Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbandonata

Numero di risultati: 180 in 4 pagine

  • Pagina 1 di 4

Da Bramante a Canova

251202
Argan, Giulio 1 occorrenze

In altri termini (paradossali, ma tutta la poetica del «sublime» giuoca sul paradosso) il lavoro manuale è il solo lavoro, che l’attuale situazione storica consenta ed imponga all’intellettuale: accettando di farsi artigiano per polemica, l’artista rivendica il dovere di conservare un’eredità di cultura che l’incosciente avidità dei più vorrebbe sperperata o abbandonata. Né occorre spiegare che, così facendo, l’artista denuncia la crisi, l’imminente scadenza dei valori che vorrebbe difendere e che infatti erano stati o stavano per essere abbandonati proprio da coloro che li avevano, per secoli, praticati.

Pagina 395

La pittura moderna in Italia ed in Francia

252887
Villari, Pasquale 2 occorrenze
  • 1869
  • Stabilimento di Gius. Pellas
  • Firenze
  • critica d'arte
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Questa, malata e abbandonata sulla poltrona, viene illuminata da una luce diretta, ed è dipinta con una finezza e delicatezza grandissima. È una nobile e gentile figura, che raccoglie la luce principale del quadro, come attira gli sguardi innamorati e i pensieri del poeta che legge. L’altra delle tre Eleonore, posta fra le due prime, s’accorge, sorpresa, che è tra due rivali, rivale anch’essa. Tutto ciò segue presso un verone che forma il fondo del quadro, e dal quale penetra una luce che lo illumina mirabilmente. Ed è ciò che forma il prestigio e lo scopo principale di questo lavoro, in cui il carattere dei personaggi, trovato e capito assai bene, viene in parte sacrificato al Dio onnipotente della luce. — Il Bagno di Pompei è anch’esso uno stupendo effetto di luce: una figura in mezzo del quadro, semi-nuda, illuminata dall’alto; un gioco stranamente difficile di riflessi che produce l’effetto proprio del vero. L’artista ha studiato l’architettura, i costumi del tempo, e li riproduce; ma lo spettatore s’avvede che lo scopo principale è l’effetto difficilissimo di luce; tutto il resto, un mezzo secondario: la vita romana e pompeiana nei bagni, è quasi l’accessorio del quadro.

Pagina 57

V’è una sola professione che resta abbandonata, senza vere e proprie scuole che mettano in grado d’esercitarla convenientemente, ed è quella dell’architetto. Si è pensato alle scuole d’applicazione per gl’ingegneri di ponti e strade, di vie ferrate, di officine industriali e di miniere; ma all’architetto, che deve essere prima artista e poi uomo di scienza, non s’è pensato abbastanza. Spesso è un capo muratore colui che dirige la costruzione d’un palazzo. Coloro che si danno alla professione, qualche volta pigliano la via universitaria e trascurano l’arte, qualche volta vanno all’Accademia di belle arti e trascurano la scienza di cui hanno uguale bisogno. La conseguenza di questo fatto è semplice. Spinti dalla corrente industriale e prosaica del secolo, noi siamo ridotti a tale, che le nostre case non sono più opere d’arte, anzi di rado l’arte v’entra per nulla. La pittura, la scultura, l’architettura una volta facevano come un’arte sola. Oggi, invece, lo scultore fa una statua che possa stare ugualmente, come un mobile di lusso, in un salone qualunque; il pittore si pone a far piccoli quadri, che possano, come le stampe, entrare in commercio; e l’architetto fa una casa che come un magazzino, si possa fornire di suppellettile, secondo il capriccio mutabile di coloro che vengono sui abitarla. I pubblici edifizi, pei quali abbiamo speso parecchi milioni, sorgono senza che lo scultore o il pittore sieno mai chiamati a dare un compimento di cui si crede che non abbiano più bisogno. Si dice che è risparmio di spesa; ma una linea barocca costa quanto una elegante, e quello che si spende nei nostri saloni, per supplire con un lusso sfoggiante alla mancanza d’arte, basterebbe certo a fare il contrario. Ristabilire l’unità e l’armonia delle arti, sarebbe il più efficace sussidio che si potrebbe dare ad esse. I basso-rilievi del Partenone non potrebbero stare ovunque. Gli affreschi del Vaticano perderebbero assai in un altro edifizio. Perfino i barocchi erano, sotto questo aspetto in condizioni assai migliori di noi. Dai loro palazzi d’un’architettura esagerata e sfoggiante, dalle ampie scale ornate di statue, dalle terrazze che davano sui giardini, dai saloni colle mura e le volte ornate di grandi freschi, sino alla più minuta suppellettile, agli abiti, alla tabacchiera, all’orologio del cicisbeo, essi serbavano il medesimo stile; e l'arte loro, scorretta ed esagerata, aveva pure un carattere che manca alla nostra, e degli artisti le cui opere saranno pur sempre ammirate. Non si può, noi lo sappiamo, vincere affatto o fermare l’andazzo dei tempi; ma un efficace rimedio sarebbe l’istituzione d’una grande scuola di architettura, e d’un tirocinio regolare, se non imposto almeno indicato ed aperto a tutti. È una parte indispensabile d’un buon sistema d’istruzione in ogni paese civile.

Pagina 62

La storia dell'arte

253196
Pinelli, Antonio 1 occorrenze

Questa tendenza a fingere con la pittura o con il mosaico uno spazio architettonico a tre dimensioni su supporti bidimensionali perdurò in Italia fino all’epoca tardo-antica e all’inizio del Medioevo, quando fu progressivamente abbandonata in favore di un’ambientazione spaziale più indefinita e di un appiattimento nella rappresentazione di figure ed oggetti, con conseguente rinuncia a simularne la concretezza plastica e la solidità tridimensionale.

Pagina 134

La tecnica della pittura

253981
Previati, Gaetano 3 occorrenze
  • 1905
  • Fratelli Bocca
  • Torino
  • trattato di pittura
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Ma, come osserva sir Eastlake, tale ripiego non sarebbe applicabile sui muri e sulle tavole; senza dire che il consiglio veniva troppo tardi, essendo la tempera completamente abbandonata all’epoca del Vasari.

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Il restauro, sino dalle sue più lontane memorie, anzichè essere informato dallo spirito di conservazione, vale a dire di un provvido intervento per arrestare le cause della visibile rovina dei dipinti o porre riparo a quelle condizioni per cui un’opera di pittura abbandonata a sè stessa finirebbe col distruggersi, si vede prendere le mosse da quell’impulso istintivo di rivendicazione dei danni prodotti dal tempo, che se è giustificabile, secondo la logica dei nostri sentimenti, non rimane però meno sproporzionato ai mezzi positivi dell’arte, coi quali se è dato in certa misura cooperare al più lungo godimento delie opere, non è possibile tuttavia ottenere il ritorno dei dipinti guasti al loro aspetto integrale primitivo.

Pagina 254

Si ritiene condotto il più antico buon fresco nel 1391 da Pietro d’Orvieto nel Camposanto di Pisa; nè l’usanza del prepararne il disegno sull’arricciato fu così presto abbandonata, tanta era la forza delle tradizioni scolastiche in quei tempi, e quanto dice il Vasari, nella vita di Simone e Lippo Memmi, di un fresco non finito di Lippo, che, in Assisi, mostrava il contorno segnato di rossaccio col pennello in sull’arricciato, ebbe poi a mostrarsi in guasti avvenuti nelle pitture del Camposanto di Pisa (quelle del portico settentrionale) di Benozzo, e in altre di Simone, di Laurati e di Spinello.

Pagina 58

Le arti belle in Toscana da mezzo secolo XVIII ai dì nostri

254897
Saltini, Guglielmo Enrico 3 occorrenze
  • 1862
  • Le Monnier
  • Firenze
  • critica d'arte
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Però non crederemmo avere sodisfatto intiero l’obbligo nostro, se dopo aver parlato della Scultura, non ricordassimo quel bravo CLEMENTE PAPI, che ha fatto rivivere tra noi V arte di fondere in bronzo statue ed altri oggetti di plastica, dopo Giovan Bologna e Ferdinando Tacca quasi affatto abbandonata tra noi. Il Papi (n. in Roma il 31 agosto 1806) venne per tempo in Toscana e qua dopo ostinata perseveranza e studio indefesso, giunse ad eseguire getti di finitura e delicatezza mirabile. Nel 1837 fece il busto di un giovinetto da esso modellato sul vero; dopo di che avuto modo per favore di chi reggeva il paese, di erigere una fonderia, gettò in bronzo una statua di tutto rilievo che fu la Diana succinta, trovata a Gabi. Riprodusse quindi la Venere della villa della Petraia e il Mercurio volante della Galleria degli Uffizi, bronzi di Giovan Bologna; nel 1839 il Perseo di Benvenuto Cellini, poi la testa del David di Michelangelo, e in fine le statue del Duprè, Abele e Caino, per la reggia de’ Pitti. Tutti questi getti sono di una straordinaria bellezza, sebbene condotti e finiti nella forma, senza bisogno di altre rinettature o ritocchi, eccetto gl’inevitabili in cosiffatti lavori. I contorni delle statue rimangono tali, quali escono dalla forma, senza essere alterati da lime o ceselli. E per far meglio conoscere l’effetto di questo suo bellissimo metodo, il Papi gettò anche in bronzo piante, fiori e animali formati sul vero, la superfice dei quali non può alterarsi con ritoccature, mostrandone! conservare i più delicati rilievi e sottosquadri della forma tale maestria, non più veduta ai nostri tempi.

Pagina 39

Abbandonata la imitazione della natura, e la scelta di quel bello, che in gran parte nel vero risiede, volle seguitare i più strani capricci, e si ridusse una matta convenzione, quasi diremmo una parodia. Pietro Leopoldo I, salito al trono della Toscana, volle fare dipingere alcune sale della villa del Poggio Imperiale, ma in veder poi codeste pitture scoperte, ebbe ad esclamare sdegnato: «Io pago e aiuto questi miserabili, ed altri prenderà cura di far imbiancare le volte!» Non pertanto vennero i nuovi tempi per l’arte: ma noi prima di studiarne il risorgimento, vogliamo far sosta un poco, e vedere quali cose operassero questi pittori toscani dell’ottocento, non pochi di numero, nè affatto privi d’ingegno. Incominciamo dai fiorentini.

Pagina 42

I suoi lavori, da lui condotti con rara facilità, vuolsi che sommino a meglio di mille cinquecento: ricorderemo prima il più famoso, la Clizia abbandonata da Apollo, dal quadro di Annibale Caracci (1772); ma non meritano minor lode, la morte di lord Chatham in Parlamento, da Copley (1791); il Diploma Accademico, sul disegno dell’amico suo Cipriani; la partenza d’Abramo colla famiglia, dallo Zuccarelli; Giove e Leda, e Narciso al fonte, dal Viera; l’Orlando e Olimpia e la Vergine del silenzio, dal Caracci; Didone sul rogo, da un disegno del Cipriani; e la Circoncisione, dal Guercino. Invitato in Portogallo (1806) dal principe reggente, morì pochi anni appresso a Lisbona in povero stato.

Pagina 66

Manuale per i dilettanti di pittura a olio, acquerello, miniatura, guazzo, pastello e pittura sul legno (paesaggio, figura e fiori)

259455
Ronchetti, Giuseppe 1 occorrenze
  • 1902
  • Ulrico Hoepli Editore Libraio della Real Casa
  • Milano
  • manuale di pittura
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Una capanna di legno abbandonata, qualche striscia di fumo o altro, può benissimo servire per tale scopo, rendendo, in pari tempo, più piacevole l’effetto del dipinto.

Pagina 241

Pop art

261538
Boatto, Alberto 2 occorrenze

La situazione che Rosenquist raffigura appare eminentemente equivoca ed aperta; non è nemmeno sintetica come quella del manifesto pubblicitario, ma tende alla sintesi senza per altro pervenirvi, giacché si è abbandonata la chiarezza e l’immobilità del mondo pubblicitario per l’oscura flessibilità della vita della coscienza. E non di meno è proprio la pubblicità a fornire al pittore il suo variopinto cinémascope: per recuperare l’energia e il fantastico non occorre tanto distaccarsi, quanto manomettere, far precipitare l’universo artificiale trapassato a fondo dal sogno e dalla vitalità dell’uomo.

Pagina 125

Il nuovo punto di partenza, non Neo-Dada ma più latamente pop, nelle prove iniziali di Schifano, di Kounellis e di Mauri, appare meno intellettuale e maggiormente visivo, di abbandonata partecipazione alle apparenze del mondo oppure di elaborazione dei segni primi di un nuovo vocabolario. Ciò che predomina nella pittura di Mario Schifano è appunto l’aspetto visivo, non la rappresentazione descrittiva dell’immagine, ma la sua immediata percezione, che viene restituita sulla tela mediante una limpida e fresca visione, giacché la pittura per l’artista consiste essenzialmente in una tecnica del vedere. Nelle sue iniziali composizioni Schifano cancella la congestione materica dell’informale e prepara la strumentazione visiva per potere di nuovo posare sullo spettacolo del mondo uno sguardo partecipe e disponibile. Per altro la sua fresca percezione non è affatto naturalistica ma mediata, avendo subito l’influenza della percezione meccanica della foto e del cinema. È come se Schifano guardasse sempre la realtà da dietro uno schermo artificiale, sia esso il riquadro televisivo il finestrino dell’auto, oppure lo schermo materiale del plexiglass coprente l’immagine sottostante, nei suoi lavori successivi. Dietro questo schermo l’artista inquadra frammenti d’immagine che entrano all’interno del suo campo visivo e che possiedono appunto la casualità e la sorpresa delle inquadrature e delle sfocature di campo. Dapprima sono particolari di scritte pubblicitarie, poi sono sezioni di paesaggio. L’immagine inquadrata viene riportata direttamente sulla tela mediante diverse tecniche di riporto e d’impressione, tutte riconducibili a due procedimenti di base, il rifacimento e il ricalco. Schifano smaterializza l’immagine riducendola ad una pellicola visiva; la stessa tradizione dell’avanguardia, dai futuristi a Picabia e ai suprematisti russi, è «rivisitata» attraverso la mediazione dei documenti fotografici che testimoniano, non solo delle opere, ma anche della figura umana dei protagonisti.

Pagina 190

Scritti giovanili 1912-1922

262171
Longhi, Roberto 1 occorrenze

Quanto all'espressività estrapittorica, cioè sentimentale, s'essa ci possa servire a qualche rilievo per la posizione storica dell'opera, si può dire, sommariamente, che Caravaggio abbandonata la sensibilità episodica delle sue prime cose, tende a concentrarsi in una chiara sobria espressività umana che ha per primo fine, e più significante: non distrarre l'artista dalla solida rappresentazione pittorica delle cose. Così egli è qui il vero precursore degli spagnoli, di Zurbaran senza la tristizia, di Murillo senza lo zucchero, soprattutto di Velasquez per la tecnica, cioè per l'arte stessa. Ciò si spiega quando si pensi che in questo torno d'attività Caravaggio fonde la pittoricità dei Veneziani col senso plastico-pittorico assunto dai suoi primi ispiratori provinciali: Bresciani e Bergamaschi.

Pagina 24

Scultura e pittura d'oggi. Ricerche

265982
Boito, Camillo 2 occorrenze
  • 1877
  • Fratelli Bocca
  • Roma-Torino- Firenze
  • critica d'arte
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Nella chiesa di San Marco, oltre alle radicali riparazioni esterne ed interne, fu eseguito un utile lavoro, l’asciugamento della cripta, che sino dal 1569 era stata abbandonata, perchè l’acqua, salvo nelle bassissime maree, vi filtrava, rendendola impraticabile. Fu steso sotto il suolo uno strato del cemento idraulico bergamasco e fu rifatto il pavimento di marmo; e così, riaperti gli ingressi, si scende al sotterraneo da due scale laterali, e si possono ammirare le cinquanta colonnette coi loro strani capitelli, su cui piantano gli archi e le vôlte, dove stanno alcune traccie di antichi dipinti. Nel mezzo è l’altare tutto a trafori, con la cassa di marmo, in cui fino al 1811 era stato nascosto il corpo di Marco evangelista. O pensate ora che la cripta misteriosa è illuminata a gas da certe candele fìnte, infisse su certi bracciuoli da osteria, che escono dai muri e dai peducci delle vôlte! Questo spirito di modernità volgare muove a riso e disgusta. E non v’è cosa più fastidiosa che il vedere guastare con qualche goffaggine secondaria un’opera fatta bene. Per esempio, l’interno della Madonna dell’Orto, una bella chiesa veneziana del Trecento, già qualche anno addietro rimessa nella sua vecchia semplicità, è ora nuovamente ingombrata sulla porta maggiore dall’architettura e dalla pittura di un organo farragginoso. Restaurare per risciupare, è peccato!

Pagina 157

Alle pareti bianchiccie e monde sono appiccati pochi studietti, pochi bozzettini, qualche fotografia; non una tela abbandonata, un quadro invenduto, una cornice che aspetti per mutare destinazione. Nel mezzo un cavalletto, in un angolo un modello di legno; nessuno di que’gingilli, de’ quali tanto si compiacciono gli artisti. V’è tutta la semplicità, la parsimonia fiorentina. A primo tratto sembra la stanza di un giovine ch’esca appena dalla scuola, che non abbia mai fatto nulla, che sia impacciato e povero. Gli è che il Sorbi — Raffaele Sorbi, per chi non lo sapesse — non ha tempo di lavorare per sè, non ha tempo di pensare a sè. Gli spazzano la stanza di ogni cosa ch’esca dalla sua mano, appena egli ci ha messo sotto la cifra; ed egli fa presto, presto e bene, e quando ha cominciato un quadro, non si svaga, non divaga, ma lo finisce. Così nella sua stanza non si può vedere mai nulla. NuIla dies sine linea, ma neanche un segno perduto. Egli che ha dipinto delle tele grandissime, la sua Madre dei Gracchi, per esempio, schicchera de’ bozzetti più piccoli di un polizzino da visita con tre colpi di pennello. De’ suoi quadri non gli restano che certi studii di qualche figura, alti pochi centimetri, e de’ disegni in una cartella, pur piccoli, ma tracciati con rara sapienza de’ moti e della forma. Non ha neanche gli schizzi dell’insieme, neanche le fotografìe delle sue opere migliori.

Pagina 196

Ricette di Petronilla

330959
Moretti Foggia Della Rovere, Amalia 1 occorrenze

In olio abbondante ho, cioè, cucinato 4 pomidoro privi di semi e tagliati in grossi pezzi; quando i pomidoro furono quasi cotti, ho aggiunto tutta l’acqua del mare che le vongole, fra gli spasimi dell’agonia, avevano abbandonata spalancando le loro valve; uno spicchio d’aglio (al mare si digerisce persino l’aglio); alcuni pezzettini di peperone rosso; basilico, prezzemolo ed origano triti; ed un pizzico di pepe; ho fatto cucinare per cinque minuti e infine, aggiunte le vongole che, con un po’ di pazienza, avevo tolte dai gusci, ho messo il tegame in credenza.

Pagina 061

LA SCAPIGLIATURA MILANESE - FRAMMENTI

656342
Arrighi, Cletto 1 occorrenze

Io credo che non v'abbia scena o capitolo di dramma e di romanzo che possa agir con tanta potenza sull' immaginazione di un uomo di cuore come queste poche e ghiacciate parole, lette forse nel Nuovo Emporio o nei Faits divers d'un giornale Parigino: "Jeri una povera fanciulla di diciott'anni abbandonata dall'amante s'è asfissiata col carbone nella sua soffitta." A chiunque non sia un rettile privo di sentimento balenerà attraverso la fantasia un poema di dolore e di amore tradito nella vita di quella povera creatura stroncata al primo aprirsi ai raggi del sole. Quante notti di pianto, ruggito colla faccia prona sui guanciali del povero lettuccio, prima che la tremenda determinazione le si sia impiantata nell'anima riluttante! Che uragano implacabile fra l'ultima speranza perduta e la completa disperazione! Ma quando lo sventurato tu lo conosci, quando poche ore prima gli hai stretto la destra con un: a rivederci, pregno di simpatia reciproca e forte, quando credi che, giovane qual è, sano, agiato, pieno di talento e di avvenire egli sia felice ..... Dio mio! che tremendo mistero di dolore nascosto nel più profondo del cuore deve essere stato quello che lo spinse all'atto disperato! Giunto a capo della via, vidi da lontano un crocchio di gente; ma non era sotto il balcone di Temistocle; sperai, e rallentai la corsa; sentivo nel cuore uno sgomento indicibile. Arrivai al crocchio. - Dov'è quel meschino? - chiesi a un operajo che andava sciamando: La provvidenza! Un giovane di quella fatta! E dicono che c'è la provvidenza!! - L'hanno trasportato in quella bottega - mi rispose. Vi andai, e passando quella soglia credetti di cadere d' emozione. Un cadavere sanguinoso e sconciato stava disteso su una tavola .... me gli appressai, guatandolo al lume incerto d'una candela di sego. Era Temistocle.

Pagina 64

IL MAESTRO DI SETTICLAVIO

656369
Boito, Camillo 1 occorrenze

Noi siamo oggi i due ultimi rappresentanti di una scuola di lettura, che non uscì mai da Venezia, nemmeno ai tempi del Fur- lanetto, e che è stata abbandonata anche qui da vent'anni, a dir po- co. Perché si deve credere che nella musica il mondo sia imbecil- lito, che nessuno capisca più nulla?". "Non è vero, maestro, che oggi il setticlavio sia disconosciuto" e perché lo Zen alzava la voce, il vecchio gli accennò di moderarsi, dando un'occhiata all'uscio che menava verso la stanza di Nene. "Il setticlavio anzi è in onore. Ella sa, per esempio, che la città di Arezzo deliberò di alzare, col mezzo di una colletta europea, un monumento a Guido Monaco. Quale fu la gloriosa invenzione del- l'aretino? Il solfeggio o, per dirlo con un'altra parola, il setticlavio. È vero o non è vero?". "Si può solfeggiare senza setticlavio, mio caro". "Senza setticlavio si suonerà il pianoforte, perché le note vi stan- no belle e preparate, e basta pestare sui tasti. I suonatori di piano- forte sono appunto quelli che hanno barbaramente manomesso le ragioni del canto; ma l'ugola è il solo strumento creato diretta- mente da Dio, quindi il solo davvero divino, quello che deve im- porre la regola a tutti gli altri inventati dall'uomo. Legga, maestro, questo avviso pubblicato l'altra settimana a Napoli" e di nuovo ti- rava fuori dal pingue portafogli un'ampia carta stampata. "E l'invito al congresso italiano. Veda, al proposito dei quesiti sulla musica, è proposta la riforma della scuola di canto, poiché più d'ogni altro ramo dell'arte il canto giace in umili ed abiette condizioni È scritto proprio così. Ora, come si possono mai rial- zare le sorti del canto se non si principia dalla lettura?". "Non nego che la lettura abbia la sua importanza; ma qui s'inten- de altra cosa: s'intende la purezza dell'intonazione, il modo di emettere la voce, la delicatezza del fraseggiare, l'agilità, la grazia". Maria, socchiudendo l'uscio, mostrò il suo viso stravolto. Voleva chiamare il padrone, che non la vide; e non ebbe l'animo di scuo- terlo in quel momento di distrazione e di calma. "È l'ultimo forse!" pensò la serva, tornando a chiudere l'uscio. "Ma l'avviso di Napoli ha torto" continuava il vecchio. "Il canto è quale la musica lo vuole e lo fa. Passa il tempo dei gorgheggi; entriamo nell'età della passione e del dramma. Quel giovine, che tu detesti, autore dell'Ernani e del Rigo- letto.". "Ha corrotto il canto". "Come vuoi che abbia corrotto il canto se ha dato un nuovo im- pulso alla musica? Tutto muta quaggiù. Tu sei vecchio e caparbio; ma quando diventerai ancora più vecchio, quando giungerai alla mia età, in cui ci si distacca dal mondo, allora l'animo imparziale ti lascerà vedere le virtù del presente come gli errori del passato. Io temo, a dirtela schietta" proseguiva il maestro con accento dol- ce e insinuante "temo che uno dei miei peccati sia stato il setticla- vio. La logica è talvolta un inganno; e per amore della semplicità teorica si casca nella pratica in tali complicazioni da rendere vano ogni ragionamento e ogni sforzo. Non ostinarti; accetta il posto di Milano; continua ad essere utile alla gioventù, sacrificandole un vecchiume, forse un pregiudizio". Mentre il Chisiola parlava, l'al- tro mutava aspetto. Un grande scoramento s'impadroniva di lui; era come se la molla, che lo reggeva in piedi, si fosse spezzata d'un tratto. Gli caddero le braccia, ed il volto andava perdendo la sua vivace espressione. "Anche lei, maestro, è contro di me" mormorava "anche lei mi abbandona. Non mi resta più nulla, nulla, nemmeno la mia cara idea, per la quale avrei saputo morire!". Si udì un grido acuto, straziante. Il vecchio aprì l'uscio, precipitò nella stanza vicina, traversò l'altra correndo, entrò nella camera di Nene, che era morta, guardò il viso bianco e cadde a terra privo di sensi. Era il tocco dopo la mezzanotte quando lo Zen, che aveva vagato per le vie senza saper dove andasse, giunse, guidato dall'abitudine, al Caffè della Gloria A un tavolino quattro sensali giuoca- vano alle carte. Uno di essi, appena vide lo Zen, gli gridò: "Ehi, maestro, l'abbiamo fatta grossa questa volta. È stato qui dal padrone" e il padrone russava dietro il banco "l'usciere del tribu- nale, l'amico Toni, per intimarle di comparire domattina innanzi al giudice. Due truffe alla volta, niente di meno, maestro". Lo Zen sbarrò gli occhi; avrebbe voluto capire. Il sensale conti- nuò: "Non mi faccia lo scemo adesso. C'è di mezzo un pianoforte non suo, venduto ad un Tizio. E l'altra truffa che cosa è? Non me ne rammento". Il caffettiere, svegliatosi allora allora, intervenne, sbadigliando: "Si tratta di un libro, una strenna, credo, che questo buon galan- tuomo doveva far stampare; e si mangiò il danaro. Ma dove dia- volo li caccia i quattrini, che non ha mai un soldo per isfamarsi?". "Le donnette, le donnette" vociavano i sensali, sganasciandosi dalle risa. "E noi, che davamo da mangiare a questo bel mobile!". Lo Zen era già scappato lontano. Aveva un incendio nella testa: sentiva dentro nel cervello le fiamme che guizzavano, le case che rovinavano, i pompieri che distruggevano ogni cosa con i loro enormi picconi. Acqua ci voleva, acqua. Si gettò a capo fitto in un canale. Non poté annegare; aveva fatto una giravolta, e s'era tro- vato in piedi sul fondo, col capo fuori. Non gridava, non si curava di accostarsi alla riva; anzi il fresco dell'acqua doveva essergli gradito. All'alba due muratori, che passavano in un battello, l'alza- rono su e lo condussero all'ospedale, ove fu posto nella sale d'os- servazione. Due giorni appresso, chiuso nella camicia di forza, fu condotto al manicomio nell'isola di San Servilio. Lì a poco a poco riacquistò le maniere schiette di prima, il suo buon umore e la vecchia pas- sione del setticlavio. Era incanutito, ma ingrassava. I medici e gli infermieri gli volevano bene; le suore ne' giorni di magro gli face- vano preparare, arrostita sulla gratella, un'aringa salata, e gli dava- no un bicchiere di vin buono. Aveva scelto fra i suoi compagni, tutti tranquilli, i meno malinconici, e s'affaccendava nell'insegnar loro a solfeggiare e a cantare. Le sale, i corridoi e il giardino echeggiavano spesso di voci, che ripetevano per ore ed ore: Do Re, Do Mi, Do Fa, Do Sol, Do La, Do Si Il maestro con lo scartafaccio del suo Trattato sul setticlavio batteva il tempo; e ne- gli urli dei nuovi scolari udiva le più soavi armonie, i più stupendi cori, le più perfette fughe, una musica da paradiso. Non c'era uo- mo più felice di lui.

