Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbandonarono

Numero di risultati: 11 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

Nuovo galateo

190222
Melchiorre Gioja 1 occorrenze
  • 1802
  • Francesco Rossi
  • Napoli
  • paraletteratura-galateo
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Perciò in Grecia, allorchè le leggi e l'uso tenevano le donne racchiuse, ne' loro ginecei, le pubbliche meretrici ottennero delle statue, e gli uomini ad un vizio abbandonarono che il pudor vieta di nominare. Perciò l'Oriente ove le donne, sempre separate dagli uomini, non si associano ad essi né anche a mensa, l'Oriente vive sotto l'impero d'intollerabile noia. Peccò mortalmente contro il rispetto dovuto al bel sesso, e diede indizio d'orientale barbarie Claudio Santeuil, allorchè con inopportuna pietà rimproverando a suo fratello l'uso della favola in poesia, gli diceva: Non puossi dunque rendere aggradevole la descrizione d' una fonte o d' un bosco , se non vi si caccia per entro una naiade o qualche ninfa? E perché introdurre a forza le donne dappertutto? Non fanno esse male bastante ove si trovano naturalmente? All' opposto i Cretesi, questo popolo si saggio che meritò gli elogi di Platone, per rendere omaggio alla bellezza, stabilirono che una donna precedesse a ciascuna mensa ne'pubblici pranzi. Ella sceglieva le migliori vivande e le presentava a quelli che s'erano renduti illustri col valore ne' combattimenti , colla saggezza ne' consigli. Questa distinzione onorevole, invece della gelosia, svegliava l'emulazione a rendersene meritevoli. Esse decidevano come giudici al tempo de' cavalieri erranti ne' famosi tornei dove il valore era coronato dalle grazie:

Pagina 231

Nuovo galateo. Tomo II

195207
Melchiorre Gioia 1 occorrenze
  • 1802
  • Francesco Rossi
  • Napoli
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I disordini che lacerarono il seno della Chiesa nel XIV secolo e sul principio del XV ; del che si é già parlato , furono causa per cui molti abbandonarono poscia in Germania le opinioni dominanti in Italia. Che cosa fece Innocenzo VIII ? Pubblicò la "severissima bolla del 1584 contro le diavolerie. In forza di questa bolla vennero in pochi anni nel solo Elettorato di Treveri sentenziati 6510 individui accusati di stregoneria; Sprengel, Storia prammatica della Medicina, tom. VI , pag. 67 , 68, traduzione italiana del dottissimo signor G. Arrigoni. Per provare quanto erano estese e forti le erronee opinioni relative alla stregoneria, basterà il dire Lutero e Melantone, questi teologi si stimati da' loro settari, e che riuscirono a trarre nel loro partito sì gran parte del mondo cristiano, questi teologi credevano alle streghe nel secolo XVI!! La posterità deve saper buon grado all'egregio medico Giovanni Wiero, il quale con sano criterio e luminose ragioni s'oppose al torrente de' pregiudizi relativi alle streghe, e divenne per tal modo un vero benefattore del genere umano. Questo buon uomo, difendendo una donna accusata di stregoneria, fu dichiarato stregone. dite a proporzione lo stesso degli altri Stati, e negate che l' uomo ignorante qual esce dalle mani della natura non sia una macchina essenzialmente distruttrice.

Pagina 254

Galateo morale

197885
Giacinto Gallenga 1 occorrenze
  • 1871
  • Unione Tipografico-Editrice
  • Torino-Napoli
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Si adonteranno i loro spiriti immateriali delle ferite che tu possa arrecare alle sociali convenienze, agli umani affetti, essi che diedero per sempre al mondo il loro addio, essi che abbandonarono, abbandonando la terra, tutto le soavi emozioni che abbelliscono la vita? — Si, cari miei, anche i morti esigono da noi dei riguardi. Per esempio, non fa d'uopo d'avere un cervello romantico, esser dotato di fibre di poeta per essere convinti che si copre di vituperio un individuo, una nazione che non rispetta i proprii morti. Ma v'ha di più: non è d'uopo che un popolo sia giunto a un grado molto elevato di civiltà, perché esso senta profondamente l'orrore per chiunque o con isfregi o con insulti ne deridesse la memoria o ne violasse le solitarie dimore. A una povera tribù selvaggia (non avrei coraggio di chiamarla barbara) dell'Asia alcuni viaggiatori europei facevano invito di seguirli in altre terre, promettendole agi e piaceri migliori che non le fosse date di godere nel loro desolato paese privo d'ogni comodo e ricchezza. «Vi seguiremmo, si! risposero unanimemente uomini e donne, quando non avessimo qui i nostri morti; possiamo noi dire alle ossa dei nostri padri, delle nostre spose, dei figli nostri: sorgete, venite con noi alle nuove terre, ai nuovi fratelli, ai nuovi gaudii che colà ci aspettano?». Chiedeva Serse a Temistocle esiliato da Atene che cosa egli amasse tanto in quella sua patria, di cui gli tornava così amara la lontananza; ed egli:

Pagina 495

Le buone maniere

202456
Caterina Pigorini-Beri 1 occorrenze
  • 1908
  • Torino
  • F. Casanova e C.ia, Editori Librai di S. M. il re d'Italia
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Se quel gran ministro se ne sarà rammaricato, ciò avrà provato ch'egli era un sognatore e sarà stato, malgrado la sua virtù e il carattere, un uomo privo di esperienza e di filosofia: ma coloro che lo abbandonarono non mostrarono quelle qualità di cavaliere perfetto e accorto, che sa conoscere i doveri anche superficiali dell'educazione esteriore, la quale è un'arte preziosa e utile nella vita: preziosa perchè rivela l'abitudine della cortesia: utile perchè l'hodie mihi cras tibi è una regola fissa e immutabile; e l'esempio della benevolenza verso i caduti, può in un giorno di sconfitta essere proficuo per noi stessi e per altrui. L'uomo bene educato e gentile non avendo mai l'idea di offendere volontariamente alcuno, non crede che altri voglia offendere lui: la sua prudenza, è vero, non gli permette di abbandonarsi a credere di tutta schietta farina il pane che la società somministra al grande banchetto della fratellanza universale: tuttavia non è nemmeno portato a diffidare troppo del suo simile, o a prendere subito in mala parte qualche atto che, talvolta, può essere l'effetto di un caso, d'una distrazione o d'una circostanza imprevedibile e indipendente da ogni volontà altrui. Se si crede offeso non piatisce in pubblico e non fa pettegolezzi volgari, specialmente se l'offesa patita gli viene da una signora. Egli non sciupa in risentimenti puerili la sua forza, e sa prendere la sua via anche se ha sbagliato egli stesso, il che può accadere. Il riconoscere un errore e il confessarlo è prova di un grande valor personale; l'atto di scusa di chi ha errato è ancora superiore allo stesso perdono accordato da chi è stato offeso. È più facile essere clemente che umile. La clemenza e l'umiltà sono due virtù ma dipendono da una stessa passione - l'orgoglio; fra esse v'ha questa differenza: che la clemenza esalta il nostro amor proprio e l'umiltà lo abbassa. Ora la scelta è troppo facile fra queste due; ciascuno ama la parte del vincitore più che quella del vinto, siano pure due forti uomini come Carlo V e Francesco I. Colui che sa innalzarsi può giungere a sedere cogli Dei; ma solo ne è degno chi sa comprimerne in sè stesso il desiderio o l'aspirazione. L'uomo bene educato sarà sempre pronto a difendere una donna sola insultata per la strada, a soccorrere un poverello a cui cadesse il bastone o la stampella o il vento portasse via il cappello, anche quando fosse coperto di luridi cenci; e a condurre a casa un bambino smarrito. Esso non reputa cosa vile la pietà che i più Infelici di noi destano nei cuori, innalza fino a sè gli umili, dissimula i risentimenti personali all'altrui presenza e seduto a mensa col suo nemico in casa d'altri, non lo punge nè lo irrita con allusioni pericolose. Egli sta al corrente delle notizie anche indifferenti, quel tanto che basta per potere mettere i suoi amici e conoscenti al contatto di sè medesimo e degli altri; e raccoglie la voce pubblica per sapersi regolare con prudenza e con moderazione, non dimenticando che la voce del popolo, se non è sempre la voce di Dio, è nella maggior parte dei casi la vera pietra di paragone per conoscere i caratteri e i cuori degli uomini. Combatte le calunnie scagliate dagli invidiosi e le insinuazioni dei malevoli a viso aperto, quando può. E quando può, deve; quando non può e non sa, sta in quella forma di forte silenzio per cui a non spuntare gli strali, attutisce il rumore e diminuisce l'urto dei colpi. Non ignorando che una sapiente leggenda tolse dalla costola sinistra del suo cuore, dove si crede abbiano sede gli affetti, la donna, egli la tiene in quel rispetto che rivela un animo gentile ed amoroso, senza sdolcinature, ma evitando quello che ha l'aria di un imperativo, il quale nella crescente civiltà è diventato un vecchio e incomodo elemento di tirannide morale, rifiutato dal progresso e dalla ragione. E posto al contatto di donne loquaci e litigiose o importune si solleva al di sopra delle piccole questioni inevitabili nella vita, con quella fortezza, senza di cui un uomo non potrà mai credere di essere bene educato.

