Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Della scultura e della pittura in Italia dall'epoca di Canova ai tempi nostri

251541
Poggi, Emilio 1 occorrenze
  • 1865
  • Tipografia toscana
  • Firenze
  • critica d'arte
  • UNIFI
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Nè vale il dire «quel vocabolo non è di lingua nè corrisponde, usato in quel caso, al suo vero significato» gli artisti a ciò non guardano, e sarebbe una pedanteria fuor di luogo l'esigere che eglino abbandonassero il linguaggio col quale s’intendono, per usare rigorosamente della parola che la lingua permette. So bene che gli artisti nello esprimersi oltre di essere parchi nelle parole (poichè il gesto vi supplisce per metà) ne usano spesso delle improprie, ma pretendere di portare una rivoluzione filologica nei loro studj, oltre non recare alcuna utilità all'arte, non sarebbe possibile ormai, e conviene accettare quel sanzionato linguaggio come una legittima eredità pervenuta agli artisti dai loro principali maestri.

Pagina 66

Leggere un'opera d'arte

256704
Chelli, Maurizio 1 occorrenze
  • 2010
  • Edup I Delfini
  • Roma
  • critica d'arte
  • UNIFI
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Nella composizione, come ebbero a dire i critici dell’epoca, le donne nude si abbandonano alla morte come se si abbandonassero ad un amante, trasformando la tragedia in una sorta di orgia collettiva. Effettivamente l’opera, conservata nel Museo del Louvre, sembra evocare una vena di erotismo che attenua la drammaticità del racconto.

Pagina 210

Demetrio Pianelli

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De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Secco, come se le forze lo abbandonassero del tutto, discese all'indietro il gradino e piombò sulle gambe, alzando le braccia grosse, congiungendo i due pugni collo sforzo di chi si attacca a una gronda e fa leva sui muscoli per non cadere dall'altezza di un tetto. Beatrice, non ancora vicina all'idea che dava al signor Pardi un'aria cosí stravolta, lo interrogò cogli occhi curiosi. Non era possibile ch'ella avesse invitato Palmira, l'amabile, la maligna, l'invidiosa Palmira, a una festa di famiglia. "Però" prese a dire il Pardi con l'affanno di chi ha lo stomaco rotto dalla nausea, "però ella ha mandato una carrozza a prenderla ... ." "Quando?" "Ieri, ieri sera. Oh, per Dio, l'ho vista io ... ." Il Pardi s'infuriò contro quella stupida donna, che non capiva nulla, e che stava ad osservarlo con gli occhi d'una bambola. Beatrice s'impaurí, entrò nell'idea, capí che Palmira ne aveva fatta una delle sue, divenne smorta, balbettò qualche parola a fior di labbra, e finí col dire: "Scusi, io non so proprio niente ... ." "Mi perdoni ... " disse il Pardi, allentando a poco a poco le braccia e chinando la testa sul petto, piegando il collo robusto e le larghe spalle al peso enorme che scendeva lentamente a comprimerlo. "Mi perdoni ... " balbettò. Colla mano irritata tastò qua e là sul corpo, finché trovò la tasca del fazzoletto, lo strappò fuori, lo strinse nel pugno come un cencio, lo compresse due volte nell'angolo degli occhi, schiacciandolo poi sulla bocca quasi per strozzarvi un grido, e, tirandosi ancora un passo indietro per lasciar passare Beatrice, tornò a dire: "Mi scusi tanto ... ." Beatrice discese gli ultimi gradini, e nel passar davanti a quell'uomo, che pareva fulminato, lo guardò con un senso di sincera e paurosa compassione. Avrebbe voluto salvare Palmira o la buona fede di suo marito. Ma per la seconda volta in poche ore si vergognò della sua povertà di spirito. Si sentí incapace, troppo ignorante delle battaglie della vita. Fece un piccolo saluto colla testa, scappò piú che non uscisse sulla strada, e col cuore pieno di dolori e di spaventi si mescolò al vivo movimento della città, che copre col suo frastuono le piccole e le grandi tragedie degli uomini. Arabella l'accompagnava in silenzio. Il cuore della fanciulla, ancora pieno delle brutte visioni della notte, non pigliava parte alla vita esteriore della città, che essa traversò come un'ombra sdegnosa e corrucciata. Il matrimonio della mamma, quel dover accettare, tacendo, un destino cosí contrario alle sue previsioni, e, oltre a questo, un senso confuso, dirò cosí, di gelosia che nasceva in lei col pensiero del suo povero papà, misto a un altro senso di ripugnanza e di antipatia per un uomo che doveva benedire come un benefattore, tutto ciò la rendeva triste d'una malinconia taciturna e irritata, che rendeva alla sua volta taciturna e irritata la mamma. Non si scambiarono quattro parole, cammin facendo: e tra una parola e l'altra ciascuna passò una fitta matassa di pensieri, che si attaccavano al passato e all'avvenire, ai vivi e ai morti, che sono la storia sacra dell'anima nostra. Una volta sola la ragazza uscí a dire improvvisamente, come conclusione di una riflessione compiutasi nella sua testa: "Di', mamma, se tu sposi il signor Paolino, non potrei io restare collo zio Demetrio?" La mamma non rispose nulla, ma di lí a un poco le si gonfiarono di lagrime gli occhi. Giunsero cosí al cimitero. Arabella, già pratica del sito, ritrovò subito il piccolo monumento. Mentre la mamma, inginocchiata sulla terra sabbiosa del viale, sfogava il suo pianto nelle mani giunte, Arabella perdevasi lontano cogli occhi verso un cielo lontano, che