Senso

656380
Boito, Camillo 1 occorrenze

Allora, abbandonata, povera, gettata in una società piena di seduzioni e di corruzioni, cascai nella finzione dell'amore. Ma la finzione dell'amore, non è amore, è odio; è l'odio anzi più vile, abbietto, pauroso, straziante che si possa provare. Quest'odio m'uccide. Il cuore intanto arde, e cerca da molti anni invano il refrigerio di un affetto violento e sincero. Ho bisogno dell'amore che brucia. Il prete, afferrando con un supremo sforzo di volontà i pensieri, che svanivano dalla sua testa, mormorò: - Calmatevi, poverina, mettete in pace la fantasia eccitata dalle sventure e dalle colpe della vostra vita. Fate di desiderare una sola cosa, il bene. Uscite da queste sozzure d'inganni e di vizii, in cui si trascina e imbratta la vostra esistenza. Tornate sola e povera, ma pentita e buona. Allora tutti vi dovranno amare, perché, amando voi, ameranno la virtù. - Anche voi, Don Giuseppe, mi amerete anche voi? E gli prese la mano, e la strinse, e il prete s'avvicinò. La donna continuava sommessamente: - Don Giuseppe, guidatemi. Insegnatemi la via, conducetemi dove vi piace. Sarò la vostra schiava. Sarò, se vorrete, la vostra santa. Il vostro cuore dev'essere grande e nobile, deve specchiare il cielo, come i vostri occhi. Mi piacete perché siete bello, perché siete candido, perché indovino che non avete mai amato, perché voglio essere il vostro primo peccato, il vostro primo rimorso. Datemi il vostro amore, Don Giuseppe, il vostro amore. La donna, arrovesciata sul sofà, teneva sempre con le due mani la mano del prete, il quale tremava dalla testa ai piedi. Il sole era tramontato; la camera diventava buia. Ma, mentre la femmina ripeteva le ultime parole, sembrò al curato che d'improvviso un soffio fresco gli passasse sul fronte; e di repente gli comparve davanti la figura tetra e sanguinosa del suo Cristo dell'inginocchiatoio, solo che il volto, anziché piegato e morto, era vivo e guardava minaccioso e fierissimo. Il prete scattò e, prima che la donna potesse pronunziare una sillaba, era uscito dalla stanza. Quando il servo con la livrea turchina e con le mostre cremisi vide scappare il prete dalla villa, quasi correndo, senza voltarsi, come se dietro le spalle lo minacciasse il demonio, sorrise maliziosamente, ponendosi l'indice della mano destra sulla punta del naso.

La Verna

656793
Campana, Dino 1 occorrenze

Limpido fresco ed elettrico era il lume Della sera e là le alte case parevan deserte Laggiù sul mar del pirata De la città abbandonata Tra il mare giallo e le dune...

IL RACCONTAFIABE - Seguito al "C'era una volta …"

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

La notte, sentiva un lamento: - Ah, Reuccio, Reuccio, come m'hai abbandonata! Saltava da letto, credendo che Trottolina fosse già diventata persona viva: andava a guardarla; niente. Trottolina era tuttora di legno e stava appoggiata contro il muro in quell'angolo dove l'aveva buttata. Ogni notte però quel lamento: - Ah, Reuccio, Reuccio, come m'hai abbandonata! Il Reuccio non poteva più dormire. Ordinò che gliela levassero di camera e la portassero in cantina. Non valse. Tutte le notti, dalla cantina sentiva fino in camera sua quel lamentio. - Non vuoi chetarti? Aspetta: ti concio io! Scese in cantina con un'accetta, per fare in pezzi trottola e Trottolina; ma alla vista di lei, che era così bella e graziosa, sentì intenerirsi il cuore. Era cresciuta tanto che pareva una bella ragazza di diciotto anni; e ora, per far girare la trottola ci voleva molta forza. Non si trattava più d'una Trottolina, ma d'un trottolone, e invece d'un laccetto, occorreva proprio una fune. I genitori del Reuccio erano morti; il Re era lui. Mancava la Regina; e i Ministri gli dissero: - Maestà, il matrimonio con Trottolina non regge: sposate una donna vera. Il Re si lasciò persuadere e risolvette di sposare la Reginotta di Spagna. Il giorno delle nozze, la Reginotta di Spagna si sentì male tutt'a un tratto e in poco d'ora morì. Il Re se n'accorò. La notte, il solito lamentìo: - Ah, Reuccio, Reuccio, come m'hai abbandonata! - Non sono più Reuccio. Aspetta: ti concio io! Scese in cantina, prese delle fascine, le messe torno torno alla trottola e a Trottolina e vi appiccò il fuoco. Una vampata; ma la trottola in fiamme cominciò a girare a girare, mettendo fuoco a ogni cosa. Saliva le scale, correva per tutte le stanze del palazzo reale, e dove passava attaccava il fuoco. In un attimo il palazzo fu in fiamme. La trottola girava e Trottolina parlava: - Buon giorno, Maestà! Buona notte, Maestà! Il Re le correva dietro, tentando di spegnere le fiamme: - Fermati, Trottolina! Ma si bruciacchiava le mani inutilmente: Trottolina non si fermava; e sembrava lo canzonasse col suo: - Buon giorno, Maestà! Buona notte, Maestà! Attorno al palazzo c'era una gran folla, accorsa per spegnere l'incendio. Chi attingeva acqua, chi portava le secchie, chi le vuotava; fatica sprecata: più acqua buttavano e più le fiamme prendevano forza; salivano fino al cielo. Dal gran fumo non ci si vedeva. E tutti piangevano il Re che doveva essere carbonizzato a quell'ora, insieme coi Ministri e le persone di corte. Quando fu giorno, invece che si vide? Nel luogo del palazzo reale c'era un magnifico giardino, e più in là un altro palazzo reale, al cui confronto quello bruciato sarebbe parso una bicocca. E pei viali del giardino il Re e Trottolina, diventata persona viva, di carne e d'ossa, che presi per mano passeggiavano come se nulla fosse stato. Trottolina diceva scherzando al Re: - Buon giorno, Maestà! Buona notte, Maestà! Ma non girava più; non aveva più la trottola sotto i piedi. Ora che Trottolina non era di legno, il Re la sposò per davvero. E furono marito e moglie; A loro il frutto, e a noi le foglie.

GIACINTA

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Capuana, Luigi 5 occorrenze

La sua fanciullezza abbandonata le si aggravava sul cuore terribilmente, coi piú vivi particolari, rimescolandola tutta. E quando le passava dinanzi agli occhi l'immagine di Beppe, con quel testone nero e quelle pupille nere che l'avevano tenuta cosí sottomessa, sentiva vibrare per tutto il corpo una sensazione strana, d'inesplicabile tenerezza verso quell'unico amico della sua infanzia che l'aveva tanto divertita e le aveva voluto un po' di bene! E i baci di quelle labbra carnose le rifiorivano, caldi, per un istante, sulle gote insieme colle carezze delle ruvide mani di lui. Cosí le si accresceva la smania di rivedere i luoghi dov'era trascorsa la sua fanciullezza, cari luoghi che dopo cinque anni di lontananza già prendevano nella sua immaginazione proporzioni grandiose, splendori abbaglianti. Che altro le avrebbero rammentato quel ripostiglio, quegli alberi, quei viali, quel chiosco del giardino di cui le pareva di poter contare ancora sulle piante rampichine, i viticci spenzolanti e le foglie ad una ad una? Ma l'assaliva lo sgomento: - Ah! ... La sua mamma non le voleva bene! Pensando a questo, subito le si gonfiavano gli occhi di lagrime. - Perché non le voleva bene? Perché? E dal dispetto, sentiva seccarsi il pianto. - Sarebbe arrivata a odiar la mamma? E tremava.

Son cresciuta fin oggi quasi abbandonata a me stessa; lasciami continuare cosí. Non dubitare, non avrai noie per cagion mia. Le mie idee non sono assurde, vedrai ... Ma lasciami libera, assolutamente, te ne prego! ... In ogni caso, dovrò prendermela soltanto con me. Aveva parlato a scatti, quasi facesse uno sforzo per frenar le parole, tenendo bassa la testa, con gli occhi fissi al pavimento, stirando qua e là convulsamente le pieghe sul davanti del vestito; e la signora Marulli seguiva macchinalmente con lo sguardo quel significativo arrabbattarsi delle mani di sua figlia, intanto che ogni parola di essa le martellava sul cuore; poi si rizzò, dominandosi a stento. - Per ora in casa comando io! - disse con la voce turbata - Che t'immagini? ... Che ti si è dato a intendere? ... Son forse queste le lezioni apprese in collegio? - Il collegio ci rende quali ci ricevette! - rispose Giacinta. - Sei un'ingrataccia! - No, mamma. - Un'ingrataccia! ... - replicò la signora Teresa. - Ma, bada, ve'! È bene che tu lo sappia: a me i romanzetti non garbano punto. So come troncarli: tientelo per detto. - Se tu credi che io abbia dei romanzetti pel capo! - Che significa dunque quel: lasciami libera? - Te lo spiegherei se tu fossi piú calma. - Sono calma, calmissima; ci vuol altro per agitarmi. Che significa dunque? ... E aspettava la risposta mordendosi il mignolo, col gomito appoggiato sull'altro braccio piegato sotto il seno, scotendo irrequietamente un piede ... Giacinta esitava. - Significa - poi disse - che l'avvenire è ancora lontano ... ; che, per ora, né io né te dobbiamo ... legarci le mani. Credimi, ho in orrore la società, benché la conosca assai poco ... Non darti pensiero di me ... Se dovrò prender marito, non prenderò che una persona di mia scelta, risolutamente ... a costo di farti dispiacere ... Ma non lo prenderò, mamma ... Ho un presentimento ... Che so? ... Ecco ... non riesco a spiegarmi ... Non darti piú pensiero del mio avvenire ... Non ci penserò nemmeno io ... Qualcosa nascerà ... vedrai ... Però, te lo ripeto, non avrai noie per cagion mia ... Lasciami fare ... anche una sciocchezza! Che te ne importa? ... La signora Teresa non aspettò che terminasse; le voltò le spalle, sbatacchiando l'uscio con violenza. E Giacinta ricadde abbandonatamente sulla seggiola, sfinita dallo sforzo fatto e quasi sgomenta della piena coscienza di sé stessa acquistata in quel punto.

Elvira, sopraffatta da un repentino nodo di tosse, diventata livida in viso, s'era abbandonata sul canapè, portando il fazzoletto alla bocca. - Non è nulla, - si affrettò a dire, rimettendosi quasi subito. - È passato: non è nulla. Ma non poté nascondere il fazzoletto senza che Andrea non si accorgesse della macchia rossa rimastavi impressa. La signora Emilia era scappata via per non farsi vedere dalla figlia con le lagrime agli occhi. Andrea posò le carte sul tavolino: - Si riguardi; continui la cura ... - Non prenda ora questa scusa ... - È impossibile; non saprei piú far nulla. Rimandiamo il miracolo a un'altra volta. Ma si riguardi, si riguardi!

Giacinta trovavasi nel suo salottino, abbandonata sulla poltrona, in uno di quei deliziosi abbattimenti che le montavano all'improvviso dalle viscere agitate. Vedendo entrare sua madre come un colpo di vento, lasciò cascare il libro di mano; e il braccio le spenzolava fino a terra, mollemente. - Ma, dunque, hai perduto la testa? La signora Teresa le si era piantata dinanzi, con le braccia in croce, ancora pallida dalla rabbia. Giacinta la guardava, sollevandosi a poco a poco sulla vita, già indovinando: ma rispose: - Perché? - Me lo dimandi? ... Gerace ha rinunziato al suo impiego ... E il tono della voce lasciava capire: e siete stati d'accordo! - Fa quel che gli pare e piace. - È un miserabile, se si rassegna ... a lasciarsi mantenere da te! La signora Marulli alzava la voce, minacciava con la mano. - Mentono! - disse Giacinta. Aveva bisogno di negare, per contenersi, per farsi forza. Sugli occhi le passavano larghe ondate di nebbia; alla gola aveva un nodo. E si contorceva sulla poltrona, si mordeva a sangue le labbra per impedire che la piena di terribili rimproveri, gonfiatasi a un tratto nel suo cuore, non irrompesse, insultando. - Mentono? - replicava la signora Teresa con feroce ironia. - Mentono? ... Tanto meglio. Conviene smentirli. - Certe calunnie non le raccatto. Egli, forse le ignora. - Sarà bene che tu l'avverta. - No. Varrebbe come dirgli: allontanatevi di casa mia. Non voglio abbassarmi fino a questo; farei troppo piacere a taluni. E una smentita che non fosse spontanea non avrebbe, in questa circostanza, nessun valore per me. La signora Teresa era ammutolita: - Come? Non rispondeva altro? Alzava le spalle? - E se colui - riprese a dire, tornando ad alterarsi - insiste nella sua rinunzia! ... Oh, insisterà! ... Insisterà! Poiché tu lo mantieni! Glielo buttava in faccia con tutto il disprezzo della sua collera, come una lordura, mentre sua figlia, a mani giunte, cogli occhi desolati, balbettando, la supplicava di tacere. - Poiché tu lo mantieni - ella replicava, calcando la voce. - Dovrei, forse ... farmi mantenere da lui? - Oh! ... La signora Teresa s'era sentita colpire al petto, a bruciapelo; e barcollò, brancolando per trovare una seggiola. - Mamma! Mamma! Giacinta, che s'era slanciata a sorreggerla, l'aiutava a sedersi. Avrebbe voluto mozzarsi la lingua, avrebbe voluto scancellare perfino dall'aria l'insulto sfuggitele di bocca: - Mamma! Mamma! Ma la signora Teresa, respingendola, si voltava dall'altra parte per evitarne gli sguardi. Non poteva parlare; era la prima volta che si sentiva addirittura vinta, calpestata; e le pareva di morire. - Mamma, mamma, perdona! - singhiozzava Giacinta, inginocchiata ai suoi piedi. - Un sorso d'acqua! - disse la signora Teresa. E mentre quella correva di là, per servirla con le proprie mani ed evitare le indiscrezioni delle persone di servizio, ella s'andava tastando la testa, come se vi sentisse il dolore di un colpo di mazza piombatovi su. Giacinta le accostò, trepidamente, il bicchiere alle labbra; poi, intinta nell'acqua la punta d'un fazzoletto, le bagnava la fronte e le tempie. Sua madre la lasciava fare, ad occhi chiusi, concentrata, rimproverandola soltanto con lunghi tentennamenti di testa. - No! Sta' zitta! - le ripeteva Giacinta. - Ne riparleremo. Non devi pensarci ... Perdona! - È finita! - rispondeva la signora Teresa svincolandosi dalle mani che tentavano di trattenerla ancora. - Questo è un colpo che mi uccide! Lo sento qui, nel cuore! Fa', fa' pure a tuo modo! - aggiungeva quasi calma, ma piena di durezza. - Non posso impedirtelo ... È già un pezzo che non mi dài retta. Te n'avvedrai appresso, povera illusa, tu che ti fidi dell'amore d'uomo come quello! Oh, fa' pure! ... Non ti dirò una sola parola: aspetterò. Quando avrai finito di trascinare nel fango il tuo nome, il tuo onore, la tua fortuna, per metterli sotto i piedi di quel miserabile ... sí, miserabile! Vedi? lo dico senza sdegno ... - Zitta, mamma! ... Zitta! - Quando i nostri nemici, t'avran vista arrivare dove neppure il loro odio avrebbe creduto possibile che tu arrivassi; quando la passione, che ora ti accieca ... Ma allora ... allora, forse, non sarò piú qui, per poterti rinfacciare; sarò morta! ... Non vorrà dire; te lo rinfaccerai da te stessa: La mamma aveva ragione! ... E tutte queste parole, che ora disprezzi ... e non han servito che a farmi insultare, tutte, sillaba per sillaba, ti verranno in viso ... Vedrai! Giacinta stette un momento ad ascoltarla a capo chino, atterrita alla voce lenta e cupa che pareva gittasse un infame maleficio sull'avvenire di lei, con quelle esclamazioni ripetute come rintocchi d'una campana d'agonia; poi scattò, con tutte le forze del suo sangue, delle sue fibbre, dei suoi nervi ... - L'amo! ... intendi? L'amo! ... Che m'importa di voialtri? ... Resterà!

Giacinta sguizzava leggera fra le coppie che ballavano confusamente, abbandonata al suo ballerino che, guidandola, le domandava: - Si sente stanca? - No, punto. E giravano, giravano, sguizzavano; Andrea Gerace un po' serio, ella sorridente, da persona già come abituata, quantunque fosse quello il suo primo ballo. - Lei balla come una meridionale - le disse Gerace in un momento di sosta. - È la prima volta che io non rimpiango le feste di Napoli. - Son lieta - rispose - di rammentarle in qualche modo le signorine di laggiú. - Me le fa dimenticare. - ... Che caldo! Si soffoca. Si soffocava infatti; ed era un continuo agitar di ventagli ora che l'orchestra si riposava. Gli uomini si facevano vento coi cappelli a molla schiacciati. - Gerace, una canzonetta delle vostre! ... La signora Villa gliel'aveva detto con quella smanceria di voce e di atteggiamento bambinesco ch'ella soleva affettare per far piú colpo. - Sí, sí! La signora Rossi, la Mazzi, il Porati, il Gessi e gli altri ch'eran lí appresso approvarono. - La Carmenella! Mastro Raffaele! suggerirono ad una volta Merli e Ratti. Anzi il Ratti andò a prenderlo addirittura pel braccio, e facendogli delle moine come una signorina, fra le risate che scoppiavano da ogni parte della sala, lo conduceva al pianoforte dove già preludiava il Porati. - Che simpatico giovane! Giacinta si limitò ad accennare col capo che era della stessa opinione della Gina. Non voleva perdere una nota. Quella melodia, improntata di una gaiezza mesta, si dondolava col suo ritmo, mollemente, e faceva dondolare, per consenso, tutte le teste: poi, all'ardito strappo di voce che riprendeva la frase allegra del ritornello, correva attorno un mormorio di entusiasmo represso. Gina, presa la mano di Giacinta, gliela stringeva forte nei passaggi piú belli, quasi stesse per isvenirsi. - Canta meglio del solito questa sera! - le diceva sotto voce. Quella sera Gerace aveva anche una singolare maniera di lanciar le note verso Giacinta; ed essa, che se n'era accorta, se le sentiva aggirare attorno alla persona, posar sulla fronte, strisciar lievemente sulle guance e sul collo, solleticanti; e aggrottava le sopracciglia, e si chinava inavvertitamente verso di lui, attratta da quella strana sensazione cosí nuova per lei. Quando alla fine scoppiaron gli applausi, le parve di destarsi da un sogno. - Quella musica era durata un'eternità? ... Un minuto secondo? Non sapeva rendersene conto. Gerace le si era avvicinato per ringraziarla degli applausi. - Son io che debbo ringraziar lei - rispose. - Che musica! Mi è parso quasi di veder Napoli e il suo golfo, che, forse, in realtà non vedrò mai. - Ti diverti dunque, malatina? - venne a dirle Mochi in quel punto. La sorvegliava, inquieto, da un pezzo; e le porse il braccio, mentre Giacinta rispondeva: - Non è difficile, a quel che pare. Vedendoli passare tra la folla degli invitati, la Maiocchi ammiccò alla signora Villa seduta dirimpetto. L'assiduità del Mochi attorno di Giacinta cominciava a dar nell'occhio: - Quel vecchio dissoluto era capace di tutto! La signora Maiocchi notò che Giacinta, tornando in sala sempre al braccio del Mochi, era un po' rannuvolata. Infatti non ballò piú. - Grazie - disse al Ratti che la invitava ad una polka. - Sono stanca. Ho ballato anche troppo; son convalescente. Mi scusi.

