Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIFI

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LE NOVELLE DELLA NONNA. Fiabe fantastiche

679087
Perodi, Emma 1 occorrenze
  • 1992
  • Newton Compton Editori s.r.l.
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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. - Io; - rispose umilmente la ragazza, - vi ho trovato svenuto nella selva e non ho voluto abbandonarvi. L'uomo, che aveva gettato uno sguardo di repulsione su quel mostro femmina, sentendo che ella lo aveva soccorso, vinse la ripugnanza che gl'ispirava e, avvicinandosi a lei, disse con voce dolcissima: - Vi sono grato di ciò che avete fatto per me; ma, per carità, non mi abbandonate. In seguito a gravi dolori ho dovuto fuggir da Firenze, e da molti giorni mi aggiro come una belva nei boschi. Sono stato còlto anche da questi lunghi, lunghissimi svenimenti; sono un infelice, soccorretemi! Teresona si sentì intenerire a quelle suppliche e, nonostante temesse l'ira del padre, pure promise allo sconosciuto che, se si contentava di stare in quella soffitta, lo avrebbe ricoverato e nutrito per alcuni giorni; e dopo esser riscesa a prendergli un po' di minestra avanzata dalla cena e un tozzo di pane, lo rinchiuse di nuovo e se ne andò a letto. La mattina dopo il padre uscì al solito per i suoi traffichi, e Teresona, rimasta sola e sicura ormai che per tutto il giorno il padre non sarebbe tornato, invitò lo sconosciuto a scendere per respirare una boccata d'aria. Ma egli ricusò dicendo che si sentiva tanto spossato che non aveva neppure la forza di alzarsi dal giaciglio di foglie e di fieno. Allora Teresona, che era assuefatta a vedersi respinta da ognuno per la sua bruttezza, gli domandò molto umilmente se gli faceva dispiacere che rimanesse a fargli compagnia. - Mi fate un piacere, anzi, - le rispose lo sconosciuto. - Non potete credere come la simpatia di una creatura buona scenda dolce nel cuore dell'esule. Era la prima volta che qualcuno le parlava così affettuosamente, e Teresona fu tutta commossa. Ella prese la rôcca e si mise a filare in un cantuccio della soffitta, senza parlare, accostandosi soltanto allo sconosciuto per domandargli se voleva prendere ristoro. Per quel giorno il forestiero parlò poco, ma il giorno seguente incominciò a narrare a Teresona la sua triste storia e le disse che era un signore fiorentino della famiglia Spini, preso di mira dal partito che governava la città, per la opposizione fatta a certe leggi ingiuste che quel partito voleva imporre. Avvertito in tempo da un contadino che lo cercavano per arrestarlo, era fuggito a cavallo, ma senza nulla. Vagando però nel contado aveva saputo che avevano messo una taglia sulla sua persona, e che i suoi beni erano stati confiscati. Mentre parlava, il ricordo forse delle angustie patite lo fece cadere in un nuovo svenimento. Teresona, vedendo che il giorno incominciava a declinare e temendo che il padre tornasse, dovette lasciare messer Spini svenuto e correr giù a preparare la cena. La povera ragazza era più morta che viva, e mentre attizzava il fuoco, pregava la Madonna che rendesse almeno la salute a quell'infelice, così misero, così solo! Quella sera ella mise una quantità d'olio nella minestra di fagioli, si scordò di salare il castrato, e quando suo padre giunse, nulla era ancor pronto. Il sensale la rimproverò acerbamente e non volle mangiare altro che un pezzo di pecorino dicendo che da allora in poi voleva cenare all'osteria, e a lei non avrebbe lasciato altro che pane e pattona, perché non voleva andare in rovina per quella sprecona di figliuola. Difatti mise ad effetto la minaccia, e fattosi dar la chiave della dispensa, dove teneva la carne salata, il vino e l'olio, la ripose in un canterano dove teneva i quattrini. Teresona andò a letto piangendo. - Madonna Santa, - diceva la ragazza, - come farò a sostenere quell'infelice che è più morto che vivo? E con la testa sul guanciale pensava e ripensava, senza trovare un mezzo per uscire da quel bertabello. Intanto si struggeva di non potere andare in soffitta dal fiorentino a vedere se si era riavuto, perché suo padre, che era rimasto in cucina col fiasco davanti, continuava a brontolare e pareva non avesse nessuna voglia di andare a letto. Teresona era al buio, in preda alla desolazione, quando a un tratto vide dinanzi agli occhi un gran chiarore come se il sole penetrasse sfolgorante dalla finestra, e, in mezzo a quella luce vivissima, scòrse una vecchia dall'aspetto venerando, che si avvicinava a lei, senza che i piedi toccassero il pavimento. - Ragazza mia, - disse la vecchia con voce dolcissima, - la diletta Figlia mia, la Santissima Vergine, che ha pietà degli afflitti e ne raccoglie le preghiere, mi manda a te. Se tu vuoi salvare messer Spini, questa notte stessa devi portarlo via da questa casa. Domani tuo padre andrà a rovistare in soffitta, e se lo trova lo consegnerà alla giustizia come ladro. Rammentati che io sono sant'Anna ... rammentalo! Dopo che la vecchia ebbe detto queste parole, la camera ritornò nelle tenebre e l'apparizione scomparve. Teresona lì per lì fu consolata, ma quando udì che il padre si mise a cantare in cucina con voce avvinazzata, disse fra sé: - Come farò a portare messer Spini fuori di casa, se il babbo non va a letto? Vergine Santa, aiutatemi voi! L'aiuto non le mancò, poiché poco dopo sentì un gran tonfo per terra e udì russare forte il vecchio sensale. Allora si vestì in fretta, senza mettersi le scarpe, e salita nella soffitta l'aprì. Messer Spini era sempre svenuto sul giaciglio. Ella cercò di destarlo, ma era fatica sprecata. Allora se lo caricò sulle spalle, e via, via, finché non lo ebbe deposto sopra un letto di musco a qualche distanza da casa. Però Teresona capì che, vestita da donna, sarebbe stata subito riconosciuta dalla gente, beffeggiata e vilipesa; perciò ella tornò a casa, si tagliò i capelli, si tolse le sue vesti, indossò i panni del babbo e via. Quando fu sulla soglia di casa ebbe un momento d'esitazione. Le dispiaceva di lasciar quell'uomo che, in fin de' conti, era suo padre; quella casa dove aveva vissuto ... e le pareva di far male ad andarsene; ma mentre stava così esitante, credé di udire una voce che le dicesse: - Tuo padre sarà contento di essersi liberato di te; non ti accorgi che non ti può soffrire? mentre l'altro ti vuol bene e ha bisogno del tuo aiuto. La voce era quella di sant'Anna, apparsale poco prima. Teresona non esitò più, e corse in cerca di messer Spini. Questi non era più immobile come Teresona lo aveva lasciato. Ma si dibatteva per terra e mandava gridi che somigliavano a urli di lupo affamato. - Madonna santa, ha il lupo mannaro! - esclamò la ragazza. E fece atto di fuggire; ma, vinta dalla compassione, si fermò, e, curvatasi sull'infelice, gli cinse la testa con le braccia poderose per impedirgli di ferirsi. Così rimase lungamente nel folto del bosco, sgomenta da quegli urli che potevano richiamar gente, sgomenta di non aver nessun mezzo per far cessare il male. A giorno, il malato si calmò; non urlava più, non si batteva più, e finalmente aprì gli occhi inebetiti. - Bisogna fuggire, - disse Teresona, - mio padre si desterà e si metterà a cercarmi; non bisogna che ci trovi qui. Messer Spini capiva poco quello che ella gli diceva, ma Teresona lo alzò da terra e, sorreggendolo, lo fece camminare in direzione del Pian di Campaldino. In mezzo alla vasta pianura sorgeva una casetta disabitata, dove la ragazza fece entrare l'infelice, e anche li trovò il modo di preparargli un letto di foglie e di fieno; ma come avrebbe fatto mai a nutrirlo? Peraltro Teresona era una ragazza coraggiosa, e le pareva che quegli abiti maschili che aveva indossati dovessero renderla irriconoscibile. Così, dopo aver raccomandato all'esule di non muoversi, andò fuori, sperando che le capitasse di guadagnar qualche cosa. Ma prima di uscire passò alcuni minuti in orazione e supplicò la Vergine Maria e sant'Anna di vegliare sul disgraziato fiorentino. La ragazza camminava alla ventura sulla via maestra in direzione di Poppi, quando le accadde di imbattersi in un grosso frate camaldolese, montato sopra un somaro. L'animale s'era impuntato e non voleva andare né avanti né addietro, e il monaco tirava la briglia, menava frustate; ma sì! era come dire al muro. Teresona, che era