. Il dottor Cymbalus lo ricevette colla sua solita cordialità. William gli espose quel che provava. - Io non v'ingannavo, figliuolo mio! - gli disse il dottore diventato tristo e meditabondo. - Forse sarebbe stato meglio vi avessi lasciato mettere in atto la vostra disperata risoluzione! Non credete per questo che vi fossi indotto da una vanità di scienziato, per tentar l'esperimento delle mie scoperte. Voi calunniereste il mio cuore d'onest'uomo che la scienza fa palpitare vivamente per qualunque creatura che soffre. Fui sedotto da una speranza: osai sperare che la natura non sarebbe stata inesorabile. E ravate cosí giovane! Avevate tanto sofferto! Ma la natura non muta le sue ineluttabili leggi. - Addio, dottore! - disse William. - Abbiate coraggio, abbiate coraggio! - Avrò coraggio -. Il dottor Cymbalus dalla finestra del suo studio seguí coll'occhio il giovane che s'allontanava a capo chino. Lo vide fermarsi per consegnar qualcosa al servo poi sparire nel campo vicino, dietro un folto gruppo di alberi. S'udí un'esplosione d'arma da fuoco. Il dottore corse in fretta, accompagnato dal servo, verso il punto dove l'Usinger era scomparso. William giaceva a terra immerso in un lago di sangue, col petto squarciato da una terribile ferita. Quando il servo consegnò al dottore il foglio ricevuto alcuni momenti prima, il vecchio scienziato lo aperse tremando dalla commozione, colle lacrime agli occhi. Esso conteneva queste brevi parole: "Lascio tutto il mio patrimonio al dottor Franz Cymbalus ed al mio amico Hermann Strauss perché con esso istituiscano una scuola gratuita dove si insegni ad Amare!" Firenze, settembre 1865@. 1865.

Lasciami morire qui, abbandonata. Mi basterà vederti, sentirti parlare ... Dimmi però che mi vuoi bene ancora, come prima. Proprio come prima? ... - Anche piú! - Allora ... giurami che quando sarò morta tu non amerai nessun'altra donna. - Te lo giuro. - ... Che seguiterai a dormire in questa camera, in quel letto, con quella stessa biancheria ... - Te lo giuro! - Ah, se tu mentissi! ... Vieni, fatti piú accosto ... Dammi un bacio, uno solo! Sono diventata brutta, lo so senz'essermi vista allo specchio ... Ma ti voglio tanto bene! Tu sei mio, è vero, Lorenzo? - Tutto tuo, anima e corpo. - Ripetilo, ripetilo. - Tutto tuo, anima e corpo. - Grazie. Come mi fanno bene queste parole! ... Ah, se potessi risanare! Ah, se potessi almeno continuare a vivere in questo stato, a costo di penare il doppio, venti, cento volte piú! - Guarirai; ogni speranza non è perduta. Senza questi terrori, senza questi eccessi ... - Sarò buona, starò tranquilla; vedrai. Ti ubbidirò come una cagnolina ... Lasciati baciare ... Non ti faccio ribrezzo, è vero? No. Stringimi forte al cuore ... - Queste tregue duravano appena un giorno, qualche volta soltanto poche ore; poi la fissazione la riprendeva. Fra il bianco delle pareti, alla luce del giorno che penetrava dalle ampie vetrate con tutti gli splendori del maggio, in quel silenzio di ore ed ore, interrotto soltanto dal sommesso rammarichio di lei o dagli schianti di tosse che, di tratto in tratto, pareva dovessero soffocarla; quella figura squallida, da gli occhi infossati e diventati piú grandi nel volto rimpicciolito, dai capelli spettinati c he conservavano tuttavia i loro bagliori di oro filato, affondata fra i guanciali nella poltrona, perché a letto non ci voleva piú stare, oh!, era spettacolo pietosissimo. Lorenzo non doveva muoversi dalla camera dove ella non voleva vedere altri visi, neppure quello del suocero. Già invecchiato, quasi tutto incanutito durante quei terribili mesi, il povero Lorenzo non si riconosceva piú. Ed ella se lo divorava, silenziosa, con sguardi lampeggianti di fascino maligno. Voleva portarselo via con sé; voleva rapirlo a quell'altra che forse attendeva impaziente di gettarglisi tra le braccia, piena di salute, bella, amante e trionfante, tale da scancellargli dalla memoria ogni trac cia di lei. No, colei non lo avrebbe avuto. Non lo avrebbe avuto! Se ne sarebbero andati assieme, abbracciati nella morte come nella vita. Suo era, e colei non lo avrebbe avuto, no, no! E per non lasciarselo sfuggire, per paura che il male non gli si fosse attaccato abbastanza, tornava a baciarlo, a ribaciarlo, su la bocca, su le gote, sul collo, sugli occhi, sui capelli; talvolta lo mordeva, con furore di belva ... - Ah! ... Ti ho fatto male? ... - E subito lo baciava dove lo aveva morso, per attutirgli il dolore. Intanto egli doveva asciugarsi il viso coi fazzoletti tutti impregnati del sudore di lei; intanto doveva bere nello stesso bicchiere, dal lato dov'ella avea accostato le labbra ... No; non volea lasciare la sua cara preda a quell'altra! Infatti Lorenzo che davvero si sentiva morire a poco a poco, ora le si avvicinava con indefinito terrore superstizioso, pensando - I miei presentimenti, ecco, si avverano! - L'attesa della catastrofe, inevitabile, lo teneva invasato. E il giorno ch'ella gli disse: - Mi sento meglio - Lorenzo le prestò fede, tanto aveva bisogno d'illudersi. - Mi sento bene, quasi guarita improvvisamente. È effetto di questa bella giornata? Di questo sole? - Ridiventata buona, gentile, affettuosa come nei primi giorni, scherzava anche intorno alla sua malattia: - Alla fine vinco io ...? Doveva essere cosí! Ho una gran forza dalla mia parte: l'amore! - Ne hai un'altra: la gioventú -. E ne risero insieme. Quel giorno Concettina volle rivedere il povero don Giacomo, e gli chiese perdono di essere stata cattiva con lui: - Quando si è malati non si ha coscienza di quel che si fa. Oggi che sto meglio, vede? - Don Giacomo però non fu ingannato dall'apparenza: - Ahimè! La lucerna dà gli ultimi guizzi. Bisogna chiamare il prete, se pur si fa a tempo! - A un tratto, ella si sentí mancare; il debole filo che la teneva attaccata alla vita stava già per spezzarsi. Si abbandonò su la poltrona, guardando Lorenzo con sguardi d'invidia feroce: - Egli restava? ... Non andava via con lei? - Gli accennò, col capo: - Senti: spingi la poltrona verso il terrazzino; apri la imposta; voglio vedere la città e la campagna, per l'ultima volta ... Affrettati ... Affrettati ... - Lorenzo ubbidí, macchinalmente. - Guarda quel campanile ... - Lorenzo guardava, sbalordito. - Ricordati che lo hai veduto l'ultima volta con me ... E quelle colline ... quegli alberi! ... Ricordati, ricordati ... che prima di morire li abbiamo guardati insieme ... e che io ti ho detto: "Guarda, guarda! ..." E quei pini di Santa Maria di Gesú ... lí a manca ... dove spesso siamo andati a passeggiare, ricordati! ... Ricordati! ... - Lorenzo, trasognato, rispondeva di sí con la voce e col capo. Quel campanile, quelle colline, quegli alberi, quei pini di Santa Maria di Gesú se li sentiva imprimere negli occhi quasi per una malía che lo invadeva ... Non avrebbe piú veduto altro che quelli! ... Sempre! ... Sempre! ... Sempre! ... E Concettina, attiratolo al petto con sforzo supremo, cercando le labbra di lui che la reggeva per la vita: - Muori con me! ... Muori con me! ... - balbettava. Roma, novembre 1882@. 1882.

L'uomo bello, mondano, superficiale da lei preferitomi senza pensarci su un momento, l'aveva dopo pochi mesi abbandonata colla stessa facilità con cui era venuto a buttarglisi ai piedi; cercava forse tutt'altro di quel che l'Ebe avrebbe voluto concedergli. Io, che per lei rappresentavo una vittoria creduta quasi impossibile, le avevo sdegnosamente voltate le spalle senza piú rivederla. Ed ecco: ella cercava ora rifarsi su di me dello scacco subito. Forse, compreso ora qual'indegnità avesse commessa ridendosi dell'amore piú serio e piú sincero da lei ispirato ad un uomo, tentava in quel naufragio del suo cuore afferrarsi stretta a me come ad una tavola di salvezza. L'idea che il disinganno avesse realmente destato e fatto fiorire in lei i germi di un amore per davvero, non mi passava pel capo. Ella mi pareva troppo assuefatta a certi sentimenti e a certe emozioni da poterli risentire schiettamente e profondamente; l'artifizio, l'abitudine avevano dovuto attutire o smorzare le vive forze del suo cuore; e la nuda e volgare realtà cacciar via da esso ogni gentile illusione, ogni aspirazione elevata. L'amore, cioè quel vacuo esercizio delle fibre, quel fatuo scintillare d ello spirito che suol chiamarsi con tal nome, era diventato per lei una delle forti necessità della vita; la sua anima femminile non poteva astenersi di questo spirituale nutrimento. La sazietà intanto la rendeva schifiltosa; le dava dei gusti stranissimi, ch'ella non era sempre in caso di appagare. Sí, ammalata poteva essere, ma soltanto di nausea e di ideali mancati. Io, un po' strano, un po' rozzo, ma sincero, ma tutto di un pezzo; io, vero credente dell'amore in mezzo a tanti atei di questo dio, avevo p er lei l'attrattiva del frutto vietato, del sapore sconosciuto: nient'altro! ... La mia alterigia di uomo rifiutava sdegnosa i sommessi suggerimenti di un'intima voce del cuore. Perché non credere? Diceva questa voce. Il disinganno può averle aperti gli occhi; e un amore prodotto da tale stato dello spirito diventare il piú violento, il piú schietto, il piú duraturo del mondo; quasi un primo amore anche per una donna che, come l'Ebe, abbia amato fin troppo. Ma non mi lasciavo rimovere, per quanto mi sentissi straziato. Cedere, fosse pure ad un sentimento di naturale curiosità, mi faceva ribrezzo. Il mio odio era certamente uno dei mille aspetti dell'amore (per dire che non amiamo piú bisogna sentirci indifferenti) ma cosí, da odio, lo tolleravo; senza maschera invece non lo avrei tollerato un momento: avrei preferito spezzarmi il cuore, non potendolo vincere altrimenti. Ero troppo superbo: ella indovinava. Posai la lettera sul marmo del caminetto e non andai, né risposi. Quel procedere villano era un gran sforzo che facevo mio malgrado. Mi ritenevo impegnato per mille ragioni a non cedere; e, temendo di esser preso da qualche improvvisa debolezza, esageravo il rigore, passavo ogni limite. Accade sempre a questo modo, nella vita, nell'arte, in ogni cosa: la giusta misura riesce impossibile e all'uomo e alla natura: è l'ideale che non arriva ad attuarsi. Continuai le mie visite alla vicina con crescente frequenza. Viveva sola. Il suo amante viaggiava qua e là per affari, e non le scriveva mai. La signora Augusta, ignorando sempre per quali provincie la ferrovia scarrozzasse il suo "protettore" (lo chiamava cosí), non aveva nemmeno lo svago di riempire ogni giorno un fogliolino di carta da spedire alla posta. Attendeva, facilmente rassegnata per effetto, in massima parte, della sua costituzione e del suo carattere. Era un organismo tranquillo, un carattere armonico: sentiva la vita come una luce ugualmente rosea e moderata; mai troppi bagliori, mai troppe ombre. Era però nel medesimo tempo un organismo delicato, facile a percepire le mille sfumature di un sentimento, e inclinatissima a questo quasi sensuale godimento delle sfumature in ogni cosa. Insomma una vera donna di spirito, caduta nella condizione ove ora si trovava per una lunga serie di vicende che spesso rimanevano inesplicabili anche per lei stessa. Forse per questo ella chiamava "protettore" il suo amante, sfumatura di linguaggio tutta sua e non superficiale di certo. Quella tranquillità di organismo, quell'armonia di carattere corrispondevano a qualcosa del mio spirito un po' pagano, a qualcosa che dominava talvolta tutte le facoltà della mia mente e del mio cuore e mi faceva vivere piú di sensazioni che di sentimenti, proprio come una felice creatura della Grecia antica. Però in quei giorni ero poco o punto disposto ad apprezzarne il valore. Ero anzi disposto a giudicarle assai male; scambiavo infatti la tranquillità per freddezza, l'armonia per fiacchezza o per comple ta assenza di contrasti. Ma cominciai a disingannarmi la prima volta che le udii sonare da vicino il pianoforte. Quella ondata di melodie e di armonie pareva facesse montare a galla la sua anima gentile da una profondità sconosciuta. Le dita vibravano con forza, spesso con violenza sulla tastiera, e lo strumento non rispondeva come un semplice meccanismo dalle sue viscere cave, ma come una parte dell'organismo di lei la quale ne rivelasse le intime voci del petto. Però in tutto quest'intimo c'era un che di carnale e di sensuale che ricercava le fibre con dolcezza squisita. Dopo quelle armonie ci voleva assolutamente un grand'accordo di baci. Dopo quelle vibrazioni sonore che agitavano il sangue e riscaldavano la pelle come se avessero sferzato il corpo con invisibili verghettine, si richiedeva assolutamente la fiera stretta di un abbraccio, o il pezzo di musica sarebbe parso senza significato, senza chiusa, insomma, incompleto. Non occorse dircelo: ci fu il tacito accordo di tutti e due. Ma i baci non venivan mai prima che la musica gli eccitasse. Quando la conversazione, cominciata freddina, continuava