PROFUMO

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Capuana, Luigi 2 occorrenze

Ma le figure delle due persone sedu- te là dentro, una dirimpetto all'altra - la vecchia col viso sconvolto e gli occhi smarriti, abbandonata da un lato; il dotto- re, curvo, quasi ripiegato per lo scarso spazio, con tra le mani i polsi di quella - ora, ricordando o sognando (non lo ca- piva bene), le si confondevano nell'immaginazione con la figura del Cristo morto, steso su la barella dorata, dietro i lar- ghi cristalli circondati dai fanaletti accesi; e le poche parole scambiate a voce bassa tra il dottore, Patrizio, lei, Ruggero e i portatori, le si mutavano a poco a poco in quel mormorio tumultuoso della folla, in quel grido straziante: "Misericor- dia, Signore! Pietà, Signore!" che quella sera fatale l'aveva sbalordita! Ahimè, non era un brutto sogno! Poteva non credere ai propri occhi vedendo giacente nel letto il corpo mal vivo che guardava fisso? Poteva mai dubitare udendo la desolata, insistente domanda: "Mamma, mi senti? Mamma, mi senti?". Il dottor Mola quella sera aveva detto subito a Patrizio: "Bisognerebbe allontanare di qui la vostra signora. Ho paura di una ricaduta." "Allontanarla? ... In che maniera?" aveva egli risposto come un sonnambulo. "Glielo dica lei; lo ascolta. Io non ho testa!" Ma Eugenia s'era indignata: "Abbandonar Patrizio in questi momenti? Oh! ..." E aveva voluto vegliare assieme con lui, ostinata, irremovibile, senza lasciarlo solo neppure un minuto la prima not- te e gran parte del giorno appresso. Sostenuta dal suo stesso sbalordimento, eccitata dalla pietà dell'immenso dolore di lui, dimenticando i torti della suocera, aveva fin vinta la gran ripugnanza che quel corpo inerte le ispirava; ed era accor- sa premurosamente ogni volta che era stato necessario sollevarla sui guanciali, o mutarla di fianco, per impedire che al- tre mani la toccassero all'infuori delle sue e di quelle di Patrizio. Incontrandosi negli sguardi fissi e duri dell'inferma, che le sembrava volesse farle male anche allora, li aveva sempre evitati. Per istintiva delicatezza di sentimento, aveva cercato di non farsi scorgere nemmeno compiendo la sua umile opera d'infermiera con l'applicare i senapismi, col rinnovare le pezzette delle bagnature diacce alla fronte. E nelle lun- ghe ore di fallace speranza in una benigna risoluzione della crisi, quando nel silenzio della camera si sentiva soltanto il respiro affannato dell'inferma, e in quel volto emaciato dagli anni e dai patimenti, ora immobilizzato dalla paralisi, gli occhi si muovevano lenti per figgersi su qualcuno, quasi cercassero chi potesse intendere il loro muto linguaggio, Euge- nia si teneva un po' indietro su la seggiola dappiè del letto, spinta da inconsapevole suggerimento del suo buon cuore. Perciò si sentì offesa, non appena le parve di comprendere bene l'intenzione di Patrizio e i di lui pretesti per tenerla discosta, per celarne la presenza alla mamma a fine di risparmiarle in quello stato una sensazione spiacevole. Benedetta e Giulia, arrivate poco dopo assieme col fratello, la trovarono piangente, sola sola, nella sua camera. "La signora sta peggio?" domandò Benedetta. "Sempre lo stesso" ella rispose con voce cupa. "Non pianga!" disse Giulia, abbracciandola e asciugandole gli occhi col fazzoletto prèsole di mano. "Si faccia co- raggio." "Povero Agente! Vuol tanto bene alla mamma e n'era voluto tanto bene!" soggiunse Benedetta. "So io come parlava del figliuolo! Bisognava sentirla!" "Il dottore che ne dice?" domandò Ruggero a Eugenia. "Dice che è gravissima." "L'età della povera signora complica il male" riprese Benedetta, scrollando la testa, atteggiando le labbra a compas- sione. "Non riesce a parlare affatto affatto? Che tormento dev'essere non poter dire, in fin di vita, una sola parola al pro- prio figliuolo!" Eugenia portò il fazzoletto agli occhi. Quella pietà la irritava. Tutti compiangevano la vecchia che il gastigo di Dio aveva colpita, sì, il gastigo di Dio, (Eugenia in quel momento n'era proprio convinta!) Nessuno compiangeva lei. Ma la sua liberazione era prossima. Avrebbe respirato, finalmente! Finalmente avrebbe potuto amare ed essere amata senza che quel fantasma si presentasse improvviso a interrompere i baci, a disturbare le carezze di Patrizio e di lei! Ondate di fiele le allagavano il cuore come non le era mai accaduto fin allora. Tutte le sue amarezze vi si rimescolavano, vi veni- vano a galla: e quelle ondate, che le fiottavano dentro con rapide pulsazioni, montavano su, su, fino ad attossicarle la bocca. Più Benedetta si diffondeva a compatire l'inferma, anzi a farne l'elogio quasi fosse già morta, e più Eugenia sen- tiva accrescere la sua spietata soddisfazione. Quando Ruggero, per interrompere la sorella, disse: "Eh via! Non muore poi nel fior degli anni!". Eugenia lo guardò riconoscente; per poco non sorrise. "Così malaticcia e sofferente come dite sia stata sempre" continuò Ruggero "forse non le dispiace morire. Che si fa a questo mondo quando la vita è una pena? Si soffre e si fa soffrire." Egli parlava rivolto a Eugenia, ritorcendo fra l'indice e il pollice d'una mano le punte dei baffettini, con lo sguardo fissato negli occhi di lei, rossi di pianto, quasi vi leggesse nettamente quel ch'ella pensava in quel punto e le desse ra- gione e l'approvasse. "Si soffre e si fa soffrire!" Oh, se l'aveva fatta soffrire colei! Imbarazzata però dallo sguardo di Ruggero, Eugenia sentiva rapidamente racchetare il violento impeto di odio che le aveva attossicato anche la bocca. Da lì a poco - e se ne stupiva ella stessa - presso al letto dell'inferma che rantolava ce- rea in volto, con gli occhi serrati, le occhiaie livide e la bocca un tantino contorta dal lato sinistro, da lì a poco ne prova- va anche e vergogna e rimorso. Patrizio, in piedi, strizzandosi le mani, intento su l'addormentata, il cui magrissimo corpo quasi spariva sotto la co- perta, resisteva alle calde preghiere del dottore che avrebbe voluto pietosamente allontanarlo di là. Pareva non udisse o non comprendesse. Eugenia gli si accostò e lo prese per una mano. "Patrizio! ... Patrizio! ... Fatti animo! ... Non essere un bambino! ..." gli andava dicendo, tra- scinandolo via dolcemente nella loro camera, passandogli un braccio attorno il corpo quasi a sospingerlo. "Patrizio, scuotiti! ... Mi fai paura! ... Non essere un bambino! ... Riposati! Riposati almeno pochi minuti! ... Patrizio!" I singhiozzi le impedivano la parola, le lagrime le inondavano il viso, intanto che egli, aiutato da Ruggero, si lascia- va cascare sul letto come corpo morto, bocconi, singhiozzando alla sua volta: "Mamma! Mamma mia cara! Povera mamma!" "Sì, sì, piangi. Da' sfogo al dolore! ... Sarà bene!" Non sapeva in che modo farsi perdonare la cattiveria di poc'anzi; e gli accarezzava la testa, gli stringeva fortemente la mano che egli le aveva abbandonata. Se fosse stato possibile, in quel punto Eugenia avrebbe sacrificato metà della sua vita per salvare la mamma morente (diceva proprio: "La mamma" nel suo pensiero!) - e così sollevar Patrizio da quell'abbattimento angoscioso, da quella ineffabile tortura. "È sua madre! È sua madre!" si ripeteva da sè, per convincersi meglio della ragionevolezza della sua compassione, per fortificare il suo povero cuore vacillante, sbattuto tra gli opposti sentimenti che vi scoppiavano da due giorni in tu- multo, lottanti tra loro e racchetandosi e riprendendo vigore, eccitandola con fulminei sbuffi di malvagi rancori e op- primendola tosto con lunghi pentimenti e rimorsi. "È sua madre! È sua madre!" ella rispose a Ruggero, che tentava anche lui di consolare Patrizio. E glielo disse con tal accento che quegli si allontanò riputando importuna l'opera sua. "Benedetta e io restiamo qui" gli sussurrò Giulia in un orecchio, rientrando dalla camera dell'inferma. "È già ago- nizzante. Può spirare da un momento all'altro!" Il dottore, dati alcuni ordini al Padreterno, si apprestava ad andar via. "È morta?" venne a domandargli Ruggero sottovoce. "No. Ma è inutile che io stia ancora qui. Ho mandato a chiamare un prete, per le preghiere dei moribondi soltanto. La catastrofe è sopraggiunta più presto che non credevo. Povero Agente! Fa pietà." Eugenia, dall'aria di Giulia, dall'accorrere di Ruggero nell'altra stanza, aveva subito indovinato quello che stava per accadere, e portò le mani alla testa affondando le dita tra i capelli: "Oh Dio! Oh Dio!" cominciò a balbettare sommessamente. Giulia le fe' segno di frenarsi, accennando a Patrizio che pareva addormentato. Tutt'a un tratto lo videro balzar su, con gli occhi sbarrati, pallidissimo, gridando: "Muore! ... Muore! ..." Gli era parso, tra sonno e veglia, di sentirsi chiamare due volte dalla fioca voce della moribonda! E prima che potes- sero pensare a trattenerlo, era già sull'uscio, dove il dottore e Ruggero gli sbarrarono il passo: "Fate la volontà di Dio! ..." gli diceva il dottore. "Non le turbate l'estremo passaggio!" Patrizio strinse i denti, die' una scossa con tutta la persona" quasi a comprimere l'ambascia che lo faceva contorcere come un serpe; e promettendo, più che con le parole coi gesti, di far ogni sforzo per contenersi, supplicava desolatamen- te che lo lasciassero entrare. Supina, col petto che si sollevava e si abbassava pel respiro affannato, con gli occhi intorbidati, spalancati e fissi nel vuoto, il viso disfatto, il naso filiginoso, l'inferma rantolava stancamente a intervalli, che di mano in mano diventavano più lunghi e più strazianti. Nella camera, silenzio profondo. Patrizio era caduto in ginocchio davanti al letto, inebetito, con le mani giunte in atto di preghiera; e a quella vista si erano inginocchiati anche gli altri, tranne Eugenia e Giulia che la sosteneva da un lato. Eugenia si sentiva trattenuta in piedi dal fascino delle torbide pupille della morente che le parevano fissate intensa- mente su lei, piene del loro ultimo cruccio, quasi maledicenti insieme con quel rantolo che le sembrava parola. "No! No! ... Perché? ... Mamma, perché?" avrebbe voluto gridarle. Ma la sua lingua era legata. Sopraffatta da un orrore nuovo, Eugenia sentiva in tutto il corpo il rapido ridestarsi del suo male, creduto domato; e tremava, tremava senza poter distogliere lo sguardo dalle torbide pupille che lo evocavano su, con terribile malia, da tutte le parti del suo corpo, dove la cura del dottor Mola lo aveva già ricacciato. "No! No! Oh, mamma! ... Perché? Perché?" Portò le mani alla gola per tentar di sciogliere il nodo da cui si sentiva soffocata, e si rovesciò indietro con un ranto- lo che si confuse con l'ultimo fioco rantolo della morente. Patrizio non sentì niente, nè vide Giulia e Ruggero portar via la povera Eugenia che si agitava violentemente. I suoi sguardi eran rimasti inchiodati sul volto, immobile e senza vita neppure negli occhi, di colei che era stata la prima, la più grande, l'unica adorazione del suo cuore. Non poteva affatto persuadersi che già fosse cadavere; e gli pare- va impossibile che, dopo così terribile scena, egli potesse ancora continuare a vivere e a pensare! Non piangeva, non diceva nulla, restava là in ginocchio, con le mani giunte, opponendo tutta la inerzia del suo corpo affranto al dottore, a Zuccaro e a Griffo che volevano portarlo via. E rifletteva, come in vaneggiamento muto: "Morta! Morta senza potermi dire una sola parola! Morta, forse, senza aver sentito la mia voce! Morta in questo mo- do, quasi abbia voluto andarsene per sempre col broncio, con la collera che mi ha mostrato fino a pochi giorni fa, ineso- rabile, implacabile! Che orrore!" "Rassegnatevi! Fate la volontà di Dio!" gli ripetè il dottor Mola prendendolo per le braccia. Il pianto gli scattò dal cuore tutt'a un tratto, e singhiozzando "Mamma! Mamma!" si rizzò per coprire di baci e ba- gnare di lacrime la squallida faccia della venerata sua morta.

Patrizio, che aveva già chiusi gli scuri della finestra, non sapeva staccar gli occhi da Eugenia, distesa abbandonata- mente sul letto, nell'abbattimento che segue le crisi nervose. "Animo tranquillo, soprattutto" soggiunse il dottore, tirandolo dolcemente fuori della camera. "Dicevate che questa è la prima volta che le accade e per un dispiacere insignificante. Può anche darsi che sia sintomo ..." Patrizio rispose di no con lieve cenno della testa. "Vedremo" riprese il dottore, contraendo te labbra a un sorriso. "Tornerò questa sera, per precauzione. Siamo vici- ni." Eppure Patrizio avrebbe voluto trarlo in un angolo, fargli una lunga confidenza e consultarlo su molti punti scabrosi. Quel vecchietto (di semplicità affatto antica, di cultura poco ordinaria per medico di paesetto), conosciuto nell'occasione d'una delle solite ricadute della signora Geltrude, poco dopo il loro arrivo a Marzallo, e poi riveduto per la stessa ragio- ne parecchie altre volte, era arrivato a ispirargli fiducia. Patrizio sentiva già rimorso di avergli detto che l'accesso nervo- so di Eugenia era stato cagionato da un dispiacere insignificante. Pure, anche sollecitato da questo pungolo, non riusciva a pronunziare la parola: Senta! che gli si agitava su la punta della lingua da un quarto d'ora. Era sopraffatto dal pudico ritegno di svelare a un altro, quantunque fosse un dottore, quasi un confessore, i più intimi segreti dell'anima sua, cosa sacra! Intanto il pensiero del risveglio di Eugenia lo rendeva ansiosissimo. Ella avrebbe ricominciato! Gli pareva che con quella crisi nervosa si fosse chiuso il felice ma troppo breve intervallo della sua pace domestica, e iniziato un avvenire di lotte intestine fra tre esseri che avrebbero dovuto amarsi, anzi adorarsi mutuamente nella dolce solitudine che li acco- glieva. Ah! Quel cattivo presentimento non lo aveva ingannato. Lo scongiuro col prezioso vasetto arabo non era giovato a niente! Diede qualche indicazione ai commessi e rientrò presso Eugenia in punta di piedi. Ella riposava tuttavia. Davanti al- la giacente, abbattuta dalla crisi che l'aveva scossa come vento furioso i rami di un alberetto, Patrizio si sentì risalire dal fondo del cuore la viva indignazione prodottagli dalle dure parole di sua madre. Che? Alla vista di quella povera creatura, le viscere non le si erano mosse a pietà, se non per lei, almeno per lui che le gridava soccorso? Dunque, la odiava davvero! E perché mai? Se lo domandava, come la povera creatura che poc'anzi ne aveva pianto. Che terribile crollo! E assieme con la sua pace, sentiva già crollare quella ch'era stata la colonna maestra della sua vita: la gran riverenza per la madre! Quando sua madre gli aveva fatto sorda opposizione perché non prendesse moglie; quando si era mostrata prima fredda, poi ostile alla persona che pure avrebbe dovuto esserle cara perché carissima a lui, egli aveva trovato una ragione: la cecità dell'amor materno! Ma questa volta l'istinto materno gli pareva proprio brutale; ben più che brutale, spietato. Al cospetto di una creatura che soffre, al cospetto del proprio figlio che invoca soccorso per lei, arrestarsi e poter dire freddamente: "Vedi! Non m'ingannavo!" passava il segno. Il suo cuore si ribellava. Occor- reva intendersi, e subito; stabilire un modus vivendi da rendere possibile la loro esistenza. Egli avrebbe avuto il coraggio di provocare una spiegazione, e affrontarla, rispettosamente, sì, ma con forza, senza mezzi termini. Era suo dovere di figlio e di marito. Se si fosse risoluto prima, forse quel che accadeva sarebbe stato evitato. Debole, per rispet- to filiale, ora non voleva essere più tale. "Forse è bene che le cose siano state spinte all'estremo. Si eviteranno nuovi equivoci." Passeggiava affrettatamente per la camera, volgendosi spesso dalla parte del letto, passandosi la mano tra i capelli, tirandosi la punta della barba, arrestandosi a un tratto, quasi per domandarsi se tutto quell'orrore non fosse poi maligno prodotto della sua immaginazione alterata. Era realtà! Guardava attorno per la cella bianca, semplicemente arredata; e il silenzio, nella penombra, gli faceva sinistra im- pressione. A intervalli gli arrivavano, a traverso gli usci non ben chiusi, gli scoppi di risa dei commessi, o il rumore d'una lor breve disputa, che lo respingeva, quasi con un urto, alla coscienza della propria condizione di funzionario, ai minuti par- ticolari delle cose di ufficio: un lavoro da sollecitare, la Commissione per la ricchezza mobile da convocare, un'ispezio- ne da intraprendere; lampi che gli guizzavano nel cervello e si estinguevano subito, per abbandonarlo alla ruota di tortu- ra che forse non si sarebbe arrestata più mai! Già ripensava alla madre, che frattanto se ne stava di là, in camera sua, so- la sola, ruminando livore contro la nuora; probabilmente anche irritata contro di lui per quel: "Mamma!" strappatogli dalla indignazione nel terribile momento. "Ha torto. Glielo dirò in viso!" esclamò, accompagnando allo scatto della voce un vigoroso gesto della mano. Avea preso una risoluzione. E picchiò all'uscio. Al cospetto della madre, emaciata, più che dagli anni, dalle sventure patite; che era stata bella, ma che della bellezza serbava traccia soltanto nella severità dei lineamenti, accresciuta dallo squallore della carnagione e dalle rughe, tristi impronte lasciatevi dalla cattiva sorte, Patrizio comprese d'un tratto che avrebbe avuto torto lui, se avesse parlato come si era proposto. La signora Geltrude, che non aveva mai smesso il lutto, raggrinzita in quel punto su la vecchia poltrona testimone di tutti i suoi dolori e di tutti i suoi pianti inconsolati, aveva appena voltato la testa e appena appena levato verso di lui gli occhi socchiusi, con mossa interrogativa, diffidente; e questo gli spense ogni sdegno, gli aggelò la parola nelle fauci, gli fece abbassare la fronte come a un colpevole. "Mamma!" egli disse, accostandosele a mani giunte. "Perdonami!" Ella brontolò a mezza voce parole inintelligibili, aprendo gli occhi per guardarlo in viso. Parve si attendesse qualcos'altro. Vedendo che suo figlio continuava a tacere, abbandonò di nuovo il capo su la spal- liera e tornò a socchiudere gli occhi. Patrizio era meravigliato e deluso di non sentirsi domandare: Come sta Eugenia? o tua moglie, colei, in qualunque modo ella avesse voluto chiamarla! "Non mi hai perdonato! Non vuoi perdonarmi!" scoppiò a dire. "Oh, mamma! E non ti accorgi che così mi fai patire pene d'inferno?" Ella si rizzò lentamente su la vita, appoggiò le mani alle ginocchia, inarcando le braccia, e, con labbra tremanti, ri- spose: "E le mie sono forse pene da nulla? Ti sei lasciato stregare! ... Sei tutto suo! Io non conto più niente per te!" "Come puoi immaginarlo, mamma?" "Non lo immagino, lo vedo. Avete dei segreti, ve li andate susurrando all'orecchio qua e là, evitando la mia presen- za, cogliendo ogni più lieve pretesto per evitarla. Sono di troppo - l'ho capito - non per te, no, per colei. Ma non posso andarmene via, per farle largo. Il Signore non mi vuole; mi lascia qui, in castigo de' miei peccati, forse; forse, pe' suoi disegni che non possiamo sapere. Dovrete sopportarmi ancora un po'. Poi sarete liberi; sarete pur liberati di questa in- cresciosa!" "Che mai dici, cara mamma!" "La verità, l'evangelo. E non me ne curerei, se si trattasse di me soltanto. Sono cosa inutile oramai, spazzatura da buttare in un canto!" "Che mai dici, mamma! Che mai dici!" replicava Patrizio, cacciandosi le mani tra i capelli, inorridito di sentirla par- lare a quel modo. "Ma penso a te! Penso a te!" ella continuava imperterrita, scrollando il capo. "Tu non ti guardi allo specchio, o ti guardi così di sfuggita da non poter accorgerti quanto sei mutato e invecchiato da sei mesi! Non potresti riconoscerti. Lei se lo beve il tuo sangue! Lei se l'assorbisce la tua carne, il midollo delle tue ossa, la tua vita! ... Io sono impo- tente a lottare con lei. È giovane, è bella, è amata. Ti ha stregato! Che posso più fare io? Ti avvertii in tempo; ti ho av- vertito dopo; ti ho sempre ripetuto: "Bada! Bada!". Non mi hai dato mai retta; hai fatto sempre a modo suo. Che preten- de, più di quel che ha ottenuto? Vorrebbe forse che io le dicessi: "Mi hai tolto il figliuolo; grazie! Mi divori il figliuolo; grazie! grazie!". Tu intanto, non che essermi grato, mi credi esaltata - l'hai detto una volta! - e prendi parte in favore del vampiro che ti succhia il sangue! E vieni qui ..." "Zitta! Zitta, mamma, per carità!" gridò Patrizio. "Mi sento impazzire." Si teneva strette le tempie tra le mani, quasi a impedire che gli scoppiassero. Aveva avuto in vita sua molte tremende giornate. Si era visto più volte l'abisso della miseria spalancato sotto i piedi, pronto a inghiottire sua madre, lui, la sua giovinezza, il suo avvenire, e quando più gli era parso che una buona speran- za, dopo mille sacrifizi e mille stenti, fosse sul punto di realizzarsi. Il dolore del disinganno e il terrore del presente gli avevano atterrata ogni forza vitale, quasi spezzata la intelligenza; e gliene sovveniva spesso il ricordo, dopo che la pro- tezione d'un vecchio amico del padre, fedele anche nella sventura, gli aveva inaspettatamente tesa quella tavola di sal- vezza del posto di Agente delle tasse, traendolo fuori della tempesta, fuori d'ogni angustia giornaliera. Ma cercava inva- no nei ricordi una terribile giornata come quella, uno scoppio così improvviso di circostanze da nulla, da cui veniva prodotta tale rovina, che egli si sentiva soccombere sotto le macerie, senza speranza di aiuto. E tornava a premersi le tempie, ripetendo: "Mi sento impazzire!" Stette così qualche istante, poi lasciò cadere le braccia, desolatamente; e buttandosi ginocchioni davanti a la mam- ma, le prese le mani e cominciò a baciargliele, dicendo con voce interrotta: "Abbiamo torto tutti e tre! Non c'intendiamo! Non ci siamo mai spiegati! Ne riparleremo più tardi. Intanto, lasciamo che gli animi si calmino. E allora tu, mamma, vecchierella mia, santa mia, ti avvedrai che non solo non hai quasi perdu- to il figlio, come ti figuri, ma ne possiedi due, che ti vogliono bene egualmente ... due, due! Te ne avvedrai! ..." Nè si voltò indietro, per non veder il crollar continuo di quella grigia testa, che gli rispondeva ostinatamente: No! Noi No! Eugenia riposava ancora. Dorata, la vecchia serva, era venuta a sedersi a piè del letto, con le mani incrociate sul seno, la testa moresca, coi ca- pelli arruffati, un po' abbandonata su la spalla, con le labbra aggrinzite ancora dallo stupore di quel che aveva visto e che non sapeva spiegarsi. Vedendo entrare il padrone non si mosse. Si era già abituata a non parlare senza essere interrogata; e al cenno di Pa- trizio si levò dalla seggiola e uscì nel corridoio. Patrizio, per non far rumore, prese il posto di lei, accavalciò una gamba su l'altra, stese un braccio lungo la sponda del letto, e stette ad attendere che Eugenia si destasse. Il terrore di quel risveglio gli faceva strizzare gli occhi di tanto in tanto. "Che cosa dirle? Come farle intendere la strana gelosia della mamma? ... Ah, mamma! Ah, mamma!" E poc'anzi gli era sembrato di essere tanto forte da poter ribellarsi a quel giogo che lo avea domato e lo riduceva un fanciullo. Si era rallegrato innanzi tempo. Un senso di compassione e d'intenerimento per lei già gli s'insinuava nel cuo- re. "Povera mamma! È vissuta tutta per me! Non sa rassegnarsi a spartire con un'altra l'affetto dell'unico figlio! ... Fissazione! Debolezza! Come fargliene una colpa?" E si accusava: "Sono stato egoista! Avrei dovuto sacrificarmi a lei, far tacere ogni mio sentimento; ubbidire a occhi chiusi. Avrei sofferto io soltanto. A quest'ora, probabilmente, non soffrirei più ... Signore Iddio! È così difficile la vita?" Cominciava a comprendere che l'isolamento, le sventure, fin gli studi, fuori d'ogni personale esperienza, eran serviti a falsargli la prospettiva della realtà, a renderlo impotente a qualsiasi lotta. La fragile creatura stesa là, prostrata dalla crisi nervosa, ne sapeva più di lui; vedeva chiaro, vedeva giusto; possedeva il senso pratico della vita, che a lui mancava affatto. E perciò s'era rivoltata, proclamando il suo diritto: "Ora sei mio! Ora sei mio!". Si ingannava però, rimprove- randogli: "Picchio, e non mi senti! Chiamo, e non mi rispondi!". Se la sentiva! Se gli affluivano pronte alle labbra le af- fettuose risposte a quegli appelli! Forse egli aveva preso troppo alla lettera le parole del medico, consultato avanti il ma- trimonio, intorno al temperamento di lei, allorché la mamma gli aveva detto: "Cieco! Cieco! Non t'accorgi ch'ella è un viluppo di nervi?". Il medico aveva sorriso, alzando le spalle: "Chi non è nervoso a questi lumi di luna? Le donne poi, caro signore, son diventate oggetti fragilissimi, da maneggiare con cautela, se non vogliamo vederceli rompere fra le dita!". Egli s'era contenuto e si conteneva per questo! Ed ecco le belle conseguenze! Ogni istante che passava accresceva il suo turbamento. I tocchi delle ore, che la soneria guasta dell'orologio del campanile ripeteva affrettatamente, due, tre volte di seguito, lo facevano sobbalzare, quasi gli martellassero dentro il cervello. "E se la crisi nervosa si rinnova? Se è segnale di terribile malattia! ... Se la mamma ha ragione? ... No: il male non avrebbe atteso sei mesi prima di manifestarsi." E si consolava osservando che il volto di Eugenia aveva ripreso l'aspetto ordinario. La respirazione era placidissima; il sonno le coloriva i pomelli delle guance con lieve tinta incarnatina; le labbra sembrava sorridessero a qualche dolce fantasia che le appariva in sogno. La mano posata sull'orlo del guanciale, presso la faccia, era un atto di carezza. "Buona creatura! Le devo tanto! Mi son sentito così felice nel legarmi a lei per tutta la vita! Bisognerà però affrettar- si a consultare il dottor Mola, e dirgli tutto, tutto! senza sciocchi ritegni." Eugenia aperse gli occhi. Pareva stupita di trovarsi mezza discinta sul letto; e, rizzàtasi sopra un gomito, guardava attorno confusa e vergo- gnosa, cercando di raccapezzarsi, di rammentare. "Che è stato? Mi è venuto male?" "Oh, cosa da niente!" s'affrettò a dire Patrizio. Le accarezzava il viso, le ravviava i capelli, domandandole: "Come ti senti?" "Fiaccata, con le ossa rotte! ... Apri gli scuri ... Ah!" Ricordava. Patrizio, tornando presso il letto, la trovò col viso nascosto fra le mani, singhiozzante. "Eugenia!" "Lasciami! ... Lasciami stare!" "Vuoi proprio ammalarti?" "Che cosa posso farci? Non so resistere!" ella rispose, asciugandosi gli occhi e ricacciando indietro le ciocche dei capelli in disordine. "Non pensarci, divagati!" cercava di persuaderla Patrizio. "Ne ragioneremo dopo, quando sarai tranquilla. Allora soltanto potrai comprendere ... Riderai di te stessa, come ne rido io, vedi? Ne rideremo insieme." "La mamma?" ella domandò, esitante, avendola cercata invano con lo sguardo. "È in camera sua. Non sta bene, al solito ... Manderò a chiamare il dottor Mola ... Sentendo che t'era ve- nuto male, ella accorse qui ... subito! ... Fu tutt'a un tratto. Non hai dovuto avvedertene. La commozione, l'agitazione ... E sei caduta fuori di sensi tra le mie braccia! ... Anche per debolezza, dice il dottore ... Che? ... Non ti sei neppure avveduta del dottore un'ora fa? Sai? ... Egli sospetta ... Fosse vero! ... Non alzarti da letto, riposati ancora un pochino. Dovresti prendere una buona tazza di brodo. È pronto. Ti farà bene. Più tardi? ... Quando tu vorrai." Parlava affrettatamente, per sviare il discorso e non darle tempo di scorgere l'imbarazzo prodottogli dalla sua con- traddizione a proposito del dottore. "Temo" egli continuava "che tu non soffra, sopra tutto, per la solitudine in cui viviamo." Eugenia fece un cenno negativo con la testa: "Ero abituata così a casa mia. Uscivamo raramente; la domenica soltanto, per la messa. Tu lo sai: visite poche, pas- seggiate pochissime, appena tre o quattro, d'estate, nelle sere più calde." "Avevi però le tue sorelle, così allegre e chiassone!" "Non mi divertivo a quel chiasso loro." "E qui sei sola affatto." "Se la mamma si mostrasse un po' più buona!" rispose Eugenia dopo breve pausa. "Non badare a lei, te ne prego! È buona a modo suo. Prendila com'è." "Questo volevo fare! È stato impossibile. Anche tu ..." Al gesto d'impazienza sfuggito a Patrizio, che alzò gli occhi alla volta reale della cella, Eugenia si levò rapidamente, si mise a sedere sul letto; e posate le mani su le spalle del marito, lo guardò fisso in faccia, con aria d'affettuoso rimpro- vero: "Ascoltami, non sdegnarti! ..." Ma egli la interruppe; e, presàla pei polsi, portò le care mani alle labbra: "Sono diacce!" "Ascoltami" ripetè Eugenia, senza tentare di ritrarle. "Quando tu, col viso di chi dà una cattiva notizia, venisti a dirmi: "Ufficio e alloggio sono in un convento!" te ne ricordi? io ne fui così contenta, che tu mi guardasti stupito. Non ti ho mai spiegato il perché di quella mia contentezza. Voglio dirtelo ora. Pensai subito: "In un convento saremo più liberi che non nella piccola casa di Castroreale, o in qualunque altra". E di mano in mano che tu me lo descrivevi, immagina- vo le nostre future scappate pei corridoi, per la selva, per la terrazza, senza la continua sorveglianza della mamma, che mi pareva inceppasse ogni tuo movimento e metteva in disagio anche me ... Nelle prime settimane fu proprio così. Avevo fin dimenticato le cattive impressioni di Castroreale. Ma la mamma non tardò molto a riprendere il suo primo contegno. Qui, in un edifizio così vasto, doveva apparirmi più chiara l'avversione di lei, perché qui si vedeva benissimo ch'ella faceva ogni cosa a posta, per farmi dispetto, per farmi capire ..." "No! No!" disse Patrizio, baciandole ripetutamente le mani. "Che guardi?" domandò Eugenia, vedendolo fermare all'improvviso. "È strano ..." egli rispose. "Si direbbe che tu te le sia stropicciate con la zagara ... Ma non è la stagione. Hai forse un profumo di fiori d'arancio?" "Lasciami sentire ..." Ella voltava e rivoltava le mani, odorandone la pelle come un fiore. "È vero: pare che io abbia toccato della zagara e che me ne sia rimasto l'odore ... Si avverte appena però ..." "Anzi, al contrario! Senti? ... Anche ai polsi ..." soggiunse Patrizio ... E tirò in su, curiosamente, una manica di lei fio al gomito. "Pure al braccio!" esclamò, meravigliato. "Senti, senti!" Eugenia si strinse nelle spalle: "Sarà stata la lavandaia, che avrà voluto profumarmi la biancheria ..." "Può darsi." "Dunque, come ti dicevo ..." ella cercò di riprendere. Patrizio portò rapidamente l'indice della mano destra alle labbra per significarle: Silenzio! "Animo tranquillo e buon brodo, ha raccomandato il dottore!" E affacciatosi all'uscio che dava sul corridoio, chiamò: "Dorata! Dorata!" Eugenia persisteva nella sua idea. Finito di sorbire la tazza di brodo recata dalla donna, messasi a sedere su la sponda del letto, ravviata la veste e pas- sàtesi le mani sul volto, attirò Patrizio tra le ginocchia, cingendogli le braccia attorno il collo. "Bada!" gli disse. "Io non cedo. Non ho ceduto ai miei, quando mi agitavano dinanzi a gli occhi lo spauracchio di una vita randagia, senza nessuna sicurezza per l'avvenire; non cederò, mettitelo in mente, nemmeno con tua madre!" "In che cosa dovresti cedere? ..." Egli affettava un tono di gentile canzonatura, per mascherare l'agitazione che le parole di lei gli producevano. "Intendo" riprese Eugenia seria seria "intendo: che voglio esser libera, con libertà santa e giusta, si capisce! Intendo che ti voglio sincero con me, come da un pezzo non sei più, sì, come da un pezzo non sei più! Mi credi tanto stupida da non capirlo?" E all'improvviso gli si abbandonò con la fronte sul petto, mormorandogli quasi in tono di preghiera: "Pensa che ora non ho altri che te! Pensa che tu sei tutto per questa povera creatura che ti vuol bene! Oh Patrizio! Il mio cuore è uno specchio così limpido che neppure il fiato l'appanna ... Puoi mirarviti quando tu vuoi! Sul tuo cuore, invece, c'è spesse volte un velo grigio, che m'impedisce di vedervi bene quando più avrei bisogno di vedervi be- ne. Non ce lo voglio! Strappalo! Che cosa chiedo infine? Se io ti sentissi sincero, non mi curerei di nient'altro! Hai forse qualche doloroso segreto? ... Mettimene a parte; voglio soffrire assieme a te!" "Vedi come ti ecciti? ... Come esageri? ..." E sollevandole la testa, soggiunse: "Dammi una prova del tuo amore, Eugenia; te ne scongiuro, non tornare su questo soggetto, almeno per ora! Ti fa male; fa male anche a me ..." "Non ne parlerò ... Ma ... sarai tu sincero da oggi in poi?" "Sì, sì, come sempre! ..." "Proprio sincero? ..." "Sì!" "Ebbene ... allora ..." ella riprese lentamente, fissandolo, "allora dimmi ... perché ... la mam- ma ... No, non voglio saperlo! Me lo dirai quando ti parrà!" E gli si avvinse di nuovo al collo, arrossendo di essersi così presto contraddetta, e ripetendo con voce soffocata: "Non voglio saperlo! Non voglio saperlo!"