andava coprendosi di nuvoloni bianchi di temporale. Il soffio fresco che mandavano quelle nuvole dissipò a poco a poco come dolce lavacro quell'ultima nebbia di sogni cattivi che era negli occhi, e la compassione amorevole, la compassione che scalda il cuore e che fonde tutto, la trasse piú vicina alla sua mamma, che poco fa aveva conturbata colle sue parole. Pensò che la poverina non sapeva ancora com'era morto il papà e perché avesse voluto morire cosí: e in questa sua coscienza sentí su quella donna inginocchiata a' suoi piedi una superiorità morale, quasi una forza fisica di consolarla, di dominarla. Si accostò, le prese la testa tra le mani, la baciò sui capelli, col fazzolettino aiutò ad asciugare le molte lagrime che le bagnavano il viso, ma senza piangere essa, senza parlare. E rimase cosí un quarto d'ora, nel silenzioso e lento abbandono del dolore che non pensa, nell'aspro ed energico godimento della vita che soffre. Si mossero piú consolate e piú in pace. Nell'uscire, quando furono sul ponticello che traversa il canale, un uomo mal vestito, consunto dalla miseria, stese il cappello, supplicando con una nenia, in cui le parole si spezzavano come singhiozzi. Sui piedi trascinava due scarpe non sue, color della polvere, rigide nelle rughe e nelle infossature, sulle quali cascavano a brandelli certi calzoni flosci, mal sostenuti da un corpo sconnesso e febbricitante. Era il maestro Bonfanti. Un'altra malattia gli aveva dato l'ultimo colpo. Tocco da paralisi nelle dita e nella lingua, egli non poteva piú né sonare, né cantare, e tanto per trascinarsi vivo alla sepoltura, stendeva il cappello ai passanti, sulla porta dei cimiteri, scrollando la sua febbre intermittente, sonnecchiando tra un'Avemaria e l'altra sulle sue artistiche reminiscenze. A quell'uomo, che aveva sempre tenuta alta la bandiera del classicismo, discepolo del Pollini, quasi amico del Thalberg, non restava nemmeno la forza di lamentarsi, e la figura stessa andava ogni giorno scomparendo nel pelo selvatico della barba e nella sordidezza della povertà. Arabella si attaccò stretta stretta al braccio della mamma, quando riconobbe nel vecchio pezzente il suo buon maestro di pianoforte, e le parve che il cuore le cascasse nel petto. Il Bonfanti andava raccontando a furia di singhiozzi la sua dolorosa storia, agitando colla mano paralizzata il cappello, come se lo sventolasse per l'allegria. Gli buttarono una moneta d'argento, lo salutarono colla mano, e partirono in fretta. Tornarono in città a braccetto, sempre in silenzio, ma non piú in collera come prima. Purtroppo di miseria ce n'è per tutti, e chi si lamenta della sua fa torto un poco a quella degli altri.

IL RE DEL MARE

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

Yanez fece imbarcare cinquanta uomini, bene armati e comandati da due quartiermastri, li mandò a occupare i due trasporti, prima che anche gli equipaggi li abbandonassero, onde evitare un tradimento. Polvere a bordo ve ne doveva essere ed i comandanti inglesi potevano, prima di andarsene, collocare delle micce accese nella santabarbara e mandare all'aria i due trasporti ed insieme a loro i depositi di carbone che tanto premevano alle tigri di Mompracem. Partito l'ultimo inglese, un altro drappello di malesi al comando di Kammamuri si recò a bordo delle due navi, per procedere allo scarico del combustibile e delle munizioni da guerra. I soldati, dalla spiaggia, guardavano con ansietà le manovre dei pirati, stupiti di non vederli prendere a rimorchio i due legni, come avevano dapprima sospettato. Tutto il giorno gli uomini di Sandokan lavorarono febbrilmente vuotando i pozzi ben forniti di combustibile. Verso sera novecento tonnellate di carbone giacevano nei depositi del Re del Mare. I malesi ed i dayaki cadevano pel sonno e per la fatica eccessiva, ma ormai i pozzi dei due trasporti erano quasi vuoti. - Ed ora, - disse Sandokan, - prendi, mare, le prede che ti offro. Quando anche noi coleremo a fondo, sii clemente. Prima di abbandonare le due navi, i malesi avevano accese delle miccie presso i barili di polvere lasciati nelle santebarbare. Sandokan, Yanez e Tremal-Naik si erano appoggiati alla murata poppiera, guardando tranquillamente i due trasporti. Dinanzi, sul bastingaggio, avevano collocato un cronometro. - Tre minuti, - disse ad un tratto Sandokan volgendosi verso i suoi compagni. - Ecco la fine! Un momento dopo una formidabile esplosione rimbombava sul mare, seguìta a breve distanza da un'altra non meno assordante. Le due navi, squarciate dallo scoppio, affondavano rapidamente fra le urla furiose dei soldati e degli equipaggi, che si trovavano sulle coste dell'isola. - Ecco la guerra, - disse Sandokan, con un sorriso sarcastico. - L'hanno voluta? Paghino! ... E questo non è che un principio del dramma! Quindi, volgendosi verso Yanez, aggiunse: - Andiamo a Sarawak ora: quel golfo sarà il campo delle nostre future imprese e le prede laggiù saranno più abbondanti, che qui: lo vedrai. Il Re del Mare abbandonava rapidamente i paraggi delle Romades, prendendo la corsa verso il sud. Colle carboniere piene, ed un sopraccarico di combustibile nella stiva, poteva sfidare alla corsa tutte le navi che gli alleati dovevano aver radunate nelle acque di Sarawak. Il poderoso incrociatore che divorava miglia su miglia, due giorni dopo avvistava già il capo Tanjong-Datu, passando