a sbalzi, noiosa, sconclusionata, ella levavasi tosto dalla poltrona, andava a sedersi al pianoforte ..., e i sensi, riconosciuto subito il loro inno reale, si destavano inebbriati per proseguirlo alla loro maniera, senza bisogno di musica. Il "protettore" ritornò. Per tre settimane potemmo vederci di rado, dal terrazzino, e scambiare ora un saluto, ora un centinaio di parole. Abbassavamo le tende per evitare di esser veduti da una zitellona di rimpetto che bracava dalla mattina alla sera tutti i fatti del vicinato; e il dialogo si riduceva quasi invariabilmente a questo qui: - Sei vedova? - No; ma partirà fra qualche settimana. - Starà fuori a lungo? - Chi lo sa? Non dice mai nulla. Parte e arriva improvvisamente nei giorni e nelle ore che meno l'aspetto. - Che rabbia! - E l'Augusta sorrideva di quel suo tranquillo sorriso, che mi piaceva ogni giorno piú che mai. - Aspetta lí - diceva talvolta. E rientrava per mettersi al pianoforte. Spesso però il pianoforte taceva a un tratto, ed ella non ricompariva piú. Il protettore era venuto a casa. Il nostro dolce colloquio restava interrotto sul meglio. Ma "lui" ripartiva; faceva delle assenze di quindici, di venti giorni, e noi tornavamo alle nostre intime relazioni con un'assiduità meravigliosa, come se ciò fosse stato la cosa piú regolare del mondo. Ci preoccupavamo di "lui" soltanto per sapere quando partiva e indovinare possibilmente quando sarebbe ritornato. Ci amavamo? Nessuno dei due aveva osato fare all'altro questa interrogazione. Amarci? Di che amore? Domande complicate che esigevano risposte ancora piú complicate. Lasciavamo correre: valeva lo stesso. Io avevo intanto trovato in lei qualcosa che addolciva le amarezze del mio cuore, e spesso anche le addormentava. Ma vi eran dei giorni però nei quali preferivo rigustare quelle amarezze, e glielo davo a vedere. - Sei stanco di me? - mi chiese un giorno con un accento di affettuoso rimprovero. - Perché dovrei esser stanco? - feci io, evitando cosí di rispondere. - Perché è naturale - riprese l'Augusta; - non c'è nulla di eterno al mondo, e l'amore meno di tutto. - Credi tu - le domandai all'improvviso come conseguenza delle idee che mi si affollavano in testa, - credi tu che una donna possa morire di amore? - Mio Dio! - esclamò con un'intonazione di voce che mi suona ancora nell'orecchio; - ma le donne non muoiono di altro -. Questa risposta cosí semplice mi turbò profondamente. - Senti - ella disse dopo un pezzo: - è vero che tu sei stato l'amante di una gran dama? - Chi ti ha sballato questa sciocchezza? - Prima rispondi: ti dirò poi. - Ho già risposto, se t'ho detto: sciocchezza. - Eppure io so di certo che tu hai avuto una amante e che ora siete in rottura; quel biglietto di tre mesi fa dovette inviartelo lei. - Quella? Un'amante? Oh! Niente affatto, mia cara! - Eh, via! Ti vuoi nascondere da me: ma io, tu lo sai, non sono punto gelosa. Dunque, la poverina ti vuol bene a tal segno che si è rovinata la salute per te. Dopo il tuo abbandono fece delle pazzie; corse, balli, viaggi, ogni possibile stravaganza pur di buscarsi un malanno che la facesse morire ... e c'è finalmente riuscita. - Chi ti ha detto questo? - chiesi meravigliato di sentire sulla sua bocca quello strano miscuglio di falso e di vero. Tacque un pezzetto e stette a capo chino, colla fronte corrugata, coll'indice della mano sinistra appoggiato sulle labbra, come se cercasse di ricordare. - Mi perdonerai? - fece poco dopo, sedendomisi sulle ginocchia e passandomi le braccia intorno al collo. Questo sfoggio di tenerezza accrebbe straordinariamente la mia curiosità. - Parla - dissi impaziente. - Mi perdonerai? - tornò a domandare l'Augusta. - Cento volte, non una, ma parla, ti prego! - Ecco qui. Tre giorni fa la cameriera di quella gran dama venne a cercarti. Tu non eri in casa, e nemmeno il tuo servitore. La Lucia, sentendo replicatamente suonare il tuo campanello, affacciossi all'uscio, e riconobbe in quella cameriera una sua amica d'infanzia. Si misero a chiacchierare sul pianerottolo. L'altra aspettava con una smania incredibile; ogni minuto le pareva l'eternità: infatti, dopo un'ora, vedendo che tu non rientravi in casa, si decise a lasciar l'imbasciata alla Lucia, caldamente racco mandando di fartela appena arrivato. Fu lei che confidò alla Lucia tutta la storia della sua padrona: la Lucia, che forse fece lo stesso dei fatti miei, venne subito a riferirmi fedelmente ogni cosa: mi fece vedere anche ... la lettera. - C'era una lettera? - dissi, mostrando un'indifferenza che in quel momento non provavo. - Oh sí ... una lettera ... E per via di essa che ho bisogno del tuo perdono! - L'hai già letta? - No, no! ... Ma n'ebbi una forte tentazione ... e quindi ... Eccola! ... - disse alzandosi a un tratto dalle mie ginocchia. E aperto un cofanetto di porcellana di Sèvres a fermagli di rame dorato, la cavò fuori ancora chiusa e me la porse colla punta delle dita, mormorando: - Perdona! Qual parola occorrerebbe per esprimere la vile infamia che allora mi balenò nella mente e che misi subito in atto? Quelle rivelazioni della cameriera, misto di verità e d'invenzioni, avevano irritato il mio amor proprio come uno scherno crudele; né la lettera dell'Ebe poteva avere per me un significato diverso. Amante io, io che ero stato tolto di mira quasi per vincere una scommessa! Io che ero stato ammaliato da tutte le divine seduzioni, da tutti i terribili artifizi del corpo e dello spirito e poi lasciato lí, con una risata, appena avevo mostrato di prender sul serio e lo spirito e il cuore e fin le stranezze di qu ella donna! Amante io che ora mi credevo perseguitato con una commedia di amor postumo piú spietatamente insultante dello stesso scherno con cui aveva ella accolto una sera la provocata mia dichiarazione di amore! - Leggi - dissi all'Augusta. E siccome l'Augusta esitava, supponendo che io intendessi di dare una soddisfazione alla sua gelosia, - Leggi - fammi il piacere, le dissi; - non lo faccio per te -. Appoggiai i gomiti sul piccolo tavolo lí accanto, misi la testa tra le mani e stetti cogli occhi chiusi ad ascoltare. La lettera diceva cosí: "Non meritereste che vi scrivessi. Il mio braccio, la mia testa si rifiutano ad un lavoro imposto ad essi dal cuore; ma io voglio scrivervi per l'ultima volta, prima di chiudere (se pur sarà possibile) le porte del mio spirito ad ogni affezione terrena e aprirle alle consolazioni di Dio, le sole che mi rimangano in questo punto. Ho guardato la faccia del dottore mentre toccava il mio polso. Si è rannuvolata ad un tratto. Però non avevo bisogno di questo indizio per credere che mi avvicino precipitosamente verso la morte. Mi sento morire con un'ineffabile soddisfazione che vi è impossibile imaginare. Anch'io, prima di ora, non avrei mai supposto che la morte potesse essere qualcosa di immensamente soave. Vi mando il mio perdono. Non mi preme piú di avere il vostro: me lo son meritato, e provo una consolazione come se avessi sentito ripetere questa parola dalla vostra stessa bocca. Vi ho avvelenato la giovinezza, il presente e forse l'avvenire! ... Vi ho fatto soffrire senza volerlo, ma non per cattiveria come vi siete ostinato a credere ... ed ora muoio di amore per voi! Perché vi scrivo tutto questo? Non lo sapete da gran tempo? Ah! Ve lo scrivo onde avvisarvi che avete ancora qualche giorno per risparmiarvi un rimorso. Io vi ho amato disperatamente quando voi non mi amavate piú; voi, badate! Mi amerete piú di prima appena saprete che sarò morta! Ho messo quattro ore a scrivere questa lettera, e mando la mia cameriera per consegnarvela di sua mano. Muoio sola, con una fida amica al capezzale. Mi lascerete morir cosí? Vi perdonerò anche questo. Addio per sempre! P. S. Ho pregato la mia amica di tagliarmi appena morta tutti i capelli. Se un giorno li vorreste come ricordo di colei che vi ha amato fino a morirne, chiedeteli alla Giorgina Nozzoli che voi conoscete. Addio un'altra volta e per sempre!" Sul principio al sentir pronunciare lentamente, nel modo che leggeva l'Augusta, quelle tristi parole, io avevo provato la voluttà di una quasi violazione brutale compita dalla voce di essa sullo spirito dell'Ebe. Era appunto questo il vigliacco e raffinato piacere che avevo voluto procurarmi; era questo lo strano avvilimento voluto infliggere all'Ebe facendomi ripetere dalla bocca di una donna come l'Augusta le parole dirette a commovere il mio cuore e scombuiare il mio spirito. Ma tale soddisfazione durò p oco: l'effetto fu tutto il contrario di quanto avevo imaginato. La voce dell'Augusta prese di mano in mano delle inflessioni che violentemente mi scossero il cuore. Da quella gola femminile che l'emozione rendeva tremante, ogni parola, ogni frase, ogni periodo della lettera riceveva un'espressione direi quasi un nuovo significato che addirittura ne centuplicava l'efficacia. Sentivo ad una ad una cadermi sul cuore, come del piombo liquefatto, le grosse gocce di lagrime dovute scendere silenziose sul pallido viso della morente, mentre la scarna sua mano erasi stentatament e trascinata sul foglio; e quando l'Augusta faceva una piccola pausa, e quando la sua voce si turbava in guisa che le parole gli uscivano molto confuse di bocca, mi pareva di udire l'affanno della infelice che la mia superbia condannava a morire senza una parola di perdono insistentemente invocata; e mi sentivo annodare la gola e strozzare il respiro. A metà della lettera aveva fatto un gesto quasi per strapparla di mano dell'Augusta e impedire la sacrilega offesa che intendeva di essere la mia vendetta; ma mi trattenne l'idea d'infliggermi come un affronto il sentirmela leggere sino in fondo dalla stessa bocca scelta per quella profanazione veramente indegna di un uomo. Non piangevo, ma tremavo, ma mi sentivo schiacciare da una terribile mano. Provavo sulle guance dei colpi di staffile che dovevan lasciarvi le lividure. Ogni stilla del diaccio sudore ch e mi scendeva dalla fronte mi pareva uno sputo di disprezzo lanciatomi in viso da tutte le creature gentili. Terminata la lettura successe nella stanza un silenzio profondo. Ero sotto l'oppressione di un incubo e non potevo destarmi. - Se tu fossi in tempo! - disse l'Augusta con voce commossa e colle lagrime agli occhi. Ci voleva quest'affettuosa esclamazione di una donna per farmi rientrare in me stesso. - Se fossi in tempo! - ripetei torcendomi dolorosamente le mani. Il fiàcchere mi pareva non volasse a precipizio come il cuore febbrile avrebbe voluto. Si trattava di dover correre da un capo all'altro della città e per le vie piú frequentate. Il cocchiere dovette credermi ammattito sentendomi sempre urlare dietro le sue spalle: - Ma corri! Ma sferza! - Montai gli scalini a quattro a quattro. La cameriera che già piangeva diede, appena mi vide, in un nuovo e piú forte scoppio di pianto. Ahimè! Giungevo troppo tardi? Un vecchio prete uscito in fretta dalla stanza dove era corsa la cameriera, mi venne incontro, mi porse la mano, e con accento semplice e calmo, ma che imprimeva intanto qualcosa di solenne al suo aspetto quasi volgare: - Signore! - mi disse - quali che possano essere le sue idee religiose, la prego di non turbare alla morente questi ultimi istanti. Iddio le ha concesso una tranquillità ch'ella stessa non sperava. Dimenticata la terra, tutti i suoi pensieri sono ora rivolti al cielo che si apre misericordioso alla sua anima afflitta. Non ci appartiene piú, o signore! Questi momenti sono di Dio! - Lo guardai ebetito. Una sentenza dell'Hegel mi si presentava in quel punto limpidissima alla memoria, e me la ripetevo macchinalmente: "La necessità della morte è quella del passaggio dell'individuo nell'universale". Rammentavo un'altra sentenza del Goethe: "La nostra vita non è una vera vita, ma la morte della vita divina che viene ad estinguersi nella nostra". E mi meravigliavo di poter fermarmi col pensiero su tali ed altre simili idee che mi passavano per la mente scombuiata pari a nuvoloni di un temporale spinti per l'aria dalla furia del vento. Come non provavo un dolore immenso? Come non morivo di dolore? Una strana lucidità mi faceva riflettere: - Forse sto per ammattire! - E tentavo di assistere al lento confondersi della mia ragione entro le tenebre della pazzia. Tutt'ad un tratto l'uscio da cui era uscito il prete spalancossi con violenza, e la cameriera venne fuori urlando e battendosi il petto. Mi avanzai fino alla soglia, tenuto sempre per mano dal prete il quale mi diceva delle parole che piú non riuscivo ad intendere ... Una suora di carità asciugava sulla bianca fronte dell'Ebe l'ultimo sudore della morte! Miseria del cuore umano! Son passati appena quattro anni! Mi pareva che senza di lei la mia esistenza non avrebbe piú avuto nessuna ragione di durare! ... E già ne parlo tranquillamente, e già sorrido pensando che obbliare è una profonda, una divina necessità della vita.