forte quanto un toro, prese il ciuco per la briglia e lo costrinse a camminare; ma appena lo lasciava, il ciuco impuntavasi di nuovo. - Giovinotto, - disse il monaco, - come vedi io son troppo pingue per far la strada a piedi e debbo trovarmi a Bibbiena prima di mezzogiorno: accompagnami fin là e ne avrai da me larga ricompensa. Teresona non se lo fece dir due volte, e seppe così bene costringer l'asino a camminare, che il monaco alle undici era già sulla piazza della Pieve. Egli scese di sella, e dopo aver messa una moneta d'argento in mano al suo accompagnatore, lo pregò di andarlo a riprendere il giorno dopo per accompagnarlo a Camaldoli, e gli avrebbe dato il triplo. La ragazza si sentì allargare il cuore, e dopo aver comprato a Bibbiena quello che occorreva per nutrire il malato e un pan tondo per sé, mangiando con grande appetito, tornò alla casetta del Pian di Campaldino. Il forestiero non era più così abbattuto come ella lo aveva lasciato, e le domandò come mai non si trovava più nella soffitta ed ella aveva preso abiti maschili. Teresona gli raccontò le sue angustie della notte, e il giovane s'intenerì sapendo di quale abnegazione essa era stata capace pur di non abbandonarlo. - Se un giorno io riacquisterò i miei beni, - le disse, - tu, eccellente ragazza, sarai signora e padrona in casa mia; te lo giuro da cavaliere. Teresona s'intenerì e sempre più prese affetto per quell'infelice. Il giorno passò senza che messer Spini ricadesse nel letargo; ma appena la luna inondò con la sua luce argentea la vasta pianura, egli si addormentò, e dal sonno passò alle convulsioni; si dibatteva, mandava bava dalla bocca, e urlava come un lupo affamato. Ora bisogna sapere che la casetta, nella quale Teresona si era rifugiata insieme con l'ammalato, apparteneva a certi contadini i quali non l'abitavano altro che nei due mesi che precedevano la vendemmia. Essi solevano passarvi la notte per abbadare che non rubassero loro l'uva; il resto dell'anno non ci capitavano mai. Ma quella era appunto la stagione in cui l'uva aveva bisogno della sorveglianza notturna dei contadini, e due di essi si avviarono alla casupola, quando sentirono uscirne urli di lupo. I contadini stettero in ascolto un momento; poi, udendo che gli urli continuavano, non pensarono più all'uva e via di corsa. Quegli urli erano stati uditi anche da altri contadini, così che la mattina nel vicinato non si parlava d'altro che della presenza del lupo mannaro nel Pian di Campaldino. Come avviene sempre in certe circostanze, vi era pure chi asseriva di aver visto la bestia spaventosa correre di notte, mentre la luna era alta, per i campi e per i boschi, così nessuno si attentava più a uscir di casa la notte, e i contadini avrebbero lasciato piuttosto marcir l'uva sulle viti, che attentarsi a incontrare il lupo mannaro. Intanto Teresona, sostenuta dal desiderio di rendersi utile all'infelice cui affezionavasi ogni giorno più, non rifuggiva da nessun lavoro, per faticoso che fosse, pur di guadagnare qualche cosa. Aveva riaccompagnato il monaco a Camaldoli e da lui aveva ottenuto una larga ricompensa; poi s'ingegnava a far legna, che andava a vendere a Poppi e a Bibbiena, e se incontrava nei boschi qualche squadra di taglialegna, offriva l'opera sua per ottenerne qualche soldo. Una notte, vedendo messer Spini dibattersi furiosamente in preda alle convulsioni, Teresona aveva detto: - Sant'Anna benedetta, non vi pare che quest'infelice abbia patito assai? guaritelo, per carità di lui e di me! La luminosa visione le era di nuovo comparsa, e sant'Anna le aveva risposto: - Se la diletta Figlia mia non avesse esaudito le tue preghiere, tu e l'esule non avreste più neppure questo ricovero. Non capisci che sono gli urli di lui che tengono lontana la gente da questo luogo? - Chino il capo alle savie disposizioni della Provvidenza, - rispose Teresona umilmente. - Così va bene; - disse sant'Anna, - quando la persecuzione contro messer Spini cesserà, egli sarà guarito. La visione scomparve, ma gli urli continuarono e il terrore era sparso nei dintorni. Intanto i contadini, che vedevano marcire la loro uva sulle viti nel Pian di Campaldino, erano andati dall'abate di Strumi, che aveva nomea di santo, e gli avevan detto, con voce tremante e spaventata: - Abate maggiore, il lupo mannaro è in paese, e noi si perde la raccolta dell'uva. L'abate si era fatto spiegare il come e il perché di quella perdita, e dopo aveva detto: - Domani farò una processione fino alla casetta nel Pian di Campaldino e con l'acqua santa caccerò il lupo mannaro. Infatti il giorno dopo aveva adunato i suoi monaci, e, preceduto dalla croce, si era diretto al luogo dove tenevasi nascosto messer Spini. Egli era in un momento di calma e, seduto per terra col dorso appoggiato alla rozza parete, esprimeva a Teresona, che lo ascoltava con le lacrime agli occhi, l'ammirazione che ella gl'ispirava per la sua illimitata bontà. - Ti voglio bene, Teresa, - le diceva, - più che alla madre mia, più che alle sorelle, agli amici, alla patria stessa, e non saprei vivere senza di te. La donna, che stava sempre in ascolto temendo una sorpresa, udì salmodiare e, guardando da uno spiraglio della porta, vide la processione di monaci dirigersi alla volta della casupola. - Siamo perduti! - esclamò. E, senza cercar di fuggire, perché lo reputava inutile, s'inginocchiò e pregò fervidamente sant'Anna e la Vergine. In quel momento messer Spini fu assalito dalle convulsioni; egli incominciò ad urlare, e il suo corpo prese a un tratto l'aspetto orribile di una bestia villosa, con una testa enorme e una bocca fornita di zanne minacciose. L'animale, sempre urlando, si fece sulla porta, e pareva pronto a gettarsi addosso al primo che si accostasse. Il giovane monaco che recava la croce ed era in testa alla processione, appena vide il mostro, fuggì; l'abate che sperava tanto nell'acqua santa, se la diede a gambe, e in breve Teresona vide le tonache bianche dei monaci sparire dalla pianura di Campaldino. Quando nessuno più rimase in quei dintorni, messer Spini riprese sembianze umane e Teresona respirò. Tutti e due capirono che quella trasformazione era avvenuta per intervento celeste, e ringraziarono le loro Protettrici. Dopo qualche giorno messer Spini non fu più assalito dalle convulsioni. Soltanto quando qualcuno voleva avventurarsi vicino alla casa, mandava urli da lupo, e se v'era qualche spirito forte che si accostava con l'intendimento di uccidere il lupo mannaro nella sua tana, il fiorentino prendeva subito le sembianze del mostro e faceva fuggire il mal capitato. Così Teresona e l'esule rimasero padroni di una zona di terreno, dalla quale essi ricavavano in parte il nutrimento. La ragazza però non cessava d'industriarsi andando a vendere erbaggi a Bibbiena, e laggiù apprese che a Firenze non governava più il partito avverso a messer Spini, e che a questi era stato revocato il bando e la confisca dei beni. Tutta lieta ella andò a comunicare la notizia all'esule, il quale pianse di gioia e, approfittando della notte, volle subito partire per Firenze. Teresona fu molto afflitta da quella risoluzione del fiorentino e gli disse: - Signor mio, quando sarete in patria, ricordatevi qualche volta di me. - Ma tu mi accompagni! - rispose messer Spini, - mi sei stata compagna, sostegno, appoggio nella brutta sorte, sarai dunque la compagna dei giorni lieti. Così partirono, e dopo molti giorni di viaggio faticoso, messer Spini bussava alla porta del suo palazzo e, riconosciuto dai suoi concittadini, tornava al possesso del patrimonio e delle cariche del governo della Repubblica. Teresona aveva ripreso gli abiti femminili, ma non appariva più a nessuno così brutta come per il passato, forse perché messer Spini narrava a tutti la devozione di cui era stata capace quella creatura così buona e coraggiosa. Nonostante Teresona si sentiva a disagio nel bel palazzo, e ormai che messer Spini era guarito e ritornato in patria, ella voleva riandarsene in Casentino, per aver notizie del padre suo e ottenerne il perdono. Ma messer Spini non glielo concesse e, anzi, per dimostrarle la sua gratitudine, volle farla sua moglie. Teresona credé d'impazzire dalla gioia allorché il suo signore le comunicò questa risoluzione. Le nozze furono celebrate senza pompa nella cappella del palazzo Spini, dove la sposa visse lunghissimi