Pagina 87

Cipí

206546
Lodi, Mario 1 occorrenze
  • 1995
  • Edizioni E. Elle
  • Trieste
  • paraletteratura-ragazzi
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I due passeri abbandonarono il cibo e volarono sul muro a fare da sentinelle: altri due entrarono. — Dobbiamo far presto, — comandò Cipí, — cosí faremo più turni. In quell'istante alla finestra apparve l'ombra del nemico. — Pericolo! — gridarono tutti insieme. E i due che erano dentro fuggirono come razzi. Poi l'ombra scomparve ed essi ritornarono a beccare. — Vedete? — spiegava Cipí, — «lui» ci sta osservando ed aspetta che entriamo nel pollaio per catturarci tutti insieme. Ma si sbaglia! — Bravo Cipí! — disse una voce. — Silenzio! — ordinò Cipí, — non facciamo rumore, potrebbe costare caro ai nostri amici che beccano! — Poco dopo ordinò: — Cambio! — e altri due entrarono. In poco tempo tutti riuscirono a beccare un po' d'impasto giallo. Cipí entrò per ultimo insieme con Passeri e subito dopo cominciò il secondo turno. Fu in quel momento che il nemico, spazientito perché i passeri non entravano tutti insieme, uscì dalla casa e corse verso il pollaio. — Pericolo! Pericolo! — gridarono a tutta voce le sentinelle. I passeri scattarono verso la luce ma solo uno riuscí a fuggire. L'altro lottò a lungo col nemico armato di scopa e alla fine, colpito alla testa, stramazzò al suolo. — Aveva troppa fame, non è scappato subito con me, — disse quello scampato. Quando l'uomo usci, chiuse il pollaio e i passeri se ne andarono in cerca di altro cibo, affamati e delusi. E le farfallette, indifferenti, non smettevano di danzare e di cadere.

Angiola Maria

207055
Carcano, Giulio 1 occorrenze
  • 1874
  • Paolo Carrara
  • Milano
  • Paraletteratura - Ragazzi
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Si persuase non essere Arnoldo uno di quegli scioperati che viaggiano per paesi, di cui appena sanno il nome, non d'altro solleciti fuor degli agi e piaceri che abbandonarono in casa loro. Poco gli bastò per intendere come l' anima di lui fosse calda di nobili affetti e di volontà generosa, e lo spettacolo di tante cose nuove vedute e cercate gli avesse messo nel cuore, non logorato ancora da impetuose speranze nè da violente passioni, un' incerta tristezza di pensieri, un' involontaria e immatura dubbiezza di tutto. Era la timidità d' una mente degna di miglior sorte; era l' inerzia d'una vita giovine e negletta che ripiegasi, per dir così, sopra sè stessa, nell' indifferenza delle cose che la circondano; era l'abbandonarsi dell'uomo per non risorgere forse mai, se la sventura nol trascini alla disperazione, o l'ebbrezza di fortuna non l'acciechi col suo delirio. Arnoldo aveva cuore schietto e ardente. Non era creato per lasciarsi vincere dalle piccole passioni, che nella nostra società trovano sempre la loro nicchia: pure gli mancava quella costante energia del volere, che sola dà forza per trionfare delle grette apparenze di virtù che il mondo accarezza, e per non farsi reo di tante segrete transazioni, onde si pensa spesso di guadagnar la stima degli altri. Benchè nato in quella casta privilegiata che da sè stessa chiamasi il gran mondo, egli cercava un' aria men corrotta; ma volle, e credè poter vincere l' impeto de' suoi affetti, e la sua coscienza, e non seppe più vivere nè d' illusioni, nè di dolori. Anzi non potè gettarsi di dosso la noja che gli si fece compagna, quando vide andarne in fumo tutte le felicità, tutte le virtù da prima amate: quand' egli, che sì credeva così esperto della vita, conobbe essere il mondo ben diverso da' suoi sogni, si confessò tuttora novizio. Allora ritornò alla memoria de' primi anni; tornò fanciullo nel grembo di sua madre, alla meditazione di quell'ore felici, quando ignorava che cosa fossero gloria, felicità, amore; nè d'altro si nutriva che di liete speranze e d'avvenire, educato dalle sante parole dell' affetto materno e da' sempllici consigli della sapienza. Ma, ahimè! era stato l'ultimo incanto della giovinezza; senti di non poter più riposare nel passato, si trovò solo. Pure l' anima sua travagliava sempre un desiderio di vita e di riposo, perchè in essa il fuoco della virtù non era spento; e gli viveva tuttavia,benchè negletto, in un angolo del cuore, un barlume di fede. Le vicende de' rapidi e diversi viaggi, che spesso trascinano al cinismo, alla noja, conciliarono in vece l'anima d'Arnoldo all'amor della pace e della solitudine. Da quel tempo, una tinta di non so quale malinconia fu sparsa in tutti i suoi pensieri. Rifece allora gli studi della adolescenza, amò la semplice verità, e si persuase la miglior felicità che sia lecito sperar quaggiù, consistere in una vita libera e operosa, in una vita spesa a profitto altrui, nell'onestà di tranquilla fortuna, senz' aspettare di esser dagli uomini ricambiati del bene che facciamo, ma con l' intima fede che il bene per sè stesso produrrà lieti frutti quando che sia. Pure, per lungo tempo, abbandonato com'era, nulla meditò, nulla fece; e la coscienza della virtù non era altro ancora che un bel voto de' suoi pensieri. Alla sua vita mancava tuttavia l'alito primo, conforto dell'amore e dell'esempio che dà il coraggio dell' azione. E giunto a quell' ora in cui è forza lottare ira il disinganno e la speranza, l'anima sua o si giaceva prostrata nell' inazione, o gemeva della propria inutilità, come sotto il peso d'un vecchio rimorso. Lo sguardo cauto e sagace del vicecurato aveva indovinata la vita di questo giovine, che non era fatto per un destino infelice, e pur sembrava volerlo. Il loro colloquio gli spiegò subito tutto il profondo d' un cuore, che a caro prezzo comprava l'amara lezione dell' esistenza. Ma egli, a cui era toccato d'assaggiare innanzi tempo di ben più fieri dolori, egli che nella sua ora aveva, com' uom disperato, combattuto e vinto, sentì allora una segreta e dolce compassione di quell' abbandonata giovinezza, e si compiacque nella fiducia di consolarla, di sostenerla. Così, dopo pochi amichevoli ragionamenti, l'uno e l'altro furon lieti di loro fortuita conoscenza, e s' erano raccontati a vicenda que' riposti segreti che apprezza e serba la sola amicizia. Intanto Arnoldo tenne gran ventura che il vicecurato, per alcune domestiche ragioni e per il ritardo messo dalla pretura di**** a regolar la tutela della giovine Maria, dovesse rimanere più a lungo che prima non pensasse. E, dal canto suo, don Carlo divideva di buon grado col giovine forestiero le ore di libertà. Essi furono veramente amici. In que' luoghi pieni di vita, nella tranquillità di quelle rive sempre liete e sempre nuove, i loro cuori sentivano più forte il bisogno di rallegrarsi nella concordia de' pensieri, nell' adorazione della bellezza, e, più di tutto, di gustare il sublime del desiderio e il dolce del compianto. - Allorchè il tumulto del mondo non disturba la maestà di natura; oh come il cuore si versa nel contraccambio delle più intime virtù consigliate dalla religiosa estasi della contemplaione! oh come è bello e grande il credere e lo sperare insieme! Un giorno abbandonati all'inquieto corso d' una barca leggiera , quand' era il lago conturbato del più rapido ondeggiamento, sotto lo spirare del tivàno dell'Alpi, essi confidavano i liberi pensieri, i voti misteriosi d' una più lieta aspettativa, al cielo schietto e azzurro; e nell'alterna vicenda del remigare, vedevano fuggirsi a fianco le rive, i palazzi, le ville; poi, quando il vento taceva e il lago tornava quieto miravano l'acqua disotto ripetere, come un' instabile interminata scena, il bel paese; e disopra le nubi abbracciarsi e ravvolgersi sorvolando i vertici della montagna - come se l'anima arcana della natura tutta si risentisse in un'armonica commozione di vita. Un altro giorno, invece, seguivano le viottole più erte e dirupate della costiera, e su su pel monte a lungo inerpicandosi salivano con gioia selvaggia di libertà; contenti di trovarsi soli e dimenticati su le più ardue vette, di guardare di là, per ogni parte, fin dove l' occhio poteva, l'ampio orizzonte delle pianure, de' laghi, delle Alpi e del cielo, come un immenso oceano di luce e di colori - E là, tra quelle cime, sedevano su la dispersa rovina d' un casolare sfasciato dalle acque montane, o sul tronco d' un vecchio albero sradicato dal fulmine, marcito dal tempo; e sopra i loro capi non vedevano sollevarsi che qualche rado cucuzzolo di monte, con la sua veste di neve agghiacciata, o qualche rozza croce di legno, piantata nel crepaccio d'un masso, forse da un povero pastore, chi sa da quant' anni. E, più d'una volta, cercavano nuovi sentieri su' fianchi dell' alpe, dove il terreno, scemo d' umori e di fecondità, cessa d'esser ricoperto d'erba e ombreggiato di piante, dove non altro s' incontra che qualche rara segreta sorgente col suo fresco zampillo d' un fil d'acqua, o un' ampia zolla rivestita di muscosa verzura, o d' un rosato tappeto di ciclamini. E là, per que' dossi, il giovine Arnoldo andava cercando con mano paziente l'erbe più rare, le pianticelle mi- rabili e sconosciute, che pare l'aria vi cresca con più facile germoglio, solo per la pastura d'un branco errante di capre. Giacchè egli aveva messo studio e amore a quella cara scienza dell'erbe e delle piante, che ama, intende la natura, e insegna con solitaria consolazione che in ogni angolo della terra v' è una virtù misteriosa, una bellezza. Una mattina, Arnoldo e don Carlo sedevano su d'uno degli alti terrazzi della malinconica e deserta Pliniana. Il cielo era cenericcio e nebbioso; i loro pensieri sentivano di quella solenne quiete della natura, che pare più muta e mesta, qnand'è una giornata av versa della più bella stagione. Arnoldo tenevasi spiegato sulle ginocchia il suo albo, disegnando lo schizzo della veduta che gli s' apriva dinanzi - quella fuga di monti dietro un monotono velo di nebbia; lo spumoso torrente che si rovesciava da un' erta cima a fianco del vetusto palazzo; quel cielo bigio, uniforme, che gli richiamava al pensiero il cielo della patria, una delle scene della sua mesta e cara contrada, quel sacro cantuccio di terra, in cui riposavano le ossa di sua madre. Don Carlo, poco lontano da lui, meditava scrivendo sopra un foglietto, che appoggiato a un volume della Bibbia teneva fra mano. Quando Arnoldo ebbe finito il suo disegno, a' avvicinò all' amico, e gli sì mise accanto, in atto d' aspettare: ma quegli non si riscosse, e continuava a scrivere. « Che scrivete, don Carlo? » domandò Arnoldo. « Amico mio, sono pensieri che vo gettando su questa carta, tali quali m'ardono in cuore, schietti, nudi; è un ritorno innocente alla giovinezza gia passata per me, la quale non m' è più che una memoria. Che volete? Noi Italiani, noi figli di questo cielo e di questa terra, oh no! non possiamo distaccarlo dal nostro cuore l' amor della poesia, che succhiamo forse col latte delle nostre madri, che beviamo coll'aria del nostro paese.... L'armonia del cauto è la più pura voce dell' anima!... E io, vedete, qui in quest' ora di solitudine, in questo luogo sublime, sento che mi si risvegliano nel pensiero i sogni d una volta, palmi ancora d'esser giovine, italiano, poeta!... » « Oh il vostro sentire è nobile e bello! Ditemi, ve ne prego, leggetemi il vostro canto; chè anche il cuore di chi nacque di là dell' Alpi sente e batte più forte, se la parola della bellezza lo scuote. » « Deh! che volete mai ch' io pensi e scriva? Non è, ve l' ho detto, che la tarda rimembranza d' un tempo che non torna più. Ora, la mia sorte è certa e tranquilla, il mio cuore contento. Fare a' miei fratelli quel poco di bene che per me si possa, nella condizione in che mi pose la Provvidenza, questo fu il primo mio voto, e sarà l'ultimo. » « Ma come potete voi, col cuor sì caldo, con la mente fatta pura dal fuoco dell' ingegno?... » lo interruppe Arnoldo. « Dimenticate l'uomo, e non guardate in me che il po- vero prete. Io sono un nulla agli occhi del mondo, ma c'è delle anime che non mi disprezzano. Sono que' pochi miei fratelli che vedono in me il loro unico protettore; per essi, io sono il mediatore tra i travagli di questa terra e la consolazione del Signore. Io parlo loro di semplici e sublimi verità, ed essi m'ascoltano; io raccolgo la confessione della loro debolezza, e li conforto al meglio; me li veggo inginocchiati ai piedi, e fo sopra di loro il segno della croce, il segno del perdono; io battezzo i loro bambini, e seggo accanto del loro letto di morte, e le anime n' accompagno al Creatore, benedicendole.... Che altra umana felicità poss' io invidiare?... Oh! chi intende la grandezza di codesta divina missione e la compie , con quella forza che sola la fede può dare, non ha altro affetto quaggiù, non ha altro voto, se non che sia fatta la volontà del Signore sulla terra come nel cielo! » « Queste son cose sublimi; e il vostro proposito è grande, come la virtù ch' è necessaria per adempirlo. Ma io credo, amico, che il dir addio alla gloria della scienza, alla dolcezza della vita, all'onore della patria stessa, vi deva esser costato un gran sacrifizio! e forse.... » - Ma chi mi assicurava che sarei venuto in fama, che avrei trovato nella gloria il compenso della vita spesa per la sapienza? e ciò foss' anche, è poi vero che sia questa una felicità, o almeno un riposo de' nostri desiderii?... Ah! credetelo a me! io, dimenticato nella mia oscurità, vivo più contento di voi.... E la sola cosa che adesso sparga di mestizia i miei giorni è il pensiero di mia madre e di mia sorella. Povere e buone creature esse non avranno l'appoggio che di me aspettavano.... » « Ma che potreste far di più per esse? Nel tempo che siete qui, non avete già preparata loro una condizione onesta e sicura?... » « Sì; ma dovrò abbandonarle. Pochi giorni ancora, e tornerò dove mi chiama, il mio debito sacro; che già per troppo tempo ho dimenticato. Oh! Dio mi conceda ch' io possa una volta vederle tutte e due vicine a me, sotto il mio tetto, eh' io viva con loro, sì.... perchè le amo, vedete! sono i soli legami che mi uniscono alla terra; mia madre, la donna amorevole e pietosa! mia sorella, angelo di modestia e di pazienza!... » « Non v'affliggete per loro; la virtù che si nasconde è sempre felice. Su via, aprite l'animo a più lieti pensieri; e, se non esigo troppo, leggetemi quello che avete scritto stamane, ve ne prego! » Il vicecurato stette alquanto a guardar taciturno il suo giovine amico; e poi levatosi lesse: LA VOCE DELLA FEDE.