dinanzi alla medesima rada dove erasi rifugiata la Marianna. Nulla avendo incontrato in quei paraggi, riprese senza indugio la corsa verso il sudest, per raggiungere la foce del Sedang. Sandokan voleva innanzi a tutto accertarsi se l'equipaggio della sua piccola nave era riuscito nella missione affidatagli, ossia di armare e di sollevare i suoi vecchi alleati, i dayaki dell'interno, che lo avevano così vigorosamente aiutato contro James Brooke, il famoso sterminatore dei pirati. Quarant'otto ore dopo, il Re del Mare, che non aveva rallentata la sua velocità, avvistava il monte Matang, un picco colossale che si erge presso la costa di ponente dell'ampia baia di Sarawak e che lancia la sua vetta verdeggiante a duemila novecento e settanta piedi, e l'indomani navigava dinanzi alla foce del fiume che bagna la capitale del rajah. Era il momento di aprire per bene gli occhi, poichè da un istante all'altro delle navi inglesi o del rajah di Sarawak potevano mostrarsi. Certo la comparsa del corsaro doveva essere stata segnalata alle autorità di Sarawak ed i migliori incrociatori dovevano aver preso il largo, onde proteggere da un improvviso assalto le navi che lasciavano il fiume, dirette a Labuan o a Singapore, che potevano venire facilmente catturate o affondate dagli audaci pirati di Mompracem. Perciò una rigorosa sorveglianza era stata ordinata a bordo dell'incrociatore. Giorno e notte dei gabbieri si tenevano costantemente sulle piattaforme superiori, muniti di cannocchiali di lunga portata, pronti a dare l'allarme nel caso che qualche colonna di fumo apparisse all'orizzonte. Sandokan e Yanez, per maggiore precauzione, avevano anche comandato che dopo il calar del sole più nessun lume si accendesse a bordo, nemmeno nelle cabine che avevano le finestre sui bordi esterni, e nemmeno i fanali regolamentari. Volevano passare dinanzi la foce del Sarawak inosservati, per non farsi inseguire sulle coste orientali e compiere le loro operazioni senza venire disturbati. Sentivano per istinto che li cercavano e che navi inglesi e del rajah dovevano scorazzare quei paraggi. Chissà, forse avevano indovinato le loro intenzioni o peggio ancora, qualcuno poteva averli informati dei loro progetti. Ed infatti, contrariamente alle loro abitudini, i due ex pirati apparivano assai preoccupati. Si vedevano passeggiare per delle ore intere sul ponte, colla fronte increspata, poi arrestarsi per interrogare, con una certa ansietà, l'orizzonte. Specialmente di notte abbandonavano di rado la coperta, accontentandosi di riposare solo poche ore dopo il levar del sole. - Sandokan, - disse Tremal-Naik, quando già il Re del Mare aveva oltrepassata la seconda bocca del Sarawak di qualche dozzina di miglia, - mi sembri molto inquieto. - Sì, - rispose la Tigre della Malesia, - non te lo nascondo, mio caro amico. - Temi qualche incontro? - Io sono certo di essere seguìto o preceduto, e un marinaio difficilmente s'inganna. Si direbbe che io senta odor di fumo e di fumo di carbon fossile. - E da chi? Da squadre inglesi o da quelle del rajah? - Di quelle del rajah non mi occupo troppo, perchè l'unica nave che poteva misurarsi colla mia, ora giace sventrata in fondo al mare. - Quella di sir Moreland? - Sì, Tremal-Naik. Le altre che possiede il rajah sono vecchi incrociatori di ordine secondario, che non valgono assolutamente nulla come navi da battaglia. È la squadra di Labuan che mi preoccupa. - Sarà forte? - Molto forte no, numerosa di certo. Potrebbe prenderci nel mezzo e crearci molti fastidi, quantunque io ritenga il nostro incrociatore così poderoso d'aver ragione di essa. I migliori, l'Inghilterra se li tiene in Europa. - Sono ben lontani da noi, - disse Tremal-Naik. - E chi mi assicura che non ne mandi alcuni a darci la caccia? Mi hanno detto che ve ne sono dei poderosi anche nell'India. Quando si apprenderà quali danni noi abbiamo recato alle loro linee di navigazione, gli inglesi non esiteranno a lanciare su questi mari il meglio della loro squadra indiana. - E allora? - chiese Tremal-Naik. - Faremo quello che potremo, - rispose Sandokan. - Se il carbone non ci mancherà la faremo correre e molto. - È sempre il carbone il nostro punto nero. - Di' il nostro lato debole, Tremal-Naik, perchè a noi tutti i porti sono chiusi. Fortunatamente la marina inglese è la più numerosa del mondo e piroscafi ne troveremo sempre, dovessimo andarli a cercare perfino nei mari della Cina. Ah! Cala la nebbia! È una fortuna per noi, che stiamo per passare dinanzi alle coste del sultanato. - Quanto distiamo dal Sedang? - Forse duecento miglia. Queste sono le acque più pericolose. Se questa notte non facciamo alcun incontro, domani troveremo la Marianna. Apriamo gli occhi, Tremal-Naik ed aumentiamo la nostra velocità. Tanto peggio a chi tocca se taglieremo qualche legno. Pareva che la fortuna proteggesse le ultime tigri di Mompracem, perchè poco dopo il tramonto del sole una folta nebbia era cominciata a scendere sul golfo, in dense ondate. Il Re del Mare aveva quindi maggiori possibilità di sfuggire alla caccia delle navi alleate, ammesso che si fossero realmente messe in moto per sorprenderlo. Nondimeno Sandokan e Yanez avevano dati gli ordini per tenersi tutti pronti. Qualche nemico poteva comparire, impegnare subito la lotta e colle sue cannonate attirare l'attenzione della squadra. L'incrociatore, che