anni venerata e stimata dal marito e dagli amici di lui, e dove morì in tarda età. Appena messer Spini e la Teresona furono partiti dal Casentino, certi contadini che passavano una mattina sul limitare della pianura di Campaldino videro il cadavere di un mostro, simile in tutto e per tutto a quello che aveva tanto spaventato l'abate maggiore di Strumi e tutta la processione. Essi andarono a raccontare a Poppi che il lupo mannaro era crepato, e allora il popolo dei dintorni, guidato dai proprietari della pianura, andò a vedere la bestiaccia che era stata per tanto tempo il terrore di tutto il paese. - Bruciamola! - disse uno. - Bruciamola! - risposero tutti. Allora lì per lì fu messa insieme una catasta di legne secche; la bestiaccia pelosa vi fu posta sopra a forza di stanghe, perché nessuno voleva toccarla, e in breve fu avvolta dalle fiamme e incenerita. Da quel giorno nessuno ha più udito né veduto il lupo mannaro in quei luoghi, e i contadini sono ritornati ogni anno a badare all'uva matura, senza essere turbati nelle loro veglie dagli urli del lupo. - E ora la novella è finita, - disse la Regina. In quel momento tornavano da Camaldoli il professor Luigi e la moglie, e con loro c'era anche l'Annina. - Come mai sei venuta? - le domandò la nonna. - Non so, - rispose la ragazza, - la signora mi ha detto che era meglio che passassi qualche giorno a casa, ed ho ubbidito. La signora Maria prese da parte la Carola e le disse che la signora Durini, sapendo che Carlo Buoni doveva tornare mercoledì o giovedì della settimana seguente, aveva creduto più conveniente che si abboccasse con l'Annina e le aprisse l'animo suo in casa dei genitori, piuttosto che alla villa dell'ispettore. Dopo quell'abboccamento le avrebbero rimandato la ragazza, dalla quale non intendeva separarsi fino al giorno del matrimonio. L'Annina doveva sospettar qualche cosa, perché era turbata e guardava tutti come se volesse leggere nell'animo dei suoi il segreto che era sicura le celavano; ma non domandò nulla, per il momento, ai grandi. Però, imbrancatasi con i piccini, che le avevano fatto una gran festa vedendola giungere, li aveva condotti nell'orto, e abilmente, senza dimostrare curiosità, li aveva interrogati. Essi erano stati tutti contenti di raccontarle che in settimana avevan avuto visite, che c'erano stati i Buoni, padre e figlio, e che durante la loro visita essi erano stati mandati via di cucina. - E dopo che hanno fatto? - domandò l'Annina. - Dopo aver molto parlato, il capoccia ci ha mandati a prendere l'aleatico; essi hanno bevuto, e son partiti per Poppi. Però il Vecchio, al ritorno, s'è fermato qui di nuovo. - E com'era il babbo? - Tutto felice, come quando torna dal mercato e ha venduto bene un paio di manzi. - E voi, che cosa avete supposto? - chiese di nuovo l'Annina. - Che il capoccia, la nonna, le nostre mamme e la Vezzosa hanno paglia in becco. L'Annina era troppo furba per non aver capito tutto. Il cuore le batteva forte forte, e quel certo mistero che ancora avvolgeva un fatto di cui non poteva aver più dubbio, le faceva provare una grande, una immensa felicità. Non sapeva spiegarsi come il sor Carlo avesse proprio scelto lei, e quando fu a letto, sicura che nessuno la vedeva, pianse e rise dalla grande felicità.

Se non ora quando

680477
Levi, Primo 1 occorrenze

Piotr riprese: _ ... vedremo di non abbandonarvi, combattenti o non combattenti. Almeno per qualche tempo: cosa può accadere dopo, non lo sappiamo noi, né i nostri capi, né nessuno. Il nostro tempo corre come corrono le lepri, veloce e a zig-zag. Chi fa un piano per il giorno dopo, e poi lo realizza, è bravo; chi fa piani per la settimana dopo è matto. O è una spia dei tedeschi. Fumò tranquillo ancora per qualche minuto, poi disse: _ Il nostro campo non è lontano, ci potremo arrivare prima di domani sera. Tenete le vostre armi, ma scariche: le munizioni, abbiate pazienza, le teniamo noi. Per adesso. Poi, quando ci conosceremo meglio, vedremo. Si misero in marcia, i tre sciatori in testa e gli altri dietro. La neve era profonda e farinosa, e il peso dei tre non era sufficiente per consolidare il fondo; i dieci appiedati avanzavano con fatica, sprofondando a ogni passo e rallentando la marcia. Il più lento era Dov; non si lamentava, ma era visibilmente in difficoltà. Piotr gli cedette i suoi bastoncini, che tuttavia non gli furono di grande aiuto: ansimava, era pallido ed imperlato di sudore, e doveva fermarsi spesso. Piotr, che apriva la fila, si voltava a tratti a guardare ed era inquieto: il terreno era aperto, senza alberi né ripari; alle paludi gelate si alternavano lievi ondulazioni brulle, e dall' alto di queste, volgendosi indietro, si vedeva la loro traccia, profonda come un crepaccio e diritta come un meridiano. Al termine della traccia c' erano loro, tredici formiche: se fosse arrivato un ricognitore tedesco non ci sarebbe stato scampo. Era fortuna che il cielo rimanesse coperto, ma non lo sarebbe rimasto a lungo. Piotr annusava l' aria come un segugio: tirava un leggero vento dal nord; a lungo andare avrebbe sollevato la neve e cancellato la traccia, ma il cielo si sarebbe rasserenato prima. Aveva fretta di raggiungere il campo. Uscì di pista e si lasciò sorpassare. Quando si trovò affiancato a Dov, gli disse: _ Sei stanco, zio: sia detto senza offesa. Vieni qui, monta sulle mie code e tieniti abbracciato a me; farai meno fatica _. Dov obbedì senza parlare, e la coppia riprese la posizione di testa. Fu un vantaggio per tutti: sotto il doppio peso la neve si costipava meglio, e gli appiedati non sprofondavano quasi più. Line, la più leggera di tutti, portava un paio di scarponi militari fuori misura, e galleggiava sulla neve come se avesse calzato le racchette; Leonid non si staccava da lei di un palmo. Camminarono fino a notte, pernottarono in un bivacco noto a Piotr e ripresero la marcia il mattino dopo. Arrivarono in vista del campo più presto del previsto, a metà pomeriggio, sotto un sole vivido, innaturalmente caldo. "In vista", beninteso, solo per chi sapesse dove e come il campo era situato. Piotr mostrò loro, a sud-ovest, un vasto settore di foresta che, come un orizzonte tracciato con un pennello sottile, separava il bianco della neve dall' azzurro del cielo invernale. Lì, da qualche parte in mezzo agli alberi, stava il campo della banda di Ulybin; ci sarebbero arrivati a notte, ma non in linea retta. Era un' esperienza che avevano pagata a caro prezzo: mai lasciare piste troppo leggibili con tempo chiaro e senza vento. Bisognava fare qualche deviazione; avrebbero ripreso la direzione giusta al riparo degli alberi. Agli ex-cittadini delle paludi sembrava di sognare. Novoselki era stata una salvezza precaria e una intelligente improvvisazione: il campo in cui entravano era opera professionale, consolidata dall' esperienza di tre anni. Mendel e Leonid poterono confrontare la solidità organizzativa della banda di Ulybin con le iniziative baldanzose e velleitarie della banda vagante di Venjamìn. Trovarono nel folto del bosco, appena visibile ad un occhio disattento, un gruppo di tre baracche di legno, quasi totalmente interrate, disposte lungo i lati di un triangolo equilatero. Al centro del triangolo, altrettanto poco visibili, erano la cucina e il pozzo. Il camino che disperdeva il fumo nell' intrico dei rami non era stata un' invenzione di Novoselki: altrettanto era stato qui, quando i tempi sono maturi certi ritrovati germogliano in vari luoghi, e ci sono circostanze in cui i problemi non hanno che una sola soluzione. A Novoselki Dov aveva scherzato sulla professione di Leonid: a lui non occorreva un contabile. A Turov ne trovarono uno, o per meglio dire un furiere nel pieno esercizio delle sue funzioni. Era allo stesso tempo rappresentante dell' NKVD e commissario politico, e si occupò di loro con efficienza sbrigativa. Nome, patronimico, corpo di appartenenza per i militari, età, professione, registrazione dei documenti (ma pochi fra loro avevano documenti); poi a letto, il resto all' indomani mattina. A letto, sì: all' interno di ogni baracca c' era una stufa e un tavolo coperto di paglia pulita, e l' aria era asciutta e calda, benché il pavimento fosse a quasi due metri sotto il livello del suolo. Mendel si addormentò in una girandola di impressioni confuse: si sentiva esausto, dislocato e insieme