Pagina 83

Il libro della terza classe elementare

210532
Deledda, Grazia 1 occorrenze
  • 1930
  • La Libreria dello Stato
  • Roma
  • paraletteratura-ragazzi
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. - Simone e Andrea abbandonarono le reti e seguirono il Signore. Così fece Gesù con Giacomo, Giovanni e gli altri otto che chiamò al suo seguito e nominò Apostoli. Essi stettero sempre con Lui: ascoltarono tutti i suoi insegnamenti, videro tutti i suoi miracoli, e tutti i suoi meravigliosi esempi. E formarono - insieme coi discepoli che pure ascoltavano Gesù e credevano in Lui - la Chiesa nascente, ossia l' inizio della Chiesa, alla quale Gesù ha promessa la sua assistenza fino alla fine del mondo. Questa è l'umile ma divina origine della Chiesa, alla quale noi abbiamo il grande onore e la grande consolazione di appartenere.

Pagina 195

Al tempo dei tempi

219279
Emma Perodi 1 occorrenze
  • 1988
  • Salani
  • Firenze
  • paraletteratura-ragazzi
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Poi, così conciato, lo abbandonarono, e volando via dal finestrone se ne andarono per non farsi vedere mai più! Figuratevi la rabbia del gobbo! Figuratevi le esclamazioni della sora Maruzza e della sora Leonora quando entrarono in camera di Ruggiero e lo videro ritornato come prima e anche peggio! Figuratevi i commenti del vicinato! Basta dire che Ruggiero non si alzò più, non si fece più vedere da nessuno e di lì a pochi mesi morì dalla rabbia. Il cortile dove le Fate ballarono si chiama ancora Lu curtigghiu di li sette Fati ed il perchè ve l'ho detto.