Racconti 1

662663
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1877
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
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Al tocco dopo la mezzanotte Alberto era ancora al club disteso sul canapè, con le gambe allungate, con le braccia incrociate sullo stomaco e la testa abbandonata sulla spalliera. - Un poema, caro amico! - gli diceva sotto voce il Cardini. - Un vero poema! È arrivata in casa mia alle tre e mezzo, inaspettata, come un'apparizione ... - Cardini parlava da una mezz'ora, profondendosi in esclamazioni, perdendosi in un lirismo di frasi e di gesti da far comprendere, povero diavolo! che aveva bisogno di uno sfogo perché la sua felicità non lo uccidesse ... Ma appena aveva inteso pronunziare il nome della signora Moroni, Alberto si era inabissato in una rêverie cosí profonda da non sentire una sola parola delle confidenze del suo amico. Milano, 15@ 15 dicembre 1877@. 1877.

Racconti 2

662724
Capuana, Luigi 2 occorrenze
  • 1894
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
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Aldo avea cinto col braccio la vita di Elvia, ed ella si era abbandonata carezzevolmente col capo su la spalla di lui. Tutt'a un tratto, ella trasalí. - Che cosa è stato? - Niente ... Non so! - Intanto spalancava gli occhi spauriti, voltandosi a guardare nella stanza già invasa dall'oscurità. - Insomma? ... - fece Aldo. - Un brivido per tutta la persona, come se qualcuno mi avesse posato una mano diaccia su la spalla. - Chi sa che cosa fantasticavi! - Non pensavo niente, guardavo fuori. - Facciamo accendere i lumi -. Tutta la gran luce che due lumi diffusero poco dopo nel salotto non valse però a rassicurarla pienamente. Avevano ripreso la continuazione della lettura interrotta. Aldo leggeva ad alta voce, alzando, di tratto in tratto, gli occhi in viso a Elvia, che coi gomiti appoggiati sul piano del tavolino e col mento sul dorso delle mani congiunte, stava ad ascoltare. Evidentemente era un po' distratta. Due o tre volte, Aldo aveva notato che ella, pur restando immobile, girava le pupille attorno, con aria di diffide nte paura; e credette opportuno di sgridarla con dolce severità. - Non sei una bambina! ... Eh via! ... O ti senti male? - Sarei proprio imbarazzata - rispose Elvia - se dovessi spiegarti quel che provo ... Ora voglio dirtelo - soggiunse: - Ho provato qualcosa di simile sin dalla prima sera che arrivammo qui, nell'intervallo che tu, sceso a parlare col mezzadro, dovesti lasciarmi sola per qualche istante. - Che cosa provasti? - Un senso di freddo, come al contatto di persona disaggradevole ... invisibile. - Oh! ... - Sarà una ridicolaggine ... che vuoi che ti dica? ... Anche tu? ... - esclamò Elvia, vedendo diventare serio serio il marito e prendere l'atteggiamento di chi sta in osservazione di qualcosa d'insolito. Aldo tardò a rispondere. - Anche tu? - ella replicò afferrandolo, atterrita, per una mano. - Volevo spiegarmi - disse Aldo con qualche imbarazzo - che cosa può mai averti prodotto tale strana suggestione in questo salotto. La vecchia consolle? Lo specchio? Quei quadri anneriti e dai quali non si è potuto togliere la polvere resa aderente dal tempo e dall'umido? Il soffitto troppo alto? La tappezzeria nova delle pareti? I nervi di una giovine signora sono impressionabilissimi, la immaginazione troppo facile ad essere eccitata ... - Ma, cosí parlando, Aldo nascondeva a stento che aveva in quell'istante anche lui un'indefinibile sensazione di malessere, precisamente come pel contatto di persona disaggradevole, invisibile. Chiuse il libro, si alzò da sedere, e sforzandosi di sorridere, disse a Elvia: - Non piove piú! - E aperse la finestra. Il cielo era sereno. Le nuvole si addensavano sui monti in fondo all'orizzonte, e la luna inondava con la sua luce argentea la campagna, che esalava l'odore speciale dei terreni bagnati da pioggia recente. Richiusa l'imposta, egli prese Elvia sottobraccio, e la condusse nella sala da pranzo. La tavola era già apparecchiata per la cena. - Com'è curiosa questa villa, di sera! - esclamò Nannina, la donna di servizio, portando in tavola. - Perché dite cosí? - domandò Elvia. - Mah! ... - fece Nannina. - Anche lei? - pensò Aldo. Egli si era rammentato di un libro inglese letto anni addietro, col quale si pretendeva di dare una prova scientifica dell'immortalità dell'anima e dell'esistenza di Dio. L'autore, o gli autori - erano due, se mal non ricordava - credevano di aver dimostrato che fin i piú impercettibili movimenti del nostro pensiero, non che gli atti e le parole, vengono registrati e fissati nell'universa materia cosmica come sur una lastra fotografica, anzi meglio che su una lastra fotografica. E da questa nozione rimastag li chiara nella mente, rannicchiato nel suo cantuccio di letto e fingendo di dormire, egli era venuto fantasticando, durante la nottata, una probabile spiegazione di quel fenomeno ormai innegabile perché avvertito contemporaneamente da tre persone. Le pareti di quella casa dovevano essere certamente sature di misteriosi fluidi, di pensieri e di atti là registrati, e con tale forza da produrre terrificanti sensazioni rivelatrici. Gli erano rivenute alla memoria le notizie del mezzadro intorno all'abbandono i n cui i padroni lasciavano quella villa da anni ed anni, senza mai venire a darvi una fuggevole occhiata. Ora gli sembrava di non aver notato allora certe esitanze nelle risposte del mezzadro e della sua moglie, e si proponeva di interrogarli quella mattina, prima che Elvia si alzasse da letto. E durante la lunga nottata insonne non gli era anche parso di sentire una specie di formicolio dappertutto, nelle pareti, nella volta, dietro gli usci, nelle stanze accanto; un formicolio sordo sordo, che l'orecchio non percepiva ma che intanto non gli sembrava meno reale, quantunque percepito dai nervi di tutto il suo organismo quasi per immediato contatto? Egli s'interessava molto, da un anno in qua, di certi fenomeni di cui soltanto da poco tempo alcuni scienziati osavano spregiudicatamente di occuparsi, e cominciava a sospettare di trovarsi di fronte a qualcuno di tali fenomeni; giacché non poteva credere di essersi lasciato vincere dalla nervosità di Elvia e della donna di servizio per suggestione di seconda mano. - Hai dormito bene? - gli domandò Elvia vedendolo saltar giú dal letto. - Ho fatto tutt'un sonno. E tu? - Io non ho chiuso occhio. C'è mancato poco che non ti svegliassi. - Perché? - Non sgridarmi; avevo paura. - Ancora? - egli esclamò, fingendo di mostrarsi un po' in collera per questa debolezza femminile. - Intanto che tu ti vesti - poi soggiunse - scendo a fumar un sigaro all'aria aperta. Ti mando Nannina -. Non aveva potuto cavar nulla di bocca ai mezzadri. Quando essi avevano preso quella mezzadria, la villa stava chiusa e abbandonata da un pezzo. - Giacché i padroni non se ne curano, perché non abitate le stanze superiori? - Queste a terreno, capisce, sono piú comode per noi. - E dite, prima di me e della mia signora, nessun altro ha preso in affitto la villa? - Sí, quattro anni addietro, due forestieri, un vecchio con la figlia, bellissima creatura, che volle andar via dopo una settimana. - Perché? - Lo dissero forse; ma chi li capiva? Scapparono quasi, brontolando, facendo certi gesti! Già quel vecchio doveva essere mezzo matto. Andava attorno da mattina a sera, raccogliendo erbacce, riportandone a casa mazzi, fasci interi. La figlia dipingeva -. La giornata passò tranquilla. Elvia ed egli avevano quasi dimenticato le tristi impressioni della sera avanti, perché le stanze illuminate dal sole, assumevano durante il giorno aspetto gaio. Ma la sera, dopo il tramonto, sembrava si trasfigurassero; e non valeva l'accendere molti lumi. Qualcosa d'indefinibile, d'inesplicabile vibrava dalle pareti, dagli oggetti; si sarebbe detto anche dall'aria che vi circolava. Elvia, per vergogna di apparire bambinescamente paurosa, non osava di manifestare ad Aldo l'opprimente sensazione che la invadeva; ed Aldo si guardava bene dal confessarle la repugnanza che gli ispirava, di sera, tutta la casa, in qualunque stanza essi si intrattenessero fino all'ora di cenare e di andare a letto. Elvia si stringeva a lui, voleva esser presa tra le braccia, quasi per trovarvi un rifugio; ed egli era contento di tenerla cosí, di accarezzarla, di baciarla, di mormorarle dolci parole a interva lli ... Giacché, a mano a mano che la sera piú s'inoltrava, essi si sentivano costretti a restare silenziosi; e avevano ancora - pensavano - tante dolci cose da dirsi in quelle ore di raccoglimento, in mezzo alla gran pace della vasta campagna! Aldo non poteva piú dubitare che si trattasse di sensazioni reali. Elvia era un organismo solido, ricco di salute, come lui. Egli, è vero, si era occupato di fenomeni anormali, ma solamente leggendo quel che ne scrivevano, pro e contro, scienziati d'alto valore. Non si era mai provato a osservare direttamente, quantunque spesso invitato da persone che volevano iniziarlo ai misteri del magnetismo e dello spiritismo. Elvia lo aveva qualche volta graziosamente punzecchiato per questi suoi studi, mostrandosi pi uttosto incredula che no. Egli non poteva per ciò supporre che quel che essi e Nannina sentivano nella villa provenisse da eccessiva nervosità o da preconcetti capaci di alterare le ordinarie funzioni dei loro sensi. Avevano trascorso la intera giornata vagando per la campagna. Fatto colazione in una vaccheria, si erano inoltrati per sentieri e sentieroli verso le colline, cogliendo bellissimi fiori selvatici, fermandosi, per riposarsi, nelle case dei contadini incontrate qua e là, prendendo istantanee coi loro Kodak, fotografando ognuno un punto di vista diverso per sfida di vedere chi di loro due avrebbe saputo scegliere il paesaggio piú artistico; ed erano tornati tardi alla villa, un po' stanchi ma contentissimi del la bella escursione, e leticando allegramente intorno ai resultati delle pellicole dei rispettivi Kodak. Peccato che bisognasse attendere il ritorno a Roma per svilupparle! Intanto si erano seduti a tavola con grand'appetito, quantunque la cena non fosse ancora pronta. - Hai sonno? - domandò Aldo, scorgendo che sua moglie stentava a tener aperte le palpebre. - Elvia! ... Elvia! ... - egli gridò vedendole travolgere gli occhi fino al bianco. Ella non rispondeva. Rigida, eretta sul busto, con gli occhi chiusi e le sopracciglia corrugate, sembrava guardasse attentamente e vedesse a occhi chiusi. Aldo capí subito che si trattava d'un caso di catalessia spontanea e ne fu atterrito, non potendosi render conto della cagione da cui veniva prodotto, né delle conseguenze che avrebbero potuto seguirne. E continuava a chiamare, scotendola pel braccio: - Elvia! Elvia! - osservando ansiosamente gli atteggiamenti ch'ella prendeva quasi assistesse a uno spettacolo che la faceva inorridire. Poi le labbra di lei si agitarono; suoni inarticolati le uscirono di bocca. In piedi, con le mani sporte in avanti, ella indietreggiava, voltando il capo da una parte come per evitar di vedere. Diè un grido, cadde tra le braccia di Aldo che furon pronte a riceverla ... E riaperse gli occhi. - Perché? - domandò, stupita. - Ti sei lasciata sorprendere dal sonno - balbettò Aldo per non spaventarla. - Volevo metterti a giacere sul canapè -. Elvia non si rammentava di niente. Che cosa avea visto? Aldo non glielo domandò. Ma egli era ormai certo che in quella villa era dovuto accadere qualche terribile tragedia rimasta ignorata. Le pareti vibravano terrore. Si sentiva sopraffare anche lui dalla misteriosa forza ogni giorno piú. Sarebbe soggiaciuto alla catalessi pure lui? Con sua grande meraviglia, quella sera Elvia fu tranquillissima. Non mostrò di sentire nessuna impressione di paura durante la cena né dopo. Fu anzi piú allegra del solito; se non che, tutt'a un tratto, nell'alzarsi da tavola domandò - Dimmi: dove ho letto o dove ho veduto rappresentare ... - Che cosa? - È strano! - ella esclamò dopo breve pausa. - Mi torna in mente una scena di non so piú qual dramma, di non so piú qual capitolo di romanzo ... Come mai mi ritorna in mente cosí viva, cosí fresca, quasi l'avessi letta recentemente o veduta rappresentare? - Quale scena? - Mah! ... È strano! Mi sfugge ... Di quel marito che ordina alla moglie creduta colpevole: "Punisciti da te stessa!" E lei non vuol morire di veleno né di pugnale ... E vorrebbe gridare, chiamare aiuto; e urta agli usci chiusi a chiave, e picchia alle imposte delle finestre inchiodate ... e perde la parola e muor di terrore davanti all'inesorabile marito, che l'ha condotta in una villa lontana! ... Dove ho letto questo? O dove l'ho veduto rappresentare? ... È strano! È strano! - Lascia andare! - la interruppe Aldo. - Dimmi piuttosto un'altra cosa: Non ti sei già annoiata di star qui? - No. E tu? - Quell'inatteso fenomeno di serenità mise in maggior sospetto Aldo Sàmara. Gli parve di vedere la sua Elvia in balía delle misteriose forze spadroneggianti nelle stanze superiori della villa abbandonata, e volle sottrarla e sottrar se stesso al loro occulto potere. Tornati a Roma, egli soffrí per qualche tempo l'irragionevole ossessione di una malefica influenza che avrebbe nociuto a tutti e due; ma, dopo alcuni mesi di chiusa ansietà, ebbe a convincersi perfettamente che si era ingannato. - Soltanto, accadde - due o tre volte, a lunghi intervalli - che Elvia ripetesse, come quella sera: - Dimmi: Dove ho letto ... O dove ho visto rappresentare? ... È strano! È strano! - Da allora in poi, Aldo Sàmara ha riletto piú volte il libro di quei due scienziati inglesi, e metterebbe la mano sul fuoco per attestare che essi hanno ragione.

Allora egli si lasciava cascare, sfinito, sul vecchio canapè addossato al muro, con le braccia rotte da inesplicabile stanchezza, la testa abbandonata sul petto, e non osava di guardare la maledetta figura che si contorceva, appena abbozzata, col fiero gesto di tirar violentemente in su la massa spiovente dei capelli. E come quella figura ancora informe sembrava soffrisse orrendamente per l'inane sforzo contro la inesorabile fatalità che la teneva impigliata nell'umido blocco di creta dove si disegnavano ap pena le curve del seno, del ventre e delle anche, cosí egli sentiva, ora, di soffrire quanto non aveva mai sofferto, quasi pure il suo spirito si dibattesse impacciato da nodi interiori e non potesse liberamente trasfondersi in quell'opera, che ormai aveva il fascino delle cose vietate o stimate impossibili a esser raggiunte e, ciò non ostante, desiderate e rincorse con indomabile ardore. Immenso fu poi il suo stupore la mattina in cui si accorse che il sentimento di profonda tristezza dal quale veniva torturato da una settimana, non riguardasse se stesso e la inettitudine di raggiungere la giusta forma della sua opera d'arte, ma fosse invece vivissima partecipazione al disperato dolore di quella figura che cominciava a sembrargli persona viva, forse - egli aveva voluto darsi una spiegazione del fenomeno - per l'intensa e lunga contemplazione che gli faceva scorgere nell'opera non finita di abbozzare l'espressione che gli stava in mente e che avrebbe dovuto animarla se egli fosse riuscito a modellarla fortemente. - Ma non riuscirò! - sospirava. Gli sembrava anzi di aver già commesso un delitto, condannando la bellissima creatura - Dove l'aveva vista? Come l'aveva conosciuta? - all'ineffabile tortura di quell'atteggiamento da cui egli piú non si sentiva capace di liberarla. E quest'idea, dapprima parsagli sciocca o pazza, lo penetrava ogni giorno piú, gli dava un senso di rimorso, che però non era senza mistura di compiacimento, giacché non a tutti poteva accadere un caso uguale; ed esso indicava una forza, un potere intelligentissimo in colui che era arrivato, sia pure inconsapevolmente, a quel tentativo. E per ciò egli tornava tuttavia a chiudersi nello studio di buon'ora e ne usciva a sera tarda. Ma chi avesse potuto osservarlo ritto davanti al bozzetto, con gli occhi fissi in esso, e che guardavano e non vedevano, distratti da qualche oscuro fascino dal quale veniva interrotta la corrente di impressioni tra i sensi e lo spirito; chi avesse potuto osservarlo, specie in quegli ultimi giorni, quando stesa la mano verso la figura con un briciolo di creta su la punta dell'indice, egli si arrestava esitante con un tremito nel braccio, quasi temesse di compire una profanazione posando quel briciolo sul nudo corpo della formosissima donna, quantunque la modellatura ne fosse rimasta piú accennata che sviluppata; chi lo avesse, finalmente, osservato nei lunghi intervalli di sosta, buttato sul canapè, col viso contratto, con le mani brancicanti la stoffa di esso in atto di strapparla, non avrebbe mai immaginato che il giovane artista avesse perduto la giocondità di spirito, con cui riusciva gratissimo nei ritrovi e ne lle relazioni sociali, unicamente perché la mancata creazione artistica gli dava la pazza convinzione che una creatura umana soffrisse nell'opera sua. - Dove l'aveva vista? ... Come l'aveva conosciuta? - se lo domandava spesso e inutilmente. Quella mattina, avviatosi per lo studio, aveva indugiato davanti a una vetrina di acqueforti moderne e di riproduzioni fotografiche di capilavori di pittura. - Ah! ... Sei vivo? - E sentí afferrarsi un braccio dalla poderosa mano dell'amico che lo apostrofava con quelle parole. - Che fai? Lavori almeno, o ti sei perduto anche tu dietro qualche gonna, come l'imbecille di Dorini? - Lasciami stare! - rispose Vittorio D'Arèba. - Scoraggiamenti dunque? Tanto meglio. Soltanto gli sciocchi sono contenti di loro stessi. - Se tu sapessi quel che mi accade! - Quel che accade a tutti e che ognuno di noi suppone caso speciale, eccezionale ... Sentiamo! - Giulio Nolli soleva parlare cosí, con aria tra autorevole e beffarda, che lasciava incerti coloro che non ne conoscevano la vasta cultura e il fine ingegno di critico d'arte, s'egli fosse un gran pedante o un pallone gonfiato di vento. Vittorio D'Arèba, che ne apprezzava moltissimo i giudizi e i consigli, a quel "Sentiamo!" si scosse, pentito di essersi lasciato scappar di bocca un principio di confidenza che sarebbe stato assai scortese interrompere. - Può darsi - rispose. - Tu forse non lo crederai, tu che non stimi, come tanti altri, che la facilità d'esecuzione sia tra le qualità inferiori dell'ingegno artistico (e spesso ti sei compiaciuto di rallegrartene con me) tu non crederai che io stenti da un mese e mezzo a tirar innanzi ... una cosina da niente ... una figura di donna in vigoroso atteggiamento. Mi è apparsa cosí davanti agli occhi, mi sta fissa cosí davanti agli occhi, meglio di un modello reale ... e intanto ... - Chi sa che concetto, chi sa che simbolo ti sei messo in testa di esprimere! Giacché ormai anche voialtri scultori volete contribuire al benessere sociale, alla civiltà, all'emancipazione delle plebi ... ! E, col pretesto del concetto e del simbolo, fate brutte statue inguardabili o non riuscite a farne neppure brutte. - Niente affatto, caro mio. Ho veduto, meglio, ho fantasticato, o, meglio ancora, mi si è presentata improvvisamente all'immaginazione questa figura che ... che non so dirti che cosa voglia esprimere con quel suo doloroso atteggiamento; e mi son messo subito ansiosamente a ritrarla, a eseguirla. Credevo di sbrigarmene in due o tre giorni; e son là, da un mese e mezzo, non sapendo come finir di abbozzarla, di abbozzarla soltanto! Questo stranissimo fatto mi ha talmente impressionato, che in certi momenti - non stralunare gli occhi! - mi par d'impazzire. - Eh! Eh! - Perché l'immaginazione mi fa vedere tanta vita in quella figura di donna, da darmi un pungentissimo senso di pena, quasi ... - non stralunare gli occhi! - quasi io non mi trovi davanti a un'incompiuta opera d'arte, ma assista, impotente di soccorrerla, al martirio di una creatura umana attratta in un agguato per colpa mia. - Eh! Eh! Bisogna vedere questo miracolo! - Quest'infamia, dovresti dire. Mi vergogno di me. Sono incretinito? ... Sto per smarrire la ragione? - Il primo caso è piú probabile -. Ma un'affettuosa stretta di mano fece capire a Vittorio D'Arèba che il suo amico scherzava. Il giovane scultore si schermí un pezzo contro le insistenze del critico d'arte che voleva accompagnarlo a ogni costo allo studio; alla fine si arrese. - Mi saprai consigliare. - Non occorrerà. - Giulio Nolli si arrestò, increspando le sopracciglia, alla vista del bozzetto e, con grande stupore dell'artista, rimase lungamente assorto a contemplarlo da tutti i lati, senza punto curarsi dell'ansietà con cui quegli doveva attendere il responso di lui. - Oh! È un portento! - esclamò all'ultimo il Nolli. - Hai fatto il tuo capolavoro. Non farai niente di meglio in avvenire, te lo dico io. - Ti beffi di me? - E sei davvero incretinito, se non comprendi il valore di quest'opera, che ha un solo irrimediabile difetto - soggiunse il Nolli non ancora sazio di ammirare: - dovrà rimanere quel che è, un bozzetto. Nessuna abilità di esecutore potrà tradurlo in marmo conservandone la freschezza del tocco, l'incompleto. Non ardire di lavorarvi piú; sciuperesti questa terribilità di espressione che risulta appunto da quel che il tuo istinto d'artista ti ha preservato di alterare dando maggiore finitezza alla modellatura - . Vittorio D'Arèba era commosso, con gli occhi pieni di lagrime che gli velavano l'opera sua. Intanto il critico, continuato a profondersi in elogi, a sviluppare ampiamente il concetto risultante da quella tormentata figura, domandava all'artista: - Tu dunque non hai pensato niente di tutto questo? - Niente! - Benissimo. Le vive forze della natura creano cosí, con misteriosa inconsapevolezza; e l'ingegno artistico, che è una delle tante forze naturali, non può agire altrimenti. Fa' formare subito e poi fondere in bronzo il tuo bozzetto. Sentirai che scoppio alla prossima esposizione! - Mah ... ? - fece il D'Arèba con trepidante gesto interrogativo. - Come battezzarlo? Ecco: Dolore senza nome ! - Grazie! ... È proprio cosí! - balbettò lo scultore -. E sentiva dentro di sé tutta l'angoscia di quel dolore senza nome , che intanto gli si trasformava - prodigio dell'arte! - in infinita dolcezza.