aveva aumentata la sua velocità portandola a tredici miglia, muoveva rapido attraverso il nebbione che sempre più si addensava. Sandokan, Yanez, Tremal-Naik e l'ingegnere americano erano tutti sul cassero, presso i timonieri, cercando, ma invano, di distinguere qualche cosa attraverso le ondate caliginose che il vento, di quando in quando, scompaginava. Gli artiglieri erano dietro i loro mostruosi pezzi o accanto alle piccole artiglierie; i malesi ed i dayaki dietro le murate. Tutti tacevano ed ascoltavano attentamente. Non si udivano che i rauchi muggiti del vapore ed il gorgoglìo prodotto dalle eliche e dallo sperone fendente le acque. La seconda foce del Sarawak doveva essere stata oltrepassata di una cinquantina di miglia, quando tutto d'un tratto si udì a echeggiare una sirena. - Una nave esplora il mare e segnala la sua presenza ad altre, - disse Yanez a Sandokan. - Sarà mercantile o da guerra? - Suppongo che sia qualche avviso del rajah, - rispose la Tigre della Malesia. - Ci aspettavano? - Fa' puntare verso levante. - Vorrei però prima conoscere con quale avversario abbiamo da fare. - Con questa nebbia non sarà cosa facile, Sandokan, - disse Tremal-Naik. - Quando potremo giungere alla foce del Sedang? - Fra cinque o sei ore. Vedi nulla, Yanez? - Null'altro che nebbia, - rispose il portoghese. - Non devieremo: tanto peggio per chi si caccerà sotto il nostro sperone. Poi, accostandosi al tubo che comunicava colla sala della macchina, gridò con voce poderosa: - Signor Horward! Avanti a tutto vapore, a tiraggio forzato! Il Re del Mare continuava la sua corsa, aumentandola rapidamente. Da tredici nodi era salita a quattordici all'ora, e non bastava ancora. L'ingegnere americano aveva comandato il tiraggio forzato per raggiungere possibilmente i quindici. Era ben vero che il carbone se ne andava rapidamente, però ne avevano in quantità sufficiente per tenere il mare alcune settimane senza bisogno di provvedersi. Erano già trascorse due ore, quando tutto d'un tratto la nebbia s'illuminò come se un gran fascio di luce l'attraversasse. Luce lunare non doveva essere, perchè assai più intensa e brillante e poi non ne aveva l'immobilità. Veniva dall'est e scorreva dal sud al nord, facendo scintillare vivamente le acque. - Un fanale elettrico! - esclamò Yanez, trasalendo. - Ci si cerca. - Sì, ci cercano, - disse Tremal-Naik. - Che siano in molti? Sandokan non aveva aperto bocca; la sua fronte però si era bruscamente aggrottata. Trascorsero alcuni minuti ancora. - Macchina indietro! - tuonò ad un tratto la Tigre della Malesia. Il Re del Mare trasportato dal proprio slancio, s'avanzò per due o trecento metri, poi s'arrestò lasciandosi cullare dall'onda larga del golfo. Una nave e forse non sola, si trovava dinanzi all'incrociatore ed esplorava il mare, proiettando dovunque fasci di luce. - Che la squadra di Sarawak si sia accorta della nostra presenza? - chiese Tremal-Naik. - Dobbiamo essere stati segnalati da qualche veliero, forse da qualche praho che è sfuggito alla nostra sorveglianza, - disse Sandokan. - Che cosa farai, Sandokan? - Aspetteremo, per ora, poi passeremo, dovessi fracassare dieci navi a colpi di sperone. Il Re del Mare ha la prora a prova di scoglio e le macchine d'una solidità tale che non si sconquasseranno per l'urto. Il fascio di luce continuava a scorrere lentamente dal nord al sud, tentando di forare la nebbia, fortunatamente sempre foltissima. D'improvviso, un secondo ne apparve dal lato opposto, ossia verso la poppa dell'incrociatore, poi altri due al nord e uno al sud. Una sorda imprecazione sfuggì dalle labbra del portoghese, il quale stava a guardia dei timonieri. - Ci hanno ben circondati! Alla malora quegli squali! Fra poco qui farà caldo! La Tigre della Malesia aveva seguìto attentamente la direzione di quei diversi fasci di luce. La sua nave che occupava il centro, non poteva essere stata ancora scorta, però non poteva slanciarsi innanzi nè retrocedere senza farsi scoprire. Con un gesto chiamò Yanez e l'ingegnere americano. - Si tratta di forzare il passo, - disse. - Dinanzi, presumibilmente, non abbiamo che una sola nave. Il nostro carico è stato ben stivato? - Assaliremo collo sperone? - chiese l'americano. - Ne ho l'intenzione, signor Horward. Fate raddoppiare il personale delle macchine. - Bene, comandante, - rispose lo yankee. - I miei compatriotti non agirebbero diversamente in simile frangente. - Sono tutti ai pezzi gli artiglieri? - Sì, - rispose Yanez. - Avanti a tutto vapore! Passeremo a qualunque costo. I fasci di luce elettrica continuavano ad incrociarsi in tutti i sensi e a poco a poco diventavano più luminosi. Probabilmente i comandanti di quelle navi dovevano aver scorta l'ombra immensa del Re del Mare e si preparavano ad assalire, dirigendosi verso uno stesso punto. Il momento stava per diventare terribile; tuttavia malesi, dayaki ed americani conservavano anche in quel supremo momento, una calma ammirabile. - Tutti nelle batterie! - gridò Sandokan, entrando nella torretta di comando con Yanez e con Tremal-Naik. Il Re del Mare balzò avanti. La sua velocità aumentava di momento in momento ed il fumo usciva turbinando dalle due ciminiere abbattendosi sui ponti in causa della nebbia. Un fremito sonoro lo scuoteva tutto, mentre gli alberi delle eliche raddoppiavano i giri ed il vapore muggiva nelle caldaie. L'incrociatore