Mitchell, Margaret

221198
Via col vento 2 occorrenze
  • 1939
  • A. Mondadori
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
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Visto il pericolo della preziosa linea ferroviaria, i confederati abbandonarono le trincee difese fino allora disperatamente e, alla luce delle stelle, fecero una marcia forzata sino a Resaca, per la via piú breve e diretta. Quando gli yankees, sciamando dalle alture, giunsero loro addosso, trovarono le truppe meridionali che li attendevano, trincerate dietro a parapetti improvvisati, con le batterie pronte e le baionette inastate. I primi feriti evacuati ad Atlanta portarono la notizia della ritirata del Vecchio Joe a Resaca; e la città fu sorpresa e un po' turbata. Era come se fosse apparsa una piccola nube a nord-ovest, la prima nube foriera di un temporale. Che diamine faceva il generale, permettendo che gli yankees penetrassero ancora per diciotto miglia nella Georgia? Le montagne erano una fortezza naturale, come aveva sempre detto il dottor Meade. Perché il Vecchio Joe non vi aveva trattenuto gli yankees? Johnston combatté disperatamente a Resaca e respinse di nuovo gli yankees; ma Sherman, con lo stesso movimento aggirante, formò col suo esercito un secondo semicerchio, attraversò il fiume Oostanaula e si lanciò ancora una volta sulla ferrovia alle spalle dei confederati. Le linee di questi furono nuovamente ritirate in gran fretta dai loro fossati rossi, per difendere la strada ferrata; e, indebolite dal sonno, esaurite dalla marcia e dalla battaglia e affamate, sempre affamate, esse fecero un'altra rapida ritirata a valle. Raggiunsero la cittadina di Calhoun, a sei miglia a sud di Resaca, con vantaggio sugli yankees, e si trovarono nuovamente pronti all'attacco quando quelli giunsero. Fu un attacco violento, in cui gli yankees furono respinti. Stanchi, i confederati chiesero adesso un po' di respiro e di riposo. Ma Sherman continuò ad avanzare inesorabilmente, allargando il suo esercito in una vasta curva, costringendo gli avversari a un'altra ritirata per difendere la ferrovia alle loro spalle. Marciavano dormendo, troppo stanchi per pensare; ma quando pensavano erano sempre pieni di fiducia nel Vecchio Joe. Sapevano che si ritiravano ma che non erano battuti. Soltanto, non avevano abbastanza uomini per poter contemporaneamente difendere le trincee e fronteggiare gli attacchi di fianco di Sherman. La ritirata era condotta con maestria; vi erano state poche perdite di uomini, mentre gli yankees lamentavano numerosissimi morti e feriti. I soldati grigi non avevano perduto un solo carriaggio e soltanto quattro cannoni; e Sherman non aveva potuto toccare la ferrovia alle loro spalle, malgrado i suoi attacchi frontali, lo spiegamento di cavalleria e gli attacchi di fianco. La ferrovia. Era ancora loro, quella piccola strada ferrata che attraverso la valle soleggiata giungeva ad Atlanta. I soldati si sdraiavano a dormire quando vedevano i binari scintillare debolmente alla luce delle stelle. Si sdraiavano a morire, e l'ultima cosa che i loro occhi scorgevano erano le rotaie metalliche che brillavano al sole spietato, nella calura soffocante. Mentre essi ripiegavano sulla vallata, un esercito di profughi ripiegava avanti a loro: piantatori e indiani crackers, ricchi e poveri, bianchi e negri, donne e bambini, vecchi, moribondi, paralitici, feriti, donne incinte affollavano la strada che conduceva ad Atlanta su treni, a piedi, a cavallo, in carrozze, carretti, furgoni su cui si accatastavano bauli e masserizie. I profughi precedevano di cinque miglia l'esercito in ritirata, fermandosi a Resaca, a Calhoun, a Kingston, sperando ad ogni tappa di sapere che gli yankees erano stati ricacciati sicché essi potessero tornare alle loro case. Ma non ritornavano sui loro passi per la strada piena di sole. Le truppe grige passavano dinanzi a case vuote, fattorie deserte, capanne solitarie con le porte spalancate. Qua e là qualche donna sola era rimasta con pochi schiavi spaventati; questi si recavano sulla strada a salutare le truppe, portando secchi d'acqua di pozzo per gli assetati; fasciavano i feriti e seppellivano i morti nelle loro tombe di famiglia. Ma in massima parte la valle era abbandonata e desolata e i raccolti si disseccavano sui campi lasciati nella piú assoluta incuria. Da Calhoun, Johnston indietreggiò a Adairsville, poi a Cassville e a Cartersville. Oramai il nemico aveva percorso cinquantacinque miglia dopo Dalton. A Chiesa della Nuova Speranza i grigi si fermarono per una tappa decisiva. E gli azzurri si avanzarono, senza tregua, come un serpente mostruoso che si snodava, colpiva velenosamente, ritraeva le sue spire ferite, ma colpiva di nuovo. Vi furono undici giorni di battaglia continua, disperata, a Chiesa della Nuova Speranza; gli assalti yankee vennero sanguinosamente respinti. Finché Johnston, investito ancora una volta di fianco, dové di nuovo ritirar di qualche miglio le sue linee assottigliate. I morti e feriti a Chiesa della Nuova Speranza furono numerosissimi. I feriti affluirono ad Atlanta nei treni rigurgitanti e la città fu atterrita. Mai, neanche dopo la battaglia di Chickamauga, ve n'erano stati tanti. Gli ospedali erano gremiti; si collocavano i feriti sul pavimento di magazzini vuoti, sopra balle di cotone. Negli alberghi, nelle pensioni, nelle case private i sofferenti si accalcavano. Zia Pitty ebbe la sua parte, benché protestasse contro la scorrettezza di avere degli estranei in casa quando Melania era in condizioni speciali, e certe visioni raccapriccianti potevano provocare un parto prematuro. Ma Melania tirò un po' piú su la sua crinolina per nascondere la vita ingrossata e i feriti invasero la casa di mattoni. Bisognò cucinare in continuazione, servire, far vento agli ammalati, lavare e arrotolare bende, e infinite furono le notti insonni, turbate dal parlare sconnesso di uomini in delirio. Finalmente la città fu satura, sicché i nuovi feriti furono incanalati verso Macon e Augusta. La nuvoletta all'orizzonte si era allargata rapidamente, e il temporale era ormai sulla città, con un vento pauroso e gelido. Nessuno aveva perduto la fede nell'invincibilità delle truppe; ma tutti - almeno i borghesi - avevano perso la fede nel generale. La Chiesa della Nuova Speranza era soltanto a trentacinque miglia da Atlanta! Il generale si era ritirato di sessantacinque miglia in tre settimane! Perché non resisteva, invece di ritirarsi? Era un pazzo, e peggio che un pazzo. Membri della Guardia Nazionale e della Milizia sostenevano che essi avrebbero condotto la campagna molto meglio e stendevano sulle tavole carte topografiche per dimostrare la verità di quanto asserivano. Quando le linee si assottigliarono ancora, il generale chiese disperatamente al Governatore Brown i suoi uomini; ma le truppe dello Stato erano in salvo e non vi era ragione di mandarle al macello. Combattere e ritirarsi! Per settanta miglia e venticinque giorni, i confederati avevano combattuto quasi quotidianamente. La Chiesa della Nuova Speranza era ormai un ricordo in mezzo ad altri tremendi ricordi del genere: caldo, polvere, fame, debolezza, marciare sulla strada rossa, sfangare nella mota rossastra, ritirarsi, trincerarsi, combattere... ritirarsi, trincerarsi, combattere. La Chiesa della Nuova Speranza era un incubo di vita trascorsa, e cosí Big Shanty, ove essi si rivoltarono a combattere come dèmoni. Ma anche dopo che i campi furono tutti turchini di morti yankee, sempre dei nuovi ne arrivavano, sempre di piú; sempre vi era quella sinistra curva delle linee azzurre, laggiú a sud-est, verso le retroguardie dei confederati, verso la ferrovia... verso Atlanta! Da Big Shanty le linee indebolite si ritirarono sulla strada della Montagna Kennesaw, presso la cittadina di Marietta, e quivi esse si allargarono in una curva di dieci miglia. Sui pendii delle montagne scavarono le loro trincee e stabilirono le feritoie, mentre sulle alture collocarono le loro batterie. Imprecando e sudando, gli uomini trascinarono i pesanti cannoni su per i versanti troppo ripidi perché i muli potessero arrampicarvisi. Messaggeri e feriti che giungevano ad Atlanta rassicurarono il popolo spaventato. Le alture di Kennesaw erano inespugnabili. Atlanta respirò di sollievo... Ma le montagne di Kennesaw distavano solo ventidue miglia! Il giorno in cui i primi feriti giunsero da Kennesaw, la carrozza della signora Merriwether fu dinanzi alla casa della zia Pitty alle sette di mattina; un'ora inverosimile! Il negro Zio Levi era latore di un biglietto che ingiungeva a Rossella di vestirsi immediatamente e recarsi all'ospedale. Fanny Elsing e le ragazze Bonnell, chiamate anche loro, sbadigliavano sul sedile in fondo, e la Mammy degli Elsing sedeva malinconicamente a cassetta con in grembo un cestino di materiale di medicazione appena lavato. Rossella si alzò malvolentieri, perché aveva ballato fino all'alba alla festa della Guardia Nazionale, e i piedi le dolevano. Maledisse silenziosamente l'instancabile e premurosa signora Merriwether, i feriti e tutta la Confederazione degli Stati del Sud, mentre Prissy le abbottonava il piú vecchio e sciupato dei suoi abiti di cotone, che usava per il servizio ospedaliero. Inghiottí l'amaro beveraggio di orzo e patate dolci disseccate che passava per caffè e scese a raggiungere le ragazze. Era stufa di tutto quel lavoro. Proprio quel giorno, direbbe alla signora Merriwether che Elena le aveva scritto di andare a Tara per un po' di tempo. Ma non le serví a nulla, perché la degna matrona, con le maniche rimboccate e il corpo robusto coperto da un ampio grembiale, le lanciò un'occhiata dura dicendole: - Non dite sciocchezze, Rossella Hamilton. Scriverò io oggi a vostra madre dicendole che ho bisogno di voi; e sono sicura che comprenderà e vi permetterà di restare. Svelta, mettetevi il grembiale e andate dal dottor Meade che ha bisogno di un aiuto per fare le fasciature. «Dio mio, che guaio!» pensò Rossella. «Certo la mamma mi dirà di restare; e io morirò se continuerò a sentire questo terribile odore! Vorrei esser vecchia, per poter comandare alle giovani, invece di ricevere ordini... e mandare le vecchie streghe come la Merriwether a farsi benedire!» Sí, era stanca di quella vita. Se vi era stato qualche cosa di romantico nel far l'infermiera, questo era finito da un pezzo. E poi, i feriti nella ritirata non erano simpatici come i primi. Non si curavano punto di lei e le chiedevano soltanto: - Come va la battaglia? Dov'è il Vecchio Joe? - E poi: - È bravo, sapete, il Vecchio Joe! Lei non