Poi quando all'orizzonte il cielo si tinse d'un rosso tendente al violetto, e i campanili, le cupole, le mura di Fiesole parvero di fuoco contro gli ultimi raggi del sole al tramonto, e il vasto mare di verdura diventò scuro scuro fra i vapori azzurrognoli che salivano lentamente nella maestà della sera, Giustina sentí una tristezza piú intima, piú straziante delle altre volte, di creatura vigliaccamente abbandonata da tutti; e rimase a lungo con la fronte appoggiata ai cristalli, lasciando sgorgare di nasc osto le lagrime che le venivano su, proprio dal cuore. Il capitano intanto, dal suo letto in fondo alla camera, scoccava bacettini verso quella mezza figura di donna spiccante in nero sui cristalli della finestra, ai rossicci riflessi dei fanali di fuori. Giustina si sentiva assai meno tranquilla ora che il ferito rifioriva, ora che gli era permesso di muoversi, sedersi sul letto, e parlare. Egli l'attirava dolcemente, con tutte e due le mani, verso la sponda: - È vero? ... Siete proprio qui? - E in quell'accento pieno di carezze si sentiva il primo sfogo della gioia dovuta comprimere e soffocare durante i penosi giorni della convalescenza. - Vi ho fatto molto male ... Perdonatemi. È stato senza volerlo. - Oh, non parliamo del passato! - Avete ragione; non parliamo del passato -. E la fissava con gli occhi raggianti d'affetto umile, rispettoso dinanzi a quella severa ritrosia che era d'imbarazzo per tutti e due. Oh, egli non aveva fretta! L'aveva amata due anni senza nessuna speranza, senza nessuna lusinga, inebriato dal filtro della gioconda serenità che le sorrideva nello sguardo, della gentile espressione di dolcezza e di pace che traspariva dagli irregolari lineamenti di quel volto bruno, ridondante di salute. - Vi ricordate dove ci siamo incontrati la prima volta? - No. - È naturale; mi guardaste appena: nel salotto della signora Pietrasanta. Suonavate qualcosa del Berlioz musica strana, e come non l'ho risentita da nessun altro. Da quel momento non ebbi piú pace. Che cosa amavo maggiormente in voi? Non avrei saputo spiegarlo. Amavo voi, tutta voi ... che intanto non potevate neppure soffrirmi! - egli soggiunse sorridendo. - No; v'ero grata, credetemi ... - Mi sarebbe bastato, se me l'aveste lasciato scorgere da un lieve segno. - Non volevo incoraggiarvi. Temevo, a ragione ... - Ed ora siete qui! ... Siete mia! ... Mi pare assurdo ... - Tentò di passarsi le braccia di lei attorno alla vita e cingerla con le sue; ma Giustina si trasse indietro. - Scusate ... Certi ricordi mi fanno ancora male ... - Dimentichiamoli. - Dimentichiamoli! - ella replicò con un sospiro. - Lascerete queste brutte stanze, - riprese Fasciotti dopo un momento di silenzio. - Troveremo un nido degno di voi, da vivervi senza soggezioni importune. Io verrò a trovarvi, discretamente ... - Ella lo ascoltava, intenerita di tutti quei bei castelli in aria ch'egli si compiaceva di fabbricare con giovanile prodigalità, rovesciato sul mucchio dei guanciali, tenendola per le mani presso il letto, esitante ancora di chiederle che questa piccola familiarità d'amico si mutasse, per grazia, in un bacio d'amante. La tenerezza di lei diventava però dispetto e fino rabbia contro se medesima, appena ella si sentiva rattrappire come piú la voce del capitano suonava commossa, come piú l'accento si turbava nella crescente effusione delle confidenze, come scoppiavano in quegli occhi i forti bagliori d'un desiderio rattenuto a stento e che già pareva spazientirsi. E scappava via con qualche pretesto, per abbandonarsi nella sua camera alla desolazione del proprio tormento: - Sono dunque di ghiaccio? ... Come mai non lo amo? ... Come mai resto impassibile di fronte a tanta delicatezza di passione che può chiamarsi eroismo? ... E durerà sempre cosí? ... No! no! - rispondeva spaventata. Avrebbe voluto fermare il tempo: - Se la convalescenza di lui fosse piú lenta! - Ah, diventava anche crudele! Quella mattina, scorgendolo in piedi in mezzo alla camera, ella trasalí, come davanti a un agguato. - Entrate, c'è qualcosa che vi aspetta - le disse Fasciotti, additandole il pianoforte verticale aperto tra le due finestre dov'era prima il tavolino. - Come siete buono! - Dite egoista - rispose andandole incontro. - È stato dunque per questo che mi avete costretta a fare una passeggiata? - Volevo farvi una sorpresa -. Ella resta sull'uscio, appoggiandosi su l'ombrellino, indecisa. Nella camera, tutta illuminata dai vivi riflessi del sole di giugno che splendeva fuori, qualcosa d'insolito e di sottinteso la metteva in diffidenza. Egli le porse la mano.. - È un Pleyel - disse Giustina avvicinatasi al pianoforte. - Molto da strapazzo. - Come la suonatrice. - Questo dovrà dirlo il pubblico: io. Sono inesorabile, sappiatelo! ... Dove siete stata? - Per la campagna, da questa parte. Lasciai subito la carrozza. Sono tornata a piedi ... Che giornata di paradiso! ... Ho rubato dei fiori per voi. - Grazie -. Ella guardava il pianoforte, tentata. La passeggiata per la campagna l'aveva scossa. Si sentiva per tutto il corpo un senso di freschezza e di leggerezza. Il fremito delle fronde e delle erbe al lieve alitare del vento, riprendeva a vibrarle dentro eccitato; e socchiudeva gli occhi, quasi ancora offesa dalla troppa luce, come poco prima sotto l'ombrellino, all'aria aperta. - A che pensate? - le domandò Fasciotti, vedendola immobile e silenziosa. - A niente -. Non era vero. Ella pensava al bel bambino veduto saltellare, a cavalluccio di un bastone, su la terrazza d'una villetta ... Pensava alla bionda signora vestita di stoffa grigia, e che sorrideva di gioia materna dinanzi al bel bambino saltellante ... Cosí aveva fatto anche lei, una volta! ... - A niente! - replicò. E per frenarsi, stese una mano su la tastiera del pianoforte, facendovi scorrere su, con scatto nervoso, le dita, quantunque impacciati dal guanto. Quelle poche note la punsero come colpo di sprone. Si tolse in fretta in fretta il cappellino e i guanti: - È il ringraziamento; compatitemi - disse. Appena il pianoforte cominciò a susurrare, a balbettare sotto voce, con suoni che s'interrompevano e si riprendevano, tremolanti, accarezzantisi fra loro, egli si allungò su la poltroncina, rovesciando indietro la testa, socchiudendo gli occhi, cedendo alla deliziosa sensazione che gli si rinnovava nel cuore. - Berlioz! - mormorò sorridente di riconoscenza. A un tratto, i bassi insorsero cantando un coro grandioso, che riempiva tutta la camera di mistica sonorità. Ed ella si rizzò su la vita, irrigidendo le braccia, quasi cercasse far ostacolo alle vibrazioni che sopraffacevano, squassandole i nervi, già tesi per lo sforzo di quell'esecuzione a memoria. Fasciotti si era levato lentamente in piedi, rapito, esaltato dalla voluttuosa frase musicale che in quel momento tintinniva e guizzava rapidissima sul cupo accordo insistente. A un tratto, le si avventò, divorandosela dai baci. - No! No! - ella balbettava supplichevole, quasi svenuta. E le corde del pianoforte ondulavano ancora fra l'incessante scoppiettio. Nell'immediato turbamento, aveva pensato fuggire e scrivergli: "Perdonatemi! ... Il sagrifizio è superiore alle mie povere forze!" - Ma, dopo? - aveva subito riflettuto. - Come ne godrebbero coloro che mi hanno dato la spinta! Prima tradí il marito; ora abbandona l'amante, e non ha aspettato neppur molto! Cosí direbbero, cosí. È orribile! Dunque una persona buona e onesta può diventar cattiva e miserabile anche quand'ella non vuole? E c'è chi grida: "La ragione! La ragione! ..." A che giova, a che mai, se non è buona a salvarci dall'improvviso accecamento d'un dispetto, se ci lascia addentare e stritolare da una circostanza che deci de, senza rimedio, dell'avvenire d'una vita? - E trambasciava al ricordo di quei baci, come a rinnovantesi offesa. - Che posso piú farci? ... È inevitabile. In un pazzo impeto, non son venuta a dirgli: "Mi accusano d'essere la vostra amante; e sia, almeno; eccomi qui!" Ah! Si era figurata che bastasse soltanto dir ciò, per diventare amante come tant'altre. Invece, la gentile raffinatezza dell'uomo innamorato che le stava attorno senza chieder nulla, appagandosi di poco, aspettando, paziente ... forse perché era sicuro; invece, quella gentile raffinatezza si mutava in martirio per lei. - Oggi andremo fuori insieme - egli le disse una mattina. - Cercheremo il vostro nido. Mi è stato indicato un bel posto. - Grazie. Voi pensate a tutto - rispose Giustina, sorridendo tristamente. - È per vedervi meno seria ... Mi sembrate cangiata. Dov'è andata la vostra bella serenità? Dove la tranquilla dolcezza del vostro sguardo? ... Non lo negate: siete cangiata. - Come potrei essere la stessa? - Non osavo dirvelo; per non importunarvi; ma io vi vorrei come prima. Vi ho amata a quel modo e, sí, vi voglio a quel modo! - Scendiamo -. Il cocchiere, per isbaglio, li menava lungo una strada di campagna, inoltrandosi verso Porta a Pinti senza ch'essi vi badassero. Quell'aria tiepida, smagliante di luce; quel rigoglio di fronde che traboccava fuor dei muri di cinta con lieta foga primaverile; quel cinguettio di uccellini nidificanti tra le siepi o inseguentisi su pei rami, pigolando d'amore; quella gioconda fioritura di erbe e di piante selvatiche che profondeva sui cigli e lungo i lati della strada tesori di ciocche pavonazze, di bocci ross i e bianchi, di calici gialli, violetti, sanguigni, turchini, aperti e tremolanti su gli steli o mezzi nascosti tra le foglie; quella gran pace sorridente all'ombra degli alberi o al sole, su i vigneti, sugli orti umidicci, su i seminati dalle spighe quasi bionde; ... oh, quel magnifico spettacolo essi non se l'aspettavano punto! E continuando a tenersi per mano, tacevano, distratti. - Via Lungo il San Gervasio? - domandò il cocchiere a un contadino. Bisognava tornar indietro. Fasciotti rise del contrattempo e disse: - Indovinate che pensavo? - Se fossi stata indovina! - ella rispose. - Pensavo ... No, non voglio dirvelo -. Giustina tacque. Le parve di veder lampeggiare in quegli occhi un affettuoso rimprovero meritato, e non volle mentire per iscusarsi. Le parve di veder lampeggiare in quegli occhi anche un'improvvisa fierezza d'amante risoluto di trionfare, come trionfava lí attorno tutta quell'irrompente forza di amor vegetale, ed ebbe paura di provocarla. - Siete muta oggi - egli le disse, vedendo che lo lasciava parlare senza interromperlo, o gli rispondeva con monosillabi. - Vi ascolto. Dite tante belle cose! - Ma il suo accento era triste. E al ritorno, scendendo l'ariosa via tracciata dalla nuova Firenze a piè dei colli fiesolani, sentendolo ragionare allegramente del grazioso nido trovato per lei nella palazzina al numero venti di via Lungo il S. Gervasio, sentiva un grande accoramento: - Quella carezzante allegria non era forse un'insidia? - Piuttosto avrebbe preferito ch'egli avesse adoprato la forza: - Cosí sarebbe finita! - E nelle notti insonni, ripassando a una a una le mute sollecitazioni indovinate in un bacio piú caldo o piú lungo, in un'occhiata, in una reticenza, ella s'incoraggiava. Chi sa? Quell'illogica repugnanza del suo corpo si attutirebbe nel possesso; sarebbe forse vinta; chi sa? ... Oh, non voleva piú avere l'apparenza d'un'ingrata! Sentendolo ritornare a casa, dopo una giornata di servizio alla Fortezza, gli uscí incontro sul pianerottolo. E la stessa rassegnata dolcezza che pietosamente le sorrideva negli occhi, le tremava anche nella mano stesa a dargli la buona sera. - Che ore eterne per me! - egli le diceva in camera, accarezzandole i capelli e dandole dei bacettini su la fronte mentr'ella tentava di sfibbiargli dal fianco il cinto argentato della sciabola. Le parve piú bello in quel punto, stretto nella divisa, con le spalline e i bottoni che luccicavano, e il maschio volto, dai baffi neri fieramente rilevati, rizzato sul collo chiuso nel goletto bianchissimo; e fece uno sforzo e gli tese le braccia teneramente. Ma nelle ombre della sera che invadevano la camera silenziosa, al mormorio di quelle affettuose parole che le sfioravano la guancia, calde del fiato di lui, la riluttanza le si ridestava