protetto, meno padre e più figlio, più sicuro e meno libero, a casa e in caserma; ma venne subito il sonno, come una caritatevole mazzata sul capo. Il mattino dopo, il campo offrì ai rifugiati nulla meno che un bagno caldo, decorosamente separato per le donne e per gli uomini, in una tinozza collocata nel locale delle cucine. Seguì la spidocchiatura, o meglio un invito ad un autocontrollo coscienzioso, e la distribuzione di biancheria, ruvida e non nuova ma pulita. Infine, una portentosa kasa sostanziosa e calda, consumata in comune con veri cucchiai in veri piatti d' alluminio, e seguita da un tè abbondante e dolce. Si annunciava una giornata tranquilla, con un' aria singolarmente mite per quella stagione: nelle zone esposte al sole la neve accennava a sciogliersi, il che destò una certa inquietudine. _ Per noi va bene il gelo, disse a Mendel Piotr, che faceva gli onori di casa; _ col disgelo, se non si sta attenti, ci troviamo le baracche inondate e anneghiamo nel fango _. Illustrò loro con fierezza l' impianto elettrico. Un meccanico di talento aveva adattato la coppia conica di un vecchio mulino alla scatola del cambio di un autocarro tedesco: un cavallo bendato girava lentamente in tondo ed attraverso il sistema di ingranaggi azionava una dinamo che caricava un gruppo di batterie. Dalle batterie, quando tutto andava bene, veniva la luce elettrica e l' energia per la ricetrasmittente. _ Al posto del cavallo, in autunno abbiamo messo quattro prigionieri ungheresi, per sette giorni. _ E poi li avete uccisi? _ chiese Mendel. _ Noi uccidiamo solo i tedeschi, e neanche sempre. Non siamo come loro; uccidere non ci piace. Bendati come erano, li abbiamo portati di là dal fiume e abbiamo lasciato che andassero dove volevano. Avevano un po' di capogiro. Piotr li ammonì di non tentare di uscire dal campo, anzi, di non allontanarsi dalle baracche per più di una trentina di metri. _ Tutto intorno, il bosco è minato. Ci sono mine sepolte sotto tre dita di terra, e ci sono mine a coppia, collegate con uno spago teso sotto la neve. Abbiamo fatto un buon lavoro: piano piano, notte per notte, abbiamo sminato tutto un campo tedesco, abbiamo recuperato le mine e le abbiamo piazzate qui. Non abbiamo perso neanche un uomo, e dopo di allora i tedeschi ci hanno lasciati in pace. Ma noi non lasciamo tanto in pace loro. Piotr si mostrava attirato e incuriosito dal gruppo dei dieci che aveva trovati nell' isba e rischiato di uccidere; era particolarmente amichevole con Mendel. Gli fece vedere un lavoretto, un' idea che aveva concepita e realizzata Michaìl, il radiotelegrafista, senza l' aiuto di nessuno. In un angolo della sua baracca c' era una vetusta macchina tipografica a pedale, con un piccolo corredo di caratteri cirillici e latini. Michaìl non era tipografo, ma si era arrangiato. Aveva composto un manifesto di propaganda bilingue, su due pagine affiancate, in tutto simile a quelli di cui i tedeschi avevano inondato tutte le città e i villaggi della Russia occupata. Il testo tedesco era copiato dai manifesti tedeschi originali: prometteva il ripristino della proprietà privata e la riapertura delle chiese, invitava i giovani ad arruolarsi nell' Organizzazione del Lavoro e minacciava gravi pene contro i partigiani e i sabotatori. Il testo russo che gli stava a fronte non era la traduzione del testo tedesco, anzi, lo capovolgeva. Diceva: Giovani Sovietici! Non credete ai tedeschi, che hanno invaso la nostra patria e massacrano le nostre popolazioni. Non lavorate per loro; se andrete in Germania patirete la fame e la frusta, e vi segneranno come le bestie; quando tornerete (se tornerete!) dovrete fare i conti con la giustizia socialista. Non un uomo, non un chilo di grano, non una informazione ai boia hitleriani! Venite con noi, arruolatevi nell' Armata Partigiana! In entrambe le versioni c' erano diversi errori di ortografia, ma non erano colpa del radiotelegrafista: nella cassetta le a e le e erano scarse, e allora lui aveva messo giù i caratteri che gli erano sembrati più adatti. Ne aveva tirate diverse centinaia di copie, che erano state distribuite e affisse fino a Baranovici, a Rovno e a Minsk. C' erano parecchie armi leggere da riparare e lubrificare: a Turov Mendel trovò subito il suo lavoro. Nelle ore in cui era libero da incombenze, Piotr non si staccava da lui. _ Siete ebrei tutti e dieci? _ No, solo sei: io, le due donne, il giovane che sta sempre con la ragazza piccola, quello anziano che tu hai portato sulle code, e Pavel Jurevic, il più robusto di tutti. Gli altri quattro sono degli sbandati che ci hanno raggiunti poco prima che i tedeschi distruggessero il nostro campo. _ Perché i tedeschi vi vogliono uccidere tutti? _ È difficile da spiegare, _ rispose Mendel. _ Bisognerebbe capire i tedeschi, e io non ci sono mai riuscito. I tedeschi pensano che un ebreo valga meno di un russo e un russo meno di un inglese, e che un tedesco valga più di tutti; pensano anche che quando un uomo vale più di un altro uomo, ha il diritto di farne quello che vuole, anche di farlo schiavo o di ucciderlo. Forse non tutti sono convinti, ma sono queste le cose che gli insegnano a scuola, e sono queste le cose che dice la loro propaganda. _ Io credo che un russo valga più di un cinese, _ disse Piotr meditabondo, _ ma se la Cina non facesse un torto alla Russia, non mi verrebbe in mente di uccidere tutti i cinesi. Mendel disse: _ Io, invece, credo che non abbia molto senso dire che un uomo vale più di un altro. Un uomo può essere più forte di un altro ma meno sapiente. O più istruito ma meno coraggioso. O più generoso ma anche più stupido. Così, il suo valore dipende da quello che ci si aspetta da lui; uno può essere molto bravo nel suo mestiere, e non valere più niente se lo si mette a fare un altro lavoro. _ È proprio come dici tu, _ disse Piotr illuminandosi tutto. _ Io facevo il tesoriere del Komsomol, ma ero distratto, sbagliavo i conti, e tutti mi ridevano dietro e dicevano che ero un buono a nulla. Poi è venuta la guerra, io sono andato subito volontario, e da allora mi pare di valere di più. È strano: uccidere non mi piace, ma sparare sì, e allora succede che anche uccidere non mi fa più molto effetto. In principio era diverso, avevo ritegno, e avevo anche un' idea stupida. Pensavo che i tedeschi, invece di avere una pelle come la nostra, fossero foderati di acciaio, e che le pallottole rimbalzassero. Adesso non più; di tedeschi ne ho già ammazzati parecchi, e ho visto che sono teneri come noi, se non di più. E tu, ebreo: quanti tedeschi hai ammazzati? _ Non lo so, _ rispose Mendel. _ Io ero in artiglieria; sai, non è come con un fucile, si piazza il pezzo, si punta, si spara e non si vede niente; quando va bene, si vede l' esplosione d' arrivo, a cinque o dieci chilometri. Chi lo sa, quanti ne sono morti per mano mia? Forse mille, forse neanche uno. Ti arrivano gli ordini per telefono o per radio, attraverso la cuffia: tre gradi a sinistra, alzo meno un grado, tu obbedisci e tutto finisce lì. È come per gli aerei da bombardamento, o come quando uno versa l' acido in un formicaio per far morire le formiche: muoiono centomila formiche e tu non senti niente, non te ne accorgi neanche. Ma al mio paese i tedeschi hanno fatto scavare una fossa dagli ebrei, e poi li hanno messi in piedi sull' orlo, e li hanno fucilati tutti, anche i bambini, e anche parecchi cristiani che nascondevano gli ebrei, e fra i fucilati c' era mia moglie. E dopo di allora io penso che uccidere sia brutto, ma che di uccidere i tedeschi non ne possiamo fare a meno. Da lontano o da vicino, alla tua maniera o alla nostra. Perché uccidere è il solo linguaggio che capiscono, il solo ragionamento che li fa convinti. Se io sparo a un tedesco, lui è costretto ad ammettere che io ebreo valgo più di lui: è la sua logica, capisci, non la mia. Loro capiscono solo la forza. Certo, convincere uno che muore non serve a molto, ma a lungo andare anche i suoi camerati qualcosa finiscono col capire. I tedeschi hanno cominciato a capire qualche cosa solo dopo Stalingrado. Ecco, per questo è importante che ci siano partigiani ebrei, ed ebrei nell' Armata Rossa. È importante, ma è anche orribile; solo se io uccido un tedesco riuscirò a persuadere gli altri tedeschi che io sono un uomo. Eppure noi abbiamo una legge, che dice "Non uccidere". _ ... Voi però