Racconti 3

662750
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1905
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
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Se ci fossimo sposati, come due o tre volte, nei giorni piú felici, io le avevo proposto, a quest'ora ella non sarebbe chi sa dove, abbandonata a chi sa quale destino, né io qui solo, con uno sgomento nel cuore che mi dà la sensazione della inutilità della mia vita. L'ultima volta che io le ripetei, insistendo, quella proposta, ella rispose: - Che temi? Non dobbiamo essere piú orgogliosi di sentirci legati spontaneamente, invece di saperci legati quasi per forza dal giuramento civile e religioso? - E nota ch'ella si sdegnava quando sentiva parlare di divorzio. Ella pensava che la gran virtú del matrimonio insolubile consiste appunto nel salvarci, nostro malgrado, dalle viltà e dalle aberrazioni prodotte da passeggere circostanze che poi si lasciano dietro grandi rimpianti. Ella pensava anche che il matrimonio civile è incompleto se non va accompagnato al religioso; e non era fervida praticante. Soltanto ora comprendo la immensità del suo sacrifizio. Ella ha voluto che io fossi libero di dividermi da lei il giorno in cui mi fossi accorto di non poter piú vivere insieme, il giorno in cui ella avrebbe potuto essere un ostacolo, un impaccio, una gravezza con qualche ragione e anche senza nessuna ragione. La colpa è stata di tutti e due, piú mia che sua però. Giacché io ho dovuto essere un enimma per lei, che non è mai riuscita a penetrare se i miei atti e le mie parole fossero in contraddizione coi miei sentimenti, coi miei pensieri. E lei si è quindi sforzata di parere un enimma anche a me imitandomi in tutto, quasi per mettersi all'unisono con me, quando avrebbe dovuto, invece, lasciar trasparire la discordanza e mostrarsi proprio quale era. Cinque anni di stupida finzione da l'una parte e dall'altra; cinque anni di balorda commedia divenuta a poco a poco abitudine da non permetterci piú di riconoscere se quella nostra vita fosse una finzione o una realtà, e se noi non ci esaurissimo con quel cattivo gioco di cui ci compiacevamo come di un necessario elemento di felicità. E ci siamo esauriti, fino a non riconoscerci piú, fino a credere che oramai non avevamo piú niente da dirci, né da sentire insieme, e che era inutile e sciocco il continuare la prova. Ed io - la prima parola di accenno è venuta da lei - ho potuto sospettare ch'ella si fosse stancata o che qualche altro avesse preso il mio posto nel suo cuore! Ho avuto la spudoratezza di scrivertelo in questa stessa lettera quantunque fossi già convinto dal contrario, tanto l'abitudine di fingere e di mentire, per vanità di apparire affatto diversi dagli altri, superiori agli altri ed emancipati da qualunque pretesa convenzione sociale, persiste in noi anche nei momenti, come questi, che avrei dovuto essere sincerissimo. Ero risoluto di esser tale, per soddisfare un impeto del mio povero cuore, e intanto - hai visto? - ho cominciato la lettera lasciando parlare il finto me, il mentitore me, quello che tu chiami lo scettico e che è invece il miserabile vanitoso che pretende di apparir superuomo! Oh! Ci sarebbe un rimedio a tanto disastro: richiamare telegraficamente Teresa, ricominciare da capo, svelarle il segreto della mia miseria spirituale ... Ma chi le assicurerebbe che io non mentisco ora come ho saputo mentire per cinque anni? ... E chi mi assicura - caro Poldo, compiangimi, sono arrivato fino a questo! - chi mi assicura che questa resipiscenza, questo scoppio di sincerità non sia un inganno di quella stessa vanità che mi ha ridotto qual sono? E gli intimi «io» multipli mi si accapigliano dentro come i sette spiriti di quel tale e parlano tutti a una volta. E uno mi dice: - Lascia andare! Meglio cosí! - E un altro mi dice: - Troppo tardi ti sei accorto del tuo grand'amore per Teresa! Ormai! Ormai! - E un altro mi suggerisce: - Niente è perduto! Ella ti ama troppo da non essere felice di ricominciare da capo! - E un altro: - Non far ridere la gente della tua debolezza di spirito. La vita è una commedia; rappresentala bene fino all'ultima scena! - Ed è quel che piú s'impone a me, quantunque il suo suggerimento sia quello che mi fa piú soffrire e che non cesserà di farmi soffrire! Ho tralasciato di scrivere e mi sono aggirato, come uno sperduto, per queste stanze dove è rimasta la impronta del suo cuore, del suo spirito con la suprema eleganza della disposizione dei mobili, dei quadri, delle stampe, dei ninnoli, e direi quasi della luce e dei colori, perché tutto è opera di lei. L'unica trasformazione da lei voluta fare una settimana prima di partire è stata quella del suo salottino, ora mezzo vuoto, con un'espressione di tristezza, come di luogo saccheggiato da violenza sacrilega. Ed io non l'ho impedita! Ed io l'ho compiacentemente aiutata con inconsapevolezza che ha dovuto essere ineffabile strazio per lei! Ed ho potuto telegrafarti i saluti di Teresa e soggiungere: Incipit vita nova! No, continua e continuerà la misera vita bugiarda! E mi durerà questo sgomento, giusto castigo dell'aver falsato violentemente in me la natura umana per vanità, per orgoglio di esser stimato un ribelle, un vincitore su tutte le leggi sociali! Ed ero un vinto! Debbo riconoscerlo ... 2@ 2 pomeridiane. Ho riletto questa lettera. È assurda! Spero che tu non la giudicherai sincera ... Ho esitato a spedirtela ... e la spedirò ... La commedia continua! Applaudisci o fischia: non me ne importa niente. Ci rivedremo presto. Tuo aff.mo CESARE

LE DUE MARIANNE - I CONIUGI SPAZZOLETTI

663157
De Marchi, Emilio 1 occorrenze

il pensiero dello spavento che essa avrebbe provato, vedendosi a un tratto abbandonata, l'interpretazione che un tale abbandono poteva ricevere dopo le aspre parole barattate in vagone, tutto ciò, misto a un inconsulto sentimento di rabbia, di gelosia, di compassione, lo cacciarono a corsa per un cinquanta passi sulla via ferrata, al chiaro di luna; ma la ragione gli dimostrò subito come fosse sciocco quel correre alla ventura e ritornò in stazione, che, quella notte, rappresentava un punto importante nella geografia della sua vita. Fra gli altri pensieri il più pungente era che Margherita avesse fatto apposta per dargli una lezione. Ma se per lo Spazzoletti era un'agonia, per la sora Ballanzini, quando rinvenne, l'idea che il suo Claudio viaggiava solo solo con quella bella signora, che sarebbe giunto con lei a Musocco, che l'avrebbe per necessità, per pietà, per cortesia, ricevuta in casa a passare la notte, che... che... quest'idea era la morte addirittura. Ricuperate le gambe, voleva ad ogni costo che le si procurasse una carrozza; ma nessuno si mosse, e le fu dimostrato che nessuno avrebbe voluto scomodarsi in quell'ora, che le strade erano cattive, piene di pericoli: che non valeva il conto per poche ore di differenza d'intraprendere un disastroso viaggio nel pieno della notte, mentre all'alba sarebbe passato il treno di Arona. Volere o no, dovette rassegnarsi anch'essa. Tornarono a guardarsi in viso. La luna nella sua stupida placidezza pareva che ridesse sgangherando la bocca. La strada ferrata si prolungava deserta e luccicante a destra e a sinistro in una lontananza piena di ombra e di misteri. Per tutto era un gran silenzio e una grande solitudine. Entrambi sentirono riempirsi gli occhi di lagrime e una cosa alla gola che minacciava di strozzarli. Il Caldara, che, non vedendoli uscire, era venuto a cercarli, dopo aver riso dell'avventura, invitò gentilmente anche la signora in casa sua, molto più che i Ballanzini di Musocco non erano persone sconosciute a Parabiago, anzi... Stavano quasi per avviarsi verso la carrozza, quando il capostazione gridò: - Signori, è annunciato un telegramma da Musocco. Fu come se sparasse una fucilata. Il cavaliere Spazzoletti e la sora Ballanzini accorsero con tanta trepidazione, con tanta indiscrezione, che a stento il capostazione poté persuaderli a non toccare la macchinetta, e a sedersi, e a star zitti e quieti. - Il telegrafo non è una campana - brontolò quel buon uomo del Capo. Si rassegnarono ad aspettare con pazienza. La punta dell'ago cominciò a picchettare la striscetta mobile di carta con un movimento nervoso e balzano, come il polso dei nostri due disgraziati. La stanza era illuminata da una lucerna posta sulla tavola telegrafica, coperta da un paralume che lasciava nell'ombra il soffitto e le pareti. Il tic-tac della macchinetta non era accompagnato che da un grave e lento toc-toc d'un grande orologio a muro rincantucciato dietro uno scaffale. Quando la punta dell'ago cessò di scrivere, il Capo trasse dall'astuccio gli occhiali, li inforcò sulla punta d'un naso che pareva l'insegna del vin buono, e aggrottando due folti sopraccigli bianchi e due baffi irti come due fascetti di fieno, si accostò alla lucerna. I nostri viaggiatori naturalmente gli si misero alle costole. - Ma che stagano al loro posto, benedetta pazienza! - esclamò il pover'uomo fuori di sé. - Già loro non ghe capiscono un'acca allo stesso. Dunque el dice: " Musocco, ecc. Strada libera, spedite vino... " Io credo che i due vedovi sarebbero rimasti stupefatti cent'anni a guardarsi in faccia, se il Capo non soggiungeva: - Ho capito. Questo viene a noi, e riguarda un carico di vino che abbiamo in magazzino; ma che sentano... Infatti il campanello annunciava che un altro telegramma urgente era in viaggio da Musocco. Questa volta diceva: " Cambiata moglie, dormiremo a Musocco, venite prima corsa ". Lungo sarebbe descrivere tutti i vari sentimenti che queste parole destarono nel cuore del cavaliere Spazzoletti e della sua dolce compagna: più a lungo ancora il descrivere l'accoglienza che le sorelle e la moglie del Caldara fecero alla sora Ballanzini e a' suoi papaveri. Dirò solo che l'amico per festeggiare gli sposi aveva fatto preparare il the, dolci e vin bianco, e una stanza imbiancata apposta con un letto di piume d'oca. Ma nessuno poté chiudere occhio per tutta la notte. Chi pianse, chi rise e chi pianse per troppo ridere. Spazzoletti si sdraiò vestito sopra un canapè e divorò un mezzo cuscino per la rabbia. Il cuscino gli fe' passare il pappagallo.

La Colonia felice: utopia lirica (terza edizione)

663224
Dossi, Carlo 1 occorrenze
  • 1879
  • Stab. Tip. Italiano DIRETTO A L. PERELLI - Ditta Libraria di NATALE BATTEZZATI
  • prosa letteraria
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Il raggio lunare vi si versava senza risparmio, e nel pallor di quel raggio, parve che il càndido volto di Forestina imperlasse ognor più, abbandonata, com'era, sulla spalla di Mario, le molli braccia fluenti. Mario ne sobbalzò. Egli temette che il sonno non si dovesse più distaccare da lei. E corse, con la svenuta, alla soglia di una vicina spelonca, un de' suòi luoghi di posa, ve l'adagiò sopra un tàlamo d'erba, e a lato le si fe' ginocchioni, sentèndosi sciorre la rabbia in pietà e la pietà mutarsi in disperazione. Ma già la fanciulla avèa riacceso i grand'occhi, e con un filo di voce, che parèa un sospiro: che ti ho fatto? - chiedèa. Brillò la trèmula voce nelle ìntime fibre di lui, e le tenne, finchè ci svanì, oppresse. Mario il capo abbassò, abbassò le pupille, avrebbe voluto inabissarsi tutto. Ma, cessata la voce, ecco tornargli, da ogni banda, la rabbia, come il mar rifluente che anela riassoggettarsi la spiaggia. - Che hai fatto? - ei gridò, scattando in pie' minaccioso - hai fatto di un leone una lepre, di un uomo un pupazzo. Vedi, a che mi avvilisti in cinque anni! ... Io, fuori da quello sciame di servi che ha nome umanità, senza desìo di amici, nè di nemici paura, senza il puerile bisogno di fabbricarmi menzogne per crederle, vivevo in una eròica quiete, in una divina apatìa; vivevo, legge a mè stesso, fruendo, indiviso e purìssimo, il più prezioso dei doni, la libertà. E tu ... tu me l'hai tolto. Tu mi adescasti, o maliarda, a sospirar la catena, me l'apprendesti a portare, mi hai piegato a baciarla. Per tè, conobbi il sapor del mio pianto, il suono del rìder mio. Da tè, quell'amore che mi facèa vilmente desiderare un'offesa per perdonarla, e quell'odio da avvelenar, coi voti, il creato. Da tè gli entusiasmi, gli abbattimenti da tè. E, più che altro, tu sei giunta, tu sola, a quanto gli uòmini con la loro artefatta giustizia non sarèbber mai giunti, a innestarmi il rimorso, l'inuccidìbile tarlo, la pena di tutte le pene ... Ma io mi riconquisterò - aggiunse, e già l'estro omicida gli balenava nelle pupille - ma io ti sacrificherò, o intrusa, all'amante che mi obbligasti a tradire. Morte a quelli occhi che affascinàrono i mièi! ... morte a quella gloria di chiome, che mi allacciò, capello a capello! ... morte a quelle labbra bugiarde, di cui ero affamato! Io sazierò l'arsura della vendetta nel tuo sangue ... di rosa. Tutta, tutta, io ti voglio annientata, tu che nascesti sì bella per viemeglio ingannare; tutta, o sole che m'incendiasti! assassina della mia pace! - Die' la fanciulla un lamento, e disse: continua e mi hai morta. - Una morte è poca - ei ritorse. - Risparmia almeno l'attesa! - supplicò Forestina. Ma, con lentezza, colùi: - Teco, l'èsser pietoso, è delitto. Tu dovrài prima penare un ben altro morire. Nostra verissima morte è quella dei nostri amati: io spegnerò, prima, il tuo ... - Ah no! - sclamò la fanciulla. - Lo spegnerò, sì - iterò inferocito il Nebbioso. - E, quella morte, egli la patirà goccia a goccia, e tu insieme. Tu lo vedrài perirti dinanzi, senza ch'egli ti vegga; tu lo udrài invocare il tuo nome, senza che tu gli possa rispòndere. Nè un ferro solo rosseggerà di tè e di lui, nè il sepolcro medèsimo vi accoglierà in un ùnico amplesso. E tu allora ... oh allora soltanto! sarài tutta mia, eternamente mia. - Perdono! - labreggiò la smarrita, giungendo palma con palma. - Mai! - ruggì egli in pieno delirio. - Io lo ucciderò, quel tuo amante, fosse il mio amico ... fosse il fratello ... Ma, alla parola fratello Mario ammutì, indietreggiò, fisi gli occhi, stravolto l'aspetto, qual cui appare un fantasma. Piangèvano freddo sudore le pareti dell'antro, come le tempia di lui, e il vasto silenzio ingigantiva l'orrore ... Ma, repente, ei si scosse. Gaudio selvaggio lo illuminava. - Sia! - sclamò. Sangue per sangue. Ànima offesa, bevi! - e, strappata di tasca una breve pistola, se la volse alla faccia. La giovinetta alzò un grido straziante: - T'amo! - fu il grido. Sparò la pistola e cadde. Senonchè, la mano di lui, alla voce, avèa dato uno scatto, e si perdèa la palla nei labirinti della caverna, svegliando gli echi degli echi, da sècoli addormentati.

Clelia: il governo dei preti: romanzo storico politico

675806
Garibaldi, Giuseppe 4 occorrenze
  • 1870
  • Fratelli Rechiedei
  • prosa letteraria
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Dopo essersi abbandonata all’irrefrenabile ilarità ella chiamò un domestico e col suo aiuto pervenne a collocare gli amici in situazione più conveniente. La Clelia lottò ancora tutta la notte colla tempesta e ben le valsero le superiori sue qualità marine per non essere soperchiata e non le valse meno l’intrepidezza del suo coraggioso equipaggio. All’alba il temporale rallentò alquanto del suo furore ed avendo il vento girato all’ostrolibeccio si pensò di far correre

Il brigante quando sentì la tempesta venire sulle sue traccie aveva abbandonata la preda, mettendosi in salvo fuggendo. Il vittorioso campione, ricaricata la carabina, disse a Manlio di armarsi: le armi che restavano sul suolo e sui cadaveri depose nella carrozza, raccogliendo i cavalli occupati a pascolare, ad onta del freno, sull’orlo della strada. La comitiva ammirava stupefatta il coraggioso liberatore mentre egli, come assorto in contemplazione di cosa che stesse sopra gli oggetti materiali presenti, pareva col pensiero lontano da quella scena di sangue. Una delle più belle qualità della donna è l’apprezzamento squisito del bello e dell’eroico. Siate pulito, valoroso, sprezzatore della morte, generoso, e certo avrete non solo il plauso, ma l’affetto della bellezza! Io non dubito che questa simpatia del bel sesso non sia il principale motore dell’incivilimento umano. L’uomo si fa pulito, elegante, cortese per piacere alla donna. Egli ha lo stesso incentivo nel suo slancio verso le grandi azioni. In generosità, in coraggio, in eroismo quindi si può considerar la donna vera educatrice dell’uomo, prima agente del creatore, per migliorare questa razza burbera e di testa dura. Le donne dunque volgevano il loro sguardo sul brigante (mi ripugna di dargli questo titolo ma pure era così chiamato dai preti e per loro era un vero brigante) e curiosamente lo fermavano su quel corpo così ben fatto, su quella capigliatura d’ebano, su quella fronte spaziosa così graziosamente ornata da un... da un buco tondo tondo, che il piombo straniero vi aveva forato. Pareva non potessero distogliere gli occhi da quella persona, vero modello della forza e del coraggio. Il difetto dell’occhio spento era, oppure sembrava, in quell’istante quasi impercettibile. Bisogna confessarlo, in quel momento i nostri cari, non men belli e non men coraggiosi, Attilio e Muzio, furono dimenticati dalle nostre eroine. Così è più forte di noi questa nostra debole natura umana. Lo stupore dei viaggiatori si accrebbe ancora quando il brigante uscito dalla sua posizione contemplativa, si avanzò graziosamente verso Silvia, le prese la mano, gliela baciò commosso, lasciandovi cadere sopra una lagrima. «Voi non mi riconoscete, Madonna? - egli le disse. - Guardate un poco questo mio occhio sinistro che per cura vostra gentile e materna non mi costò la vita!». «Orazio! Orazio! - gridò la matrona abbracciandolo e spargendo un torrente di lagrime. - Orazio! mio figlio, figlio della migliore amica mia!. «Sì, Orazio! che voi raccoglieste morente, che curaste con affetto di madre, ed a cui porgeste un pane nella sventura quando fu orfano!» soggiungeva egli, e la buona Silvia, quasi fuori de’ sensi, si abbandonava nelle braccia del suo robusto antico protetto. «Qui non v’è tempo da perdere - disse finalmente Orazio, rivolgendosi a Manlio, con cui aveva pur ricambiato mille segni di reminiscenza e di gratitudine. - Questo luogo è pieno zeppo di malviventi e quel fuggito potrebbe ricondurre una banda più numerosa». Pigliando dunque i cavalli per i morsi invitò la comitiva a rimontare in carrozza e mettendosi egli stesso al posto del cocchiere, s’incamminò velocemente verso la marina secondo i voti dei viaggiatori. Giunti alla spiaggia, l’aria balsamica del Mediterraneo sembrò ravvivare i nostri stanchi amici, e l’effetto apparve sorprendente sulla bella Giulia. Figlia della regina del mare ella, come tutti coloro che nascono sulle sue sponde, ne era innamorata. Lontani lo sospirano, al rivederlo, par loro rivedere una persona amata. L’effetto prodotto sui dieci mila Greci di Senofonte al rivedere il mare dopo lungo e pericoloso viaggio pedestre a traverso la Persia, si comprende facilmente. E le grida di gioia e l’inginocchiarsi a salutare Anfitrite liberatrice, come il mare fosse la patria loro, non hanno d’uopo di spiegazioni.

Questi, lasciata andare per terra la sua preziosa carabina, che non avrebbe abbandonata per tutto l’oro del mondo in altra circostanza, correndo e saltando, in un istante raggiunse Giulia, le prese la mano, la coprì di baci e lagrime di gioia si videro sgorgare dai suoi occhi. Poverino! In quella carissima donna si riassumevano per lui mille affetti e ricordi di famiglia, d’amici e di patria! Giulia amorevolmente baciò in fronte il giovane inglese, poi Clelia e Silvia l’abbracciarono con singolare espansione, e la presentarono ad Irene di cui Giulia non ignorava la romantica storia e tanto desiderava di conoscerne l’eroina. I prodi militi della libertà di Roma, obbliando un momento la disciplina, si affollarono intorno alla bellissima figlia d’Albione e se non la coprirono di carezze almeno poterono bearsi nella sua contemplazione.

«Che fortuna è la mia di possedervi un istante sotto questo tetto, in questa stanza istessa che fu abbellita una volta dalla vostra presenza e mi sembra deserta da che la vostra preziosa persona l’ha abbandonata». «Quanta galanteria sfoggia questa serpe» pensò fra sé la nostra Giulia, mentre che ascoltava il grandiloquente sermone del cicisbeo, e sedutasi, con poche cerimonie, rispondeva «Gentile e graziosa è l’E. V. e io le ne sono grata. Una volta io veniva qui più spesso per copiare i capi d’opera di cui va adorno questo palazzo, ma già da alcun tempo ho terminate le mie copie ed oggimai qui non saprei quello che dovrei venirci a fare». «Non ci sapreste più che fare?! oh! questa poi è una dichiarazione poco galante da parte vostra, signora Giulia! qui come ovunque voi avrete un culto, bellissima fanciulla!». Biascicando queste e simili frasi melate, Don Procopio cercava di avvicinare frattanto la sua poltrona a quella di lei ma ella ritirava la propria d’altrettanto dimodoché le due poltrone avevano l’aria di onde agitate che si perseguono sempre, e non si raggiungono mai. Stanco di perseguitare la giovine straniera a corso di poltrona, il prelato si alzò e risolutamente mosse verso di lei. «Ma sedete, od io parto!» esclamò Giulia alzandosi e mettendo la poltrona tra lei e l’indecente Cardinale mentre gli figgeva due occhi in volto che lo atterrarono. Il prete si lasciava andare sulla seggiola come colpito dal fulmine e Giulia sedutasi pure cominciò: «La mia visita non è senza grave motivo, già lo sapete che per vedervi non ci verrei. Io son qui a chiedervi notizie d’una famiglia che m’interessa: della famiglia dello scultore Manlio». «Fu qui è vero, ma se n’è andata» rispose Procopio, rinvenuto dal primo stupore. «È molto tempo che se n’è andata?» chiese Giulia, con accento da cui trapelava la sua incredulità. «Sono pochi momenti che le donne lasciarono queste stanze» fu la risposta di Don Procopio. «Saranno dunque a quest’ora fuori del palazzo», ripigliava la straniera. Ed il prete: «lo saranno», rispose colla certezza di mentire. Giulia con un gesto d’incredulità troncava il dialogo e maestosamente ripigliava la sua via, appena salutando con un cenno del capo l’eminente canaglia. Ha pure i suoi vizi i suoi difetti la razza britannica. E cosa v’è di perfetto nell’umana famiglia? Ma se v’è popolo ch’io mi compiaccia a paragonare ai nostri antichi padri di Roma, è certamente l’inglese. Egoista e conquistatore come quelli, la sua storia rigurgita di delitti; delitti commessi nel suo seno e nel seno delle altre nazioni. Molti sono i popoli che egli ravvolse e ravvolge nelle sue spire di ferro per contentare l’insaziabile sua sete d’oro e di predominio. Pur non si può negare che egli non abbia immensamente contribuito al progresso umano e gettato la base di quella dignità individuale che presenta l’uomo diritto, inflessibile, maestoso, davanti alle esigenze dispotiche che padroneggiano l’uman genere. A forza di costanza e di coraggio egli ha saputo conciliare l’ordine governativo colle libertà adeguate ad un popolo padrone di sé stesso. L’isola sua divenne il santuario e l’asilo inviolabile di tutte le sventure, il despota, come il proscritto dal despota, vivono insieme su quella terra ospitale, colla sola condizione di essere uomini. Egli ha proclamato l’emancipazione dei negri oggi felicemente conseguita dalla lotta gigantesca della sua stessa razza sul nuovo continente; a lui infine deve l’Italia in parte la propria ricostituzione, grazie alla maschia sua voce di non intervento da lui fatta risuonare nello stretto di Messina nel 1860. Alla Francia come all’Inghilterra molto deve l’Italia. Alla Francia molto deve l’umanità per la propaganda de’ principi filosofici, per l’affermazione dei diritti dell’uomo. Alla Francia si deve l’annientamento della schiavitù barbaresca nel Mediterraneo. La Francia seppe mettersi alla testa della civiltà umana ma non lo è più. Oggi strisciando davanti al simulacro d’una grandezza fittizia essa distrugge l’opera grandiosa del suo passato. Un giorno la Francia proclamava e propagava la libertà nel mondo, oggi è dessa che cerca distruggerla dovunque. La Dea ragione, quel parto straordinario dell’intelligenza emancipata, essa oggi la rinnega ed i suoi soldati fanno il gendarme al Sacerdote dell’oscurantismo. Speriamo per il bene dell’umanità veder presto le due grandi Nazioni rimettersi insieme all’avanguardia dell’umano progresso.