già e piú brusca, piú forte, quasi i nervi e il sangue, ribellati all'impero della volontà, la spingessero a gridare: "No, non dev'essere! ..." mentre avrebbe voluto dire il contrario. Egli lo capí, da quel lieve tremito che l'agitava, da quelle labbra ghiacciate che non rendevano i baci: - Voi non mi amate ancora! L'ho sospettato. - No, Emilio, t'amo! T'amo! - ella mentí, disperatamente, ingannando anche se medesima. E poco dopo, mentre colui la ringraziava sotto voce, grato del possesso vittorioso, ella diceva internamente: - Almeno m'ha creduto! - E gli si abbandonava tra le braccia, scossa da un gran convulso di ribrezzo. - Devi annoiarti in questa solitudine. - Ho pianoforte, musica, libri! ... E poi, mi dai tu forse tempo? - Faccio quel che posso. - Fai troppo. Non è un divertimento salire cosí spesso fin quassú. - Non è neppure una marcia. In quei primi mesi discorrevano talvolta cosí, alla finestra del salottino di via Lungo il San Gervasio, intanto ch'egli fumava, un po' impensierito di quella specie di stanchezza della voce di lei; e Giustina, co' gomiti appuntati sul cuscino del davanzale, continuava a rispondergli guardando ora il bel panorama di Firenze che rizzava laggiú, nella pianura, la cupola di Brunellesco, il campanile di Giotto e la guglia merlata di Palazzo Vecchio torreggiante sui tetti; ora il piazzale Michelangelo che pareva là, a due passi, col David che quasi si poteva toccare stendendo il braccio; ora monte Morello e gli appennini di Pracchia, sfumati fra i vapori, lontano. - Ti annoi; perché negarlo? - Ti dico di no. - Tanto meglio -. Quella volta, verso le sette di sera, presero una strada di campagna, poi svoltarono per una viottola solitaria, serpeggiante su la collina. - Che bella veduta! - ella disse. - Bellissima! - E si sedettero sulla spalletta rustica d'un ponticello, simili a innamorati che abbiano ancora mille cosine da confidarsi. Infatti egli le confidava la sua speranza d'un prossimo avanzamento di grado; s'era già preparato a un esame. - Quando saremo maggiore, - aggiunse scherzando - avremo piú autorità. Ordineremo: "Cara signora, vogliateci un po' piú di bene." E la signora - la disciplina soprattutto! - ci vorrà un po' piú di bene. Con un maggiore non si canzona. Giustina sorrideva: ma in quei grandi occhi tranquilli e su quelle grosse labbra colorite, il sorriso prendeva un'indefinibile espressione di dolorosa tristezza. Il ragionare, dietro una cosa e l'altra, era cascato intorno all'amore. - Perché m'ami? - gli domandò improvvisamente Giustina. - Non sono bella, tutt'altro; non sono capricciosa ... - Che ne so io? Sei qualcosa di meglio; lo giudico dagli effetti. - Non hai detto la stessa cosa a tant'altre? Sinceramente, s'intende. - Oh! Io credo che si possa aver amato cento volte e non aver mai provato una passione. - Non lo capisco. - Lo capisco ben io. Tu m'ami; mi vuoi certamente bene, ma ... - Quando una donna ha già dato all'uomo tutta se stessa ... Gli uomini non possono figurarsi, neppure dalla lontana, che cosa significhi: darsi! - Vi date forse? Vi lasciate prendere. - Povere donne! E ne menate anche vanto. - Ma lasciarvi prendere è la vostra forza. Nella guerra di amore, qualunque vittoria risulta sempre al rovescio. Chi capitola detta i patti e le condizioni. - Come s'indovinerebbe il militare, anche senza la divisa! - Ecco, per esempio, questo bacio qui ... - Emilio! - ... parrebbe, a prima vista, una violenza. Ma potevo non dartelo? La violenza l'ho sofferta io, da questi occhi, da questa bocca, da questa personcina che s'appoggia trionfante al mio braccio, e quasi mi sgrida ... per un bacio! - Emilio! - Gli ulivi stormivano attorno, nel gran silenzio della sera. - Faremo tardi, - ella disse dopo breve pausa. - Avremo la "celeste paolotta ..." E additava, ridendo, la luna montante, rossa e grande, su le colline scure, nel cielo a pecorelle: - Pare che salga di fretta dietro le nuvolette biancastre. - - Di notte, la campagna mi fa paura - rispose Giustina. - Anche quando l'esercito marcia in armi al tuo fianco? - In verità ella aveva assai piú paura di quell'allegra eccitazione rivelata dalle parole, dagli slanci improvvisi, dal tono stesso della voce. Scendevano silenziosi, a passi corti e lesti, per la viottola deserta, mentre i grilli trillavano al lume di luna, e i "chiú" di due assioli si rispondevano, distanti, a intervalli, e il gracidio delle rane dal vicino Mugnone saliva, quasi coro, monotono e solenne. Egli andava accarezzando sul suo braccio la mano di lei. E a quella carezza insistente che le produceva su la pelle delicata un sottile bruciore, Giustina sentiva riempirsi il cuore d'immensa commiserazione di sé. La vita le sarebbe parsa quasi f elice, se tutto si fosse limitato a quella dolce intimità piú dello spirito che del corpo. Perché a lui non bastava? E il ricordo della terribile sensazione di ribrezzo che la frequenza, ahimè!, non attutiva e che l'illuso orgoglio dell'amante scambiava per tutt'altro, le faceva correre un brivido freddo per la persona e le inumidiva le palpebre. - Ecco un fanale; sei contenta? - egli le disse. - Siamo quasi in città ... Ma che hai? - soggiunse subito, vedendole inaspettatamente portare agli occhi il fazzoletto. - Sciocchezza! ... Pensavo ... a quella bambina di cui ti parlai l'altra volta. Povera creatura! ... Mi è venuta in mente tutt'a un tratto, con quel visino magro e palliduccio che sparisce tra i folti capelli castagni ... Quando s'affaccia alla finestra dirimpetto, raccolta nello scialletto anche in agosto, e mi guarda, e mi guarda intentamente ... mi fa quasi male. E nel pensare a lei ... che sciocchezza! Parlava affrettata, come chi vuole ingannare, con un misto di pianto e di riso che l e tremolava nella voce; e intanto si asciugava gli occhi. - Via - disse Fasciotti, senza sospettare niente - quando ne avremo una anche noi ... - No, no! - ella lo interruppe. Aveva dovuto mentire. Il bambino suo, il caro bambino suo le era venuto in mente in quel momento, quasi il venticello che faceva stormire gli ulivi le avesse portato all'improvviso qualche profumo della villa Rosati, situata in mezzo al ristretto parco, presso lo Scrivia, dov'ella passava l'estate col figlio e il marito, lieta della fresca serenità di tutto quel verde e di tutta quell'ombra, tra i gridi allegri e i colpi dei cacciatori risuonanti dalle macchie a piè del colle. E cosí mentiva tutti i giorni, ora che il rimpianto del passato tornava a riprenderla, ora che la sua ragione non dava piú torto a quegli altri che l'avevano spinta nell'abisso. Non provava piú contro di essi il cieco sdegno di prima; non ne parlava piú con quell'accento duro e sbalzante, vibrato come guizzo di frusta dalle sue labbra convulse, nei giorni seguiti all'arrivo di Giulia da lei richiamata. - Tu che sai! ... - le aveva ripetuto interrottamente. E il cuore le si era vuotato d'ogni resto di fiele. Era stata ingiusta, al pari degli altri, forse piú; lo riconosceva. Le apparenze non stavano tutte, tutte!, contro di lei? Qual testimone poteva ella invocare per giustificarsi pienamente davanti a suo marito e a suo padre? ... E non aveva, con quel colpo di pazzia, dato ragione all'accusa? Si strizzava le mani, si mordeva il labbro, aggirandosi smaniante pel salotto, quando non le riusciva di co ntinuare a leggere perché i caratteri le si confondevano sotto gli occhi turbati e il pensiero andava via via, lontano, quasi a piangere dietro il portone della casa di suo marito, dietro il cancello della villa in mezzo al parco presso lo Scrivia, dietro l'uscio della casa paterna; a piangere e a domandar l'elemosina d'un perdono ch'ella sentiva di meritare e che sapeva, pur troppo!, non le verrebbe mai accordato. E il pianoforte gridava allora, ripeteva la sua confessione, domandava perdono in nome di lei con le dolenti melodie dello Schumann e dello Chopin, con le divine suonate del Beethoven, con le rubeste sinfonie del Wagner e del Listz, che chiamavano alle finestre dirimpetto e a quelle del primo piano della casa i visi attenti e maravigliati di parecchi inquilini; e tutti gli amati fantasmi della sua vita le sorridevano attorno in quei momenti, la colmavano di carezze e la lasciavano commossa e spossata tosto che si dileguavano lontano, lontano, piú lontano della stessa infanzia, quasi in un'altra esistenza! ... - Ah, il mio bambino! ... Ah, il mio caro bambino! - sospirava con le lagrime agli occhi, vedendo quel visino affilato di creaturina malaticcia che ella trovava sempre alla finestra dirimpetto, ogni volta che, terminato di suonare, s'affacciava a cercare con la faccia ardente la fresca impressione dell'aria aperta. Un giorno la bambina le sorrise. - Come stai, carina? - ella le domandò. E la tenerezza di mamma desolata le addolciva la voce. La bambina non rispose, e continuò a sorriderle timida. - Che fai lí? - Mi diverto a sentirla suonare. - Vieni qui, col permesso della tua mamma; suonerò a posta per te -. Non le era parso vero d'aver potuto attirarsela in casa. Fasciotti la trovò agitata, rimescolata, con quella magra creaturina seduta su le ginocchia, stretta tra le braccia, e che aveva negli occhi la meraviglia di tutte quelle carezze inattese. - Se tu sentissi che vocina! Pare un flauto - ella gli disse. - Cosí, con lei, non ti annoierai in questa settimana di mia lontananza. - Vai via? ... Per l'esame? - Questa sera, coll'ultimo treno. - Signor maggiore, buon viaggio! - Era anche allegra in quel momento. Ci voleva tanto poco per renderla quasi felice. Appena però gli lesse in viso il malumore per la presenza della bambina, non ebbe piú coraggio d'accarezzarla, di baciarla, e la mise a terra, con cuore soffocato. - Vo a casa - disse la bambina. Giustina non osò trattenerla; e l'accompagnò fino all'uscio, facendosi promettere piú volte che sarebbe tornata - Verrai tutti i giorni, è vero? - Se la mamma vorrà. - Perché non dee volere? - E riprese a baciarla, indugiando. Un dubbio la tenne su la corda: - Sospettava egli qualcosa? - Era partito evidentemente malcontento dell'insolita resistenza di lei la sera del commiato. E per calmarlo, per scancellargli la brutta impressione, per cacciargli di mente ogni sospetto, gli aveva scritto parecchie lettere lunghe, affettuosissime. - Mentiva forse scrivendogli cosí? No. Gli era grata di quella passione che pareva moltiplicasse la sua delicatezza e la sua forza nella crescente intimità della loro vita; e lo amava, sebbene in modo diverso, con grande slancio dell'anima ... Che poteva farci se il suo corpo resisteva? ... Ah, se ella avesse avuto un po' piú di coraggio! Se avesse potuto essere sincera e dirgli ... Come dirglielo? Era impossibile. Gli dovea questo gran sacrifizio, dopo che quegli per poco non le aveva sacrificato anche la vita. E quand'egli le rispose: "Tu m'ami meglio da lontano. Scherzi a parte, nelle tue lettere mi sembri un'altra. Strana creatura! Una frase, una sola frase di queste trovate ora, come tu dici, in fondo al cuore, pronunziata dalla tua bocca, mi avrebbe fatto salire ai sette cieli. Ed hai taciuto, cattiva! ... Mille baci sui ditini che hanno tenuto la penna"; quand'egli le rispose cosí, il foglio le cascò di mano, e il subito lentore dello scoramento la fece anche impallidire. - È suo marito che le scrive? Tornerà presto? - disse la bambina, raccattando il foglio. Essa trasalí, ammutolita. I signori Castrucci, andati a farle una visita di ringraziamento per le tante cortesie verso la loro bambina, l'avevano fatta trasalire allo stesso modo, due giorni avanti, domandandole: - Suo marito sta bene? - Grazie - ella aveva risposto. La signora Castrucci, che ciarlava volentieri, si era messa a compatire le povere mogli degli ufficiali: - Dev'essere una vitaccia! ... Ora qua, ora là, come gli zingari. Le spalline e la sciabola, sí, fanno un cert'effetto; ma un cantuccio di terra ben ferma sotto i piedi ... Suo marito è capitano? - Capitano -. E se la conversazione si fosse prolungata un tantino di piú, i Castrucci l'avrebbero vista tramortire a quel: "Suo marito, suo marito" che le andavano ripetendo con l'idea di farle cosa grata. Ah, la