siete strani. Siete gente strana. Una cosa è sparare e un' altra è fare dei ragionamenti. Se uno ragiona troppo finisce che non spara più diritto, e voi ragionate sempre troppo. Forse è per questo che i tedeschi vi ammazzano. Vedi, io per esempio sono nel Komsomol fino da bambino, darei la vita per Stalin come l' ha data mio padre, credo in Cristo salvatore del mondo come ci crede mia madre, mi piace la vodka, mi piacciono le ragazze, mi piace anche sparare, e vivo bene qui nelle pianure a dare la caccia ai fascisti, e non sto tanto a ragionarci sopra. Se una delle mie idee non va d' accordo con un' altra, non me ne importa un accidente. Mendel stava a sentire con le orecchie e con metà del cervello, mentre con l' altra metà e con le mani stava dirugginando con petrolio le viti e le molle di un fucile automatico che aveva smontato. Colse l' occasione di quel momento di confidenza per rivolgere a Piotr una domanda che stava a cuore a lui e a Dov. _ Che cosa ne è del vostro vicecomandante? Non c' era qui con voi Gedale, Gedale Skidler, un ebreo mezzo russo e mezzo polacco che aveva combattuto a Kossovo? Uno alto, col naso a becco e la bocca larga? Piotr tardò a rispondere: guardava in su e si grattava la barba, come per richiamare a mente ricordi svaniti da anni. Poi disse: _ Sì, sì. Gedale, certo. Ma non è mai stato vicecomandante; solo qualche volta dava degli ordini, quando Ulybin era assente. È in missione, Gedale. Tornerà, sì: fra una settimana, o forse fra due o anche tre. O potrebbe anche darsi che sia stato trasferito: nella partisanka, di sicuro non c' è mai niente. "Questo Piotr è più bravo a correre sugli sci che a dire bugie", disse Mendel fra sé. Poi chiese ridendo: _ Era di quelli che ragionano troppo? _ Non è che ragionasse troppo: questo proprio no, non era lì il suo difetto, ma era strano, anche lui. Te l' ho già detto, veramente voi ebrei siete tutti un po' strani, per un verso o per un altro, non sia detto per biasimo. Questo Gedale sparava bene quasi quanto me, non so chi gli avesse insegnato; però faceva poesie, e si portava sempre dietro un violino. _ Componeva canzoni e le suonava sul violino? _ No, le poesie erano una cosa e il violino un' altra. Lo suonava alla sera; ce l' aveva addosso in agosto, quando i tedeschi hanno fatto il grande rastrellamento attorno a Luninets. Siamo riusciti a filtrare fuori dell' accerchiamento, e un cecchino gli ha sparato: la pallottola ha forato il violino da parte a parte, e così ha perso la sua forza e a lui non ha fatto nulla. Lui ha riparato i fori con resina di pino e cerotti dell' infermeria, e da allora il violino se lo è sempre portato addosso. Diceva che suonava meglio di prima, e gli ha perfino attaccato una medaglia di bronzo che avevamo trovato su un ungherese morto. Vedi che era proprio un tipo strano. _ Se fossimo tutti uguali, il mondo sarebbe noioso. Noi abbiamo una benedizione speciale, da rivolgere a Dio quando si vede una persona diversa dalle altre: un nano, un gigante, un negro, un uomo coperto di verruche. Diciamo: "Benedetto sii Tu, Signore Iddio nostro, re dell' Universo, che hai variato l' aspetto delle Tue creature". Se lo si loda per le verruche, a maggior ragione lo si deve lodare per un partigiano che suona il violino. _ Tu hai ragione, e insieme fai venire la rabbia. Anche Gedale era cosi. Voleva sempre dire la sua, e non andava d' accordo con Ulybin, e neanche con Maksìm; Maksìm è il furiere, ossia lo scribacchino, quello che tiene i conti e viene dall' NKVD. Lo hanno mandato qui da Mosca col paracadute, perché tenesse la disciplina: come se la disciplina fosse la faccenda più importante. Del resto, neppure io vado tanto d' accordo con Maksìm. A Mendel premeva battere il ferro finché era caldo. _ Insomma, fra Gedale e il comandante che cosa c' è stato? _ Beh, c' è stato un litigio, all' inizio dell' inverno. Era un pezzo che non andavano d' accordo, Ulybin e Gedale. No, non per via del violino, c' erano dei motivi più seri. Gedale avrebbe voluto andare in giro per i boschi e le paludi e radunare una banda di partigiani ebrei. Ulybin invece diceva che gli ordini di Mosca erano diversi; i combattenti ebrei dovevano essere accettati alla spicciolata, nei reparti russi. La rottura è venuta quando Gedale ha scritto una lettera e l' ha mandata a Novoselki senza il permesso di Ulybin; non so che cosa ci fosse in quella lettera, e non saprei neppure dirti chi dei due avesse ragione. Sta di fatto che Ulybin era arrabbiato, gridava che lo si sentiva per tutto il campo, e batteva i pugni sul tavolo. _ Che cosa gridava? _ Non ho capito bene, _ rispose Piotr facendosi tutto rosso. _ Che cosa gridava? _ insistette Mendel. _ Gridava che nel suo reparto di poeti non voleva più sentirne parlare. _ Non avrà proprio detto "poeti", _ disse Mendel. _ Già. Non ha detto "poeti". _ Piotr tacque un momento, poi aggiunse: _ Ma dimmi: è vero che siete stati voi a crocifiggere Gesù? Nel campo di Turov i profughi di Novoselki trovarono sicurezza ed un certo benessere materiale, ma si sentivano a disagio. I quattro di Ozarici furono inquadrati regolarmente; gli altri sei, le due donne comprese, ricevettero vari incarichi nei servizi. Ulybin, qualche giorno dopo il loro arrivo, li aveva ricevuti con correttezza distaccata, poi non si era più fatto vedere. La temperatura era scesa a poco a poco; verso la metà di gennaio era a -15ä, a fine gennaio arrivò a -30ä. Dal campo partivano piccole pattuglie di sciatori, per spedizioni di approvvigionamento, o per azioni di disturbo e sabotaggio di cui Mendel aveva notizie frammentarie attraverso Piotr. Un giorno Ulybin fece chiedere chi fra loro parlava il tedesco. Tutti e sei gli ebrei lo parlavano, più o meno correttamente, con un accento jiddisch più o meno pronunciato: perché questa richiesta? Di cosa si trattava? Ulybin, per bocca di Maksìm, fece sapere che desiderava parlare con l' uomo che aveva la pronuncia migliore; le donne no, per quella faccenda non servivano. Quella sera, nella baracca ben riscaldata, fu distribuito un rancio speciale. Poco dopo il tramonto era arrivata al campo una slitta, aveva scaricato una cassa ed era subito ripartita; a cena, il furiere consegnò ad ognuno una scatoletta di latta di forma inconsueta. Mendel la rigirò fra le mani perplesso: era pesante, non aveva etichetta, e il coperchio, saldato a stagno, era più piccolo del diametro esterno della latta. Vide i commensali che, con la punta del coltello, praticavano due fori nello spazio anulare intorno al coperchio: uno piccolo e uno più grande, nel foro grande versavano un po' d' acqua, e poi lo tappavano con mollica di pane. Sempre più incuriosito, li imitò, e sentì che la scatoletta si scaldava fino a bruciargli la mano, mentre dal foro rimasto aperto usciva l' odore ben noto dell' acetilene. Come gli altri, avvicinò un fiammifero acceso, e in breve la tavola fu circondata da un' allegra corona di fiammelle, come in una fiaba di fate. Dentro la scatoletta c' era carne e piselli; nell' intercapedine c' era carburo, che reagendo con l' acqua scaldava il contenuto. Mentre fuori fischiava la tormenta, e nella luce tremula delle fiammelle, Pavel diede spettacolo. Si mostrava comicamente indignato: _ Ma come? Vi siete dimenticati di me? O fate finta di non saperlo? Ma si capisce, ma certamente, ma ganz bestimmt! Io parlo tedesco come un tedesco, se voglio; meglio di Hitler, che è austriaco. Lo parlo con l' accento di Amburgo, o con quello di Stoccarda, o con quello di Berlino, come desidera il committente. O senza accento, come la radio. Parlo anche russo con accento tedesco, o tedesco con accento russo. Diglielo, al comandante. Digli che sono stato attore e ho girato il mondo. E che sono anche stato annunciatore alla radio, e alla radio ho fatto anche dei numeri comici; a proposito, la sapete la storia di quell' ebreo che mangiava le teste delle aringhe? La raccontò, in russo variegato di ridicole inflessioni jiddisch, poi ne raccontò un' altra e un' altra ancora, attingendo al corpus sterminato dell' autoironia ebraica, surreale e sottile, giusto contrappeso al rituale che è altrettanto surreale e sottile: forse il frutto più raffinato della civiltà che attraverso i secoli si è distillata dal mondo stralunato dell' ebraismo askenazita. I suoi compagni sorridevano imbarazzati, i russi si tenevano