attraversò come un gigantesco proiettile la zona luminosa, ma appena rientrato nella nebbia oscura, altri fasci di luce lo raggiunsero, diventando rapidamente più luminosi. Le navi nemiche si erano messe in caccia e cercavano di rinchiuderlo in un cerchio di ferro e fuoco. Sandokan non si sgomentava e lasciava che la sua nave corresse sempre verso l'est. Alcune cannonate rimbombarono al largo e si udì in aria il rauco sibilo dei proiettili. - Pronti pel fuoco di bordata! ... - gridò Yanez. - Per Giove! ... E le fanciulle? - Sono al sicuro nel quadro, - rispose Tremal-Naik. - Manda qualcuno ad avvertirle che non si spaventino se succede un urto, - disse Sandokan. Delle ombre gigantesche si muovevano fra la nebbia che i riflettori elettrici rendevano sempre più luminosa. La squadra nemica stava per piombare sull'incrociatore delle tigri di Mompracem per tentare di sbarrargli il passo. Ad un certo momento una massa nera comparve bruscamente dinanzi la prora, sulla dritta del Re del Mare, a meno di quattro gomene di distanza. Era impossibile arrestare lo slancio dell'incrociatore. - Speronate! - gridò Sandokan con voce tuonante. Il Re del Mare si precipitava sul legno nemico come un ariete. Un rombo assordante, spaventevole, seguìto da urla d'angoscia echeggiò fra la nebbia perdendosi lontan lontano sul mare. Lo sperone dell'incrociatore era entrato tutto dentro la nave avversaria, producendole uno squarcio immenso ... Il Re del Mare s'arrestò un momento inclinandosi a prora, mentre degli scoppi accadevano sulla nave investita e colpita a morte da quella terribile speronata. Le caldaie scoppiavano. - Macchina indietro! - gridò l'ingegnere americano. Si udirono a prora dei sordi scricchiolii, poi il Re del Mare con una brusca scossa liberò il suo sperone indietreggiando e virando a babordo. La nave sventrata calava a fondo a vista d'occhio, fra i clamori assordanti del suo equipaggio. Il Re del Mare aveva ripresa la corsa, passando a poppa della nave sommergentesi, gettandosi nuovamente tra mezzo alla nebbia. Altre ombre pure apparivano a babordo e a tribordo. Le navi della squadra, approfittando di quel momento di sosta, avevano raggiunto il Re del Mare e gli proiettavano sul ponte fasci di luce. - Fuoco accelerato! - comandò Yanez. L'incrociatore s'infiamma come un vulcano in eruzione, con un rimbombo orrendo. I giganteschi pezzi delle torri hanno fatto fuoco quasi simultaneamente, facendo tremare la nave dalla chiglia alla punta degli alberi, scagliando sulle navi nemiche i loro grossi proiettili, poi i pezzi di medio calibro delle batterie hanno seguìto l'esempio, tempestando i nemici. Gli inseguitori non parvero spaventarsi, quantunque quella tremenda scarica delle più grosse artiglierie moderne dovesse aver prodotto danni gravi e forse, per qualche piccolo e maldifeso legno, irrimediabili. Da tutte le parti i lampi spesseggiano. I proiettili delle granate che si spaccano sulla solida blindatura della nave corsara, scoppiano sui ponti lanciando dovunque schegge di metallo. Colpiscono il tribordo ed il babordo, piombano a poppa ed a prora, scivolando sui ponti e rimbalzano sulle cime delle torri. Il Re del Mare nondimeno non s'arresta, anzi risponde con una furia spaventevole, mandando palle a destra, a sinistra e dietro la poppa. Una piccola nave, che fila con una velocità vertiginosa, emerge bruscamente fra la nebbia e con una pazza temerità corre addosso all'incrociatore. È una grossa scialuppa a vapore che porta a prora una lunga asta, l'antica torpediniera Horward. L'ingegnere americano, che conosce quell'arme micidiale, manda un grido: - Badate, cercano di torpedinarci! Sandokan e Yanez erano balzati fuori della torretta di comando. La scialuppa, che era illuminata dalle lampade elettriche delle altri navi, muoveva veloce verso il Re del Mare, cercando di raggiungerlo. Un uomo, il comandante, stava a prora, dietro l'asta. - sir Moreland! - gridarono ad una voce. Era infatti l'anglo-indiano che cercava, con una pazza temerità, di torpedinare l'incrociatore. - Arrestate quella scialuppa! - aveva gridato Sandokan. - No, nessuno faccia fuoco! - urlò invece Yanez. - Che cosa fai, fratello? - chiese la Tigre della Malesia, stupita. - Non uccidiamolo: Darma piangerebbe troppo. Lascia fare a me. A tribordo vi erano parecchi pezzi di medio calibro. Yanez s'appressò al più vicino che era stato già puntato sulla scialuppa, corresse rapidamente la mira, poi diede uno strappo al cordone tirafuoco. La scialuppa non si trovava allora che a trecento metri, non riuscendo a guadagnare via sull'incrociatore. Il proiettile la colpì con matematica precisione a poppa, asportandole ad un tempo il timone e l'elica e fermandola, per modo di dire, in piena volata. - Buon viaggio, sir Moreland! - gli gridò il valente artigliere, con voce ironica. L'anglo-indiano aveva fatto un gesto di minaccia, poi il vento portò fino agli orecchi delle tigri di Mompracem queste parole: - Fra poco incontrerete il figlio di Suyodhana! ... V'aspetta nel golfo! ... L'incrociatore aveva allora oltrepassata la zona luminosa e si rituffava nella nebbia. Scaricò un'ultima volta i suoi pezzi da caccia in direzione delle navi nemiche, che non potevano gareggiare colle sue macchine e sparve verso l'est, mentre i malesi ed i dayaki urlavano a squarciagola: - Viva la Tigre della Malesia! ...