ABRAKADABRA STORIA DELL'AVVENIRE

676001
Ghislanzoni, Antonio 1 occorrenze
  • 1884
  • Prima edizione completa di A. BRIGOLA e C. EDITORI
  • prosa letteraria
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In paese correva voce che il signore fosse malato di cervello per eccessiva applicazione agli studi, e avesse appunto abbandonata la città per ritemprarsi nella buon'aria dei monti. In fatti, dopo un mese di vita campestre, a dire dei paesani, il signore aveva fatto una ciera più lustra I suoi denti di alabastro brillavano più spesso nel sorriso dell'amorevolezza che non in quello della ironia mefistofelica. Usciva più sovente al passeggio. Si intratteneva sulla piazzetta a udire i colloqui dei contadini, a veder giuocare i fanciulli. Riceveva qualche visita alla sera. Il curato, il sindaco ed il farmacista erano divenuti assidui nella sua sala, ed egli stava le lunghe ore ad ascoltare le loro polemiche religiose e politiche. Il curato, il sindaco e il farmacista di C... per lui rappresentavano i tre partiti, la eterna invariabile trinità del pensiero umano, che a suo credere, era cominciata nella mente dei tre primi abitatori dell'universo. Il curato rappresentava il non possumus la forza reazionaria; Il sindaco il liberale moderato o moderatore Il farmacista l'uomo del progresso ad ogni costo, l'utopista rivoluzionario, che non ammette intervallo tra il pensiero e l'azione. Questi tre principii, come ognuno può immaginare, si detestavano cordialmente; e il loro attrito era scabro e sfavillante come quello dell'acciaio colla pietra. Ciò nullameno, il curato, il sindaco e il farmacista venivano ogni sera ad occupare nella sala del signore tre lati di un tavolo coperto di ricco tappeto. Nel centro di quel tavolo, quegli spiriti eterogenei, intolleranti, irreconciliabili, avevano trovato un punto di coincidenza simpatica. Era un'immane bottiglia, un'anfora imponente e generosa, il cui sugo inesauribile produceva nei tre antagonisti il doppio effetto di rifiammare gli ardori politici e di ammorbidire le gole. Il curato, il sindaco e il farmacista pigliavano un gusto matto a bisticciarsi e a contraddirsi in quel tiepido ambiente dove la più gustosa delle bevande era sempre là per estinguere ogni ardore di sete e di entusiasmo. Essi amavano il buon vino con esemplare concordia; e siccome il buon vino non corre le bettole e le cantine del volgo, così la loro ripulsione politica si era mutata in attrazione pel fascino di un barolo squisito. Il curato si scusava: - Forse che alla chiesa non conveniamo tutti, uomini dabbene e peccatori, papisti e scomunicati, intorno all'altare del Dio uno e vero? E il farmacista rifletteva: - Dinanzi alla malattia non conosco avversarii politici; io prodigo i miei medicinali anche ai vili moderati che vorrei avvelenare di arsenico. La malattia e la sete stanno al di sopra di ogni rancore di partito. Il sindaco, nella sua qualità di moderato, credeva dar prova di sublime tolleranza, trincando coi due partiti estremi. Di qual modo si erano introdotti nella casa dell'eccentrico signore tre individui di opinioni così avverse? Il signore li aveva conquistati nei primi tempi del suo soggiorno in paese. Ciascuno alla sua volta, il curato, il sindaco e il farmacista, avevano ricevuto dal forestiere una carta di visita ed un autografo accompagnato da un biglietto a stampa di effetto miracoloso. Sulle carte di visita era impresso uno stemma gentilizio sovrapposto ad una parola enigmatica, che i tre sapienti del villaggio non avevano osato interpretare: Abrakadabra. I biglietti a stampa erano altrettanti boni della banca nazionale del valore di cinquecento franchi cadauno. Le tre lettere determinavano lo scopo e l'indirizzo dell'oblazione. La prima, al curato, per l'obolo di San Pietro La seconda, al sindaco, pel monumento a Vittorio Emanuele; La terza, al farmacista, da suddividersi fra le due collette promosse da Garibaldi e da Mazzini pel milione di fucili ... e pel soccorso alla libera stampa Il curato, il sindaco e il farmacista, nell'aprire quell'inatteso dispaccio, nel constatare le intenzioni del generoso oblatore, si erano fregati le mani a versarne sangue, esclamando con enfasi da partigiani: il signore è dei nostri! Ed ecco per quale impulso i tre avversari politici del paesello si erano recati a visitare il signore, coincidendo intorno alla grossa bottiglia, che poi doveva riavvicinarli quotidianamente a discutere i grandi problemi lulla politica mondiale. Durante la polemica, il contegno del signore era sempre enigmatico. Taceva con disperante costanza. La sua fronte spaziosa a volte si corrugava: i suoi occhi profondi vibravano lampi; le labbra tumide e sorridenti si contraevano, e i denti si serravano con sinistro cigolio. Pareva ch'egli facesse uno sforzo violento contro gli impeti della propria volontà, per reprimere un torrente di idee e di parole che tentavano prorompere. Quelle crisi erano passeggiere, ma atterrivano gli oratori, e imponevano agli entusiasmi della loro facondia. Un silenzio solenne regnava per qualche tempo nella sala. «Che razza d'uomo! - pensava il curato - credo ch'egli abbia il diavolo in corpo!» E gli occhi dei tre antagonisti si incontravano nell'espressione di un sentimento comune; vattel'a pesca come la pensi costui! Queste pause della politica erano ordinariamente impiegate nelle libazioni più generose. Tutti vuotavano il bicchiere, e si affrettavano a riempirlo come soldati che si preparino a nuovi attacchi. Brevi uragani. Si scioglievano senza rumore e senza danno. La fronte del signore riprendeva la sua calma severa - l'occhio si dileguava nelle palpebre folte, e il labbro si ricomponeva al più mite sorriso, nell'articolazione di una parola misteriosa: Abrakadabra. Quella parola era il terrore del curato, il quale la riteneva diabolica. Il farmacista, cui le spiegazioni del dizionario di scienze mediche l'avevano resa incomprensibile, sorrideva con aria sapiente e faceva lo sbadato. Qualche volta, per soccorrere alla intelligenza dei suoi ospiti, il signore traduceva l'Abrakadabra nel motto latino: ibis, redibis Poi accennava ad essi di ripigliare la discussione - e in mezzo al frastuono delle voci mormorava fra i denti un fiat lux che pareva il gemito di un Epulone assetato di luce» Abrakadabra, che non cessava di essere un enigma per tutti, era divenuto dopo alcuni mesi il soprannome del signore.

L'ALTARE DEL PASSATO

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Gozzano, Guido 1 occorrenze

Ma la donna s'era abbandonata sul mio petto come se quel nome e quel cognome l'avessero uccisa. E nel silenzio sentii più forte lo stridore del ridicolo, segreto dalla voce consolante della ragione. "Non tremare! Nessuno sa! La cosa buffa è tra te e la notte". Lady Mac Lewis parlava, parlava, me io l'udivo confusamente, come se il suo racconto mi fosse fatto non da lei, ma da dieci persone vociferanti. - Il mio amante! Il mio amante! - ripeteva come uno che confessi: Ho ucciso, ho ucciso! - Da tre anni non vivo che di questo! Da sei mesi non ho notizia! ... Vado in Italia soltanto per lui, per portargli baby ... Vidi gli occhi di Guido Rocca: i begli occhi di montanaro dalle grandi iridi azzurre, maculate di due tre punti neri come il velluto; gli occhi del piccolo: identici! Pervinche della stessa radice, fiorite dall'amore in due contrade remotissime: le falde delle Alpi d'Italia, le falde dell'Himalaja ... - ... il secondo giorno che v'ho conosciuto, ricordate? v'ho detto che se avessi un fratello sentirei per lui ciò che sento per voi ... E voi farete per me, sono certa, ciò che fareste per ridare la felicità ad una vostra sorella disperata! ... No, non parlate, lasciatemi parlare. Sbarcheremo in Italia fra quindici giorni. Mio marito proseguirà per Londra con Sue. Voi mi accompagnerete a Bergamo, subito ... No! No! Niente telegramma, niente ritrovo, per carità! Non v'ho detto che mi teme, che non mi vuole più? Me l'ha scritto in una lettera che conservo come una condanna a morte ... Ma se mi vede, mi ama, ne sono certa. Non deve aspettarmi: devo apparirgli Voi mi guiderete attraverso il paese, attraverso la gente sconosciuta, mi consiglierete, mi difenderete, combinerete l'incontro improvviso. Il tempo, la distanza l'hanno fatto così! Se mi rivede, mi riama. Ne sono certa. Tacque pochi secondi, senza più voce: poi, con una nota rauca che mi diede il brivido: - ... l'amo, l'amo da morire o da farlo morire ...

I sogni dell'anarchico

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Mioni, Ugo 2 occorrenze

esclama, mentre il suo occhio guarda supplice un piccolo serpente, arrotolato al suo braccio sinistro; il suo odio, l'onnipotente, il patrono della sua tribù, che la rese sempre grande, la conservò potente, le concesse sempre grandi trionfi e aveva abbandonata soltanto due giorni innanzi: un dio sanguinario, che chiedeva molte vittime, bambini innocenti e vergini pure. Dio serpente! Perché mi hai abbandonato? Sì; lo aveva abbandonato. Ricordava la sua tribù forte, potente, padrona della grande oasi, dominatrice delle vie del deserto. Egli ne era il capo temuto. Suo padre gli aveva lasciato un nome terribile, che tutti paventavano, un'autorità, avanti alla quale tremavano tutti, un forte esercito di tremila armati, le casse piene di oro giallo, caldo, più caldo della sabbia del deserto, molti schiavi e molte schiave. Egli aveva stretto con mano forte le redini del governo ed avido di dominare sul deserto, di essere padrone delle grandi vie, che conducono al suo interno, per poter taglieggiare a piacimento le carovane ed imporre loro le tasse che voleva; per diventare il padrone del paese, aveva dato battaglia ad una tribù finitima e che gli era rivale, l'aveva debellata ed era stato senza misericordia coi vinti. Chi gli era caduto vivo nelle mani era sitato macellaio o fatto schiavo e conservato ad una sorte più terribile della morte. Quanto sangue sparso allora! Egli fremeva della barbara giova al pensiero di quell'eccidio, e gli sembrava di veder scorrere ancora ai suoi piedi, sulla sabbia del deserto, un ruscello di sangue umano, rosso; gli pareva di allungare il braccio colla mano, piegata a mo' di scodella, di attingere quel liquore rosso, caldo, e di portarlo alle labbra. Spegnere la propria sete col sangue dei morti nemici! Dimenticò per un'istante la propria sete, il suo sfinimento, e si rizzò fìero, maestoso, sul suo cavallo. Io! Il principe Ramsette! Ma poi ricadde nell'antica prostrazione; la persona si curvò ed egli dovette con ambo le bracca afferrare il collo del fido cavallo e stringersi a quello, per non stramazzare al suolo. La sua ultima vittoria, perché i vinti avevano implorato l'aiuto dei potenti ed odiati romani, ed il proconsole aveva avocato a sé la causa ed osato citare lui, un principe, lui, Ramsette, al proprio tribunale. Aveva risposto: Un libero principe non può venir giudicato da nessuno! ed aveva invitato il proconsole al proprio tribunale. Aveva armato la sua tribù. Sperava di vincere. I suoi erano uomini liberi; i romani schiavi. Un uomo libero vale per cento, per mille schiavi e ne sbaraglia una legione. Eppoi egli si lusingava, che tutte le altre tribù si saprebbero unite a lui, le libere, per conservare la propria libertà, le soggiogate, per scuotere il durissimo giogo. Ma le sue speranze non si erano avverate. Molti Io temevano, molti lo odiavano, molti lo volevano veder umiliato; la sua umiliazione premeva loro assai più della loro libertà. Non vedevano il loro vero nemico nel proconsole romano, che li teneva domi, li soggiogava alla dominatrice del mondo; vedevano piuttosto in lui un rivale pericoloso, che andava umiliato. Nessuno lo aiutò; uno o l'altro favorì anzi i romani. Si venne alla lotta, ed egli fu vinto. Le centurie romane, bene armate di bronzo, furono insensibili alle leggere frecce; i suoi invece non poterono resistere al loro impeto; molti fuggirono; molti vennero mietuti dalle loro spade, molti furono trapassati dalle loro lande. Dall'alto del suo destriero egli aveva diretto la pugna e cercato d'infiammare i suoi e di condurli al trionfo; ma quando aveva visto sbaragliati i suoi uomini, prima invincibili, da' un pugno di nemici, inferiori di numero; quando gli avversari si erano lanciati contro di lui; quando aveva udito la voce del centurione gridare: « Mille sesterzi a chi lo piglia vivo», un terribile spavento lo aveva incolto. Morto sì, ma schiavo mai. Aveva dato di sprone al suo cavallo ed incominciato quella fuga pazza, da parte sua, quell'inseguimento pazzo da parte loro. Fuggire? Dove? Alla sua oasi, per condurre colà il nemico; per dargli in preda le donne, i fanciulli, il suo oro? Mai! Si lusingava, che il nemico non avesse trovato la via dell'oasi, non si fosse spinto fin là, a predare, sgozzare ed incendiare; si lusingava di poterlo allontanare in un'altra direzione. E perciò fuggì all'impazzata, nel deserto, senza una meta. avido solo di mettere una immensa distanza tra sé ed il nemico: di mettere in salvo la propria vita; di non cadere nelle mani di quell'avversario temuto, di non diventare suo schiavo. Dio serpente! Mi salva, mi salva! E continuava la cavalcata pazza. Il sole volge rapidamente al tramonto. I colli gettano lunghe ombre, strane, e prendono tinte fiammeggianti; domina, da principio, il giallo, un giallo saturo che diventa poi arancione e poi rosso fuoco mentre i colli ardono; sembra che un gigantesco incendio divampi nel deserto; l'orizzonte è in fiamme, odi in mezzo a quelle fiamme, rossa essa pure, un'enorme brace, si tuffa la gigantesca palla solare. Il rosso cede il' luogo al violetto; sembra che le rocce vestano a mestizia per l'occaso del sole. Il fuoco si spegne sull'orizzonte, rapidamente; i colli si coprono di gramaglie, e sul padiglione nero del cielo compariscono numerose stelle. Il capo prorompe in un urlo di spavento. In mezzo a quelle stelle è comparso un indice luminoso, gigantesco, il dito di Dio, che gli minaccia' sventura. «La cometa! L'astro della mia rovina! e cade privo di sensi a terra.

Pagina 18

Giura, nella Chiesa bianca, fede incrollabile alla sua sposa, che mai gli sembra così pura e così degna di amore come ora, che ha sofferto tant'onta; che vuole consolare, col suo maschio amore, per l'onta subita, ed incomincia a diradare una foresta abbandonata, a coltivare la fertile terra, a edificare un rustica casa; lieto di trovarsi anche là in Italia, perché sa che là, dove si trova anche un solo italiano, vi è pure l'adorata madre Italia......

Pagina 79

LE NOVELLE DELLA NONNA. Fiabe fantastiche

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Perodi, Emma 1 occorrenze
  • 1992
  • Newton Compton Editori s.r.l.
  • prosa letteraria
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. - Mi par di camminare sopra una cava abbandonata, dove gettano gli animali morti. - È la soglia della mia dimora, - disse il cavaliere, e la trascinò giù per la discesa. Ma appena ebbero toccato il fondo della cava, la luna ricomparve ed Amabile si vide dinanzi, invece del bel cavaliere, uno scheletro avvolto in un lenzuolo sbrandellato. Amabile cadde in ginocchio, gridando: - Misericordia! Allora il morto le disse: - Non urlare: son Desiderio, lo sposo tuo. Tornavo per celebrare le nozze e sono stato aggredito da due ladroni, i quali, dopo avermi spogliato, mi hanno messo questa corda al collo e mi hanno gettato in questa cava. Il mio cadavere marciva sopra a terra, quando Gesù s'è impietosito e mi ha dato le sembianze d'uomo per provare la tua fede. Tu sei una spergiura, ma io voglio mantenere le promesse che ti ho fatte poco fa. Avrai abiti da regina, perché anche le regine sono rivestite di terra dopo morte; avrai un palazzo degno di un re di corona, perché anche i re, una volta spirati, son posti sottoterra. Dammi la mano, sposa mia, e mettiti al mio fianco, perché è sonata per me l'ora di tornare in seno alla morte. Ciò dicendo lo scheletro legò la corda attorno al collo della ragazza con un nodo così forte che nessuno avrebbe potuto sciogliere; e si coricò sulla terra umida. Amabile passò tutta la notte a pregare la Madonna, che non la udiva. Verso l'alba vide qualche cosa che si moveva ai suoi piedi. Era un topolino che stava fermo a guardarla. Nel medesimo tempo apparve qualche cosa di nero sopra la casa, e un corvo bigio andò a posarsi sopra una pietra. Il corvo e il topo erano due Maghi, che andavano in quel luogo a pascersi di cadaveri. - Corpo del diavolo, compare! - disse il corvo. - Sei giunto presto e scommetto che hai già scelto quel che ti piace meglio di quella ragazza! - Ma Satanasso non ci permette di toccar carne viva, - rispose il topo. - Ebbene, aspetteremo che sia morta. - Sì, - disse il topo - io mi sono scelto le gote. - E io le labbra, - replicò il corvo. - Le mangeremo gli occhioni neri. - E le orecchie rosee. Amabile si sentiva gelare, ma ebbe la forza di dire: - Ahimè! sono tanto giovane e smilza che avrete poco da mangiare; scommetto che vi tornerebbe più conto di salvarmi. - Salvarti! E come si farebbe mai? - Non è difficile; basta che il topo roda la corda che mi tien legata al cadavere, e che il corvo mi porti fuori da questa caverna. - Che cosa ci daresti se ti si contentasse? - domandarono i due Maghi. - Supplicherei mio padre di tesservi un bell'abito di drappo per ciascuno. I Maghi si misero a ridere. - Una camicia di finissimo lino. I Maghi risero più forte. - Anche un mantello di velluto. - No, - disse il topo, - non ho bisogno di vestiti né di biancheria; ma voglio due ali per volare. - Ed io, - continuò il corvo, - voglio quattro piedi per camminare. - Se domani non ci dài quello che chiediamo, l'anima tua è perduta, - aggiunsero tutti e due. Quelle condizioni parvero abbastanza dure a Amabile; ma accettò tutto, piuttosto che restare in quella caverna legata allo scheletro. I Maghi le fecero fare un giuramento sulla crocellina d'oro che portava appesa al collo, e appena ella ebbe giurato, il topo si mise a rosicare la corda, finché non fu spezzata, e poi il corvo si avvicinò, se la fece salire in groppa e la ricondusse fino dal padre. Quando l'ebbe posata nell'orticello del tessitore, l'avvertì che il giorno dopo sarebbe tornato in quel luogo insieme col compagno, affinché ella mantenesse la promessa. Amabile corse subito a picchiare all'uscio di cucina, che dava sull'orto, e il padre andò ad aprire. Ma vedendo la sua bella figliuola pallida, infangata, con gli occhi sbarrati, cominciò ad urlare che doveva esserle accaduta qualche disgrazia, e dallo strepito destò tutta la gente del vicinato. Amabile raccontò tutto quello che le era accaduto, e il padre disse che bisognava ricorrere a fra' Cirillo, che era un frate francescano, famoso per dar consigli. Appena fu giorno, Amabile andò al convento, accompagnata dal suo babbo e in confessione raccontò tutto a fra' Cirillo, che le disse: - Figlia mia, tu hai giurato sulla croce e nessuno ti può prosciogliere dal giuramento; ti conviene fare quanto hai promesso. - Dio mio, sarò dannata! - esclamò Amabile. - Stammi a sentire, - replicò il Frate, - e fa quanto ti ordino. La ragazza promise di non dimenticar nulla. - Prenderai prima un coltello che non abbia mai toccato carne; andrai lungo le siepi ascoltando il soffio del vento nell'erbe; quando udrai un lieve rumor di sonaglio, taglia la parte superiore dell'erba, che è quella del sonno, portala nell'orto, stendila in terra e torna ad avvertirmi. Amabile fece come le aveva ordinato il Frate e, trovata l'erba, la tagliò con un coltello nuovo e la stese nell'orto, e poi tornò dal Frate, il quale la rimandò a casa dopo averle insegnato quel che doveva fare. Fino a sera l'Amabile rimase nell'orto in orazione, e quando fu notte, sentì la voce del topo, che la chiamava. - Sono pronte le ali? - domandò in tono di scherno. - Non ancora, - rispose Amabile, - ma presto sì. - Sbrigati, sbrigati, - replicò il Mago, - ho furia, e domani sera devo essere a Firenze per certi affari miei. - Riposatevi un momento, - rispose la ragazza, - e vi contento subito. Il topo, che si sentiva volentieri trattato come persona di riguardo, si sedé sull'erba preparata da Amabile; ma l'erba del sonno produsse il suo effetto e di lì a poco il topo dormiva e russava. Dopo qualche momento comparve il corvo, e domandò: - Ebbene, carina, dove sono i miei quattro piedi? - Ahimè non ho potuto trovarli, neppure pagandoli a peso d'oro, - rispose Amabile. - Ne ero sicuro, - disse il Mago sghignazzando. - Ora dunque mi spetta metà della tua animaccia, e la voglio fra poco. - Concedetemi un po' di tempo, caro Mago! - esclamò Amabile. - Spero che avrete compassione di una povera ragazza innocente, che vi reca da cena. - Come mai? - domandò il corvo. - Ho acchiappato un topo con la trappola e l'ho portato qui per offrirvelo, - disse accennando il topo che dormiva sdraiato sull'erba. Il corvo lo guardò. - È un bocconcino ghiotto e lo accetto, a condizione di non rinunziare ai miei diritti. - Fate quello che vi pare, - replicò Amabile. Il corvo non si fece pregare: chiappò il topo per la collottola e giù in un boccone. Ma quello, svegliandosi, si mise a gridare e a dimenarsi tanto forte che con le quattro zampe forò lo stomaco del ghiottone. Allora comparve fra' Cirillo, che aveva veduto tutto. Egli recava la croce, e gridò: - Via, razza nata dal Diavolo! Questa ragazza non vi appartiene più perché ha adempiuto la sua promessa. A te, topo, ha dato le ali, perché oramai sei una cosa sola col corvo; a te, corvo, ha dato le quattro zampe che volevi. Andate dunque, e restate così come avete voluto essere, fino al giorno del Giudizio. I due Maghi, scorbacchiati, se ne andarono, ma non per questo la ragazza fu salva. Il grande spavento che aveva avuto nella caverna la fece ammalare, e presto presto si ridusse al lumicino. Il tessitore si rodeva le mani dal dispiacere. Avere una figliuola così bella, la bella fra le belle, e vedersela morire nel fiore degli anni! Il padre mandò a chiamare un forestiero che curava gl'infermi; costui le dette intrugli sopra intrugli, ma Amabile non risanò. Mandò a chiamare fra' Cirillo, e fra' Cirillo l'asperse di acqua benedetta; ma Amabile non risanò. Allora mandò a chiamare una vecchia, che stava in una capannuccia su verso la Beccia, e che tutti chiamavano la Strega, e costei, guarda e riguarda, esamina che ti esamino, disse che Amabile non sarebbe guarita, perché il suo male aveva sede nel cervello. E infatti non guarì. Di giorno era un po' più tranquilla, ma la notte pareva una indemoniata, perché appena l'aria si faceva buia, lo scheletro si alzava dal fondo della cava, si avvolgeva nel lenzuolo sbrandellato, e via accanto a lei a tormentarla, a coprirla di rimproveri per la fede mancata e per esserle fuggita con l'inganno. - Spergiura! Spergiura! - le diceva, e con le mani scheletrite le cingeva il collo, e con le guance ghiacciate toccava il viso infocato di Amabile. La malata urlava, si dibatteva tutta la notte, e ogni momento faceva atto di gettarsi giù dal letto; ma lo scheletro la tratteneva con le lunghe braccia, Amabile lo vedeva e lo sentiva, ma il padre, che l'assisteva, non vedeva nulla e attribuiva quelle smanie alla febbre che divorava la figliuola. Una sera Amabile morì. Le donne del vicinato la vestirono dei suoi abiti più belli, accesero molti ceri attorno al cadavere e le misero una croce fra le mani. Prima esse pregarono per l'anima di lei, poi, stanche, cederono al sonno. Quando si destarono all'alba, che è che non è, il cadavere era sparito. Figuriamoci lo spavento del padre e delle donne! Chi diceva che i ladri lo avevano rubato per spogliarlo degli abiti! Chi diceva che il Diavolo se l'era portato via! Figuriamoci se il padre cercò il cadavere della sua Amabile per fargli dare onorata sepoltura! Si mise alla testa di una comitiva di amici, e frugò per le macchie, per i burroni; tutto fu inutile. Allora fece fare delle novene; ma sì, il corpo d'Amabile era sparito e nessuno l'aveva veduto, né in città, né nel contado. Poi, come succede sempre, egli si stancò di cercare e riprese a tessere pensando sempre alla figliuola. Ecco com'erano andate le cose. Il corvo e il topo, che ormai formavano una sola persona, perfida per cento, appena che furono burlati a quel modo da Amabile pensarono di vendicarsi atrocemente di lei, e, aspettato il sabato notte, si recarono a un luogo dove sapevano d'incontrare il Diavolo, e gli esposero l'accaduto. - Che cosa posso fare per compiacervi, figli diletti? - domandò Satanasso quando ebbe udita tutta la narrazione. - Noi vorremmo un piccolo favore soltanto, - rispose il corvo che era molto loquace e parlava anche per il compagno. - Vorremmo cioè che ogni notte lo scheletro di messer Desiderio si destasse dal sonno della morte e andasse a tormentare Amabile. All'ora della di lei morte, poi, sarebbe nostra brama che Desiderio portasse la sua promessa sposa nella cava abbandonata, e se la tenesse a fianco fino al giorno del Giudizio. - Compare, - disse il topo, che vinceva in perfidia il corvo, - non ti pare che sarebbe meglio ottenere che tanto Desiderio quanto Amabile tornassero in vita per alcune ore; così il tradito continuerebbe a tormentare la spergiura? - Bravo! - esclamò il corvo. Il Diavolo, che era stato a sentire, si dette una fregatina alle mani in segno di allegrezza, e concesse ai due Maghi quello che volevano. - Ora, - disse il topo, - voliamo pur via e andiamo a godere dello spettacolo di Amabile alle prese con lo scheletro. Quella vista ci farà buon sangue, Infatti il corvo, nelle notti della malattia di Amabile, non si mosse più di sul davanzale della finestra, e quando la ragazza fu morta volò dietro allo scheletro, che se la portava nella sua caverna umida. Nel destarsi in quel luogo d'orrore, Amabile gettò un grido, e il topo le disse: - Perfida fra le perfide, ora non c'è nessuno che ti roda la corda. - Né che ti prenda sulle proprie ali per cavarti di qui, - aggiunse il corvo. - Sposa mia, sei diventata tanto brutta che mi fai orrore; - le diceva lo scheletro, - ma posa la testa più qua, affinché mi serva da guanciale. E allora lo scheletro posava il teschio sul viso di Amabile e la copriva d'improperî. - Spergiura! ... Vile! ... Anima nera! ... Strega! ... Questa scena si ripeteva ogni notte, e il corvo e il topo non la perdevano mai; venivano da lontano per assistervi, e a tutti e due pareva di andare a nozze. Ora avvenne che, dopo un certo tempo, fu stabilito a Bibbiena di costruire una nuova chiesa in onore della Madonna, e pensarono di prender la pietra nella cava abbandonata dove giacevano insepolti i cadaveri di Desiderio e di Amabile. Gli scavatori, appena vi scesero e videro quei due corpi, corsero a Bibbiena a raccontare il fatto, e il povero tessitore, che non aveva dimenticata la figlia, andò subito nella cava con la speranza di riconoscere in uno dei due cadaveri la sua Amabile. La riconobbe infatti dalle vesti, e con molta solennità fece trasportare la salma nel sagrato della Pieve, dove le dette onorata sepoltura. Le ossa di Desiderio furono poste in altro luogo. Da quel momento in poi Amabile riposò in pace, aspettando il giorno del Giudizio, e Desiderio la cercò invano accanto a sé. Si dice che per anni e anni un corvo stesse sempre, di notte, sul sagrato della Pieve gracchiando. Era il Mago col topo in corpo. Nessun dei due aveva potuto dimenticare il tradimento. Ora saranno crepati di vecchiaia, almeno si spera. E qui la novella è finita. - Mamma, - disse Cecco, - non so perché stasera ci abbiate raccontato questa novella che mette i brividi. Pare che l'abbiate detta per la Vezzosa. La ragazza rise di cuore mettendo in mostra i bellissimi denti, e fu lei che rispose: - No, la mamma non l'ha detta per me, prima di tutto perché non son la bella fra le belle, esposta a grandi tentazioni, e poi perché sa come la penso, - e qui guardò Cecco con occhio affettuoso. - Se ha scelto stasera questa novella, è perché si suol raccontare alle future spose. La mamma ha fatto bene a seguir l'usanza; è tanto bello di fare ciò che hanno fatto quelli che vissero prima di noi. Ma quell'Amabile, sentite, mamma, è vero che fu cattiva, ma ebbe una punizione che più tremenda, credo, non avrebbe saputo inventarla neppur Dante, che ha scritto l'Inferno! - E che ne sai tu di Dante? - le domandò Cecco. - Poco o nulla. Quand'ero piccola andavo per la vendemmia da certi cugini del babbo a Rassina, e là c'era una vecchia che sapeva a mente il canto del conte Ugolino, quello dei Serpenti, e non so più quali altri. Non sapeva neppur leggere, ma li diceva così bene da farci piangere. Ella ci raccontava che al tempo dei tempi questo Dante era stato in Casentino, a Poppi, a Romena e altrove, sempre ne' palazzi de' Guidi, e qui aveva scritto anche qualcuno di quei canti. Dice che i fiorentini lo avevan messo al bando e lui, sdegnato, se n'era venuto in questi poggi a sfogare il suo risentimento. - Non sai che cosa è avvenuto di quella cugina di tuo padre, che sapeva a mente i canti di Dante? - domandò la Regina alla sua futura nuora. - Ho sentito dire che era morta, - rispose la ragazza. - Morta sì, ma prima di scender nella fossa aveva fatto una tappa al manicomio. La povera Rosa s'era tanto empita la testa di quei canti, della descrizione delle pene dei dannati, che si figurava di esser lei nell'inferno circondata di serpenti. Era uno strazio a vederla. Credimi, Vezzosa, certi libri non son fatti per gli ignoranti come noi. Se ci si comincia a riflettere, s'ammattisce, perché il nostro cervello non è avvezzo a certo cibo. Maso fece osservare alla Vezzosa che era tardi e occorreva interrompere la veglia. La ragazza salutò tutti, prese in collo i bambini per baciarli, e avanti d'uscire chiamò da parte l'Annina e le regalò le buccole che aveva prima agli orecchi. Maso la riaccompagnò fino a casa, insieme con Cecco. Sulla porta c'era la matrigna ad aspettarla, che le urlò da lontano: - Dovevi farti aspettar dell'altro! È questa l'ora? Se tardavi un momento, trovavi tanto di catenaccio. Cecco sussurrò a Vezzosa: - Coraggio, ce n'è per poco; lasciala urlare e dormi bene.