la pancia e scoppiavano in risate di tuono. Gli battevano pacche sonore sulla schiena robusta, incitandolo a continuare, ma Pavel non chiedeva altro: da quanti anni non aveva un pubblico? _ ... e la storia dei Jeschiva Bucherim, degli allievi della scuola rabbinica, che erano stati arruolati nell' esercito, non la sapete? Era il tempo degli zar, e allora le scuole rabbiniche erano tante, dalla Lituania fino all' Ucraina. Ci volevano almeno sette anni, per diventare rabbini, e gli studenti erano quasi tutti poveri; ma anche quelli che poveri non erano, erano pallidi e magri, perché un Jeschiva Bucher deve mangiare solo pane condito con sale, bere acqua e dormire sulle panche della scuola, tanto che ancora adesso si dice: "Nebech, poveretto, è magro come un Jeschiva Bucher". Bene: in una scuola rabbinica piombano gli ufficiali di reclutamento, e tutti gli allievi vanno coscritti in fanteria. Passa un mese, e gli istruttori si accorgono che tutti questi ragazzi hanno una mira infallibile: diventano tutti tiratori scelti. Perché? Non ve lo so dire il perché, la storia non lo dice. Forse perché studiare il Talmud aguzza la vista. Viene la guerra, e il reggimento di talmudisti va al fronte, in prima linea. Sono in trincea, con i fucili puntati, ed ecco il nemico che avanza. Il comandante grida "Fuoco!": niente, nessuno spara. Il nemico si fa sempre più vicino. Il comandante urla di nuovo "Fuoco!", e di nuovo nessuno obbedisce: il nemico è ormai a un tiro di sasso. "Fuoco, ho detto, brutti figli di puttana! Perché non sparate?" urla l' ufficiale .... Pavel si interruppe: era entrato Ulybin, si era seduto al tavolo, e subito il mormorio eccitato degli ascoltatori era cessato. Ulybin era sulla trentina, di media statura, muscoloso e bruno: aveva un viso ovale, impassibile, sempre rasato di fresco. _ Beh, perché non vai avanti? Sentiamo come va a finire, _ disse Ulybin. Pavel riprese, con meno sicurezza e meno brio: _ Allora uno degli studenti dice: "Non vede, signor capitano? Non sono sagome di cartone, sono uomini come noi. Se gli sparassimo, gli potremmo fare del male". I partigiani intorno al tavolo abbozzavano dei risolini esitanti, guardando alternativamente Pavel e Ulybin. Ulybin disse: _ Non ho sentito il principio. Chi erano quelli che non volevano sparare? Pavel fece un riassunto abbastanza arruffato dell' inizio della storiella, ed Ulybin chiese con voce gelida: _ E voi, che cosa fareste? Vi fu un breve silenzio, poi si udì la voce sommessa di Mendel: _ Noi non siamo Jeschiva Bucherim. Ulybin non rispose, ma poco dopo chiese a Pavel: _ Sei tu quello che parla tedesco? _ Sono io. _ Domani verrai con me. C' è qualcuno fra voi che sia un po' elettricista? Mendel alzò una mano: _ Al mio paese io riparavo le radio. _ Bene, verrai anche tu. Ulybin fece svegliare Mendel e Pavel alle quattro del mattino seguente, a notte fonda. Mentre facevano un rapido spuntino, spiegò lo scopo della spedizione. Uno dei partigiani, in perlustrazione attraverso il bosco, aveva visto che i tedeschi avevano teso una linea telefonica, fra il villaggio di Turov e la stazione di Zitkovici: non avevano piantato pali, avevano semplicemente inchiodato il filo agli alberi. Il partigiano si era arrampicato su un albero e aveva tagliato il filo. Era poi tornato al campo, fiero della sua iniziativa, e Ulybin gli aveva detto che era un somaro: le comunicazioni telefoniche non si interrompono ma si intercettano. Al campo di Turov c' era un impianto telefonico da campo, mai utilizzato. Era possibile ristabilire la linea, e inserirvisi sopra in modo da sentire quello che i tedeschi si dicevano? Sì, rispose Mendel, era possibile, purché ci fosse un microfono. Bisognava partire subito, disse Ulybin, prima che i tedeschi, accorgendosi che la linea era interrotta, si mettessero in sospetto. Partirono in quattro, Ulybin, Mendel, Pavel e Fedja, il giovane che aveva trovato il filo e lo aveva tagliato. Fedja non aveva ancora diciassette anni, era nato proprio a Turov, a meno di un' ora di cammino dal campo, e conosceva quei boschi fin da quando ci veniva da bambino a cercare nidi. Volava sugli sci, silenzioso e sicuro nel buio come una lince, fermandosi ogni tanto ad aspettare gli altri tre. Ulybin se la cavava abbastanza bene; Mendel arrancava con fatica, poco allenato, ed impacciato dagli attacchi troppo larghi; Pavel calzava gli sci per la prima volta in vita sua, sudava malgrado il freddo acuto, cadeva spesso e bestemmiava sottovoce. Ulybin era impaziente; sarebbe stato prudente riparare la linea prima che facesse giorno. Fortuna che, secondo Fedja, il luogo non era molto distante. Lo raggiunsero dopo un' ora di marcia. Mendel si era portato dietro qualche metro di conduttore; si tolse gli sci, e salendo sulle spalle di Pavel ricongiunse in pochi minuti i due terminali del filo che penzolavano nella neve; ma per eseguire l' operazione aveva dovuto togliersi i guanti, e sentiva che le dita gli si intorpidivano rapidamente per il gelo. Dovette interrompersi e frizionarsi a lungo le mani con la neve, mentre Ulybin spiava il cielo che incominciava a schiarire, e batteva i piedi per il freddo e per l' impazienza. Poi collegò al filo aereo uno dei fili del microfono, scese, piantò a terra un picchetto e vi collegò l' altro filo. Ulybin gli strappò di mano il microfono e lo portò all' orecchio. _ Cosa senti? _ chiese Mendel sottovoce. _ Niente. Solo uno sfrigolio. _ Va bene, _ bisbigliò Mendel. _ È segno che i contatti funzionano. Ulybin porse il microfono a Pavel. _ Stai tu in ascolto, che capisci il tedesco. Se senti parlare, fammi un cenno _. Poi chiese a Mendel: _ Se dovessimo parlare fra noi, ci potrebbero sentire? _ Basterà non parlare troppo forte, e coprire il microfono con il guantone. Ma se occorre si può anche staccare il contatto dal picchetto: si fa in un momento. _ Bene. Aspettiamo fin che sarà giorno, poi ce ne andiamo. Torneremo qui domani sera. Se tu Pavel hai freddo, ti darò il cambio io. Di fatto, si alternarono nell' ascolto tutti e quattro; chi sentiva freddo andava a battere mani e piedi lontano dal microfono. Verso le sette, Fedja ammiccò vivacemente col capo e passò il microfono a Pavel. Ulybin lo trasse in disparte: _ Che cosa hai sentito? _ Ho sentito un tedesco che chiamava "Turov, Turov"; ma da Turov non gli rispondeva nessuno _. In quello stesso momento, Pavel agitò la mano nel guantone e fece più volte di sì col capo: qualcuno aveva risposto. Stette in ascolto per pochi minuti, poi disse: _ Hanno finito. Peccato! _ Che cosa dicevano? _ chiese Ulybin. _ Niente di importante, ma mi divertivo. C' era un tedesco che si lamentava di non aver dormito per i crampi allo stomaco, e chiedeva a un altro tedesco se aveva una certa medicina. Quello con i crampi si chiama Hermann e l' altro Sigi. Sigi non aveva la medicina, sbadigliava, sembrava scocciato, e ha interrotto la comunicazione. Stavo per dirgli che una buona medicina ce l' abbiamo noi: mi avrebbe sentito? _ Non siamo qui per fare scherzi, _ disse Ulybin. Poi aggiunse che, nonostante il rischio, aveva deciso che sarebbero rimasti sul posto ancora per qualche ora: l' occasione era troppo bella. Infatti, poco dopo intercettarono una conversazione più interessante. Questa volta era Sigi che dal posto di Turov chiamava Hermann: annunciava di aver tentato più volte di mettersi in contatto con la guarnigione di Medvedka, ma da Medvedka non rispondeva nessuno. Hermann, ancora sofferente, aveva risposto che i quattro uomini di Medvedka potevano essere andati a spasso; che Sigi non si preoccupasse. Ma Sigi insisteva per chiarire la faccenda: aveva sentito parlare di "Banditen" nei dintorni. Hermann, più elevato in grado, o forse solo più anziano, gli aveva dato un consiglio: prendesse uno dei suoi uomini, lo travestisse da boscaiolo con funi e un' accetta, e lo mandasse da Turov a Medvedka a vedere da vicino che cosa succedeva. _ Quanto è lontana Medvedka? _ domandò Ulybin a Fedja. _ Da qui saranno sei o sette chilometri. _ E quanto c' è da Turov a Medvedka? _ Press' a poco il doppio. _ Quanto è grande Medvedka? _ Medvedka non è un villaggio: è solo una fattoria collettiva. Ci lavoravano una trentina di contadini, ma adesso credo che sia abbandonata. _ Partite voi due, _ disse Ulybin a Fedja e Mendel, _ e riportatemi il boscaiolo vivo. Noi vi aspettiamo