terribile logica d'un passo falso! ... Non era mai giunta a persuadersi come si potesse mentire ... ed anche quest'altra volta aveva dovuto, stando zitta, mentire! Sí, il vero marito ella non se lo sentiva piú solamente dentro la testa, ma nel sangue, nei nervi, in tutto il corpo, incancellabile marchio di possesso fino a quel punto non avvertito! E il ribrezzo, il terribile ribrezzo che ogni volta quasi l'annientava, era appunto la sorda protesta di quel possesso, il rifiorire di quel marchio. Lo comprendeva finalmente, ora che la sua ragione vedeva chiaro, ora che poteva misurare dalla profondità del proprio abisso l'altezza da cui era precipitata in un momento di p azzia. - Si sente male? - le domandò la bambina. Ella la prese tra le braccia, coprendola tutta di baci. Ah, quelle gotine magre e palliducce non erano le gote piene e rosee della sua creatura lontana! Voleva però illudersi, voleva stordirsi; voleva, soprattutto, vincere il terrore che già la invadeva all'annunzio del ritorno del maggiore che quella lettera aveva recato. E il martirio stava per ricominciare! La giornata era grigia, come l'anima sua; l'aria afosa e pesante. Piú tardi, l'umidore della pioggiolina - che gettava un gran velo cinericcio su la pianura, sui colli attorno, su le montagne lontane - la penetrava fino al midollo, le si mutava addosso in tedio spossante, in torpida oppressione. Tuttavia ella ritornava spesso a osservare il tempo dietro i vetri della finestra, e rimaneva là con gli occhi fissi, quasi con l'orecchio teso ad ascoltare il lontanissimo fischio della vaporiera che in quel moment o doveva forse montare su pei fianchi degli Appennini, divorando la strada, infilando le gallerie, spuntando gioiosamente all'aria aperta sull'orlo degli abissi e attraverso le fosche vallate, com'ella si rammentava d'averlo visto una volta, in un'altra giornata di pioggia, col sole che si affacciava di tanto in tanto dalle nuvole squarciate e faceva sorridere ogni cosa. E il treno correva, correva, serpeggiando, arrampicandosi; le parea proprio di vederlo. E vedeva anche lui, in un angolo di vagone, sdraia to, con gli occhi socchiusi, sorridente alle visioni della prossima felicità che gl'ingannavano l'impazienza dell'interminabile viaggio. Ma il cuore le rimaneva triste, quantunque il cielo già si rischiarasse al soffio del vento che spazzava le nuvole verso monte Morello e verso Pracchia, gettando incontro al treno che veniva a gran velocità - le pareva ancora di vederlo - quello sprazzo d'oro risplendente su la campagna lavata allora allora dalla pioggia. - Signora, c'è l'uomo coi fiori - disse Giulia sull'uscio. - Sono le cinque? Aveva ordinato quei fiori per le cinque di sera, e la giornata era trascorsa cosí rapidamente ch'ella ne provava stupore. - Il pranzo è per le sette e mezzo? - Sí. Giustina andava disponendo quei fiori un po' da per tutto, con arte gentile, scegliendoli dal gran canestro che Giulia le portava dietro. Giulia, di tratto in tratto, arrischiava qualche parola: - Il signor capitano ... il signor maggiore - ora bisogna dirgli cosí, è vero? - chi sa come sarà contento! ... Dovrà fare una bella figura a cavallo; andremo a vederlo a le riviste ... - Giustina non rispondeva, e spargeva sul tappeto gli ultimi fiori rimasti, lasciandoseli cader di mano lentamente, preoccupata. L'odore delle rose, dei ciclamini e dei giacinti tuberosi riempiva il salotto. - E il martirio stava per ricominciare! - Ogni minuto che passava era un precipitarsi verso il fatale momento dell'arrivo. Colui tornava piú innamorato, piú illuso di prima. Vi aveva contribuito ella medesima; vi contribuiva ancora, abbigliandosi come per una festa, scancellando dal suo volto ogni traccia di sofferenza, tentando di farsi una maschera per continuare ad illuderlo ... - Poiché questa illusione lo rende felice! ... Non sarebbe assai peggio se dovessimo soffrire tutti e due? - E lo guardava quasi contenta, quasi illusa nei primi momenti, lasciandosi baciare una mano in ringraziamento delle bellissime lettere lette e rilette, e imparate a memoria ... - E tutti questi fiori? - Non hanno nulla di guerresco - ella rispose. - Decorazione sbagliata. Dimenticavo la marcia! - Suonate però poche battute della marcia del Tannhäuser, si levò dal pianoforte. La musica la eccitava, e non ne aveva punto bisogno. - Raccontami, raccontami tutti i particolari dell'esame. - Chi se ne rammenta piú? E poi ... lascia andare!. - Irrequietamente Giustina si levava da sedere col pretesto d'aggiustare un mazzo di fiori, di moderare la fiamma d'un lume, di spostare senza un perché qualche gingillo; e tornava a sederglisi allato, ripetendo: - Raccontami, raccontami - con tremito della voce che si comunicava a quella di lui. - Che vuoi che ti racconti? La cosa piú bella, piú deliziosa del mio viaggio è stato - occorre dirlo? - il ritorno; sono questi momenti, sono questi ... Giustina tentava di schermirsi: - Può venire Giulia lascia andare -. Tenendola stretta stretta tra le braccia, egli intanto le ripeteva nell'orecchio una frase dell'ultima lettera: - E hai taciuto! ... Cattiva! - Bevevano il caffè. Seduto presso il tavolino, sorridendo, tra un sorso e l'altro, Fasciotti spingeva verso di lei boccatine di fumo, come altrettanti colpi d'incensiere: - Non sei il mio idolo? Giustina, in piedi, assaporando lentamente col cucchiaino la calda bevanda e aspirandone il profumo, lo ringraziava con accenni del capo e degli occhi, ridiventata seria in quell'intimità del salotto che l'ora tarda e il paralume rosso, a testa di gufo, rendevano piú raccolta del solito. Nel punto che Giustina posava la tazza, egli la prese per la mano - Vieni, siedi qui -. E le passava un braccio attorno alla vita e le teneva stretti i ginocchi sui suoi ginocchi. - Voglio sentirti accosto, cosí. Fino a due settimane addietro, nel venire quassú, facevo la strada simile a un sonnambulo, dubitando sempre che e tu e questa palazzina e questo salotto e la nostra vita di amanti non avessero a sfumarmi dinanzi con lo svanire d'un sogno durato apparentemente sette mesi e in realtà qualche minuto. E quando penso che c'è stato un tempo in cui tutto questo non poteva avere per me neppure la fluida apparenza d'un sogno! ... Ti vedevo di rado; tu mi evitavi. Se potevo passart i accanto e sentire il suono della tua voce ... Ricordi? ... Ricordi? Parlava sommesso, come in un soliloquio, tenendo gli occhi socchiusi fissi in un punto della parete dirimpetto, dove quelle visioni del passato gli apparivano e sparivano, dissolvendosi nella rapidità dello sfogo: - Ricordi? ... Ricordi? - E Giustina gli rispondeva di sí, di sí, con lieve movimento della testa abbassata, stringendosi forte le mani perché egli non avvertisse come il cuore le spasimasse all'incosciente crudeltà di quell'effusione che continuava a sfiorarle il collo, verso la nuca, riandando i terrori, i dolori degli ultimi mesi, quando la sicurezza dell'amante felice traballava davanti a un ostacolo impalpabile e invisibile - non se n'era accorta? - che gli pareva si frapponesse a un tratto fra loro e li tenesse divisi, in dist anza, a dispetto dei corpi che s'allacciavano, delle labbra che confondevano i respiri ... - Non te ne sei accorta? No? Terrori e dolori d'un secondo; non lasciavano traccia; ma cosí intensi!, cosí intensi! ... Se tu avessi parlato prima! In quelle tue lettere, sí, c'era il suono, c'era l'accento della tua voce. Se tu avessi parlato prima! ... Ci voleva la lontananza - non ti pare cosa strana? - per legarci piú intimamente. Oh! Io credo all'amore, sai? La sola sensazione non mi basta. Son rimasto un tantino collegiale, come mi canzonano i miei amici. Peggio per loro, se non sapranno mai que l che valgano questi divini momenti. Mi sembra che noi stiamo ricominciando da capo, quasi io avessi avuto finora soltanto metà di te ... Ed ora tutta, tutta, tutta! È vero? - Ella seguiva a dir di sí con la testa, macchinalmente, nell'indistinta percezione del suono di quella voce diventata mormorio sommesso di baci parlanti o di parole bacianti, non lo capiva bene; zufolio agli orecchi; rimescolamento di tutta la persona; gran male; dove? Nel cervello o nel cuore, non lo capiva bene egualmente. E non s'opponeva all'improvviso movimento con cui egli sollevatala su le braccia, la portava di là, in camera, delicatamente, quasi temesse di svegliare una persona addormentata. Respira va appena, nella estrema prostrazione della volontà e di tutte le forze vitali, sotto l'aggravarsi d'un incubo che le impediva di fare la minima resistenza all'irrequieto agitarsi delle dita che le sfibiavano il vestito, le tiravano le maniche e la spogliavano senza scosse, con perizia femminile ... Ma appena, nel levar via il busto, le dita le sfiorarono, per caso, le vive carni del seno, Giustina scattò in piedi, appuntandogli le braccia contro il petto, con gli occhi smarriti: - Per pietà, no! ... Per pietà! - E, nascondendo il viso tra le mani cadeva di fianco su la sponda del letto, scossa da un tremito violento, in singhiozzi: - Per pietà! - Ella sentí, per qualche istante, un respiro grosso e frequente, quasi rantolo soffocato; e si restrinse tutta, aspettando il terribile scoppio di quel furore d'amante. - Non vi accadrà piú, ve lo giuro! - disse una voce irriconoscibile. E Fasciotti fece per uscire. Giustina gli si gettò a traverso, delirante: - Emilio! ... Emilio! ... - Senza rispondere, egli tentava di svincolarsi da quelle mani che lo brancicavano e lo afferravano e tornavano a brancicarlo. - Emilio, siate generoso! ... Fatemi male quanto volete ... Ah! - Aveva dovuto gridare; quegli le stritolava le mani, senza avvedersene, dalla rabbia di sentirsi ridicolo, sul punto di piangere come un bambino, con gli occhi che vedevano una pioggia di fiammelle attorno, e il cuore che gli scoppiava. Fu un baleno. - Perdonatemi ... il torto è mio. Entrate in letto ... vi ammalerete ... Te ne prego, entra in letto - soggiunse con l'apparenza d'un sorriso. Le ravviava le coperte, le aggiustava i guanciali sotto il capo: - Il torto è mio ... Avrei dovuto avvedermene -. E si buttò su la seggiola a piè del letto, molle d'un sudorino ghiaccio, quasi il rovescione che in quel punto riprendeva a sbattere furiosamente su i vetri della finestra lo avesse inzuppato da capo a piedi. La pioggia continuava, fra gli urli del vento che pareva si raggirasse attorno alla palazzina per sradicarla dalle fondamenta. Che gliene sarebbe importato? Un piú orrendo colpo aveva distrutto in un istante il superbo edificio della sua felicità ... e per sempre. Giustina non osava guardarlo, né rivolgergli la parola, cosí sbalordita dell'accaduto da non accorgersi ch'egli stava là, rattrappito su la seggiola, da piú d'un'ora, e non poteva passare la nottata a quel modo. Non se n'accorgea neppure lui. Finalmente si rizzò, scuotendo il capo, strizzando gli occhi; e visto che Giustina si levava anche lei e si metteva a sedere sul letto tenendogli le mani in atto supplichevole, le disse con voce alquanto calma: - Vado di là, un momentino. - Perché? - Ho bisogno d'aria ... - Aprite pure quella finestra ... Emilio, siate generoso! - ella ripeté, alla mossa di risposta sfuggitagli suo malgrado. - Oh, non dubitate! ... So il mio dovere -. Tornato a sedersi, con le braccia sui ginocchi, le mani intrecciate, curvo, abbattuto dall'incredibile disinganno, egli ruminava - Perché dunque è venuta da me? ... "M'accusano d'essere la vostra amante, e sia! ..." Chi l'ha forzata? Non lo sapeva forse che non avrebbe potuto amarmi? - Giustina, tenendo la faccia tra le palme, riprendeva a singhiozzare - Che ho mai fatto! ... Che ho mai fatto! - La pietà di lui, il terrore delle conseguenze di quella rottura - rottura irrimediabile, non poteva illudersi, con quel carattere - la inchiodavano lí, raggomitolata, quasi il mondo stesse per crollare ed ella attendesse di minuto in minuto il crollo finale: - Che ho mai fatto! - La pioggia sbatteva furiosa su i vetri, il vento urlava e fischiava. - Quanto mi ero ingannata! È stato assai piú generoso ch'io non osassi sperare -. E quei mesi d'autunno le parvero un