credeva affatto alla bravura del Vecchio Joe, che aveva lasciato penetrare gli yankees nella Georgia per una profondità di ottantotto miglia. E tutti quei disgraziati che morivano, rapidamente, silenziosamente, essendo troppo indeboliti per combattere l'avvelenamento del sangue, la cancrena, il tifo e la polmonite che li avevano colpiti prima che fossero giunti ad Atlanta e avessero trovato un medico! La giornata era calda e le mosche entravano dalle finestre a sciami: grosse mosche che tormentavano gli uomini piú che non facessero le sofferenze. L'odore e i gemiti andavano aumentando. Il sudore bagnava il suo abito appena inamidato, mentre ella seguiva il dottor Meade con un catino fra le mani. Che nausea a stare accanto al dottore, cercando di non vomitare quando il suo bisturi tagliava le carni putride! E che orrore, gli urli della sala operatoria dove si facevano le amputazioni! Il cloroformio era cosí scarso che lo si adoperava soltanto per le amputazioni piú gravi e l'oppio era una cosa preziosa che serviva ad alleviare le pene dei moribondi, non quelle dei viventi. Non vi era né chinino né iodio. Rossella invidiava Melania che aveva il pretesto della gravidanza: l'unico accettato in quei momenti. A mezzogiorno si tolse il grembiale e sgusciò fuori dall'ospedale, incapace di resistere piú a lungo. Sapeva che quando fossero giunti i feriti col treno pomeridiano, vi sarebbe da fare per lei fino a sera, e probabilmente senza neanche mangiare. Si affrettò verso la Via dell'Albero di Pesco, respirando a grandi sorsate l'aria pura, per quanto glielo permetteva il busto allacciato stretto. Si fermò all'angolo, incerta sul da fare, poiché si vergognava di tornare a casa da zia Pitty, ma ben decisa a non tornare all'ospedale. In quel momento passò Rhett Butler in carrozzino. - Sembrate la figlia di un cenciaiolo - osservò, guardando con occhio critico l'abito di cotone rammendato e bagnato di sudore e d'acqua che era schizzata dal catino. Rossella fu irritatissima. Perché quell'uomo osservava sempre l'abbigliamento delle donne, e perché era cosí indelicato da rilevare la sua attuale ineleganza. - Non voglio che mi diciate nulla. Fatemi salire e conducetemi in qualche luogo dove nessuno mi veda. Non voglio tornare all'ospedale neanche se m'impiccano! Vi assicuro che non ne posso piú... - Traditrice della nostra gloriosa Causa! - Lo zoppo dà del cionco allo sciancato! Aiutatemi. Non m'importa dove stavate andando. Ora dovete condurmi a fare una passeggiata. Egli balzò a terra e Rossella pensò che era molto piacevole vedere un uomo non mutilato o pallido per la febbre o giallo per la malaria, ma di aspetto sano e ben nutrito. Era anche vestito elegantemente, e non aveva affatto l'aria preoccupata o turbata come tutti gli altri uomini. Il suo volto bruno era piacente e la sua bocca, dalle labbra rosse e ben tagliate, francamente sensuali, sorridevano distrattamente mentre egli l'aiutava a salire in carrozza. I muscoli del suo corpo robusto si disegnavano sotto l'abito fatto da un buon sarto; e, come sempre, la sensazione della sua forza fisica, la colpí, appena gli fu seduta accanto. Da lui emanava una vitalità gagliarda ed elastica, come quella di una pantera che si stirasse al sole, una pantera pronta a balzare e a colpire. - Piccola imbrogliona - disse mentre frustava il cavallo - ballate tutta la notte coi soldati, dando loro rose e nastri e dicendo che sareste pronta a morire per la Causa, e appena si tratta di fasciare quattro feriti e di togliere pochi pidocchi, tagliate la corda! - Non potreste parlare di qualche altra cosa e far correre di piú il cavallo? Non ci mancherebbe altro, che il vecchio Merriwether uscisse in questo momento dal suo negozio e poi andasse a dire alla vecc... a sua nuora che mi ha visto! Egli toccò la giumenta con la frusta e quella trottò vivamente lungo la strada dei Cinque Punti e attraversò i binari che tagliavano in due la città. Il treno carico di feriti era già arrivato e i portaferiti lavoravano attivamente a trasportare gli uomini malconci nelle ambulanze e nei carri coperti. Rossella non provò alcun rimorso vedendoli, ma solo un grande sollievo per essere riuscita a sfuggire. - Sono stanca dell'ospedale - riprese rassettandosi le gonne e legandosi meglio il nastro del cappello. - E ogni giorno ne arrivano di piú. Tutta colpa del generale Johnston. Se avesse tenuto testa agli yankees a Dalton... - Ma gli ha tenuto testa, bambina ignorante. E se avesse insistito a rimanere là, Sherman lo avrebbe aggirato e lo avrebbe schiacciato fra le due ali del suo esercito. Ed egli avrebbe perduto la ferrovia. - Insomma - fece Rossella per cui la strategia militare era arabo. - È sempre colpa sua. Avrebbe dovuto fare qualche cosa e mi pare che farebbero bene a mandarlo via. Perché non continua a combattere, invece di ritirarsi? - Anche voi, come tutti gli altri, chiedete la sua testa perché egli non può fare l'impossibile. A Dalton era Gesú il Salvatore; e alle montagne Kennesaw è Giuda il traditore. Tutto questo in sei settimane. Se riesce a respingere di nuovo gli yankees per venti miglia sarà nuovamente Gesú. Cara bambina, Sherman ha il doppio di uomini, e perciò può perderne due per ognuno dei nostri valorosi ragazzi. Invece Johnston non può perdere un solo uomo; anzi ha bisogno di rinforzi. - È vero che sarà chiamata la Milizia? e anche la Guardia Nazionale? - Cosí si dice. Sicuro, i beniamini del governatore Brown probabilmente dovranno andare a sentire l'odore della polvere e la maggior parte di essi sarà molto sorpresa. Il Governatore aveva promesso che non sarebbero andati; quindi si credevano al sicuro. Ma chi avrebbe creduto che la guerra sarebbe arrivata fin qui, e che essi avrebbero dovuto realmente difendere il loro Stato? - Come siete crudele a ridere di tutto questo! Figuratevi i vecchi e i ragazzi della Guardia Nazionale! Dovrà andare anche il piccolo Phil Meade e il nonno Merriwether e anche lo zio Enrico. - Ma io non parlo dei ragazzi né dei veterani della guerra messicana; alludevo ai bravi giovanotti come Guglielmo Guinan che ama portare una bella uniforme e agitare la sciabola... - E voi! - Mia cara, io non porto uniforme e non agito la sciabola; e la fortuna della Confederazione non m'interessa. Non faccio parte della Guardia Nazionale né di nessun esercito. Ne ho avuto abbastanza delle cose militari a West Point... Beh! spero che il Vecchio Joe abbia fortuna. Il generale Lee non può aiutarlo perché ha da fare nella Virginia. Perciò le truppe della Georgia sono l'unico rinforzo che può avere. Ma se fanno tanto da respingerlo dalle montagne e farlo scendere nella pianura di Atlanta ricordatevi le mie parole: sarà un macello. - La pianura di Atlanta? Ma è impossibile che gli yankees vi arrivino. - Kennesaw è soltanto a ventidue miglia, e scommetto... - Guardate lí in istrada, Rhett! Tutta quella gente! Non sono soldati! Che diamine...? Sono negri! Sulla strada si avanzava una nube di polvere rossa da cui veniva uno scalpiccio di piedi nudi; un centinaio e piú di voci negre, rauche e profonde, cantavano un inno. Rhett trasse la carrozza al di là della curva della strada e Rossella guardò curiosamente il gruppo di negri con zappe e picconi sulle spalle, guidati da un ufficiale e accompagnati da un gruppo di uomini che portavano le insegne del corpo del genio. - Che diamine...? - ricominciò. A un tratto i suoi occhi si posarono su un negro che era nella prima fila: un gigante alto quasi un metro e novanta, di un nero d'ebano, che camminava con la grazia flessuosa di una belva; i suoi denti bianchi brillavano mentre cantava «Scendi, o Mosè». Certamente sulla terra non vi era un altro negro cosí alto e con una voce cosí forte, eccettuato il grosso Sam, il capolavorante di Tara. Ma che diamine faceva qui il grosso Sam, cosí lontano da casa, specialmente ora che mancava il sorvegliante ed egli era il braccio destro di Geraldo? Mentre Rossella si sollevava a metà sul sedile della carrozza per vedere meglio, il gigante la scorse e sul suo volto nero si disegnò una smorfia di contentezza. Si fermò, lasciò cadere la sua zappa, e si avviò verso di lei, chiamando i negri piú vicini: - Dio onnipotente; Essere Miss Rossella! Guarda, Elia! Profeta! Apostolo! Vedere Miss Rossella! Vi fu confusione nei ranghi. La folla si fermò incerta, ghignando, e il grosso Sam, seguito da altri tre grandi negri, attraversò di corsa la strada verso la carrozza, seguito dall'ufficiale che gridava. - Tornate in linea! Tornate indietro vi dico, o... Oh, ma è Mrs. Hamilton! Buon giorno, signora; ed anche a voi, signore. Ma che cosa fate? Provocate l'ammutinamento e l'insubordinazione? Dio sa se mi hanno dato poco da fare stamattina, costoro! - Oh, capitano Randall, non li sgridate! Sono i nostri schiavi. Questo è il grosso Sam, il nostro capolavorante. E gli altri sono Elia, Apostolo e Profeta di Tara. È naturale che vengano a salutarmi. Come state, ragazzi? Strinse le mani a tutti; la sua bianca manina scomparve in quelle enormi dei negri, i quali furono pieni di gioia e di orgoglio, mentre spiegavano ai loro compagni che quella era la loro bella signorina. - Ma che cosa fate, cosí lontano da Tara? Scommetto che siete scappati. Essi risero compiaciuti. Poi il grosso Sam rispose: - Scappati? No, non essere scappati. Loro essere venuti a prenderci perché noi essere i piú grandi e piú forti di Tara. Avere specialmente cercato me, perché cantare cosí bene. Sí, Mist' Frank Kennedy essere venuto a prenderci. - Ma perché, grosso Sam? - Come, Miss Rossella! Non avere sentito? Noi dovere scavare trincee per signori bianchi per nascondersi dentro quando venire yankees. Il capitano Randall e i due che erano in carrozza nascosero un sorriso per questa ingenua spiegazione dell'uso delle trincee. - Mr. Geraldo non volere lasciarmi andare perché dire che non poter fare senza me, ma Mrs. Elena avere detto: «Prendere lui, Mr. Kennedy; Confederazione avere bisogno di grosso Sam piú di noi». E avere dato a me un dollaro e detto di fare tutto quello che ufficiali bianchi ordinare. E noi essere qui. - Che vuol dire tutto questo, capitano Randall? - Oh, molto semplice. Dobbiamo aggiungere alle fortificazioni di Atlanta parecchie miglia di trincee, e il generale non può occupare a questo dei combattenti. Perciò abbiamo cercato nelle campagne i tipi piú robusti per fare tutto il lavoro. - Ma... Un freddo principio di spavento strinse il petto di Rossella. Miglia di trincee! Per che cosa potevano servire? L'anno prima era stato costruito un certo numero di ridotte con piazzole per artiglieria