qui, o poco lontano. Mendel e Fedja ritornarono verso mezzogiorno portandosi dietro il prigioniero, indenne ma atterrito; gli avevano legato le mani dietro la schiena con filo telefonico. Trovarono Ulybin che trepidava d' impazienza. Sigi aveva richiamato Hermann; era inquieto, il boscaiolo non era ancora ritornato. Hermann aveva brontolato qualcosa a proposito della neve e del bosco, poi aveva detto a Sigi di mandare un altro uomo, vestito da contadino, che prendesse il sentiero lungo il fiume. Per la verosimiglianza, che si portasse dietro due galline. Ulybin disse che Mendel e Fedja dovevano ripartire subito verso l' ansa del fiume e aspettare il contadino. Questa volta l' attesa fu più lunga: i due uomini, il secondo prigioniero e le due galline arrivarono solo al tramonto. I due prigionieri non erano tedeschi, ma ucraini della polizia ausiliaria, e non fu difficile farli parlare. A Turov i tedeschi erano solo sette od otto; erano territoriali non più giovani, con poca voglia di uscire dal paese e nessuna di cacciarsi in qualche avventura con i partigiani. A Zitkovici la situazione era diversa; a ottobre qualcuno aveva sabotato i binari della ferrovia non lontano dalla cittadina, un merci aveva deragliato danneggiando un ponte, e da allora c' era un presidio più consistente ed agguerrito, che teneva sotto controllo la stazione e la strada ferrata. C' era un plotone della Wehrmacht con una piccola armeria, e una ventina di ausiliari ucraini e lituani. C' era anche un deposito di viveri e di foraggio, e un ufficio della Gestapo. Prima di mettersi in via verso il campo, Ulybin decise di mandare un messaggio ai tedeschi. Diede istruzioni a Pavel, che rispose "Lascia fare a me": si mise al microfono e chiamò a intervalli Turov e Zitkovici finché una voce non rispose. Allora Pavel disse: _ Qui parla il colonnello Conte Heinrich von Neudeck und Langenau, comandante del terzo reggimento della tredicesima divisione dell' Armata Rossa, sezione del Fronte Interno e delle Zone Occupate. Voglio parlare con il più elevato in grado del presidio _. Pavel era entusiasta della sua parte. Confitto nella neve fino alle ginocchia, nel bosco ormai buio e spazzato dal vento gelato, con in mano un' assurda cornetta di telefono i cui fili si perdevano nell' intrico dei rami carichi di neve, aveva sfoderato un tedesco autoritario e roboante, marziale e gutturale, con le r e le ch che risuonavano rotonde nel fondo della gola: lodò mentalmente se stesso, bravo Pavel Jurevic, perbacco, sei più prussiano di un prussiano! Gli rispose una voce spaventata e perplessa che chiedeva spiegazioni: veniva dal presidio di Davìd-Gorodòk. _ Niente spiegazioni, _ rispose Pavel con voce di tuono, _ nessuna obiezione. Attaccheremo domani il vostro posto con cinquecento uomini: vi diamo quattro ore per evacuare, voi e i vostri tirapiedi traditori. Non ne deve rimanere uno: impiccheremo tutti quelli che troveremo sul posto. Chiudo _. A un cenno di Ulybin, Mendel strappò le connessioni, e i quattro con i due prigionieri si misero in marcia verso il campo. Perfino il tetro Ulybin, così avaro di parole e in specie di lodi, non poteva reprimere un asciutto sorriso asimmetrico, che non saliva fino agli occhi, ma gli torceva le labbra pallide per il freddo. Senza rivolgersi a nessuno in particolare, come se avesse pensato ad alta voce, disse: _ Bene. Stasera alla Gestapo avranno di che discutere. Telefoneranno a Berlino per appurare chi è il conte disertore _. Mendel chiese a Pavel: _ È stata tua l' idea del colonnello? _ No, il colonnello era di Ulybin, ma il conte era mio. E non gli ho trovato un bel nome? _ Molto bello. Com' era? _ Eh, come vuoi che mi ricordi? Se vuoi, te ne trovo un altro. Ulybin, senza curarsi della presenza dei prigionieri, disse: _ Non attaccheremo Davìd-Gorodòk con cinquecento uomini. Attaccheremo Zitkovici con cinquanta uomini. Non credo che i tedeschi l' abbiano bevuta, ma nel dubbio manderanno rinforzi da Zitkovici a Davìd-Gorodòk, e noi troveremo meno resistenza. Era ormai notte fatta; Ulybin trasse dallo zaino una torcia elettrica e la legò alla canna del mitragliatore, ma la lasciò spenta. Si misero in marcia, Fedja in testa, sugli sci, poi i due ucraini, e in coda, nell' ordine, Pavel, Mendel e Ulybin. Mentre attraversavano un tratto di bosco fitto, l' ucraino vestito da boscaiolo uscì di scatto dalla pista e si diede alla fuga sulla sinistra, arrancando nella neve profonda e cercando di defilarsi dietro ai tronchi. Ulybin accese la torcia, puntò lo stretto cono di luce sul fuggitivo e sparò un colpo singolo. L' ucraino si piegò in avanti, fece ancora qualche passo, poi cadde sulle mani; in quella posizione, a quattro zampe come un animale, avanzò ancora per diversi metri, scavando nella neve un cunicolo chiazzato di sangue, poi si fermò. Gli altri lo raggiunsero: era ferito a una tibia, pareva che la pallottola avesse trapassato la gamba spezzando l' osso. Ulybin porse il fucile a Mendel, senza dire parola. _ Vuoi che io ...? _ balbettò Mendel. _ Avanti, Jeschiva Bucher, _ disse Ulybin. _ Camminare non può, e se lo trovano parla. Una spia non cambia: spia resta. Mendel si sentì invadere la bocca di saliva amara. Arretrò di due passi, mirò accuratamente e sparò. _ Andiamo, _ disse Ulybin, _ a questo qui ci penseranno le volpi _. Poi si volse nuovamente a Mendel, illuminandolo con la torcia: _ È la prima volta? Non badarci: poi diventa facile.

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I PREDONI DEL SAHARA

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

"I due beduini parlavano di abbandonarvi," disse Esther. "Se non avessero avuto paura della mia carabina e del fucile di El-Haggar, non sarebbero forse più con noi." "Ed anche El-Haggar mi pare abbastanza spaventato," disse Ben. "Signore," disse in quel momento El-Haggar, accostandosi al marchese, "è necessario marciare senza perdere tempo; quei Tuareg torneranno con altri compagni. Essi non cesseranno l'inseguimento finché non avranno vendicato i loro morti." "E tu hai una paura indiavolata di loro, è vero, El-Haggar?" rispose il marchese. "So quanto sono tenaci nelle loro vendette, signore. Avete fatto male a prenderli subito a fucilate." "Volevi che mi lasciassi ammazzare come quei disgraziati che abbiamo veduto ieri?" "Non dico questo; si poteva venire a patti con quei predoni. Probabilmente si sarebbero accontentati d'una terza o quarta parte delle vostre mercanzie come diritto di passaggio." "Io sono uso a non tollerare imposizioni da parte di chicchessia, mio caro El- Haggar. Il deserto appartiene a tutti e chi vorrà impedirmi d'attraversarlo avrà a che fare col mio fucile. Lascia andare i Tuareg e le tue paure insieme e cerchiamo di frapporre fra noi e quei bricconi il maggior spazio possibile." "Ben detto, marchese," disse Esther. "Noi non abbiamo paura di quei ladroni. Partiamo." La carovana, che aveva fatto una brevissima sosta, si ripose in cammino attraverso quelle eterne ondulazioni sabbiose, le quali pareva non dovessero avere più confine. Quelle immense pianure non variavano. Sempre dune, poi dune ancora, con qualche magro cespuglio quasi disseccato dal sole e qualche scheletro di cammello biancheggiante sinistramente fra quelle sabbie ardenti. Nessuna palma che annunciasse la presenza d'un pozzo si scorgeva in alcuna direzione, come pure non si vedeva alcuna roccia che rompesse la desolante monotonia di quelle pianure. Il marchese e Ben si erano collocati alla retroguardia onde prevenire qualunque sorpresa, mentre Rocco e El-Haggar si erano messi all'avanguardia, tenendo i fucili dinanzi alle selle. El-Melah invece aveva ripreso il suo posto a fianco del cammello montato da Esther. Il sahariano, poco ciarliero come la maggior parte dei suoi compatrioti, non aveva ancora rivolto alla giovane una sola parola, però mostrava verso di essa un attaccamento strano. Ogni volta che la giovane lo guardava, era certa d'incontrare gli occhi neri, brucianti di lui, e ne riceveva un'impressione disgustosa e di paura. Nel lampo di quegli sguardi vi era qualche cosa di misterioso ed insieme di bestiale e di minaccioso, che la giovane non sapeva spiegarsi. Non aveva però fino allora avuto di che lamentarsi di quell'uomo. Anzi non aveva nemmeno il tempo di formulare un desiderio, che già El-Melah, come l'avesse indovinato, la