IL PAESE DI CUCCAGNA

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Serao, Matilde 1 occorrenze

Era naturale che don Cesarino Fragalà e quell'anima buona di donna Luisella Fragalà abbandonassero quella casa, dove si erano sposati, che era bellissima, veramente un appartamento magnifico: non potevano più pagare quella pigione così cara. Il marito aveva giuocato tutto al lotto, ed era così carico di debiti, così rovinato, col magazzino di dolci, in piazza dello Spirito Santo, che la moglie, sgomentata da un prossimo fallimento, aveva deciso di vender tutto, gioielli, argenteria, mobili, ogni cosa di lusso, di far una liquidazione generale e di andarsene in una piccola casa, dove ella avrebbe trovato a suo marito qualche piccolo impiego commerciale, per mandare innanzi la famiglia. E la portinaia, col suo interlocutore, rammentava le due splendide feste, per il matrimonio di Cesare Fragalà con Luisella, per la nascita della piccola Agnesina, gli splendori di quei ricevimenti, i gelati, i dolci, i vini, un subisso. - Gesù, Gesù, - mormorava l'interlocutore, uomo o donna. - E ha perso tutto alla bonafficiata? Tutto; sono ridotti senza un soldo, se vogliono pagare i debiti. E donna Luisella paga: muore, ma paga! - Che birbante di marito! - Non ci facciamo maestri di nulla, - sentenziava la portinaia, profondamente. - Tutti siamo di carne. Le dispiaceva, sì, le dispiaceva che i Fragalà se ne andassero chi sa dove, non li avrebbe riveduti più; massime, le dispiaceva per quella piccola Agnesina, così buona, così placida, così obbediente, che già andava all'asilo infantile, piccolina piccolina, accompagnata da sua madre che andava a riprenderla, teneramente, ogni giorno. Erano buona gente: va a sapere, chi sarebbe venuto al loro posto! E il trasloco del marchese Cavalcanti era una cosa preveduta, da tempo: non pagava la pigione, da tanti mesi, e il signor Rossi aveva sopportato, sopportato di avere ogni tanto un acconto, anche perché il marchese Cavalcanti era stato l'antico proprietario della casa, che gliel'aveva venduta, non voleva scacciarlo brutalmente, quanta pazienza aveva avuto! Ora, non poteva più tollerare, in casa Cavalcanti mancavano spesso le cinque lire per mangiare, e il marchese portava via i mobili più necessarii, a uno a uno, vendendoli a un rigattiere del largo Barracche: la signorina, povera anima di Dio, pranzava talvolta con un piatto cucinato, che le mandava, dal Monastero delle Sacramentiste, sua zia, suora Maria degli Angioli: e i due vecchi servitori, Giovanni e Margherita, cercavano di lavorare, la donna rammendando calze e maglie di seta, l'uomo copiando carte per un usciere del tribunale. Una miseria, una miseria tale, che se non fosse stata una gran vergogna, la portinaia avrebbe spesso portato, in su, un piatto dei suoi maccheroni, o della sua minestra verde, ma non osava, quelli erano signori e sopportavano la miseria in silenzio. Del resto, per la mancanza della dote, la marchesina Cavalcanti era stata respinta dal diventare Suora della Carità, e in altri monasteri, in altri ordini non era permesso più entrare con la nuova legge: neanche monaca, si può diventare, con questo Governo. - E a maggio se ne vanno? - domandava la interlocutrice, vagamente impietosita. - Dove vanno? - Chi lo sa! Ma io dico che la marchesina non lo vede, quel giorno. Sta così male: si consuma ogni giorno, come un cero; non dice nulla, nulla, ma quando ha la forza di comparire dietro un cristallo del balcone, mi pare un'ombra. Non esce più: già non ha vestiti per uscire, e se li avesse, le mancherebbe la forza di fare un passo. Ah povera signorina, e pensare che il padre l'avrebbe potuta maritare se avesse voluto! - E con chi? Perché non ha voluto? E qui cominciava la terza dolente nota della portinaia, la partenza del terzo suo inquilino, il dottor Antonio Amati, quello che le faceva guadagnare tanti denari, per le chiamate improvvise dagli infermi: ah egli se ne andava, anzi se ne era andato, mettendola sul lastrico, la povera portinaia, che non avrebbe più guadagnato un soldo! Figuratevi che il dottor Antonio Amati che era già ricco e che guadagnava quello che voleva, proprio per fare una carità, tanto era un buon signore, aveva voluto sposare la marchesina, così bella e così cara: e anche lei gli voleva bene, al medico, un bene dell'anima, perché l'aveva assistita nelle sue malattie, perché non aveva conosciuto altri uomini, perché, infine, egli solo poteva toglierla a quella miseria. Ebbene, non era da credersi, ma il marchese Cavalcanti aveva detto no, si era incocciato a dire di no, sempre di no, facendo perdere quella buona fortuna, unica, come non se ne trovano più, alla sua figliuola. - Voi che dite! - esclamava la interlocutrice. - Non pare vero! Già, già, pareva una bugia, ma il marchese Cavalcanti aveva detto no. Gli faceva onore e piacere che il dottor Amati avesse cercato la figlia, ma certi nonni suoi, antichi antichi, antichissimi, avevano lasciata una carta scritta, con cui si diceva che l'ultima figlia femmina della famiglia, non doveva maritarsi, doveva morire zitella; e se questo ordine non si eseguiva, era preparato un gran castigo di Dio, per lei. Quante lacrime aveva sparse