MEMORIE DEL PRESBITERIO SCENE DI PROVINCIA

679349
Praga, Emilio 1 occorrenze
  • 1881
  • F. CASANOVA. LIBRAIO - EDITORE
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Era quella la mia meta: la riconobbi subito dalla quercia fronzuta che spiegava maestosa nel mezzo i suoi rami sopra gli avanzi di una casupola bassa abbandonata come se ne vedono tante in montagna, specie di covo umano da cui il bisogno o la morte ha snidato la vita. Malgrado il suo nome prosaico di Carbonaia il luogo è delizioso: vi cresceva un'erbetta minuta e d'un bel color chiaro chiazzato a lunghe zone di menta fiorita. È remoto ed aperto nel tempo stesso. Lo Strona lo difende da una parte, e un inaccessibile burrone dall'altra: una macchia fitta di castagni cresciuti rigogliosi dalle ceneri degli antichi forni permettono di spiare non visti tutti i sentieri che scendono dal monte e salgono dalla valle. La dimora che ha servito ai carbonai è deserta da molti anni; la natura ha preso possesso di quella rovina. L'ha coperta di muschi d'edera: ha riempito tutte le fenditure coi capelveneri e colle felci, - tuttavia essa può servire di riparo contro un temporale improvviso. Come mi aveva detto lo speziale, non era un fondo fruttifero; il godimento quasi del tutto nominale di esso era da tempo immemorabile lasciato alla parrocchia, cioè ai poverelli che nel nome di lei ne ricavavano qualche pugno d'erba l'estate e qualche fardellino di legna l'inverno. Ma il sindaco pretendeva rivendicarlo per antico dritto di proprietà non mai abbandonato che precariamente dal comune, - e coonestava l'animosità col progetto di farvi passare una viottola assai incomoda del resto che dalla strada provinciale, che saliva al di là della Strema, mettesse direttamente senza passar in paese alla frazione di Fontanile, le cui case si vedevano in fondo accovacciate in una piega del monte e non giustificavano davvero colla loro importanza quella singolare premura sindacale. Inoltrandomi fra le macchie, scoprii don Luigi. Era seduto dietro la casupola sopra un grosso ceppo di castagno coverto di muschio; teneva la fronte bassa appoggiata al dosso della mano e aveva le guancie rigate di lagrime. Non si accorse di me. Ebbi rimorso di averlo spiato. Per salvare almeno le apparenze, mi rivolsi indietro pian piano e, quando mi fui allontanato convenientemente, mi posi a cantarellare ad alta voce per metterlo sull'avviso della mia presenza. Egli mi richiamò per nome. Quando tornai da lui, s'era ricomposto, ma senza ombra di dissimulazione. Mi diè uno sguardo di amichevole confidenza, mi prese la mano e la tenne alcuni minuti nelle sue senza far motto. - Figliuolo, mi disse poi, ho pensato alle idee ieri manifestate dal dottore .... e, posso errare, ma quello mi pare materialismo nè più, nè meno. - È un argomento che prova troppo .... e nulla. Coll'ammettere l'irresponsabilità delle inclinazioni, si esclude la colpa, e il male; si esclude la pena, la sanzione e il giudice .... È tutto una conseguenza. Quanto a me, dinanzi a questo cielo e a questi luoghi, testimoni di tutti i miei pensieri .... e dei miei errori, - vi assicuro, - del male che ho fatto preferisco sentirmene responsabile e accusarmene, - perchè ciò mi da la speranza di ottenere perdono per me e la consolante certezza che sarà riparato per gli altri. Che ne dite? Che potevo dire? Il materialismo allora mi dava assai meno fastidio di adesso. Non lo conoscevo che da lontano, e mi seduceva coll'apparenza di una generosa, eroica ribellione contro la più assoluta autorità dell'universo. Pure ammiravo l'ingenua bontà di quell'animo che s'adombrava al pensiero di esser liberato da una obbligazione e protestava contro l'assoluzione offertagli, con una logica che veniva dal sentimento più che dal raziocinio. Esternai la convinzione che le sue parole non avessero altro movente che una eccessiva austerità di coscienza. - Il male che avete fatto è un modo di dire, soggiunsi, ma non è di tal natura da rimordervi troppo .... e quanto alla riparazione ella è bella e fatta a quest'ora .... - Zitto, vi prego, - m'interruppe subitamente turbato, - zitto, voi non sapete nulla. Volevo replicare, ma egli ripetè: - Non sapete nulla, non sapete nulla. Poi dopo alcuni minuti di silenzio, con maggior calma e una malinconica intonazione di voce: - No davvero, figliolo, non posso scroccarvi un giudizio tanto indulgente. La santità di ser Ciappelletto mi ripugna. La sua modestia era tanto sincera e tanto viva che non ardii combatterla, tacqui. Don Luigi si alzò, passò il braccio sotto il mio e mi trasse con sè in gran fretta. Al principio del sentiero si volse, abbracciò con uno sguardo di ineffabile tenerezza quel suo prediletto ricovero. - È forse l'ultima volta ch'io vengo quassù, mormorò; - oh i decreti di Dio colpiscono giusto .... Cominciammo a scendere la china in silenzio. Don Luigi era triste, accasciato come non l'avevo mai visto. Mi parve allora assai più vecchio del solito; si appoggiava al mio braccio e camminava a stento. Appressandosi al villaggio si rinfrancò un poco; ma non tanto che Baccio non s'accorgesse della sua tristezza. E mi disse con sincera schiettezza: - Vossignoria è andato a disturbare il curato; ha fatto male, ha fatto male. Egli aveva bisogno di restar solo. - Perchè? domandai sorridendo a fior di labbra. - Perchè, quando nessuno l'inquieta, egli trova colà nella solitudine il rimedio di tutti i suoi fastidi. E mi contò i mirabili effetti di quel luogo sull'animo del curato, ch'io sapevo già dallo speziale. - Ma cosa ci trova lassù? - Dicono, rispose esitando il sacrestano e abbassando la voce, dicono che venga un angelo a visitarlo. - Un angelo, chi l'ha veduto? - Saranno quasi vent'anni, un giorno tornando dalla Valsesia, scendevo per il Mongrigio. Arrivato a un certo punto dove il sentiero sovrasta al piano della Carbonaia guardo in giù e scorgo qualcosa di bianco fra i castagni: era una figura di donna ravvolta in un velo lungo fino a terra sotto al quale traspariva una veste azzurra. La visione passò lentamente fra gli alberi e scomparve dietro il muro dei carbonai. Non la vidi che un minuto, ma ne fui abbagliato. Splendeva più del cielo!, - andava cauta ma tanto leggiera che non pareva toccasse la terra. Dopo il primo stupore calai giù, passai il ponte dello Strona e, girando intorno alla collina, passai la strada di Sulzena. Allo sbocco del sentiero della Carbonaia incontrai don Luigi. Allora aveva dei dispiaceri ed era triste, afflitto più di adesso. Ma quel dì mi sembrò tutt'altro: mi passò vicino senza vedermi, incantato come uno che viene dal paradiso. Il paragone di Baccio non mi sembrò punto strano: il suo racconto in cui altri più positivo di me non avrebbe visto che una fiaba grossolana, mi interessava grandemente. Lo ascoltai come la più seria cosa del mondo. Egli era certo in buona fede. Eravamo in sacristia dove don Luigi ci aveva lasciati soli per entrare in chiesa a parare l'altare per la benedizione. Il sacrestano mi fece la sua confidenza agitando il turibolo a ravvivarne le brace. Il barlume del crepuscolo cadeva dall'alte e strette finestrello su certi visi pallidi di madonne e di sante; il bisbiglio sommesso dei devoti che entravano in chiesa, certi echi profondi, un acuto profumo d'incenso, - la maestà del luogo disponevano l'animo al meraviglioso. Un po' di prodigio cresceva attrattive alla misteriosa figura del curato.

L'altrui mestiere

680281
Levi, Primo 2 occorrenze

Ho letto da qualche parte la descrizione di uno degli artifizi della mnemotecnica, cioè dell' arte (un tempo coltivata dai dotti e dagli studiosi, oggi stupidamente abbandonata) di esercitare e migliorare la memoria: chi voglia ricordare un elenco di trenta, quaranta o più nomi, ed eventualmente stupire il pubblico recitandolo anche a rovescio, può raggiungere lo scopo se collega mentalmente (ossia inventa un rapporto qualsiasi) fra ogni singolo nome e, ordinatamente, un angolo della propria abitazione: procedendo cioè, a partire dalla porta d' ingresso, ad esempio, verso destra ed esplorandone successivamente tutti gli angoli. Rifacendo poi nell' immaginazione lo stesso itinerario, potrà ricostruire l' elenco iniziale; se percorrerà l' alloggio in senso inverso, si invertirà anche il senso dell' elenco. Non ho mai avuto bisogno di compiere questa performance, ma non dubito che essa funzioni in generale. Non funzionerebbe invece nel mio caso, perché nella mia memoria tutti gli angoli di casa sono già occupati, ed i ricordi autentici interferirebbero con quelli occasionali e fittizi richiesti da questa tecnica. L' angolo a destra della porta d' ingresso è quello dove cinquant' anni fa stava un portaombrelli, e dove mio padre, rientrando a piedi dall' ufficio nei giorni di pioggia, depositava il parapioggia grondante, e nei giorni asciutti la canna da passeggio; dove per vent' anni è rimasto appeso un ferro da cavallo trovato da mio zio Corrado (a quel tempo si potevano trovare ferri da cavallo in corso Re Umberto), amuleto di cui sarebbe difficile stabilire se abbia o no esercitato la sua azione protettiva; e dove per altri vent' anni ha penzolato da un chiodo una grossa chiave di cui tutti avevano dimenticato la destinazione ma che nessuno osava gettare via. L' angolo successivo, fra il muro e il guardaroba di noce, era ambito come nascondiglio quando si giocava a rimpiattino; in una domenica imprecisata dell' oligocene, mi ci sono nascosto io, mi sono inginocchiato su una scheggia di vetro, mi sono ferito, ed ancora ne porto il segno sul ginocchio sinistro. Trent' anni dopo di me ci si è nascosta mia figlia, che però rideva e si faceva trovare subito; e dopo altri otto anni mio figlio con una torma di suoi coetanei, uno dei quali ha perso sul posto un dente da latte e per misteriose ragioni magiche lo ha conficcato in un buco dell' intonaco dove probabilmente si trova tuttora. Proseguendo nel cammino destrogiro, si trova la porta di una camera che dà verso cortile e che ha avuto nei decenni destinazioni diverse. Nei miei ricordi più lontani era il salotto buono, dove mia madre, due o tre volte all' anno, riceveva le persone di riguardo. Poi ci ha dormito per qualche anno una favolosa "donna fissa"; in seguito è stato ufficio commerciale di mio padre, finché, con la guerra, ha servito da accampamento e da dormitorio per parenti ed amici a cui le bombe avevano abbattuto la casa. Dopo la guerra (e il sequestro dovuto alle leggi razziali) ci hanno dormito e giocato successivamente i miei due figli, e ci ha passato molte notti mia moglie che li assisteva quando erano ammalati: io no, con l' alibi di ferro del lavoro in fabbrica e con l' egoismo olimpico dei mariti. Attualmente è un laboratorio multiplo dove si sviluppano fotografie, si cuce a macchina e si fabbricano giocattoli divertenti. Trasfigurazioni simili si potrebbero raccontare per tutti gli altri locali; da poco tempo, e con disagio, mi sono accorto che la mia poltrona preferita occupa il luogo preciso in cui, secondo la tradizione famigliare, io sono venuto al mondo. La mia casa è situata in un posto fortunato, non troppo lontano dal centro urbano eppure relativamente tranquillo; la proliferazione delle auto, che riempie ogni cavità come un gas compresso, è arrivata ormai fin qui, ma solo da pochi mesi si fatica a trovare un parcheggio. Le pareti sono spesse, ed i rumori della strada giungono attutiti. Un tempo tutto era diverso: la città finiva a poche centinaia di metri verso sud, si andava attraverso i prati "a vedere i treni" che allora, prima che si scavasse il sistema di trincee del quadrivio Zappata, correvano a livello del suolo. I controviali sono stati asfaltati solo verso il 1935; prima erano acciottolati, ed al mattino si veniva svegliati dai rumori dei carri che venivano dalla campagna: fragore dei cerchioni di ferro sui ciottoli, schiocchi delle fruste, voci dei conducenti. Altre voci famigliari salivano dalla strada in altre ore del giorno: i richiami del vetraio, dello stracciaio, del raccoglitore dei "capelli del pettine", a cui la già nominata donna fissa vendeva periodicamente i suoi, lunghi e canuti; occasionalmente, di mendicanti che suonavano l' organetto o cantavano in strada, ed a cui si gettavano monetine incartate. Attraverso tutte le sue trasformazioni, l' alloggio in cui abito ha conservato il suo aspetto anonimo ed impersonale: od almeno, tale sembra a noi che ci viviamo, ma è noto che ognuno è cattivo giudice delle cose che lo riguardano, del proprio carattere, delle proprie virtù e vizi, perfino della propria voce e del proprio viso; forse ad altri potrà apparire fortemente sintomatico delle tendenze appartate della mia famiglia. Certo, a livello consapevole, alla mia abitazione non ho mai chiesto molto di più del soddisfacimento dei bisogni primari: spazio, calore, comodità, silenzio, privatezza. Né mai ho consapevolmente cercato di farla mia, di assimilarla a me, di abbellirla, arricchirla, sofisticarla. Non mi è facile parlare del rapporto che ho con lei: forse è di natura gattesca, come i gatti amo gli agi ma posso anche farne a meno, e mi sarei adattato abbastanza bene anche ad un alloggiamento disagiato, come varie volte mi è successo, e come mi succede quando vado in un albergo. Non credo che il mio modo di scrivere risenta dell' ambiente in cui vivo e scrivo, né credo che questo ambiente traspaia dalle cose che ho scritte. Devo quindi essere meno sensibile della media alle suggestioni ed influenze dell' ambiente, e non sono sensibile affatto al prestigio che l' ambiente conferisce, conserva o deteriora. Abito a casa mia come abito all' interno della mia pelle: so di pelli più belle, più ampie, più resistenti, più pittoresche, ma mi sembrerebbe innaturale cambiarle con la mia.

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Una rappresentava una barchetta vuota, priva di remi, inclinata su un fianco e abbandonata fra cespugli e alberi. Dissi che la nostra vecchia domestica, quando le chiedevamo "Come va?", soleva rispondere sconsolatamente "Come una barca in un bosco", e la ragazzina mi parve soddisfatta. Un altro cartone rappresentava alcuni contadini che dormivano sdraiati a terra, in mezzo ai covoni, col cappello calato sul viso; mi suggerirono sete, fatica, riposo meritato e precario. Un terzo cartone portava l' immagine di una giovane accovacciata ai piedi di un letto in una posizione innaturale e forzata, col capo nascosto tra le spalle e la schiena curva, come se della schiena stessa volesse farsi una corazza contro qualcosa o qualcuno; a terra c' era un oggetto mal distinto che poteva essere una pistola. Non ricordo il soggetto degli altri cartoni; quel lavoro d' interpretazione mi andava a genio e mi faceva sentire a mio agio, la ragazzina mi disse che se n' era accorta, non aggiunse altri commenti e mi fece passare nella camera attigua. Qui, seduta dietro una scrivania, stava una giovane elegante e bellissima. Mi sorrise come se mi conoscesse da molto tempo, mi fece sedere di fronte a lei, mi offerse una sigaretta e incominciò a farmi domande tecniche, personali e intime, sul genere di quelle che fanno i confessori in confessione. Le interessavano in specie i sentimenti che provavo verso mia madre e mio padre: su questi insisteva fastidiosamente, ma senza mai allentare il suo sorriso professionale. Ora, a quel tempo io avevo già letto il mio Freud e non mi sentivo del tutto sprovveduto. Me la cavai con decoro, anzi, osai perfino dire alla bellissima che era un peccato che ci fosse così poco tempo, se no magari saremmo arrivati al transfert e io l' avrei invitata a cena, ma lei tagliò corto, con l' aria un po' seccata. A questo punto, la faccenda cominciava nettamente a divertirmi: l' angoscia del sentirmi scandagliato e pesato era scomparsa. Seguì un' altra stanzetta e un' altra esaminatrice: era più anziana dei suoi colleghi e anche più spocchiosa. Non mi guardò neppure in faccia e mi squadernò sotto il naso le dieci figure di Rorschach. Queste sono grosse macchie informi ma simmetriche, ottenute piegando in due un foglio bianco su gocce d' inchiostro nero o colorato: a prima vista possono sembrare coppie di gnomi, o scheletri, o maschere, o insetti visti al microscopio, o uccellacci; a seconda vista non significano più nulla. Pare che il modo in cui vengono interpretate dia indizi sulla personalità complessiva dell' individuo. Ora, era successo che proprio pochi giorni prima un amico mi aveva parlato di queste figure, e mi aveva anche imprestato il manuale che le accompagna, e che spiega con molti curiosi dettagli come la loro interpretazione vada interpretata; cioè che cosa si nasconda dentro colui che nelle macchie vede un teschio o rispettivamente un' orchidea. Mi sembrava corretto avvertire la mia esaminatrice che la prova sarebbe stata inquinata. Glielo dissi, e lei si gonfiò tutta dalla rabbia. Come avevo potuto permettermi una simile trasgressione? Inaudito: erano cose riservatissime, cose loro, in cui i profani non dovevano cacciare il naso. Il loro era un mestiere delicato, e nessuno doveva cercare di rubarlo. Ma soprattutto: che cosa avrebbe scritto adesso sulla mia scheda? Non poteva certo lasciarla bianca. Insomma, io la avevo messa in una situazione senza vie d' uscita. Mi congedai con qualche scusa indistinta, e archiviai la faccenda; quando arrivò la lettera d' assunzione risposi che ero già sistemato diversamente, il che era vero. Qualche mese più tardi venni casualmente a sapere che i veri candidati non eravamo noi trenta, ma loro, i nostri esaminatori: erano una équipe di psicologi in prova, e i test somministrati a noi erano il loro esordio, quello che per gli apprendisti operai si chiama il "capolavoro". Dopo di allora non sono più stato sottoposto a esami di questo tipo, e ne sono contento. Ne diffido: mi sembra che violino alcuni nostri diritti fondamentali, e che siano oltre a tutto inutili, perché i candidati vergini non esistono più. Mi piacciono invece quando sono fatti per gioco: allora si spogliano della loro presunzione, ed anzi stimolano la fantasia, fanno nascere idee nuove, e ci possono insegnare qualcosa su noi stessi.

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ATTRAVERSO L'ATLANTICO IN PALLONE

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

Malgrado la sua scoperta risalga a un'epoca così avanzata, Terranova rimase quasi abbandonata e la sua colonizzazione non iniziò che nel 1623 con lord Baltimore. L'aerostato spinto da un freddo vento di sud-ovest, filava sopra quella lunga e sottile penisola che racchiude, verso occidente, la baia Placentia, dirigendo verso quella di Trinità. Da quell'altezza l'isola era interamente visibile in tutti i suoi punti, anche i più lontani. Era come un'immensa carta geografica, spiegata sotto gli occhi degli arditi aeronauti. Grandi boschi di larici, di betulle, di pini e frassini apparivano qua e là, come pure parecchi villaggi, situati lungo le spiagge della baia. Si vedevano i pescatori scendere precipitosamente a terra e gli abitanti uscire in fretta dalle capanne ad ammirare il vascello aereo, che filava maestosamente sopra le loro teste e si udivano di quando in quando dei clamori e anche qualche detonazione. "Diavolo!" esclamò l'irlandese, che non amava il silenzio. "Ci prendono per aquile? Fortunatamente siamo molto alti e le loro palle non arriveranno fino a noi." "Crederanno di salutarci," rispose Kelly. "Che siano indiani?" "Gli indiani di Terranova sono morti tutti e da parecchi anni." "Li hanno distrutti?" "La civiltà dei bianchi è fatale alle razze di colore. Dove si introduce, distrugge." "Vi erano delle tribù all'epoca della scoperta?" "Sì, e non poche, a quanto sembra, ma scomparvero presto. L'ultima fu quella dei Micmac." "Erano proprio dei barbari?" "No, anzi si scoprirono in loro notevoli principi di civiltà, che dimostravano che, in tempi antichi, avevano avuto contatti con gli uomini bianchi." "In tempi anteriori alla scoperta dell'isola?" chiese O'Donnell con sorpresa. "Sì, amico mio." "Ma l'isola fu scoperta solo nel 1497! Chi poteva averla visitata prima di Caboto?" "Voi mettete in campo un'autentica questione, che ha fatto versare torrenti d'inchiostro agli storici europei." "E quale mai?" "Che l'America settentrionale sia stata visitata dagli europei cinque secoli prima delle scoperte di Colombo e di Caboto." "Ma da chi?" "Dagli scoto-irlandesi e dai norvegesi." "Questa è bella!" "Sembra che prima del 1000 parecchi audaci marinai scoto-irlandesi, spinti o dall'istinto dell'emigrazione o dal desiderio di conquista, siano sbarcati su queste isole e sulle coste del Canada, fondando degli insediamenti e introducendo fra le tribù primitive la religione cristiana. Infatti, si sa che quando i norvegesi, dopo aver scoperto l'Islanda e la Groenlandia, sbarcarono su queste coste, trovarono tracce evidenti del cristianesimo." "Ma che sia proprio vero che i norvegesi siano sbarcati in queste regioni?" "Le tradizioni leggendarie che la Saga nordica ha trasmesso fino a noi, accennano alle spedizioni dei norvegesi e degli scoto-irlandesi, e ormai si è certi che qui fondarono parecchi insediamenti, specialmente nella Nuova Scozia e nel Nuovo Brunswick." "Ma che cosa accadde delle loro colonie? Perché non si spinsero verso il sud, alla conquista delle regioni più miti e più ricche?" "Ecco quello che si ignora. Di quelle colonie non rimasero che le tracce, sono state distrutte dai selvaggi o qualche terribile malattia ha spento quei primi coloni? Ciò però non toglie alcun merito alle grandi scoperte di Colombo e di Caboto, perché furono loro a far conoscere all'Europa un altro immenso continente, la cui esistenza era stata messa in dubbio e ... " "Che cosa?" "Non vi sembra che il freddo stia improvvisamente aumentando. O'Donnell?" "Al punto che batto i detti, ingegnere." "Ascoltate!" Entrambi tesero le orecchie e udirono in aria dei leggeri crepitii. Pareva che dei corpuscoli urtassero la superficie degli aerostati. Kelly guardò in alto e vide brillare, ai raggi leggermente tiepidi del sole, delle pagliuzze di ghiaccio che si tenevano sospese in aria. "Comprendo da cosa deriva questo brusco abbassamento della temperatura," disse, "attraversiamo uno strato di sottili ghiaccioli. Brutto segno: porterà una nevicata." "Tò!" esclamò O'Donnell. "Non vi sembra che ci stiamo abbassando?" "Infatti è vero. Questo freddo repentino tende a restringere l'idrogeno, ma appena saremo usciti da questo strato, il sole tornerà a dilatarlo e noi a salire." Il vascello aereo si abbassava lentamente, ma doveva essere cosa di breve durata. Ben presto il barometro avvertì gli aeronauti che i trovavano a 3000 metri di altezza, mentre prima si erano sempre tenuti a 3500. Quell'abbassamento permise di osservare meglio la grande isola che si stendeva sotto di loro. Si distinguevano perfettamente le abitazioni sparse sul bordo delle grandi boscaglie, gli abitanti che cercavano di correre dietro all'aerostato, credendolo forse un gigantesco uccello di nuovo genere, data la sua forma così differente dai soliti palloni, e si udivano nettamente le loro grida di stupore. Alle tre pomeridiane O'Donnell e l'ingegnere scorsero, come annidata sulle sponde di una baia, San Giovanni, la capitale dell'isola. Per alcuni istanti poterono vedere il palazzo dell'assemblea, la dogana, le fortificazioni e le numerose graves che si estendevano per lungo tratto fuori dalla città, poi non videro più che una massa biancastra poiché il vento li spingeva verso nord, ossia in direzione delle baie di Trinità e Bonavista. Alle tre e quaranta minuti si libravano sopra il capo Fuels, avvistando l'isola del Fuoco, e pochi minuti più tardi l'aerostato abbandonava l'isola, filando sopra l'oceano Atlantico, le cui onde si urtavano con profondi muggiti, coprendosi d'un immenso manto di candida spuma." "Addio terra!" esclamò O'Donnell. "D'ora innanzi non vedremo che acqua." "Purché il vento non cambi direzione," disse l'ingegnere. "Potrebbe spingerci verso il nord e fors'anche ricondurci verso l'America." "Dove ci porta ora?" "Diritti al grande banco. Non vedete laggiù, verso l'est, quei punti neri? Sono le navi occupate nella pesca ai merluzzi." "E lontano però il grande banco" "Vi giungeremo fra un paio d ore, se la nostra velocità, che è ora di quaranta miglia, non diminuisce." "Si pescano dappertutto i merluzzi, intorno all'isola?" "Sì, specialmente quando i pesci cominciano a lasciare il banco per cercare un altro cibo. In primavera i merluzzi si radunano in grandi masse nei dogger-banks delle coste di Islanda, nei fiorden della Norvegia e nei golfi dell'Irlanda, poi si dirigono tutti insieme verso Terranova. È in questa stagione che dalle coste della Norvegia, della Francia, dell'Inghilterra e dell'Olanda partono vere flottiglie di pescatori, i quali, cosa sorprendente davvero, qui vengono senza bisogno di carte e di strumenti necessari a fare il punto, seguendo, direi quasi, una traccia secolare. Si calcolano fino a seimila navi che tutti gli anni vengono impiegate nella pesca del prezioso pesce." "Devono pescarne una quantità immensa." "Dai 35 ai 40 milioni." "E chi per primo s'accorse della riunione dei merluzzi su questo grande banco?" "Caboto lo aveva notato; poi un altro ardito navigatore italiano, il fiorentino Giovanni da Verrazzano, che prese possesso di Terranova nel 1525 in nome di Francesco I re di Francia e che poco dopo cadde sotto le lance e le scuri degli indigeni; poi Cartier, lo scopritore del fiume San Lorenzo." "Si pescano anche nel San Lorenzo?" "No, i merluzzi non penetrano mai nei fiumi, anzi si tengono lontani dalle foci." "Terminata la stagione sul grande banco, si radunano altrove?" "No, si disperdono, scompaiono e non si vedono più per il resto dell'anno. Si ignora dove vadano a svernare durante la stagione fredda, ma pare che si tengano in acque assai profonde. Ma ecco le prime barche da pesca, O'Donnell, aprite bene gli occhi, e non vi dispiacerà di aver fatto una volata sopra il grande banco di Terranova.