tutto intorno ad Atlanta, a un miglio dal centro della città. Questi grandi lavori sotterranei erano collegati con fossati che circondavano completamente la città. - Ma... perché dobbiamo essere fortificati piú di quanto siamo già? Certamente il generale non lascerà che... - Le nostre fortificazioni attuali sono soltanto a un miglio dalla città - replicò brevemente il capitano Randall. - E sono troppo vicine per essere comode... o sicure. Queste nuove giungeranno assai piú lontano. Un altro ripiegamento condurrebbe i nostri uomini in Atlanta. Rimpianse immediatamente di aver detto queste parole, perché vide gli occhi di lei dilatarsi dal terrore. Ma certamente non vi sarà un altro ripiegamento - si affrettò a soggiungere. - Le linee attorno a Kennesaw sono inespugnabili. Le batterie sono piantate al sommo delle montagne e dominano le strade; quindi gli yankees non possono in nessun modo attraversarle. Ma Rossella vide che egli abbassava gli occhi dinanzi allo sguardo penetrante di Rhett e fu sgomentata. Ricordò l'osservazione di Butler: «Se riescono a farlo ritirare nella pianura d'Atlanta, sarà un macello». - Ma credete, capitano... - Ma no! Non vi preoccupate. Il Vecchio Joe ritiene giusto prendere delle precauzioni che sono eccessive. Questo il motivo delle nuove trincee... Ma ora dobbiamo andare. Molto lieto di avervi veduta. Salutate la vostra padrona, ragazzi, e andiamo. - Addio, ragazzi. Se state poco bene, o altro, informatemi. Abito in Via dell'Albero di Pesco; quasi l'ultima casa della città. Un momento... - Frugò nella sua reticella. - Dio mio, non ho neanche un quattrino. Per favore, Rhett, datemi qualche spicciolo. Tieni, grosso Sam, compra un po' di tabacco per te e per i tuoi compagni. E siate buoni e ubbidienti col capitano Randall. Il gruppo si riformò, la polvere si levò nuovamente in una nuvola rossa quando essi ripresero a camminare. E la voce del grosso Sam si levò un'altra volta a cantare: «Scendi, Moseeeè! Quaggiú, sulla teeeerra d'Egiiiitto! E di' al vecchio Faraooone di lasciarci andar liiiiberi!» - Rhett, il capitano Randall mi ha mentito, come tutti gli uomini... che cercano di nasconderci la verità per timore dei nostri svenimenti. Se non vi è pericolo, Rhett, perché fanno queste nuove fortificazioni? E l'esercito è cosí povero d'uomini che occorre servirsi dei negri? Rhett diede la voce alla giumenta. - L'esercito è terribilmente impoverito. Altrimenti, perché verrebbe chiamata la Guardia Nazionale? Quanto alle fortificazioni, possono servire in caso d'assedio. Il generale si prepara a compiere qui la sua ultima ritirata. - Un assedio! Oh, voltate il cavallo. Voglio tornare a casa mia, a Tara, subito subito. - Perché tanta fretta? - Un assedio! Ma ci pensate: un assedio! Dio mio, ne ho sentito parlare... Il babbo ci si è trovato, o forse suo padre, e mi ha raccontato... - Quale assedio? - Quello di Drogheda, quando Cromwell strinse gli irlandesi e questi non avevano nulla da mangiare... Il babbo mi ha detto che morivano di fame per le strade e che finirono col mangiare gatti e topi e perfino scarafaggi... E mi ha detto che prima di arrendersi si mangiarono gli uni con gli altri... ma non so se questo sia vero. Un assedio! Madre di Dio! - Siete la donna piú barbaramente ignorante che io abbia conosciuta. L'assedio di Drogheda è stato nel Seicento e qualche cosa, e il signor O'Hara non può esservisi trovato. Del resto, Sherman non è Cromwell. - Ma è peggio! Dicono... - Quanto alle carni strambe mangiate dagli irlandesi... vi assicuro che per conto mio preferirei un topo ben cucinato a certa roba che mi propinano all'albergo. Credo che farò bene a tornare a Richmond. Lí c'è ancora da mangiar bene se si ha denaro per pagarlo. I suoi occhi irridevano lo sgomento dipinto sul volto di lei. Irritata di aver lasciato vedere la propria paura, ella gridò: - Non so davvero perché siate rimasto qui tanto tempo! Non pensate se non a mangiar bene e altre cose del genere! - Trovo che è il miglior modo di passare il tempo: mangiare e... hm, altre cose del genere. Quanto all'essere rimasto qui... ho letto tante descrizioni di assedi, ma non ne ho mai visto nessuno. Non mi dispiacerebbe assistervi. Non ho nulla da temere, non essendo un combattente; e quest'esperienza mi attira. Non bisogna mai trascurare le esperienze, Rossella: esse arricchiscono la mente. E poi rimango per salvarvi quando vi sarà l'assedio. Non ho mai salvato una donna in pericolo. Anche questa sarà un'esperienza interessante. Rossella sentiva che egli la prendeva in giro; ma che nelle sue parole era un fondo di serietà. Crollò la testa, infastidita. - Non ho nessun bisogno che mi salviate. So badare a me stessa, grazie. - Non lo dite, Rossella! Pensatelo, se volete, ma non ditelo mai a un uomo. Questo è il torto delle ragazze yankee, che sarebbero simpaticissime se non dicessero sempre che non hanno bisogno di nessuno. E allora gli uomini lasciano che se la sbroglino da sole. Fu seccatissima, perché nessun insulto poteva esser peggiore che l'essere paragonata a una ragazza yankee. - Come correte! - gli disse quindi gelida. - Mi raccontate delle frottole; sapete benissimo che gli yankees non arriveranno mai ad Atlanta. - Scommetto che saranno qui fra meno di un mese. Scommetto una scatola di dolci contro... - I suoi occhi neri corsero alle rosee labbra di lei. - Contro un bacio. Per un attimo il timore dell'invasione yankee le strinse il cuore, ma la parola «bacio» la distrasse subito. Questo era un terreno conosciuto, assai piú interessante delle operazioni militari. Represse a stento un sorriso di trionfo. Dal giorno in cui le aveva regalato il cappello verde, Rhett non aveva mai detto una parola che potesse essere interpretata come quella di un innamorato. E adesso, senza nessun incoraggiamento da parte sua, eccolo che parlava di baci. - Non mi piacciono questi discorsi - replicò con freddezza. - E del resto, preferirei baciare un maiale. - Non si tratta di gusto; e d'altronde ho sempre sentito che gli irlandesi hanno simpatia per i porci. Li tengono perfino sotto al letto. Ma voi, Rossella, avete un tremendo bisogno di baci. Tutti i vostri spasimanti vi hanno rispettata troppo, Dio sa perché!, o hanno avuto paura di comportarsi come bisognava con voi. Il risultato è che vi date delle arie insopportabili. Avete bisogno di esser baciata, e da uno che sa baciare. La conversazione non si svolgeva come Rossella desiderava; cosa che le accadeva sovente con lui. - E probabilmente credete di esser voi la persona adatta? - gli chiese con sarcasmo, dominandosi a stento. - Senza dubbio, se volessi prendermi la pena... Dicono che so baciare molto bene. - Oh... - cominciò indignata nel sentire cosí messo in non cale il suo fascino. Ma abbassò gli occhi confusa, vedendo nella profondità dei suoi occhi, malgrado il sorriso irridente, una fiammella che si spense subito. - Probabilmente, vi sarete chiesta perché non ho dato alcun seguito a quel casto bacetto che vi diedi, il giorno in cui vi portai il cappello... - Non ho mai... - Vuol dire che non siete sensibile, Rossella; e questo mi dispiace. Tutte le ragazze sensibili si stupiscono se un uomo non tenta di baciarle. Sanno che non dovrebbero desiderarlo e che dovrebbero sentirsi insultate se un uomo lo facesse... ma lo desiderano ugualmente. Fatevi coraggio, cara. Un giorno o l'altro vi bacerò e la cosa vi piacerà. Ma adesso no; perciò vi prego di non essere impaziente. Come sempre, il suo scherno la rendeva furente. Vi era sempre troppa verità in quello che egli diceva. Ma questo era troppo. Gli darebbe una buona lezione, il giorno in cui fosse tanto villano da tentare di prendersi qualche libertà! - Volete aver la bontà di voltare il cavallo, capitano Butler? Desidero tornare all'ospedale. - Davvero, bell'angelo assistente? Pidocchi e catini di sangue sono preferibili alla mia conversazione? Lungi da me impedire a due mani volenterose di lavorare per la Nostra Causa Gloriosa! - Voltò il cavallo e questo riprese il cammino verso i Cinque Punti. - Quanto al fatto di non aver mosso piú alcun passo - riprese come se ella non gli avesse fatto comprendere che la conversazione era terminata - vi dirò che aspettavo che foste un po' piú donna. Sono egoista, nei miei piaceri; e non ho mai amato baciare le bambine. Accennò a un sogghigno, vedendo con la coda dell'occhio il seno di lei che ansimava di collera silenziosa. - E poi - continuò dolcemente - aspettavo che il ricordo dello stimabile Ashley Wilkes impallidisse alquanto. All'udire il nome di Wilkes, una pena improvvisa le strinse il cuore, mentre le lagrime le pungevano gli occhi. Impallidire, il ricordo di Ashley? Neanche se fosse morto da mille anni. Pensò al giovine ferito, moribondo in una lontana prigione yankee, senza un cencio per coprirsi, senza una persona amata che gli tenesse la mano, e fu piena di odio verso l'uomo ben pasciuto che le sedeva accanto e che le parlava con un leggero sarcasmo nella voce strascicata. Era troppo adirata per parlare, sicché continuarono per un poco a procedere in silenzio. - Ora ho ricostruito tutto sul conto vostro e di Ashley - riprese Rhett dopo un certo tempo. - Ho cominciato quando avete fatto quella volgare scenata alle Dodici Querce; e da quel giorno ho appreso molte cose tenendo gli occhi aperti. Quali cose? Per esempio, che voi nutrite ancora per lui una romantica passione da scolaretta, che egli ricambia nei limiti che la sua natura di uomo onesto gli permette. E che Mrs. Wilkes non ne sa nulla; fra tutti e due, le avete fatto un bello scherzo. Ho capito tutto, meno una cosa che punge la mia curiosità. L'ineffabile Ashley ha mai compromesso la sua anima immortale baciandovi? Un silenzio e un gesto del capo che si volgeva altrove furono la risposta. - Bene; dunque vi ha baciata. Immagino che sia stato quando fu qui in licenza. E ora che probabilmente è morto, voi circondate di un culto quel ricordo. Ma sono certo che finirete col dimenticarlo e allora... Ella si volse come una furia. - Allora... andate al diavolo! - E i suoi occhi verdi brillavano di collera. - E fatemi scendere da questa carrozza prima che io mi getti a terra. E non voglio che mi rivolgiate la parola mai piú! Egli fermò la carrozza; ma prima che potesse scendere per aiutarla, ella era balzata a terra. L'abito le si impigliò nella ruota, e per un attimo la folla dei Cinque Punti ebbe una rapida visione di sottovesti e mutandine. Ma Rhett si chinò e la liberò con sveltezza. Ella sfuggí senza una parola, senza neanche voltarsi indietro; l'uomo rise piano e diede la voce al cavallo.