la marchesina, non si può sapere; ma il padre era stato duro. Tanto che il dottor Amati, una sera che ci aveva fatto una lite terribile, per togliere ogni nuova occasione di collera e per levarsi dalla testa quell'idea, aveva cercato un mese di permesso all'ospedale, aveva lasciato tutti i suoi malati e se ne era andato al suo paese, da sua madre. Poi, era ritornato: ma non aveva voluto più metter piede, nel palazzo Rossi, e se ne era andato ad abitare una casa mobiliata, in via Chiaia. A palazzo Rossi, la casa era chiusa, con tutti i suoi mobili e i suoi libri, che il medico non leggeva più: ogni tanto veniva la governante a pulire e se ne ripartiva, dopo poco: ora, anche i mobili e i libri sarebbero stati portati via: a maggio, l'appartamento restava vuoto. Ah povera marchesina, quante volte l'aveva vista, la portinaia, comparire dietro i cristalli del balcone, nella corticina interna, e fissare i suoi occhi già smorti, su quel balcone del medico, chiuso, ermeticamente chiuso. Che pena faceva al cuore, quella misera creatura della Madonna, che si consumava di malattia, di malinconia e di miseria. Proprio pareva che non vi fosse più olio alla lucerna; Margherita, la cameriera, quando gliene parlavano, abbassava gli occhi, per non far vedere che le veniva da piangere. Ma il marchese non aveva avuto torto, di obbedire alla volontà dei nonni: coi castighi di Dio non si scherza! - Eh, stava scritto… - osservava, approvando, la interlocutrice, tutta pensosa. - Scritto, scritto, figlia mia. La volontà di Dio, che volete fare! I ricercatori di case cominciarono subito ad affluire per visitare gli appartamenti disponibili nel palazzo Rossi; e la via crucis ella portinaia, su e giù per le scale, dalle dieci della mattina alle quattro del pomeriggio, non terminava più; ogni volta che una famiglia si presentava, innanzi al suo casotto, e faceva le interrogazioni di rito, ella crollava il capo, sospirava e si levava per accompagnarla su, al primo o al secondo piano. Andava avanti, salendo piano piano, rivolgendosi a discorrere con questi cercatori di asilo, con la familiarità della piccola gente napoletana e faceva scricchiolare le chiavi, che teneva sospese alla cintura, se coloro volevan visitare la casa del medico, che ne aveva affidata la custodia alla portinaia. Monotonamente, girando per le stanze vaste, mobiliate un po' severamente, dove ancor restava l'austera impressione morale di una grande scienza, di una grande volontà, e di tutte le miserie umane che là erano venute a chieder soccorso, ella vantava la casa e il dottor Amati, il famoso dottore, per cui si riempiva d'ammirazione Napoli, e tutto il mondo - come ella diceva. - Ah! - dicevano i visitatori, meravigliati, - e perché va via? In fretta, in fretta, ella soggiungeva che il dottore si ammogliava e aveva bisogno di una casa più vasta, o che i suoi affari avevano cambiato di centro, o che egli si restringeva d'appartamento, avendo preso uno studio ll'ospedale, insomma una bugia qualunque; una bugia così frettolosa e poco logica che i visitatori, dotati già di una naturale diffidenza, non accettavano affatto e la interrompevano: - Ah, va bene: ritorneremo. Ma non tornavano punto, impressionati un po' tristemente dall'aria solitaria e grave di quell'appartamento, dai troppi libri, dalle troppe macchine chirurgiche e infine da quel seggiolone a letto, di cuoio nero, su cui si distendeva l'ammalato, per esser visitato, e che pareva come il preliminare della tomba: e andavano via in fretta, parlando piano, come intimoriti, anche più intimoriti dall'assenza del dottore, il temuto e rispettato Iddio della medicina. Fuggivano e non tornavano più, con la fantasia abbuiata, non volendo mica venire a contristarsi, in quell'ambiente così gravemente pensoso. La portinaia, sulla soglia del portone, li vedeva andar via lestamente, verso Toledo, dove ci era il moto, la luce e l'allegrezza, e malgrado le loro vaghe promesse, vagamente profferite, ella capiva che non sarebbero più ritornati. - Non si combina nulla, comare mia, - ella diceva ogni tanto, con aria stanca, alla sua vicina portinaia del palazzo De Rosa. E non si combinava nulla, neppure per gli appartamenti che lasciavano le famiglie Fragalà e Cavalcanti, quasi che i visitatori sentissero la mala sorte che emanava da quelle due case, dove tante lacrime erano state versate, dove tante se ne versavano. In casa Fragalà la malinconica e valorosa Luisella si era già disfatta di una gran parte dei mobili: il bel salone rosso era oramai nudo dei suoi mobili di antico broccato, la bimba dormiva nella stanza dei suoi genitori e la vita di costoro, di un tratto immeschinita, ammiserita, si era ristretta alla camera da letto e alla stanza da pranzo. Talvolta i visitatori trovavano la famigliuola a pranzo, alle due: Cesare Fragalà teneva gli occhi fissi sul suo piatto, mangiando macchinalmente; Luisella taceva, rotolando palline di mollica fra le dita, e la piccola Agnesina, savia, buona, guardava il padre e la madre, volta a volta, non facendo nessun rumore con la forchetta e col cucchiaio, per non disturbare: e quando i visitatori entravano, il padre di famiglia impallidiva, la madre di famiglia chinava gli occhi: ambedue, a ogni visita, sentivano di dover andar via da quella casa e ancora la loro piaga frizzava, mandava sangue. La bambina li guardava e ripeteva, assai sottovoce: - Mammà, mammà… I visitatori, accompagnati dalla portinaia, sentivano di disturbare e chiedevano scusa, passando nelle altre stanze, mentre la portinaia parlava volubilmente, per stordirli: quando essi vedevano deserti, vuoti, il salone e il salottino e l'anticamera, si scambiavano delle occhiate bizzarre, tanto che la portinaia fremeva d'impazienza, bestemmiando in cuor suo, tutti, chi va via dalle case, chi le va cercando e anche chi li accompagna su, cioè proprio lei, che doveva avere questa dura sorte. E i visitatori facevano la domanda di rito, con un certo sospetto: - Ma perché se ne vanno? Allora ella si decideva e sottovoce mormorava: - Sono falliti… - Ah, ah! - esclamavano, interessati, i visitatori. Nelle scale ella dava i particolari, diceva la ragione del fallimento, narrava l'antica ricchezza e la moderna strettissima privazione di ogni bene materiale; diceva il coraggio della povera signora Luisa, di fronte alla indomabile passione del marito per la bonafficiata; iceva la bontà della povera piccola Agnesina, che parea avesse capito, esser lei nata e cresciuta nel cattivo tempo della sventura. I ricercatori di casa ascoltavano incuriositi, con quella emozione a fior di pelle, che è particolare ai meridionali: ma da quello che avevano visto, come da quello che loro narrava la portinaia, essi ricevevano una singolare impressione di malaugurio, una fatalità che si era appesantita sopra una famiglia buona e innocente, un tetro destino che ne aveva distrutto tutte le sorgenti di felicità e di energia. Ah, davano le spalle alla casa dei Fragalà e al palazzo Rossi lentamente, i visitatori di case, ma restava loro una tristezza nell'anima e parlavano fra loro di questi disastri umani, così implacabili, così impreveduti e invincibili. Chi l'attribuiva al perfido destino, chi alla jettatura, hi faceva della filosofia sulle passioni umane, sul giuoco, specialmente, ripetendo ancora quella frase, che racchiude tutta l'indulgenza, tutto il perdono napoletano: - Signori miei, non ci facciamo maestri… Nell'appartamento del marchese Cavalcanti si penetrava con difficoltà; spesso, Margherita si opponeva che le persone visitassero la casa, malgrado che fosse l'ora delle visite. La portinaia parlamentava, irritandosi un poco, levando talvolta la voce, chiedendo come si sarebbe mai potuto affittare un appartamento, quando nessuno poteva entrare a vederlo; talvolta otteneva di entrare, da un battente socchiuso. Tutti tacevano, immediatamente: e dall'anticamera gelida e nuda, al nudo e gelido salone, vi era un tal freddo, un tal odore di vecchia polvere smossa, che faceva ribrezzo. Sulle mura eran disegnati, in larghe macchie scuriccie, i profili dei mobili che vi erano stati un tempo e che il marchese Cavalcanti aveva venduto, per giuocarne il valore al lotto: si vedevano i grossi chiodi a uncino, a cui una volta erano stati sospesi i quadri; un mucchio di vecchie carte giallastre era per terra, in un angolo del salone vuoto; e dove erano state attaccate le tende, alle porte e ai balconi, restavano i buchi scalcinati, donde parevano essere state strappate con violenza. Anche la cappella era senza più un santo, venduto l' Ecce Homo, enduta la Madonna Addolorata, e le frasche, gli ornamenti, e persino la fine tovaglia guarnita d'antico merletto, tanto che quell'altare spogliato aveva un lugubre, un sacrilego aspetto. Attraverso questa casa, ogni tanto, i visitatori incontravano una pallidissima, esilissima figura di fanciulla, in veste nera, con le magre spalle avvolte in uno sciallino gramo, con le grosse trecce nere che le rendevano anche più esangue il volto. Ella fissava i suoi occhi dolenti sui visitatori, come se non si raccapezzasse, e un'ombra di dolore li rianimava, per un minuto, quando ella intendeva che doveva abbandonare quel tetto, quell'asilo. La portinaia sottovoce, diceva: - La marchesina. Senz'altro: ed era, quell'apparizione, come tutta la grande linea di un disastro morale irrimediabile. Talvolta, i visitatori, accompagnati dalla portinaia e da Margherita, la cameriera, arrivavano davanti a una porta chiusa. La cameriera esitava un momento: ma a un'occhiata suggestiva della portinaia, si decideva a bussare. - Eccellenza, possiamo entrare? - Sì, sì, - rispondeva una fioca voce. E tutti vedevano una misera stanzetta verginale, dove si gelava di freddo, dove la smorta creatura dal vestito nero, avvolta nel gramo sciallino, era seduta presso il suo lettuccio, o si levava prestamente dal suo inginocchiatoio. Allora, intimiditi, coloro davano appena un' occhiata rapida, mormoravano vagamente qualche parola di scusa e se ne andavano, mentre la fanciulla li seguiva coi neri occhi pensosi e dolenti. Nelle scale essi osavano parlare: domandavano alla portinaia, come se si trattasse di persone e di cose morte: - Come si chiamavano, ostoro? ostoro?- I marchesi Cavalcanti, - diceva la portinaia. E i visitatori andavano via, portando seco l'impressione profonda di cose e di persone estinte.

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