I CORSARI DELLE BERMUDE

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

§In quel momento i due marinai della Tuonante si erano fermati ad osservare una vecchia casamatta abbandonata. All'intimazione, Testa di Pietra e Piccolo Flocco si erano scambiati un rapido sguardo, poi il primo, piantate le callose manacce sui fianchi, chiese: - E perché non si può passare? - Tale è l'ordine del governatore - rispose l'inglese, un giovane biondo e roseo, cogli occhi azzurri e magro quasi quanto la cameriera di miss Wentwort. - Dovevo andare a trovare mio fratello per portargli un paio di pagnotte - disse il bretone. - Me le sono levate dalla bocca per serbargliele. - Non si passa! - replicò il testardo, tenendo sempre puntata la baionetta. - Ti regalo un dollaro. - Nemmeno dieci: non voglio correre il pericolo di farmi fucilare. Testa di Pietra, con una mossa fulminea afferrò a due mani la baionetta, alzando subito il fucile per non ricevere una scarica, mentre Piccolo Flocco girava dietro al soldato, lo afferrava per le gambe e lo sollevava. Il disgraziato, lasciò andare l'arma, e cadde al suolo. - Presto, nella casamatta! - disse Testa di Pietra. Lo afferrarono, e lo portarono di corsa dentro la piccola costruzione, imbavagliandolo con uno dei larghi fazzoletti che usano i marinai. - Hai una sagola? - chiese il bretone. - Che domanda! ... Sai bene che i gabbieri ne hanno sempre nelle loro tasche. - Lega questo papagallo, mentre lo tengo fermo. - E che cosa ne faremo di questo pappagallo? - Lo lasciamo qui. - La casamatta non è frequentata, ed egli correrà forse il rischio di morire di fame - disse il giovane gabbiere. - Questo è affare suo: la guerra. te l'ho già detto, ha le sue crudeli esigenze. - Lo sfido a slegarsi. - Allora possiamo riprendere la nostra ispezione. Voglio raggiungere il corridoio che mette nella camera da mina, per vedere se l'hanno ricoperta ed in quale stato si trova. Trascinarono l'inglese, legato come un salame, nell'angolo più oscuro della casamatta, poi tornarono all'aperto. Primo pensiero di Testa di Pietra fu quello d'impadronirsi del fucile per farsi credere una sentinella. Quella precauzione era stata buona, poiché centocinquanta metri più innanzi i due marinai s'imbatterono in un altro soldato inglese. - Alt! Non si passa! - gridò. - Ordine del governatore. - Non vedi che sono anch'io di guardia? - rispose prontamente il bretone. - E quel giovane che ti accompagna? - È un marinaio che devo condurre da un ufficiale, avendo una lettera urgente da consegnargli. - Quando mi dici che si tratta di una lettera urgente, prosegui pure, camerata. - Grazie: quando ritorno ti pago da bere. So che i viveri scarseggiano in Boston, ma vi si trovano ancora bottiglie di gin e di brandy. Ripresero la via, salutati da una specie di grugnito da parte della sentinella. Erano giunti ai ridotti. Era là che avevano fatto scoppiare la mina. Testa di Pietra s'avvide subito che gl'inglesi, durante quelle quarantotto ore, avevano sgombrato le macerie e rimontato le casematte. - Perbacco! - esclamò. - Come hanno lavorato questi bravi soldati, sebbene affamati! Mi pare che, per il momento, non vi sia nessuno. Si può andare a vedere. - Che il passaggio sia stato riaperto? - chiese Piccolo Flocco. - Ho questa speranza. Esaminò attentamente le due casematte, ed entrò in quella segnata con un 24 dipinto in rosso. - Lì finiva il corridoio - disse. Entrò risolutamente, poi usci subito, e disse a Piccolo Flocco: - Va' a vedere tu. Io rimango di guardia e non lascio passar nessuno. - Sta bene - rispose Piccolo Flocco e scomparve. Il bretone passeggiava da una diecina di minuti, quando un soldato tedesco si cacciò dietro la trincea che copriva le casematte. - Alt! - gridò con voce tuonante il mastro. - Non si passa: ordine del governatore. - Terteuffe! Io afere sparato tutt'oggi e crepare di fame. - Va' a crepare in un altro luogo, ma non qui - rispose il mastro. - Mia gamella trovasi nella casamatta. - Andrò a cercarla io: non fare un passo innanzi, o sparo. Il tedesco, rispettoso della consegna, si sedette su un cumulo di terra, mentre il bretone entrava nella casamatta per cercare la gamella. Ci volle un bel po' a trovarla, essendovi poca luce; ma finalmente uscì, gridando: - Prendila, e vattene al diavolo! Nessuno rispose alla chiamata. - Che sia scappato? - si chiese il bretone. Fece il giro del mucchio di terra, e lo trovò disteso in una pozza di sangue e senza vita. Una palla l'aveva nettamente decapitato. Tornò precipitosamente verso la porta della casamatta per paura di subire la medesima sorte, ed attese impaziente il ritorno di Piccolo Flocco. Trascorsero altri quindici minuti poi il giovane marinaio ricomparve. - Dunque? - gli chiese subito il bretone. - Hanno sgombrato il passaggio dai rottami e vi hanno collocato una nuova mina - rispose Piccolo Flocco. - Hai attraversato la camera? - Certo. - Anche il secondo passaggio è aperto? - Lo scoppio non lo ha affatto danneggiato. - Ne sei sicuro? - Sicurissimo. - Allora siamo a posto - rispose il bretone. - Prima di mezzanotte saremo a bordo della corvetta insieme con la bellissima miss e col mio merluzzo secco. - Passerà la signora? - Se passo io, che sono grosso, passerà anche lei. Giungerà alla estremità della galleria colle vesti strappate, ma si rifarà a bordo. Sai bene che abbiamo più di venti casse di vestiti, di cappelli e di biancheria. Volsero le spalle alle casematte e ripresero la via del ritorno, mentre il bombardamento aumentava d'intensità. Testa di Pietra ed il giovane gabbiere, rientrarono in città. Annottava, e solo le bombe rompevano le tenebre. Le ultime candele di sego di Boston erano più utili a rinforzare il brodo degli assiani, che a dare la luce. Dopo aver girato per parecchie vie, giunsero finalmente in prossimità dell'Albergo delle trenta corna di bisonte. Con loro grande sorpresa, videro parecchie persone ferme dinanzi alla porta, che parlavano animatamente. Il bretone provò subito un gran colpo al cuore. - Dio! - mormorò. - Che cosa è successo? Piccolo Flocco, non ho il coraggio di avvicinarmi. - Che sia avvenuta qualche rissa fra ubriachi? - rispose il gabbiere. - Io penso al comandante. - Che un colpo di sole mi ammazzi! Non mi ricordavo in questo momento che il capitano fosse lì dentro. - Che fare? - chiese Testa di Pietra, il quale si trovava più imbarazzato che mai. - Non ho mai avuto paura; eppure, in questo momento tremo. Guardò meglio. I borghesi mescolati ad alcuni soldati tedeschi cominciavano ad allontanarsi: i primi per andare a cena, ed i secondi per obbedire alla ritirata. - Possiamo avvicinarci anche noi - disse. Voglio sapere che cosa è successo. Alzò il cane della sua pistola, respinse tre o quattro borghesi che si ostinavano a rimanere dinanzi all'Albergo delle trenta corna di bisonte, intimando loro con voce minacciosa di tornare subito alle loro case, ed entrò seguito da Piccolo Flocco. La sala era in pieno disordine. Tavolini e sedie erano rovesciati, molte bottiglie e piatti in frantumi. Il taverniere stava appoggiato al banco, guardando tristemente quella rovina. Non si era ancora deciso a mettere un po' d'ordine in quella stanzaccia. Vedendo entrare il bretone, aprì le braccia, facendo un gesto di disperazione. - L'hanno preso! - gemette mastro Taverna. - Quel bravo gentiluomo! Testa di Pietra si diede due poderosi pugni sul capo e diventò livido. - Preso il mio capitano! esclamò. - Sì, mio signore. - Quando? - Un'ora fa. - E chi è venuto ad arrestarlo? - Dieci soldati inglesi comandati da un capo della polizia. - Si è difeso? - Sembrava un giaguaro. Ne ha infilzati due, ed ha bruciato le cervella ad un terzo; poi ha dovuto arrendersi oppresso dal numero, quantunque si fosse servito dei miei piatti e delle mie bottiglie come mitraglia. - Preso! Il capitano preso! - esclamò Piccolo Flocco, il quale non era meno livido ed atterrito del bretone. Testa di Pietra si era lasciato cadere su una sedia, come se fosse stato preso da malore, ma subito si rialzò chiedendo: - E la miss? - Arrestata anche lei! - rispose mastro Taverna. - È terribile! - aggiunse Piccolo Flocco. - Non hanno lasciato qui che quel tedesco, che continua a dormire, e quella signora magra ed attempata. - La cameriera? - gridò il bretone. Si scagliò su per la scala ed entrò come una bomba nella camera che il Corsaro aveva destinato alle due donne. - Miss Nelly, - disse il bretone - è proprio vero che hanno portato via la vostra padrona? - Sì, marinaio, - rispose la donna, tergendosi le lagrime. - Sono stati i soldati del marchese che l'han rapita. Ah, povera padrona! Il bretone si era messo a passeggiare per la stanza dandosi continuamente pugni sul capo e domandandosi con voce rabbiosa - Che fare? Che fare? Me lo fucileranno di certo quel bravo comandante che amo come un figlio. Bisogna salvarlo; ma come? Ad un tratto interruppe la sua passeggiata di orso in gabbia e si fermò dinanzi alla cameriera. - Le sentinelle del castello vi conoscono? - le domandò. - Oh! quasi tutti i soldati. - Dunque non avreste nessuna difficoltà ad entrare nella torre. - No. - Uditemi bene, mia dolce Nelly. Ormai la ritirata è suonata, quindi è troppo tardi, ed anche troppo pericoloso avventurarsi per le vie di Boston. Domani mattina vi recherete al castello e cercherete di vedere la vostra padrona, che non sarà certamente stata cacciata in prigione come una donna qualsiasi ... - Oh no! Il marchese non lo permetterebbe. - Benissimo! - rispose Testa di Pietra. - Cercherete di sapere dove hanno rinchiuso il baronetto e quali istruzioni hanno gl'inglesi: verso mezzogiorno tornerete qui. Quel valoroso non deve morire, né fucilato, né impiccato. - Oh no! la mia padrona ne morrebbe di dolore. Ama tanto sir William! - Noi rimarremo in Boston fino a domani sera, perché sarà necessaria la notte per raggiungere la nostra nave. Riposate tranquilla, mia Nelly, e pensate a me. Il mastro fece un goffo inchino e discese nella taverna, dove trovò Piccolo Flocco e mastro Taverna impegnati in una animatissima conversazione. - Giungi in tempo - disse il giovane gabbiere. - L'albergatore mi faceva or ora osservare che i soldati o i policemen potrebbero improvvisamente ritornare. - Lo so, per il Borgo di Batz! - esclamò Testa di Pietra. - Mi aspetto di vederli giungere da un momento all'altro. - Perciò mastro Taverna ci propone di nasconderci in un luogo che nessun poliziotto del mondo, per quanto abile, saprebbe scoprire. - È vero - confermò l'albergatore. - Dove si trova? - chiese il bretone. - Nel mio giardino. - Vi è un sotterraneo forse? - No, un pozzo, il quale sopra il livello dell'acqua ha una specie di stanza. - Vi è molta acqua nel pozzo? - Forse un metro e non più. È un mese che non cade una goccia d'acqua. - Hai una fune solida? - Si mio signore. - Mandaci giù bottiglie, candele, tabacco, coperte, e non dimenticarti i salciciotti e il prosciutto. - E di quel tedesco che dorme ancora che cosa devo farne? - Gli rendo il suo vestito e riprendo il mio. Quando si deciderà a svegliarsi, lo manderai con Dio, dopo d'avergli offerto qualche bicchiere di gin. Il bretone entrò nella stanza-magazzino, si spogliò rapidamente e si rimise il suo costume da marinaio. - Si può andare - disse rientrando nella sala. - Giacché i policemen non giungono, approfittiamone per sottrarci alle loro ricerche. Mastro Taverna chiuse la porta e la sprangò, essendo già ora inoltrata; scese nella cantina a prendere una solida fune lunga una ventina di metri, poi disse: - Andiamo, miei gentlemen. Fece loro attraversare uno stretto corridoio e li condusse in un orticello che si trovava dietro l'albergo. Nel mezzo vi era un pozzo. Una solida spranga di ferro ne traversava la bocca piuttosto larga. Testa di Pietra, aiutato da Piccolo Flocco, fece alla fune diversi nodi, assicurò solidamente un capo alla spranga e gettò l'altro nel pozzo. - Scendete dieci metri circa - gli disse mastro Taverna, porgendogli un pezzo di candela. - Poi ci penserò io. Il bretone, s'aggrappò alla fune, e dopo mezzo minuto entrava in una specie di camera umidissima costruita in un fianco del pozzo.

CONTRO IL FATO

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Steno, Flavia 1 occorrenze

Quell'alcova azzurra, tutta chiusa, custodita da due amorini alati, era troppo seducente e piena di promesse per poterla abbandonare, e quella splendida creatura da tempo trascurata, non gli era mai sembrata tanto bella, così bianca e rosea, un po' stanca, un po' languida, abbandonata tutta sul letto ampio e basso, colle spalle ed il petto scoperti offrentisi ai baci. Nel suo sangue acceso ed eccitato, divampò a un tratto il desiderio. - Sarah!... - disse con voce bassa e implorante, chinandosi su di lei e passandole una mano sotto le spalle. - Lasciami! - non potè far a meno di gridare la duchessa, spaurita e tremante, rabbrividendo all'idea di doverlo subire ancor fremente e inebriato dagli amplessi dell'altra. Ma eccitato e alterato com'era, egli non avvertì l'accento pieno di terrore e di ripugnanza. Credette si schermisse per quell'istintivo senso di pudore, che impedisce sempre ad una donna di offrirsi intera al primo bacio e proseguì più incalzante, tutto curvo su di lei, mordendole la bocca e scompigliandole i capelli. Era un impeto di passione irruente, un soffio di voluttà acre e selvaggia contro il quale essa si difendeva con tutte le forze, torcendosi per svincolarsi dalla stretta di lui, supplicando e gemendo con accenti interrotti e soffocati dai baci, respingendolo colle mani, colle ginocchia, col petto, orribilmente sgomenta dall'idea di appartenergli così, di non poter vincere, di sentirsi mancare e svenire sotto quei baci di fuoco che le toglievano a poco a poco tutta la forza. - Non voglio i tuoi baci, no, no! - supplicava straziata. E finalmente questo grido supremo, cento volto ripetuto, non vinto mai nè dalle carezze, nè dalle proteste, lo percosse brutalmente, riempiendolo di stupore. - Perchè, amor mio? - domandò, senza lasciarla, ma sollevandosi un poco a guardarla in viso. Essa tacque: il cuore le palpitava assai forte in petto, gli occhi neri, stanchi di passione, si riempivano di lacrime. - Perchè non vuoi i miei baci? - insistè lui. E allora, fremente d'indignazione: - Perchè mi ripugni! - ella gridò, chiudendo gli occhi per non vederlo. Luciano si rizzò mortalmente pallido sotto l'insulto che in quell’ora, in quel luogo, era il più sanguinoso ed umiliante che potesse ricevere. - Sarah! - gridò con voce alterata dallo stupore o dalla rabbia. - Sei impazzata, Sarah!... Soffriva, ed era realmente sincero nel suo dolore; ah! quella parola sulla bocca della donna che portava il suo nome, e che egli credeva pur d'amare, a modo suo!... Ah, peggio ancora della parola, la ripugnanza e il disgusto nel cuore e nei sensi di quella donna, che per lui solo aveva conosciuto l'amore. Sarah piangeva in silenzio voltata bocconi nel letto, col viso nascosto nel guanciale e la stupenda massa di capelli d'oro scomposta tutta come un'enorme aureola. E per quel pianto egli ebbe l'intuizione che qualche cosa di molto grave doveva essere successo alla poveretta, così stranamente eccitata e cattiva. - Hai fatto per ridere, non è vero? Dimmi che fu solo un cattivo scherzo; dimmelo per carità!... – S'era chinato un po’ fino a sfiorarle i capelli, e la sua voce era tanto cupa e angosciosa, che essa ne fu profondamente scossa. - Oh, quanto male m'hai fatto! - singhiozzò. - Io? io t'ho fatto del male? Ora cominciava a spiegarsi un po' il vivo sdegno di lei. - Dimmi tutto.... - pregò. - Che vuoi ti dica? So tutto, ecco! so tutto e non ti amo più, non voglio amarti più, perchè tu m'inganni, ti ridi di me, e non sai che farti del mio amore ch'era tanto vero e grande! oh Dio!... Finì in un gemito straziante il lamento doloroso, che era proprio il sangue del suo cuore ferito. Luciano comprese: essa aveva scoperto qualcuna delle sue quotidiane infedeltà; ciò lo seccava assai, ma spiegava benissimo la frase terribile, che non il cuore e non i sensi, ma l'orgoglio ferito della sua povera innocente, gli aveva gettato in faccia. Oh avrebbe egli ben saputo illuderla ancora e farsi perdonare!... - O mia povera bimba! - sussurrò baciandola affettuosamente sulla fronte, come avrebbe fatto una madre. Dimmi dunque che c'è stato, che t'hanno detto....- pregò, immaginando che da qualche pettegolezzo femminile ella avesse potuto sapere qualche cosa. - Oh, no, non m' hanno detto soltanto, ho anche veduto! - singhiozzò lei. - Va' non potrai negare!... -Luciano corrugò la fronte assai seccato. Essa aveva veduto? Ciò era peggio di quanto immaginava; bisognava sapere che cosa avesse veduto. E dolcemente, lentamente supplicandola, riuscì a farsi narrar tutto, mentre il racconto di quella triste conversazione con il signor Rook le strappava torrenti di lacrime. Luciano ascoltò silenzioso col viso conturbato, sul quale si riflettevano le tristi impressioni dell'anima. Il signor Rook era stato tanto vigliacco? Ah, gliel'avrebbe pagata! Non era l'aver tentato di sedurgli la moglie ciò che lo indignava maggiormente, molto più che Sarah con delicatezza infinita e forse sbagliata, aveva appena appena alluso a questo per non addolorarlo; ma l'altro fatto bassissimo di aver svelato a lei le facili relazioni del marito.... Bel favore da amico, in verità! Ah! quel Yankee!... Quanto a Sarah, gli fu facilissimo di convincerla che aveva sbagliato. Non c'era nulla di vero! Le donne che essa aveva veduto, erano alcune artiste della nuova compagnia d'operette del Casino; egli le aveva trovate per pura combinazione passeggiando con Lovere e con Yglau in quelle sale. Ora si rammentava d'aver incontrato il signor Rook appunto là intorno. Certo il vigliacco aveva profittato di quella combinazione, per far credere a lei d'essere tradita, por farle odiare il marito e supplirlo così!... Come mai essa, tanto intelligente e colta, non l'aveva capito? E tutto queste ragioni, tutte queste proteste, erano avvalorate da tanti baci discreti e timidi, da un viso così sinceramente addolorato, da un accento così schietto, che Sarah cominciava a lasciarsene penetrare, ad ammetterle buone, ad abbandonarsi ancora, ebbra di felicità, alla gioia immensa di credersi amata. - Ma, - obiettò ancora timidamente - tu eri appoggiato sulla spalla di quella donna.... - Oh, mia povera innocente! - sussurrò lui, abbracciandola. - Credi tu che quelle sieno donne? Sono femmine e nulla più! Non si trattano certo col rispetto che si ha per una signora, e non si sciupa, non si profana con esse l’amore! M'ero appoggiato su di lei, dici? Non rammento! Può darsi che un po' squilibrato dallo sciampagna bevuto poco prima al buffet e dai profumi della festa, mi sia dimenticato al punto d'appoggiarmi alla spalliera della sua seggiola, ma non certo su di lei.... e ciò per discorrere meglio con Lovere che mi stava proprio di fronte.... E tu, tu, povero amore, hai tanto sofferto? Hai creduto che io non ti amassi più, che ti dimenticassi per quelle miserabili! Oh, Dio, Dio! come se fosse possibile non amarti! Come se si potesse trovare una donna più bella, più buona, più cara di te!... Cattiva che sei!... Non hai veduto come son tornato ansioso dei tuoi baci? - soggiunse più dappresso, più piano, sicuro di aver trionfato, soffiandole in viso tutto il folle desiderio poco prima represso. Essa si schermiva ancora un po' dubitosa tuttavia, ma felice, oh, tanto felice e credula per l'immenso bisogno di illusione che le teneva il cuore, già vinta e inebriata da quella che credeva gran passione, ancor più dolce e soave dopo lo strazio sofferto. E gli tese la bocca avida di baci e gli aprì le braccia desiderose, offrendosi finalmente tutta, povera cara, tanto bisognosa d'affetto e di tenerezze. Fu con un sorriso di trionfo che Luciano le diede quella notte l'ultimo bacio. - È tutto passato, non è vero? - le sussurrò prima di lasciarla. - Sì, amore. Ma senti, partiremo domani, eh? - ella implorò, colle braccia sempre avvinto al collo di lui. - Voglio prima dare una lezione a quel vigliacco! fece il duca sdegnoso. - Oh, no, no, ti supplico! Lascialo stare, fuggiamo soltanto al più presto, perchè io ho paura, ho tanta paura!... - Faremo come tu vorrai!... - egli rispose galantemente. Quella promessa finì di rassicurarla. Ma la mattina seguente, quando Luciano risalì dopo la colazione portando a Sarah la notizia che il signor Rook era partito improvvisamente la notte stessa e che aveva lasciato ordini perchè gli spedissero subito tutta la sua roba a Parigi, essa, felice come una bimba, abbracciò lieta il marito e non parlò più di partire. Il terribile signor Rook se n'era andato, dunque si poteva ben prolungare di qualche settimana il delizioso soggiorno a Biarritz. Anzi, ella avrebbe cominciato solo allora a goderlo, perchè per la prima volta in quindici giorni, non aveva più da tremare. Quando scese in un fresco abbigliamento roseo, tutta coperta di trine bianche, era più bella e più attraente che mai. Accanto a lei, Solange si lagnava di quel cattivo signor Rook ch'era partito senza neppur salutarle. Lovere, Gleunitz e d'Ostrog le attendevano rispettosi. - Due vere aurore! - disse il marchese sorridendo. Per la prima volta Sarah accettò lieta il suo braccio per fare un giro in giardino, mentre Solange li seguiva con miss Lucy, e la baronessa flirtava molto correttamente col buon d'Ostrog. - Non vieni, Luciano? - gridò Sarah al marito. - Se permetti, prendo la rivincita della partita perduta ieri.... - disse questi, sedendosi a un tavolino di fronte a Belitzine. Splendeva il meriggio luminoso lì intorno, su nel cielo, sulla terra, sul mare. Lontano le vele bianche solcavano l'Oceano, quasi tenui fragilissime speranze.... - Che splendida giornata! - disse Sarah commossa. E ancora in fondo al giardino sentirono la voce del duca ch'era su nella terrazza: - Scusi! era fante di cuore, principe!

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