paradiso, con le tiepide giornate, gli splendidi tramonti, le belle serate che in quel posto, tra la campagna e la città, le producevano una soave sensazione di pace e di benessere in armonia con la pace e il benessere della sua vita, ora ch'egli continuava a visitarla non piú da amante ma da amico, e come se niente di nuovo fosse avvenuto tra loro. Lo avrebbe voluto, è vero, un po' meno serio, un po' meno freddo; si vedeva, forse, in quella sua indifferenza un tantino d' ostentazione, una lieve ombra di vendetta ... - Ma, povero cuore!, deve costargli un gran sacrifizio mantenere le apparenze. Gli son grata infinitamente di questo contegno. Neppure Giulia, ch'è in casa, s'è accorta di nulla -. Ella si sentiva felice di poterlo amare a quel modo, come avrebbe voluto amarlo anche prima, come avrebbe voluto essere amata anche prima. - Ma allora, Dio mio, non poteva essere! Mi ero illusa io pure, un istante -. Ora respirava a pieni polmoni la libertà del proprio corpo in cui tutto era stato scancellato dalla purificazione del gran pianto. Delle atroci sofferenze dei mesi scorsi le rimaneva un'idea lontana, incerta, simile a ricordo di cattivo sogno; e in quanto all'avvenire, oh!, viveva perfettamente rassicurata. Ne aveva avuto parecchie prove. Una sera, verso le dieci e mezzo, appena i Castrucci erano andati via con la bambina che cascava dal sonno, Fasciotti, acceso un sigaro, s'era messo a leggere il "Fanfulla", senza dire una parola, senza voltarsi un momento verso di lei che lavorava con l'uncinetto nervosamente, a testa bassa, nell'ansia angosciosa d'un'apprensione ... - Assurda, ne conveniva. Ma ... che voleva egli insomma? Aveva già letto, da cima a fondo, il giornale; e intanto restava là, col sigaro spento tra le labbra, muto, mezzo imbroncito! - L'orologio a pendolo, dalla mensola del caminetto, suonò le undici e tre quarti. Fasciotti si scosse. Giustina, vistogli posare il giornale, riaccendere il sigaro e lisciarsi i baffi, aspettava, impaziente, ch'egli parlasse. Dopo quella trista nottata, non erano mai rimasti cosí a lungo da solo a solo. Convinti tutti e due dell'inutilità e del pericolo d'una spiegazione qualunque, in quelle prime settimane l'avevano prudentemente evitata ... - Ora, forse? ... - Agitatissima, Giustina stava per lasciarsi scappare una domanda trattenuta a stento su la punta della lingua da un quarto d'ora, quand'egli la prevenne: - Se volete andare a letto ... Io resterò qui un altro poco ... per Giulia, capite? Mandate a letto anche lei. Uscirò senza far rumore. È meglio che nessuno sappia ... Giulia sopra tutti. - Come vi piace. Buona notte -. Giustina, improvvisamente commossa, non aveva saputo rispondere altro, stendendogli la mano. - Buona notte -. E Fasciotti gliela strinse leggermente. Ma un'altra volta egli avea fatto di piú. Andata a letto per non contraddirlo, Giustina non poteva chiuder occhio, aspettando di sentirlo partire. Quell'incredibile prova di delicatezza e di riguardo le produceva una specie di contrazione alla bocca dello stomaco ... - Fino a che ora rimarrà in salotto? - Alle due era ancora là. Ella però non osava muoversi, temendo appunto che in quella circostanza, contro ogni proponimento, una parola non li trascinasse alla dolorosa spiegazione evitata. Quante ore erano passate? Non lo sapeva precisamente. S'era forse appisolata; non aveva inteso nessun rumore all'uscio di casa né al portone. E trepidante era saltata giú dal letto per accertarsi, con cautela, se c'era lume in salotto. E che respirone a quel silenzio e a quel buio! La mattina dopo, molto tardi, Giulia le domandava: - Signora, si sente male? - No, perché? - Il signor maggiore, prendendo il caffè, mi ha raccomandato d'aspettare che lei avesse sonato. - Ah! ... Gli occhi, tutt'a a un tratto, le si erano ripieni di lagrime. Dimenticava però ogni cosa per la beata certezza di sapersi amata tuttavia. Le apparenze non potevano ingannarla. E, in ricambio, il suo cuore gli si dava tutto, senza restrizioni, pieno di confidenza nelle promesse che leggevagli in viso vedendolo diventare di giorno in giorno meno riserbato, meno freddo, vedendogli smettere a poco a poco quell'aria diffidente e guardinga contro di lei e di se stesso, che aveva reso cosí penose le prime settimane della crisi; allora pareva che l'amico non potesse punto ada ttarsi a sostituire l'amante, e che sul capo di tutti e due pendesse la minaccia di crisi peggiore. La sua vita aveva già ripreso il tranquillo andamento d'una volta. Poco, quasi nulla le mancava per sentirsi nuovamente cullata nella lieta pace domestica, per tornare a rannicchiarsi nell'ingenuo egoismo d'indolente felice. Se lo rimproverava in certi momenti. Quella bambina malaticcia, ma buona e intelligente, che veniva a tenerle compagnia da mattina a sera e ch'ella conduceva attorno nelle frequenti corse per le gallerie, pei musei, pei negozi e nelle passeggiate alle Cascine, al giardino di Boboli, o lungo il Viale dei Colli, non usurpava lentamente l'affetto materno, a danno della creatura delle sue viscere ... alla quale forse avevano fatto credere che la mamma era morta? E le teneva un po' di broncio, per qualche ora, per mezza giornata, broncio di cui la bambina non s'accorgeva. - Oh, Dio! ... Come difendersi da quel naturale sentimento d'egoismo, ora che poteva finalmente riposarsi dopo tanti atroci dolori? Ora che almeno, a intervalli, le riusciva di sopire dentro di sé ogni ricordo del passato? - Quella pace interiore le fioriva fuori, sul volto, in piú sorridente vivacità degli occhi, in piú facile zampillo della parola che riprendeva la gentile festività nelle conversazioni serali, quando Fasciotti veniva lassú accompagnato da due o tre ufficiali del suo reggimento, ed ella - dopo il the - cedeva di buona voglia all'invito di suonare qualche pezzo della solita musica indiavolata, come diceva il tenente Gusmano che in fatto di musica capiva soltanto quella del suo compatriotta Bellini: - Il Dio della musica! ... E Dio ce n'è uno solo! - Les dieux s'en vont - gli rispondeva Giustina, ridendo. E per fargli dispetto si metteva a strapazzare un'aria della Norma, o una cavatina della Sonnambula: - Tralalalliero, tralalalà! - Né finiva il pezzo, ma attaccava subito, vigorosamente, la sinfonia del Vascello fantasma, un coro del Lohengrin, o qualcosa di simile. - Bum! Bum! Bum! Bum! - replicava Gusmano - È musica questa? - E Fasciotti rideva insieme con altri, dando ragione alla signora. Rovistando le carte di musica, il tenente Gusmano avea tirato fuori quella fatale sonata del Berlioz che rimaneva da un pezzo sepolta sotto un mucchio di fascicoli. - Ah! La signora ci nasconde le sonate. Berlioz ... È un tedesco? - domandò Gusmano - No? Dunque questa dev'essere una cosa assai bella. La signora, per gastigo, viene pregata di sonarla -. Gli occhi di lei s'erano subito rivolti verso Fasciotti, indecisi. - Sí, Giustina, suonatela - egli disse con un che d'ironia. - Vo' persuadermi se gli effetti di questa sonata non provengano, in gran parte, dallo stato dell'animo di chi la sente. Rischio di perdere qualche illusione. - Allora, no! - ella rispose. - Dunque non m'ama piú! ... Soltanto per pietosa generosità di gentiluomo egli fa il sacrifizio di continuare a venire da me. Sí, sí; lo vorrei detto piú chiaramente? ... Non m'ama piú! Non mi ama piú! Sul primo aveva sentito una leggera mortificazione d'amor proprio, lieve puntura di spillo al cuore, graffiatura a fior di pelle; nella nottata però non poté conciliar sonno, irrequieta sotto le coperte, con stupore e sbalordimento che aumentavano di mano in mano: - Non m'ama piú? - Le pareva impossibile. Fra le tante supposizioni fatte, il caso che Fasciotti potesse cessare d'amarla non le era mai passato per la mente. Doveva discutere un'assurdità? Lo stimava tale. - Infine, che deve importartene? - si diceva da sé. - Non è anzi meglio? - Non ne restava convinta. Si sentiva già venir meno la piú valida forza che le rendeva tollerabile quella vita d'isolamento e di sacrifizio a cui s'era volontariamente condannata. La sua pace, la sua tranquillità, dopo tante lagrime e tanti strazi, stavan per essere nuovamente distrutte? ... - E se m'abbandona col cuore, col piú terribile degli abbandoni, che sarà di me? - Tortura di nuovo genere. Come rifiatare? Come lagnarsi di lui? ... Quella settimana le parve un secolo. Ogni parola, ogni gesto di Fasciotti serviva a rischiararle, a confermarle la crudele certezza della scoperta. L'orgoglioso ritegno non le aveva impedito di mostrarsi piú cordiale del consueto con lui, d'umiliarsegli dinanzi con sfoggio di sottintesi imploranti misericordia. - Sentite - aveva osato poi dirgli - questa vostra affezione d'amico è l'unico soffio che mi tiene in vita. Se venisse a mancarmi ... - Che fareste? - Non lo so -. Fasciotti, guardatala un momentino attentamente, colpito della insolita stranezza di quell'accento, aveva soggiunto - Non vi è venuta meno finora. Il mio dovere ... - Disgraziatamente il cuore umano non conosce doveri. E poi, non si tratta di doveri. - Me lo dite voi? - Giustina non aggiunse parola. Credeva aver detto troppo; avea capito anche troppo. E appena fu sola, pianse. - Non m'ama piú! ... Ma perché non m'ama piú? Perché? A questo grido del cuore che le parve uscisse dalla bocca d'un'altra persona nascosta dentro di sé, rimase come fulminata. - Come? ... Lui mi tradisce cosí? Lui! ... E perché non mi ama piú? Perché? - Un atroce dolore alla nuca e alle tempie la distese per tutta la giornata sul canapè della camera e ve la tenne inchiodata fino a tardi. Giulia, sentendola lamentare, era entrata piú volte, domandando - Signora, debbo chiamare il dottore? - No. - Che si sente, signora? - Qualcosa qui ... Non è nulla -. E, all'arrivo di Fasciotti, trovò tanta forza da levarsi, da nascondergli il gran male che le spaccava la testa. - Dunque andrete a Pisa? - Per un'ispezione; due, tre giorni. - Mi scriverete? - La mia lettera arriverebbe insieme con me. Ella girava gli occhi attorno, con aria insospettita, cercando, annusando l'aria ... - Questo profumo ... L'avete addosso voi? - Io? - ... Mi va al capo, mi stordisce. Sí, l'avete addosso voi. - Ah, è vero! - egli rispose, ridendo con qualche impaccio. - Per fortuna non siete nel caso di diventare gelosa. - Oh, no ... per fortuna! - balbettò Giustina, pallidissima. - Vi fa proprio male? - Sí, molto! - Allora vado via; scusatemi. - A rivederci -. Si sentiva morire. Due giorni di stupore e di delirio, sotto il tremendo colpo della meningite. Giulia, atterrita, aveva telegrafato a Pisa: "La signora è in pericolo di morte." Fasciotti, credendo quel telegramma esagerazione di cameriera affezionata, non s'era affrettato ad accorrere. Non tornava il giorno dopo? La signora Castrucci, però, capita, dal continuo vaniloquio dell'ammalata, la vera condizione di Giustina, aveva detto a Giulia: - Bisogna telegrafare anche al marito e alla famiglia di lei. Non vorranno mica lasciarla morire abbandonata cosí -. Fu telegrafato. Nessuno rispose. La poverina, con la faccia congestionata, le labbra tumide e pavonazze, sfigurita, aveva appena forza di balbettare delirando: - Enrico! ..., Te lo ... giuro! Babbo! ... Sono innocente! ... Credimi almeno tu ... tu solo! ... - La suora di Carità, in piedi presso il capezzale, le passava spessissimo un po' di ghiaccio su le labbra infocate, poi rimaneva immobile, con le mani dentro le larghe maniche dell'abito grigio, mormorando preghiere. Sollevata una mano gonfia e contratta, Giustina cominciò ad accennare, quasi chiamasse qualcuno che credeva di vedere a piè del letto: - Enrico! ... Enrico! ... - Ah, il torto è tutto di suo marito! - disse Giulia alla suora che a quel nome aveva abbassato gli occhi. Giustina rantolava, continuando sempre ad accennare a piè del letto con la mano gonfia e contratta: - Enrico! ... Perdonami! ... En ... rico! ... - Povera signora! ... Se avesse saputo che, quando gli uomini non perdonano, c'è sempre Dio che perdona! - disse la suora. E inginocchiatasi, a mani giunte, cominciò a recitare: - De profundis! ... - Mineo, 25@ 25 marzo 1885@. 1885.