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Con l'avanzar della notte e dopo numerosi bicchieri, a poco a poco tutti abbandonarono il gioco, lasciando soltanto Geraldo e lo straniero a battersi. Lo straniero puntò tutti i gettoni che aveva davanti e vi aggiunse il documento di proprietà della sua piantagione; Geraldo a sua volta spinse tutti i suoi gettoni e vi posò sopra il proprio portafogli. Se il denaro che conteneva apparteneva ai fratelli O'Hara, la coscienza di Geraldo non era tanto turbata da confessarlo prima della Messa dell'indomani mattina. Sapeva ciò che voleva; e quando Geraldo voleva una cosa, vi arrivava per la via più diretta. E poi, aveva una tal fede nel suo destino e nei dadi, che neanche per un momento si chiese come avrebbe restituito il denaro se avesse perduto il colpo. - Non è un buon affare il vostro, ed io son contento di non dover più pagar tasse laggiù - sospirò il possessore di un «full d'assi» dopo aver chiesto penna e calamaio. - La casa grande si è incendiata un anno fa e nei campi stanno crescendo boscaglie e pinastri. Ma è roba vostra. - Non mescolare mai carte né whisky se non sei stato svezzato con acquavite d'Irlanda - disse gravemente quella sera Geraldo a Pork mentre questi lo aiutava a coricarsi. E il servo, che aveva cominciato a masticare il dialetto irlandese nella sua ammirazione per il padrone, gli rispose in una strana combinazione di gergo negro e di idioma di County Meath che avrebbe intrigato chiunque, eccetto loro due. Il fangoso fiume Flint che correva silenzioso tra pini e querce sulle quali si arrampicava la vite selvaggia, avvolgeva la nuova proprietà di Geraldo come un braccio incurvato, abbracciandola da due lati. Per Geraldo, ritto sul piccolo cocuzzolo su cui era stata un tempo la casa, quella grande barriera verde rappresentava la piacevole evidenza del suo possesso, come se fosse uno steccato costruito proprio da lui per segnare il limite della proprietà. Ritto sulle fondamenta annerite della casa bruciata, egli guardava il lungo viale alberato che conduceva alla strada e bestemmiava allegramente, con una gioia troppo profonda per permettergli una preghiera di gratitudine. Quelle due linee parallele di alberi cupi erano sue, suo quel prato abbandonato, invaso dalle erbacce cresciute enormemente sotto i giovani alberelli di magnolie. I campi incolti e circondati di pinastri e di cespugli spinosi, che ai quattro lati stendevano lontana la loro superficie di argilla rossiccia, appartenevano a Geraldo O'Hara... erano suoi perché egli aveva un ostinato cervello irlandese, e il coraggio di arrischiare tutto su un colpo alle carte. Geraldo chiuse gli occhi e, nel silenzio del terreno senza lavoratori, sentí di essere giunto a casa. Qui, sotto i suoi piedi, sorgerà una casa di mattoni intonacati. Al di là della strada saranno nuove barriere di legno e di ferro, dietro alle quali pascoleranno mandrie ben pasciute e cavalli di razza; e il terreno sanguigno che giunge dalla collina al fertile fondo valle risplenderà al sole di un candore piumoso: cotone, jugeri e jugeri di cotone! La fortuna degli O'Hara risorgerà a nuovo splendore! Col piccolo peculio guadagnato che i fratelli gli liquidarono con scarso entusiasmo, e con una sommetta ottenuta mettendo un'ipoteca sul terreno, Geraldo comprò i primi agricoltori e si stabilí a Tara vivendo in solitudine nella casetta di quattro stanze del sorvegliante, fino al giorno in cui avrebbe potuto costruire la casa bianca. Dissodò i campi in cui piantò il cotone e si fece prestare altro denaro da Giacomo e da Andrea per comprare un maggior numero di schiavi. Gli O'Hara erano una tribú irlandese, unita nella prosperità come nell'avversità, non per eccessiva affezione famigliare, ma perché avevano imparato durante gli anni dolorosi, che una famiglia deve, per poter sopravvivere, presentare al mondo un fronte compatto. Prestarono il denaro a Geraldo, il quale, negli anni seguenti, lo restituí con gli interessi. Gradatamente la piantagione s'ingrandí, perché Geraldo comprò ancora del terreno vicino; e col tempo la casa bianca divenne una realtà invece di un sogno. Fu costruita dagli schiavi ed era un edificio largo e pesante che coronava il cocuzzolo dominante il verde pendio che giungeva sino al fiume; e piaceva molto a Geraldo perché anche quand'era nuova aveva l'apparenza di essere fabbricata da diversi anni. La vecchie quercie che avevano visto passare sotto il loro fogliame gli indiani circondavano la casa coi loro grossi tronchi e spandevano coi loro rami un'ombra densa sul tetto. Il prato, ripulito dalle erbacce, si ricoprí di trifoglio e di erba medica e Geraldo sorvegliò che fosse ben tenuto. Dal viale dei cedri alle bianche capanne del quartiere degli schiavi era in tutta Tara un'aria di solidità e di stabilità; e quando Geraldo girava al galoppo la curva della strada e vedeva tra i rami verdi il tetto della sua casa, il suo cuore si gonfiava di orgoglio, come se lo vedesse per la prima volta. Era tutto opera sua, del piccolo, cocciuto e rumoroso Geraldo. Ed egli era in ottimi rapporti con tutti i suoi vicini, meno coi MacIntosh, il cui terreno confinava col suo a sinistra, e con gli Slattery i cui miseri tre jugeri si stendevano alla destra, lungo le paludi tra il fiume e la piantagione di John Wilkes. I MacIntosh erano scozzesi - irlandesi e Orangisti; e se anche avessero posseduto tutte le sante qualità del calendario cattolico, questa provenienza li avrebbe resi maledetti per sempre agli occhi di Geraldo. Veramente vivevano in Georgia da settant'anni e, prima, avevano trascorso il tempo di una generazione nella Carolina; ma il primo della famiglia che aveva messo piede sulle rive americane era giunto da Ulster, e questo bastava per Geraldo. Era una famiglia di gente rigida e taciturna, che viveva per conto proprio e si sposava fra parenti; Geraldo non era il solo ad avere antipatia per loro, perché la gente della Contea era socievole e cordiale, e non tollerava negli altri la mancanza di queste qualità. La fama di aver simpatia per gli abolizionisti non aumentava la popolarità dei MacIntosh. Il vecchio Angelo non aveva mai manomesso un solo schiavo ed aveva commesso l'imperdonabile colpa di vendere alcuni dei suoi negri a mercanti di schiavi di passaggio che si recavano ai campi di zucchero della Luisiana; ma le voci persistevano. - È un abolizionista, non vi è dubbio, - osservava Geraldo a John Wilkes: - Ma in un Orangista, quando un principio è contrario all'avarizia scozzese, non viene piú rispettato. Con gli Slattery la faccenda era diversa. Essendo essi dei bianchi miserabili non si aveva per loro neanche il forzato rispetto che l'indipendenza di Angelo Macintosh otteneva dalle famiglie dei vicini. Il vecchio Slattery, che rimaneva disperatamente attaccato ai suoi pochi jugeri di terreno malgrado le ripetute offerte di Geraldo e di John Wilkes, era inetto e piagnucoloso. Sua moglie era una donna coi capelli scarmigliati, di aspetto pallido e malaticcio, madre di una nidiata che aumentava regolarmente ogni anno. Tom Slattery non possedeva schiavi; lui e i suoi due figli maggiori coltivavano spasmodicamente i Ioni pochi jugeri di cotone, mentre la moglie e i figli minori si occupavano del cosiddetto podere. Ma il cotone non cresceva mai bene e l'orto, a causa delle continue gravidanze della signora, forniva raramente di che nutrire il modesto armento. La vista di Tom Slattery che gironzolava sotto i porticati dei vicini, mendicando dei semi di cotone o un po' di lardo per poter tirar avanti, era frequente. Slattery odiava i suoi vicini con quel po' di energia che possedeva, intuendo il loro disprezzo sotto alla loro cortesia; e specialmente odiava i negri servi di questi ricchi. Gli schiavi negri della Contea si consideravano superiori ai «rifiuti bianchi» e il loro non celato disprezzo lo feriva, cosí come la loro piú sicura posizione nella vita destava la sua invidia. Egli conduceva un'esistenza miserabile mentre essi erano ben nutriti, ben vestiti, e curati quando erano vecchi e ammalati. Essi erano fieri del buon nome dei loro padroni e generalmente fieri di appartenere a gente che era «qualcuno», mentre Slattery era disprezzato da tutti. Egli avrebbe potuto vendere la sua proprietà per il triplo del suo valore a qualsiasi piantatore della Contea; chiunque avrebbe considerato bene speso il denaro che liberava il Paese da un individuo spiacevole; ma egli preferiva rimanere e vivere miseramente del ricavato di una balla di cotone all'anno e della carità dei suoi vicini. Col rimanente degli abitanti della Contea, Geraldo era in rapporti di amicizia e con qualcuno di intimità. I Wilkes, i