esaudiva. Se una scossa del cammello apriva troppo la tenda, s'affrettava a richiuderla onde il sole non vi penetrasse; se vi era da salire una duna, prendeva subito la briglia e guidava l'animale adagio, con prudenza, onde non cadesse; se Esther aveva sete, lo indovinava dallo sguardo ed era pronto ad offrirle l'otre. Mai però una parola, né un sorriso, né un gesto che tradisse una qualche compiacenza nel renderle quei servigi, che d'altronde nessuno gli chiedeva. "La paura provata durante quella lunga agonia, e fors'anche quell'orribile scena del massacro, devono avergli sconvolto il cervello," aveva detto la giovane. "Lasciamo che mi guardi." Un momento però, aveva avuto un timore ben diverso. Aveva sorpreso negli sguardi del sahariano un lampo terribile nel punto in cui il marchese si era appressato al cammello che la portava, per scambiare con lei qualche parola. Quello sguardo però si era subito spento ed il viso di El-Melah, per un poco alterato, aveva ripreso la sua impassibilità consueta. Alla sera la carovana, sfinita da quella lunga marcia, s'arrestava fra due alte dune che formavano due bastioni naturali, nel caso che i Tuareg avessero cercato di approfittare delle tenebre per sorprenderli. "Con due sentinelle sulla cima delle dune, noi potremo dormire tranquillamente alcune ore," aveva detto il marchese, dando il segnale della fermata. Mentre si preparava la cena e si alzavano le tende, fece una galloppata verso il nord in compagnia di Ben, onde accertarsi che i Tuareg non li avevano seguiti, tenendosi nascosti dietro alle dune. "Pare che abbiano rinunciato ad inseguirci," disse il marchese a Rocco ed al moro. "Non abbiamo veduto nessuno." "Non illudetevi, signore," rispose El-Haggar. "Quei predoni non ci lasceranno tranquilli, lo vedrete." "Io dico invece che ne hanno avuto abbastanza e che non ci seccheranno più." "Badate a me, signore, che ho assistito al massacro della spedizione della signora Tinnè." "Chi? Tu?" esclamò il marchese, stupito. "Sì, signore, e dovrei essere morto fino da allora." "Chi era questa signora Tinnè?" chiese Esther, con curiosità. "Una donna europea forse?" "Una delle più ricche e delle più belle giovani dell'Olanda," rispose il marchese. "Ed è stata assassinata qui?" "Sì, in questo deserto. Ceniamo ora, poi vi narrerò quel massacro che ha commosso l'intera Europa. Forse da El-Haggar udremo dei particolari che tutti ancora ignoriamo." "Se i Tuareg ce ne lasceranno il tempo," disse il moro, i cui sguardi si erano volti verso una bassura che si estendeva verso l'est. "Si avvicinano?" chiese il marchese, alzandosi vivamente. "Non sono essi per ora; ma se quei giganteschi volatili fuggono, ciò significa che degli uomini li inseguono o che li hanno spaventati." "Di quali volatili parli?" "Non vedete una nube di polvere alzarsi dietro quelle dune e avanzassi velocemente verso di noi?" "Vediamo," rispose il marchese. "È una banda di struzzi, signore." "Una bella occasione per procurarci un superbo arrosto," disse Rocco. "Devono essere stati i Tuareg a costringerli a prendere il largo," insistette El-Haggar. "Ne sei certo?" chiese il marchese. "Lo suppongo, signore." "Ebbene," disse il marchese con voce tranquilla, "prima occupiamoci di questi superbi volatili; poi penseremo ai Tuareg. E tu, Rocco, fà preparare un bel fuoco: vi sono qui molti sterpi da raccogliere." La nube di polvere ingrandiva a vista d'occhio e s'avvicinava con una rapidità prodigiosa. La banda doveva passare in mezzo alla bassura, a meno di mezzo chilometro dall'accampamento, a quanto pareva. Il marchese, Esther e Ben si slanciarono in mezzo alle dune e andarono ad appostarsi dietro un monticello di sabbia, il quale sorgeva isolato quasi nel mezzo della bassura. Gli struzzi s'avanzavano in fila, correndo e sbattendo vivamente le ali per aiutarsi meglio. Erano una diecina, tutti bellissimi e di statura gigantesca, e ricchi di quelle piume preziose che sono così ricercate e così ben pagate sui mercati europei ed anche americani, bianche sotto il ventre e sotto la coda e nere lungo il dorso e le ali. Questi volatili sono ancora numerosissimi nel Sahara e vivono là dove altri animali non potrebbero resistere, potendo sopportare lungamente la sete al pari dei cammelli. Raggiungono talvolta un'altezza superiore ai tre metri, hanno il collo e le gambe spoglie di piume, un becco robustissimo e piedi poderosi. Le loro ali invece sono così brevi da sembrare piuttosto moncherini, sicché non possono che aiutare la loro corsa, ma non servono per volare. Sono nondimeno rapidissimi corridori e vincono facilmente i cavalli. È nota la prodigiosa robustezza dei loro stomachi poiché in mancanza di altro, si nutrono perfino di sassi che digeriscono come fossero pagnottelle! I dieci struzzi, i quali parevano realmente in preda ad una viva agitazione, sfilavano come trombe, col collo teso, gettando in aria coi loro robustissimi piedi nembi di sabbia e di pietre, muovendo diritti attraverso la bassura. Pareva che non si fossero ancora accorti della presenza dei cacciatori, quantunque siano dotati d'una vista acutissima e d'un olfatto perfetto che permette loro di fiutare i nemici a grandi distanze. "Sembrano veramente spaventati," disse il marchese, il quale li osservava con viva curiosità. "Sì," confermò Ben; "però non credo che siano stati i Tuareg a metterli in fuga. Mi pare d'aver veduto degli animali correre dietro le dune." "Che gli struzzi siano inseguiti da qualche banda di iene?" "Rimarrebbero subito indietro, marchese," disse Ben. "Ah! Guardateli i cacciatori!" Essendo le dune terminate, gli inseguitori dei giganteschi volatili erano stati costretti a smascherarsi onde attraversare la radura. "I caracal!" esclamò il marchese. "Ah! I ladroni! Adagio, miei cari! A voi gli struzzi, a me quegli arditi predoni." I caracal, chiamati anche, e forse impropriamente, le linci dei deserti, erano almeno una trentina e correvano disperatamente sulle orme degli struzzi, facendo sforzi prodigiosi per isolarne qualcuno. Erano bellissimi animali, non più alti di settanta od ottanta centimetri, con una coda lunga trenta, di corporatura svelta, cogli orecchi lunghi e sottili ed il pelame giallo fulvo sul dorso e biancastro sotto il ventre. Vivono di preferenza nei deserti inseguendo con un coraggio incredibile struzzi e gazzelle e facendo gran vuoti fra le pecore dei duar. Svelti corridori, percorrono distanze straordinarie e non lasciano le prede finché non le hanno raggiunte e fatte a pezzi. Selvaggi, indomabili e astutissimi, costituiscono un vero pericolo per tutti gli abitanti del deserto, escluso l'uomo che non osano assalire, ed il leone che seguono a distanza per divorare gli avanzi delle sue prede. I caracal manovravano con una rapidità ed una precisione veramente ammirabili, cercando di tagliar fuori uno degli struzzi che pareva il meno resistente e che malgrado i suoi sforzi disperati rimaneva sempre l'ultimo della banda. Gli mordevano ferocemente le zampe, senza badare ai calci furiosi che lanciava il volatile, e gli balzavano dinanzi tentando di azzannargli il petto. Pagavano di frequente cara la loro audacia, perché qualcuno di quando in quando veniva scagliato in aria colla testa fracassata dai robusti piedi dell'uccello gigante. "Strappiamolo ai caracal," disse il marchese. Approfittando del momento in cui lo struzzo era riuscito a guadagnare sui suoi avversari una dozzina di metri, fece fuoco sul caracal più vicino. L'animale mandò un acuto guaito e cadde. Quasi nel medesimo istante anche il povero struzzo, colpito dalle palle di Esther e di Ben, stramazzò. Udendo quegli spari, i caracal si erano arrestati guardando le tre nuvolette di fumo che s'alzavano dietro alla duna. Vedendo comparire subito i cacciatori, abbassarono le code e partirono ventre a terra dalla parte donde erano venuti. Frattanto lo struzzo, abbandonato dai compagni già lontanissimi, era tornato ad alzarsi. Fece ancora cinque o sei passi zoppicando, poi tornò a cadere e questa volta per non più rialzarsi. Il marchese in pochi salti lo raggiunse, gli strappò un bel mazzo di:i piume candidissime e porgendole a Esther, le disse con galanteria "Alla bella cacciatrice." "Grazie, marchese," rispose la giovane, arrossendo di piacere. Ben si era accontentato di sorridere.

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