Ma nel salone, trovatasi forse fra parecchi di quei visacci, si era abbandonata sulla poltrona e vi era stata uccisa di un colpo. Le induzioni erano queste; ci trovavamo tutti d'accordo. Dopo lunga e minuziosa ispezione, potemmo avverare che l'argenteria, le gioie, i valori, erano stati intieramente involati con arditezza senza pari. Da che parte e con che mezzi gli assassini eran penetrati in quella casa? Ecco una difficile ricerca. Il portone, solidissimo, sbarrato da spranghe interne e chiuso da un magnifico ordegno inglese di struttura assai complicata, non mostrava guasti di sorta. Nelle imposte, ermeticamente chiuse, all'interno ed all'esterno, nessuna traccia di violenza. Il cancello di ferro fuso che chiudeva l'entrata del giardino aveva la sua serratura a posto. Le mura delle cantine erano intatte. Il piccolo portone in fondo alle cantine, che risponde nel vicolo Mignon, era chiuso con tanto di spranga. I tetti, le soffitte in perfettissimo stato. Insomma ci trovavamo in faccia ad uno di quei difficili problemi che l'inesauribile astuzia dei malfattori presenta, come una sfida, alla polizia. Appoggiato al davanzale di una delle finestre che guardano nella via Roi Léopold, io riflettevo da un pezzo, quando tutto ad un tratto ..." - Hem? - fece il signor Van-Spengel, interrompendo la lettura. E appuntava una terribile interrogazione sul viso della Trosse che si disegnava nel vano dell'uscio tenendo fra le dita un biglietto di visita. - Ah, l'amico Goulard! - esclamò il signor Van-Spengel. - Ed io che stavo per piantarlo! Diavolo! Le dieci e tre quarti? Leggerò il resto piú tardi. Mamma Trosse - poi soggiunse con un atteggiamento mezzo comico mettendo in tasca il manoscritto; - siamo sul punto di diventar scrittori, romanzieri, come il vostro Ponson du Terrail. Che ne dite? - Tanto meglio! - rispose la Trosse che non aveva capito. - E i nostri romanzi li scriveremo senza fatica, ad occhi chiusi, dormendo! - Tanto meglio! - Il signor Van-Spengel si lasciò spazzolare da capo a piedi, aggiustò tranquillamente gli occhiali che gli si erano abbassati fino alla punta del naso, mise in testa la tuba, prese in mano la mazza e disse alla serva, che andava a far colazione dal suo amico Goulard. Il Goulard intanto aspettò fino al tocco, ma invano. Il signor Van-Spengel non si fece vivo in tutta la giornata. Giudichi il lettore se sarebbe stato possibile indovinare, anche dalla lontana, quello che gli era accaduto. Il signor Van-Spengel, senza nemmeno entrare nelle stanze dell'ufficio, sceso in fretta le scale e attraversato il vicolo dei Roulets era riuscito a metà della via Grisolles. Il conte De Remcy, maggiore dei granatieri, che lo incontrò poco piú in là del Cafè de Paris e lo fermò alcuni minuti, ribadisce anche lui il racconto della serva intorno alla perfetta tranquillità d'animo del suo amico. Il signor Van-Spengel era (e come no?) vivamente impressionato dal caso di quello scritto. Fra le poche parole scambiate col De Remcy ci furono anche queste: "Van-Spengel: "Credete voi all'assurdo?" De Remcy: "Anzi!" Van-Spengel: "Ebbene, questa sera vi dirò una cosa che vi farà strabiliare". De Remcy: "Perché non ora?" Van-Spengel: "Ho fretta"". Il dottor Croissart riferisce altre quattro testimonianze di persone che fermarono il signor Van-Spengel lungo la via Grisolles; sono dello stesso tenore. Dalla chiesetta Saint-Michel fino allo sbocco della via Grisolles nella via Roi Léopold il signor Van-Spengel fu accompagnato dal signor Lebournant, sarto, che tornava a raccomandargli un suo affare. Fu questi che notò per primo un istantaneo e profondo sconvolgimento sul volto del direttore in capo della polizia. - Ah, mio Dio! Ah, mio Dio - avea esclamato il signor Van-Spengel. Sboccando dalla via Grisolles nella via Roi Léopold, avea visto una gran calca di gente presso il palazzo del visconte De Moulmenant, precisamente innanzi al portone della marchesa De Rostentein-Gourny. "Però - riferisce il signor Lebournant - quel turbamento gli durò poco. Io lo guardavo con sorpresa. Non era mica naturale che un uomo della sua fatta si turbasse per l'assembramento di un centinaio di persone. Sospettai che ci fosse per aria qualcosa di grave. La prima idea che mi si affacciò fu quella di andar a chiudere il mio negozio. Intravvidi le barricate.I ""Permettete", mi disse torcendo a destra per la via Bissot. Lo tenni d'occhio. Ritornò poco dopo con due poliziotti e insieme ad essi s'indirizzò verso la folla. Mi mescolai fra i curiosi. Tutti si fermavano domandando di che che si trattasse. Se ne dicevano di ogni colore". (pag. 7@). 7). Riconosciuto il direttore in capo della polizia, la folla si aperse per lasciarlo passare. Una scala era appoggiata al terrazzino centrale del palazzotto Rostentein-Gourny; e quando il signor Van-Spengel giungeva davanti al portone, la persona che discendeva diceva ad alta voce: - Hanno il sonno duro -. Il signor Van-Spengel impallidí. Il riscontro del suo scritto colla realtà era cosí evidente che anche una testa piú solida della sua ne sarebbe stata sconvolta. Bisogna dire che il suo carattere fosse proprio d'acciaio, se poté far violenza a se stesso e padroneggiare fino all'ultimo la sua crescente emozione. Lascio la parola al dottor Croissart. "È difficile - egli scrive - indovinar con precisione ciò che accadeva nell'animo del signor Van-Spengel alla terribile conferma data dai fatti alla sua visione di sonnambulo. Il giudice signor Lamère, appena arrivato sul luogo notò che l'aspetto del direttore era nervoso. Guardava attorno un po' stralunato; pacchiava colle labbra asciutte, impaziente. Era di un pallore mortale, quasi cenerognolo; respirava affannato. Il signore Lamère gli rivolse piú volte la parola senza spillarne altra risposta che uno o due monosillabi. Entrarono. Alla vista del cadavere del portinaio, il signor Van-Spengel lasciò sfuggire un "oh!" prolungatissimo, e si passò piú volte la mano sulla fronte. Nel salire le scale sudava. Cavò fuori ripetutamente il fazzoletto per asciugarsi le mani ed il viso. Nel salone di ricevimento si fermò immobile, davanti il cadavere della marchesina Rostentein-Gourny, tenendosi la testa con tutte e due le mani. Il signor Lamère si affrettò a chiedergli se si sentisse male. "Un pochino", rispose. E andò verso la finestra che dava sulla via Roi Léopold. Quando il giudice lo invitò ad assistere alla perquisizione, il signor Van-Spengel rispose secco secco: Fate. E rimase assorto nei suoi pensieri, a capo chino, colle mani chiuse l'una nell'altra, appoggiate al mento ed alle labbra, e le spalle rivolte alla via". (pag. 130@). 130). Il dottor Marol lo trovò in questa posizione. Ma poco dopo, quand'ebbe terminato l'esame della ferita della marchesina, vide che il signor Van-Spengel, coi gomiti sul davanzale della finestra e il mento sui pugni, guardava fisso tra la folla. Stette cosí forse una mezz'ora. Il giudice signor Lamère, compiute le sue indagini, gli si era accostato per consultarlo sul da fare. Egli credeva che i servitori, che almeno qualcuno dei servitori avesse avuto parte in quel misfatto: - Gli pareva prudente far arrestare senza indugio tutte le persone di servizio. I particolari del delitto mostravano quattro e quattro fa otto che lí c'era lo zampino di qualcuno di casa. - Un momento - rispose il signor Van-Spengel dopo alcuni istanti di riflessione. Andò lentamente a sedersi sul canapè nel lato opposto della camera, trasse dalla tasca del soprabito alcune carte piegate in lungo, saltò parecchie pagine e si mise a leggere con grande attenzione. In quel punto l'aspetto del signor Van-Spengel aveva un'espressione stranissima. Gli abbondanti capelli grigi che gli rivestivano la testa erano arruffati, quasi irti per terrore. Il luccichio dei cristalli degli occhiali, ogni volta che alzava il capo quasi cercasse una boccata d'aria, accresceva il sinistro splendore della pupilla e del volto. Le rughe della sua fronte parevano tormentate da un'interna corrente elettrica, e comunicavano la loro violenta mobilità a tutti i muscoli della faccia. Le labbra si allungavano, si contorcevano, si premevano l'uno sull'altro mentre i piedi sfre gavano continuamente sul tappeto, poggiando con forza. - Tutti i direttori di polizia sono cosí? - chiese il signor Lamère al dottor Marol. - Che volete ch'io ne sappia? - rispose questi piú stupito di lui. Passarono dieci minuti. Il signor Van-Spengel si slanciò verso la finestra ove il signor Lamère ed il dottor Marol erano rimasti ad aspettare. - Ebbene? - domandò il primo. - No - rispose - arrestereste degli innocenti. Attendete. Lasciatemi fare. Maresque! Poisson! - Le due guardie erano accorse subito. - Con permesso, fatevi in là - disse al dottore. - Affacciatevi con me, ad uno ad uno, - seguitò rivoltandosi alle guardie; - fingete indifferenza. Attenti alle mie indicazioni. Occhio desto! E si fece alla finestra col Maresque. Il signor Lamère sentí questo dialogo: "Van-Spengel: "Vedi tu quel biondo accanto all'uscio del gioielliere Cadolle?" Maresque: "Quello dall'abito bigio e dal berretto alla polacca?" Van-Spengel: "Bravo! Fissati bene in mente la sua figura." Maresque: "Lo riconoscerei fra mille, signor direttore"" (pag. 250@). 250). Rientrarono. - Ora te, Poisson! E ripeté coll'altra guardia la medesima cosa. In quel punto il signor Van-Spengel non pareva piú l'uomo di pochi momenti fa. Era calmo e impartiva gli ordini colla serietà delle persone del suo mestiere. - Via! - esclamò all'ultimo, sospirando. - Usciremo dal vicolo Mignon; qui c'è tanti grulli curiosi! Tu, Maresque, ti accosterai al nostro biondino senza far le viste di badargli. Son sicuro che il colore della tua divisa gli urterà subito i nervi. Prenderà il largo e tu dietro, da vicino, senza aver l'aria di pedinarlo. Poisson verrà con me. Signor dottore, signor giudice, fra un quarto d'ora uno degli assassini sarà qui. Abbiate la pazienza di attendere -. - Che dica sul serio? - chiese il giudice al dottore. - Ma! - rispose questi, stringendosi nelle spalle. - Ha detto il negozio del Cadolle, non è vero? - Sí, il gioielliere: eccolo lí! - E tutti e due si affacciarono alla finestra tra increduli e curiosi. Piú di tremila persone stavano accalcate in quel piccolo tratto di via, incatenate dalla curiosità di conoscere i resultati delle indagini dell'autorità giudiziaria, coi visi in alto, verso le finestre del palazzotto Rostentein-Gourny, colle immaginazioni riscaldate dai pochi e contradditori particolari che andavano attorno. Il Maresque si era fermato piú volte, prima di accostarsi verso il negozio del Cadolle. Il biondo indicato dal signor Van-Spengel, rimasto tranquillo per qualche minuto, faceva due passi, poi tre, poi dieci verso la piazzetta Egmont, e spariva senza voltarsi indietro. Il Maresque spariva dietro a lui. Il signor direttore e l'altra guardia li seguivano a dieci passi di distanza. Piú in qua della piazzetta Egmont Poisson si staccava dal direttore. Dopo questo, il giudice e il dottore non videro piú nulla. La loro sorpresa era immensa. Il biondo, secondo l'espressione del signor Van-Spengel, si era sentito urtare i nervi dalla divisa del Maresque ed aveva preso il largo con una indifferenza da ingannare il piú astuto. Sui trent'anni, con lunghi e folti baffi rivolti in giú, occhio ceruleo, limpido ma irrequieto, il biondo era uno di quegli esseri sociali che non si sa mai con certezza a quale classe appartengano. Indossava, colla eleganza che vien dall'abitudine a una vita molle e disoccupata, un vestito di fantasia, un'accozzaglia di fogge diverse, dal berretto polacco alla scarpa parigina, dalla giacchetta ungherese al pantalone inglese e alla cravatta americana; ma quest'accozzaglia non stonava armonizzata dal suo bizzarro portamento. Nessuno, a vederlo, avrebbe sospettato in quel giovane il menomo indizio di un assassino. Lo si sarebbe preso facilmente per un artista un poco matto. Dal signor Van-Spengel si erano avute parecchie prove veramente sorprendenti di quella lucida, elettrica intuizione - un vero colpo di genio - che distingue l'uomo dell'alta polizia dal commissario volgare. Si tratta di sorprendere intime relazioni fra avvenimenti che paiono disparatissimi; d'intendere il rovescio d'una frase, d'un motto o d'un gesto che cercherebbe di sviarvi; di dar grave importanza a certe cose apparentemente da nulla; di afferrare a volo un accidente da mettervi in mano il bandolo che già disperavate di trovare: lotta di astuzie, di finezze, di calcoli, di sorprese che colla soddisfazione del buon successo compensa l'uomo dell'alta polizia del suo ingrato lavoro. Ma qui la cosa andava diversamente. Il signor Van-Spengel, letta la seconda parte del suo lavoro di sonnambulo, vi aveva trovato, negli interrogatori anticipatamente scritti, i piú minuti particolari di quello che poi doveva accadere e si era messo, dirò cosí, ad eseguire punto per punto il programma della giornata, visto che la prima parte aveva corrisposto cosí bene. Svoltando a destra della piazzetta Egmont, il biondo s'era avveduto della guardia, colla coda dell'occhio, e avea capito che lo pedinava. Allungato il passo, vicino al chiassetto dei Trois Fous, aveva tentato un colpo ardito. S'era fermato davanti un portone e v'era entrato di un lampo. La casa aveva un'altra uscita nella via della Reine. Se poteva essere perduto di vista un venti secondi, il colpo gli riusciva. Profittando di alcuni carri che ingombravano la via della Reine verso il Restaurant des Artistes, girò con lestezza attorno ad essi, ritornò sui propri passi mentre il Maresque lo cercava coll'occhio tra la folla, e infilò un vicolo stretto, torto, sudicio, una di quelle tante anomalie che si trovano spesso nel cuore delle grandi città. Aveva fatto i conti senza l'oste. Il signor Van-Spengel lo aveva scoperto da lontano. Il biondo passò un usciolino sepolto fra le panche di erbaggi di una bottega di ortolano e i cenci di un rivendugliolo ebreo, spenzolanti in mostra dalla tabella. Il signor Van-Spengel, seguito dal Poisson e dal Maresque, diè un'occhiata allo stabile; poi, senza dir motto, cominciò a salire la scala che principiava quasi alla soglia. Trovarono un andito largo, una specie di corridoio senza volta, col pavimento sdrucito e i vecchi mattoni che vi formavano degli isolotti: un locale freddo, grigio, di aspetto sinistro. Sei usci segnati con grossi numeri rossi indicavano sei stanze: ma il perfetto silenzio che vi regnava faceva supporre che i locali fossero allora disabitati. Il signor Van-Spengel si accostò all'uscio numero 5@, 5, e picchiò colle nocche delle dita tre colpetti risoluti. - Chi è? - avea risposto una bella voce di uomo. - La legge! - Apparve sull'uscio un uomo in veste da camera. Pareva di essere sulla quarantina. Aveva il volto tutto raso, i capelli neri e molto lunghi, gli occhiali inforcati sul naso e un libro in mano. - Disturbo? - disse il signor Van-Spengel con impercettibile ironia, mostrando la sua fascia tricolore. - Niente affatto - rispose l'altro inchinandosi. - La legge è il miglior ospite di questo mondo. Ai suoi ordini, signore -. Le guardie scambiarono due occhiate interrogative, scrollando le spalle. - Caro dottor Bassottin - disse il signor Van-Spengel, appuntando in viso a quell'uomo i suoi sguardi di fuoco. - Caro dottor Bassottin, o meglio signor Colichart, o, se piú vi aggrada, signor Anatolio Pardin, scegliete! ... (l'altro al sentir pronunziare quei tre nomi avea fatto tre movimenti mal frenati di sorpresa). È provato che la notte scorsa voi, insieme ai vostri compagni Broche, Vilain, Chasseloup, Callotte e Poulain, col mezzo di due ordegni inglesi da voi fatti costruire l'ottobre passato dal Blak di Londra, penetraste alle due e un quarto dopo la mezzanotte, nella casa della signora marchesa De Rostentein-Gourny, via Roi Léopold, numero 157@ 157 ... L'uomo a cui erano rivolte queste parole lo guardava imperterrito, facendo segni negativi col capo. - Voi ne usciste l'ultimo - continuò il signor Van-Spengel - richiudendo il portone collo stesso ordegno servito ad aprire. Appena uscito vi metteste a cantare e a schiamazzare insieme agli altri. Poi vi sparpagliaste per diverse direzioni e vi riuniste dopo mezz'ora in questo locale a dividervi il bottino. - Ma, signore - interruppe l'altro con un tono calmo ed insinuante, sorridendo; - qui dev'esserci uno sbaglio. Io sono il dottor Bassottin in carne e in ossa, medico chirurgo di Bruges. Voi mi trovate fra i miei libri di scienza e i miei strumenti. Non ero preparato a questa visita. Signore ... oh! Dev'esser corso proprio uno sbaglio ... - Signore Anatolio! - replicò il direttore di polizia accostandoglisi all'orecchio. - Io so qualche cosa che i vostri complici non sanno: so dove avete nascosto quel diadema di brillanti che la vostra abilità di giocoliere fece sparire senza che quelli se ne accorgessero! - Ah! Voi siete il diavolo! ... - E Anatolio si appoggiava al muro, tremante come una foglia. - Cavategli quella veste da camera - disse il signor Van-Spengel. Il Pardin lasciò fare. - Strappategli quella parrucca -. Il Pardin non oppose la menoma resistenza. Com'erano ricomparsi i vestiti, ricomparvero allora anche i capelli biondi del giovane pedinato. Le due guardie stralunarono dalla sorpresa. - Se vuol rimettersi i baffi! - disse il signor Van-Spengel seriamente. E il Pardin, che pareva sotto l'oppressione di un potentissimo fascino, cavava macchinalmente di tasca i suoi baffi finti e se li adattava come gli avea prima. - Ed ora mettetegli le manette -. Il Pardin esitò un momentino a porgere le mani, ma non impedí che il Maresque gliele tenesse unite mentre il Poisson gli stringeva ai pollici il suo piccolo strumento di acciaio. Il signor Van-Spengel picchiò in vari punti del pavimento, indi smosse un mattone colla punta della sua mazza. Apparve una buca. Poisson ne estrasse parecchie scatole e due involti che depose sul tavolino. Il signor Van-Spengel aprí ad una ad una le scatole, osservò gli oggetti d'oro, le pietre preziose, e le richiuse con cautela. Mentre il signor Van-Spengel eseguiva questa operazioni, il giudice Lamère e il dottor Marol avevano fatte altre e piú minute osservazioni sulle diverse ferite delle vittime, perdendosi in un ginepraio di supposizioni intorno al modo con cui gli avvenimenti eran dovuti accadere. Un piccolo episodio li avea commossi. Erano nella camera della marchesina. - Perché non l'avevano trovata uccisa lí, ma nel salone di ricevimento? La marchesina era ancor sveglia verso le due e mezzo dopo la mezzanotte. Che cosa faceva? Il dottor Marol si accorse pel primo d'una lettera restata a mezzo, sul tavolino, ma non osò buttarvi gli occhi. La sua squisitezza di animo gli impediva di violare il segreto dei morti, il segreto di una signorina. Il giudice Lamère invece trattò quella lettera come un documento del suo futuro processo e la lesse. Eccola: fu pubblicata dai giornali belgi quell'anno. "Mia cara, Sono felice! Bisogna che ti dica subito queste due parole: le capirai meglio quando avrai letto fino all'ultima riga. Sono felice! Se ancora me le tenessi nel cuore, potrebbero farmelo scoppiare. Oh! sarò sempre in tempo a morire. Oggi sono felice! Troppo felice! Figurati! Mi son messa a scrivere alle undici e mezzo di sera. È già l'una dopo la mezzanotte ed ho appena incominciato. Ma in queste due ore e mezzo non ho fatto altro che parlare con te, ad alta voce, come se ti avessi avuta presente. Ah, mia cara! ... La penna non corrisponde alla foga del mio pensiero, al tumulto de' miei affetti. Perché le persone che si amano non s'intendono da lontano senza né scriversi né parlarsi? Ecco: io duro fatica a proseguire, ed ho cento cose da dirti. Via, siamo serie! ... Egli mi ama! Me l'ha detto questa mattina, in salotto, dove ci trovammo soli per due brevi minuti. Io tremavo come una bimba nel sentirlo parlare. Egli tremava piú di me. Non intesi bene le prime parole; ma le compresi egualmente e gli risposi ... cosí strampalata! Oh, fu di una delicatezza senza pari! Pareva chiedesse scusa di farmi felice. Scesi subito in giardino. Non potevo contenermi. Un fremito di piacere mi agitava da capo a piedi e mi rendeva leggiera come una piuma. Lí tutto sorrideva; tutto era pieno di profumi. I fiori mi salutavano scotendo il capino sullo stelo con grazia indicibile; le acque delle vasche mormoravano mille cosette maliziose che mi facevano provare certi brividi! ... Una gioia fino allora ignorata! Correvo pei viali; mi fermavo; odoravo i fiori, gli accarezzavano; agitavo colle mani convulse le acque della vasca ... Pare impossibile che una parola ci possa rendere cosí! Volevo esser seria e non riuscivo. Mi sembrava che io profanassi il divino sentimento dell'amore manifestando la mia allegrezza in quel modo cosí fanciullesco; ne avevo dispetto ... Ma tornavo a far peggio. Correvo di nuovo, saltavo ... Poveri fiori! Quelle mie carezze li maltrattavano, ne guastavano le foglioline e le corolle, li sfogliavano anche; ma! ... I felici sono crudeli, cara mia! Egli m'ama! C'era proprio bisogno che me lo dicesse? No, no! ... Ma pure non vivevo tranquilla; dubitavo sempre, mi torturavo da mattina a sera; mentre ora! ..." Il signor Lamère ed il dottor Marol avevano le lacrime agli occhi. Il cuore da cui erano sgorgate quelle righe piene di tanto affetto non batteva piú! Il Lamère ed il dottor Marol si guardarono in viso stupiti vedendo entrare il signor Van-Spengel seguito dal giovane arrestato fra le due guardie. Il Van-Spengel pareva in preda a un fierissimo accesso nervoso. Metteva paura. - Cancelliere - disse il signor Lamère - stendiamo dunque il verbale. - Se ne risparmi la fatica - balbettò il signor Van-Spengel, avanzandosi barcollante, con un sorriso da ebete. - Il verbale eccolo qui! ... E presentava il suo manoscritto, dando in uno scroscio di risa convulse. Era ammattito! Il libro del dottor Croissart, interessantissimo per tutti i versi (egli è direttore del manicomio di Brusselle) termina con profonde considerazioni su questo strano fenomeno di psicologia patologica, degne di esser lette e meditate. Egli conchiude: "Quando vediamo il nostro organismo mostrar tanta potenza in casi tanto eccezionali ed evidentemente morbosi, chi ardirà d'asserire che le presenti facoltà siano il limite estremo imposto ad esso dalla natura?" Catania, 25@ 25 marzo 1873@. 1873.

E ricascava, abbandonata, nell'angolo di canapé dove s'era buttata arrivando. Si sentiva precipitare tuttavia giú, giú, giú, in fondo all'abisso senza luce; e non aveva altra sensazione. Quella vertigine della testa, del cuore, di tutta la persona, le impediva di pensare, d'accorgersi degli oggetti circostanti, di formarsi un'idea netta del tempo che passava, e dell'enorme pazzia ch'ella commetteva restando là. A intervalli, la nebbia fosca della sua mente veniva solcata da un chiarore; un quadretto dalla cornice dorata, un oggetto di porcellana con una punta di luce viva, un'impugna tura di fioretto appariva su la parete in un canto del salottino, e le spariva sotto gli occhi appena ella tentava fissarli. Soltanto allorché sentí domandarsi: - Vuole che accenda il lume? - soltanto allora si riscosse, atterrita: - Ditegli che ho aspettato finora e che ... non tornerò piú! ... Soffocava. E andò via, ritta su la persona, come fantasma, mentre la vecchia le faceva lume. Cosí montò le scale di casa; e cosí, come fantasma, senza esitare, passò davanti al marito che le aperse e non ebbe la forza di dirle nulla, e richiuse lentamente l'uscio dietro il quale era stato ad attenderla da parecchie ore, bevendo le lagrime che gli irrigavano il viso sconvolto, in agguato per scannarla, com'era suo diritto, come si meritava questa sgualdrina, ora ch'egli sapeva tutto! ... - Oggi la signora ritarda ... - Rientrando, gli era parso d'aver capito male. Il suo istinto geloso s'era subito svegliato: - Oggi? ... - Credevo che il signorino sapesse ... - disse la serva, spaventata dal tono di quella domanda. - So, so: le altre volte però è tornata sempre piú presto ... - Sempre. - Tutti i giorni? ... - Nossignore; una, due volte la settimana. - E ... da quando? ... Da quando? - Ma, se il signorino lo sa ... - Rispondi! Da quando? - Da quattro mesi, forse ... Non ricordo bene ... Oh, vergine santa! - Da quattro mesi! ... Da quattro mesi! Una, due volte la settimana! ... - Ogni esclamazione, era lampo di vivissima luce che gli rischiarava il cervello; era scoppio di fiamme avvolgentisi al corpo che intanto sudava diaccio ... - Da quattro mesí! ... Due, tre volte la settimana! ... - E i minuti passavano, e i quarti d'ora passavano, via via, sul quadrante dell'orologio a pendolo dov'egli teneva fissi gli occhi; e le ore squillavano pel salotto lentamente nell'attesa mortale, quasi annunziassero un'immensa catastrofe! ... - Meglio per lei, se il mondo finisse prima di rimettere il piede in casa, in questa casa insozzata dalla sua infame persona! ... Ecco perché rifioriva! ... Ecco perché cantava! ... E la gelosia non mi ha servito a niente! ... Balordo! Balordo! - E i minuti passavano, eterni come quarti d'ora! E passavano, via via, gl'interminabili quarti d'ora che sembravano secoli! La serva aveva sentito suonare con violenza ... - Prendi il tuo fagotto ed esci da questa casa, subito, subito, ruffiana! - Vergine santa! Che dite mai, signorino! - Esci! Esci, ruffiana! - E spintala con un urtone fuori dell'uscio, facendole sbalzare in terra il fagotto, aspettò. S'aggirava dietro l'uscio, simile a tigre pronta a slanciarsi, assetato del sangue della infame. La bimba, accorsa con la serva, non avendo mai visto il babbo cosí infuriato, era andata a rincantucciarsi nel salotto, impaurita; e, poco dopo, s'era addormentata su la seggiola, con le gambette spenzolanti e la testina cascata sul petto. Carmelina la guardò, ebete; e sbarazzatasi convulsamente dello scialle e del cappellino, si rovesciò su la poltrona. Gli orecchi le rintronavano d'un sinistro rumore di case crollanti. - Dove sei stata? Dove sei stata? ... - Alla stretta di quelle mani piú fredde e piú forti dell'acciaio e che le stritolavano i polsi, ella cacciò un grido: - Ammazzatemi! ... Avete ragione! ... Ammazzatemi! - E fissava con avida angoscia qualcosa che gli aveva visto luccicare fra lo sparato del panciotto. Le tardava di morire. Per che doveva piú vivere? Ma colui si strappava i capelli, ma colui le si rotolava ai piedi, mugolando il nome di lei. E quand'ella credette alfine che le si slanciava addosso per ucciderla, si sentí brancicare, amorosamente, su i capelli, su la faccia, per tutta la persona; e si sentí furiosamente baciare e ribaciare, fra singhiozzi e lagrime irrompenti, quas'egli avesse voluto riprendere quel che gli era stato rubato: la sua vita, il suo sole, la sua donna adorata! - Come hai potuto, infame? ... Come hai potuto? ... - Non lo so ... Non lo so ... - Alle incalzanti domande ripeteva sempre: - Non lo so ... - Ma pensava a quello sguardo diaccio diaccio, di persona malefica, incontrato per le scale della sua casa, a Catanzaro. A un tratto Lupi si rizzò in piedi: - Lisa, Lisa! - La bimba, riscossa piú dall'urto del braccio che da la voce soffocata del babbo, spalancò gli occhi e saltò giú mal desta, lasciandosi trascinare. In quel punto l'istinto della vita scattò nel seno della madre disgraziata, quasi voce che gridava aiuto dalle viscere sussultanti; e vedendo il marito che trascinava quell'altra creatura, dicendo con voce cavernosa: - Guarda; dovrai ricordartene; guarda! - gli si levò incontro, tendendo le braccia supplicanti. - Per quest'innocente che ho nel seno! La bimba vide luccicare una lama e poi sua madre ripiombare, stravolgendo gli occhi fino al bianco ... - Mamma! Mamma! - gridò senza comprendere niente in quel momento. Mineo, 10@ 10 novembre 1883@. 1883.

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