Calvert, i Tarleton, i Fontaine sorridevano quando la piccola figura sul grande cavallo bianco galoppava lungo i loro viali; e facevano cenno perché fossero portati dei grandi bicchieri in cui era stato versato una buona quantità di whisky su una cucchiaiata di zucchero e un pizzico di menta tritata. Geraldo era simpatico e i vicini apprendevano col tempo ciò che i bambini, i negri e i cani scoprivano a prima vista e cioè che dietro ai suoi modi truculenti e alla sua voce reboante si nascondeva un cuore ottimo, un orecchio sempre pronto ad ascoltare e un portafogli che si apriva con facilità. Il suo arrivo provocava sempre un tumulto di cani che abbaiavano e di bambini negri che urlavano correndogli incontro, litigando fra loro per il privilegio di tenere il suo cavallo, e poi si torcevano e ridevano ai suoi insulti scherzosi. I bambini bianchi volevano sedere sulle sue ginocchia per fare il cavalluccio, mentre egli denunciava ai loro genitori l'infamia degli uomini politici inglesi; le figlie dei suoi amici gli confidavano i segreti amorosi e i giovinotti del vicinato, che avevano paura di confessare ai loro padri i debiti d'onore, trovavano in lui un amico pronto ad aiutarli. - Avevi questo debito da un mese, ragazzaccio! - gridava. - Ma, in nome di Dio, perché non mi hai chiesto il denaro prima? Il suo modo ruvido di parlare era troppo noto per offendere; il giovanotto si limitava a sorridere imbarazzato rispondendo: - Non volevo disturbarvi, signore, e mio padre... - Tuo padre è un buon uomo, ma un po' tirato; prendi questi e non ne parliamo piú. Le mogli dei piantatori furono le ultime a capitolare. Ma la signora Wilkes (una gran signora che ha il dono di saper tacere, come la definiva Geraldo) disse una sera a suo marito, dopo aver visto Geraldo scomparire in fondo al viale - parla in modo volgare, ma è un signore; e allora la posizione di O'Hara fu assicurata. Egli non sapeva che gli c'erano voluti quasi dieci anni per arrivare, perché non si era mai accorto che da principio i suoi vicini lo guardavano storto. Nella sua mente non vi era mai stato alcun dubbio in proposito, dal momento in cui aveva messo piede a Tara. Quando ebbe compiuto quarantatré anni - cosí atticciato di corpo e florido di volto che sembrava un gentiluomo sportivo - gli venne in mente che Tara, per quanto fosse piacevole, e gli abitanti della Contea, per quanto avessero il cuore e la casa aperti per lui, non erano abbastanza. Gli ci voleva una moglie. Tara aveva bisogno di una padrona. Il grasso cuoco, un negro agricoltore elevato a quel grado per necessità di cose, non era mai puntuale nel preparare i pasti; e la cameriera, che prima lavorava essa pure nei campi, lasciava che la polvere si accumulasse sui mobili e non aveva mai tovaglie pulite, sicché l'arrivo di ospiti era sempre occasione di subbuglio e di confusione. Pork, l'unico negro abituato a servire in casa, aveva l'incarico di sorvegliare gli altri servitori, ma anche lui era diventato negligente e trascurato dopo tanti anni di vita rilassata. Come servitore teneva in ordine la camera da letto di Geraldo, e come cameriere serviva a tavola con dignità e con stile; ma oltre a questo, lasciava che le cose seguissero il loro corso. Con l'infallibile istinto africano, i negri avevano tutti scoperto che Geraldo era un cane che abbaiava ma non mordeva, e ne approfittavano vergognosamente. Si sentivano sempre alte minaccie di vendere gli schiavi o di frustarli a sangue, ma nessuno schiavo era mai stato venduto fra quelli di Tara e una sola frustata vi era stata; somministrata soltanto perché il cavallo preferito di Geraldo non era stato strigliato dopo una lunga giornata di caccia. Gli occhi azzurri di Geraldo osservavano come erano ben tenute le case dei suoi vicini e con che facilità le donne dai capelli ravviati e dagli abiti fruscianti, dirigevano la servitú. Egli ignorava l'attività di queste donne dall'alba a mezzanotte, fra la sorveglianza della cucina, del bucato, del rammendo e l'allevamento dei bimbi. Vedeva soltanto i risultati esteriori e questi l'impressionavano. L'urgente necessità di una moglie gli apparve chiaramente una mattina mentre si stava vestendo per recarsi in città ad assistere a un'udienza al Tribunale. Pork tirò fuori la miglior camicia a pieghettine di Geraldo cosí malamente rammendata che ormai solo il domestico avrebbe potuto metterla. - Mister Geraldo - aveva detto mentre ripiegava con riconoscenza la camicia e Geraldo strepitava - quello che tu avere bisogno è moglie; una moglie che avere buon numero di negri per la casa. Gerardo rimproverò Pork per la sua impertinenza, benché fosse convinto che aveva ragione. Aveva bisogno di una moglie e aveva bisogno di bambini; e se non provvedeva subito, poi sarebbe troppo tardi. Ma non voleva sposare la prima venuta, come aveva fatto il signor Calvert, che aveva impalmato la governante inglese dei suoi bambini orfani di madre. Sua moglie doveva essere una signora, una vera signora dignitosa ed elegante come la signora Wilkes, e capace di governare Tara come la signora Wilkes governava la sua proprietà. Ma nelle famiglie del Contea vi erano due difficoltà. La prima era la scarsità di fanciulle in età da marito. La seconda, piú seria, era che Geraldo era un «uomo nuovo», malgrado i suoi dieci anni di residenza, e uno straniero. Non si sapeva nulla della sua famiglia. Pur essendo meno inespugnabile dell'aristocrazia della Costa, la società della Georgia settentrionale non avrebbe mai ammesso che una delle sue figliuole sposasse un uomo del quale si ignorava chi fosse il nonno. Geraldo sapeva che, malgrado la simpatia sincera degli uomini della Contea coi quali cacciava, beveva e parlava di politica, non avrebbe potuto sposare la figlia di nessuno di loro. E non voleva che si potessero far delle chiacchiere attorno alle tavole, a cena, sul fatto che questo o quell'altro padre avesse con rammarico rifiutato a Geraldo O'Hara il permesso di far la corte alla sua figliuola. Non per questo Geraldo si sentiva inferiore ai suoi vicini; d'altronde nulla e nessuno avrebbe mai potuto far sí che egli si sentisse inferiore a chiunque. Soltanto, riconosceva che era una strana costumanza della Contea, quella che faceva maritare le ragazze solo con persone appartenenti a famiglie che vivevano nel sud da oltre vent'anni, e che durante tutto quel tempo erano stati possessori di schiavi e si erano dedicati unicamente ai vizi eleganti. - Prepara il bagaglio. Andiamo a Savannah - disse a Pork. - E se ti sento emettere una sola imprecazione, ti vendo immediatamente, perché sono espressioni che io stesso uso ben raramente. Giacomo e Andrea avrebbero potuto certamente dargli dei consigli intorno a questa faccenda del matrimonio; e forse tra i loro vecchi amici poteva esservi qualche fanciulla che avesse i requisiti voluti e che lo trovasse accettabile come marito. I fratelli ascoltarono pazientemente la sua storia ma non gli diedero eccessivo incoraggiamento. Non avevano parenti a Savannah a cui rivolgersi, perché entrambi erano già sposati quando erano venuti in America! E le figlie dei loro vecchi amici erano maritate da un pezzo e avevano già dei bambini. - Sei un uomo ricco ma non di grande famiglia - osservò Giacomo. - Sono diventato ricco e la grande famiglia me la farò. Ma non voglio sposare la prima venuta. - Hai delle vedute alte - replicò Andrea seccamente. Ma fecero del loro meglio per aiutare Geraldo. Erano ormai anziani e si erano creati a Savannah un cerchio di amicizie. Per un mese condussero Gerardo di casa in casa, facendogli frequentare balli, cene, picnic. - Ce n'è una che mi piace - disse finalmente Geraldo - una ragazza che quando io sbarcai in America non era ancora nata. - E chi sarebbe? - Miss Elena Robillard - e la risposta cercò di avere un tono indifferente, perché gli occhi neri e lievemente obliquati in basso di Elena lo avevano colpito piú di quanto volesse dire, e il suo modo di fare, ingannevolmente incurante, cosí strano in una fanciulla quindicenne, lo aveva affascinato. Inoltre vi era in Elena una continua espressione di disperazione che gli andava al cuore e lo rendeva piú gentile con lei che non fosse mai stato con nessun altro. - Ma potresti esser suo padre! - Sono nel fiore della vita! - ribatté Geraldo, punto. Giacomo prese la parola, con calma. - Ascoltami, Jerry: non vi è ragazza in Savannah con la quale tu possa aver minori probabilità. Suo padre è un Robillard; e questi francesi sono orgogliosi come Lucifero. E sua madre - Dio l'abbia in gloria - era una gran signora. - Non me n'importa - si ostinò Geraldo. - Del resto, sua madre è morta e il vecchio Robillard mi vuol bene. - Come uomo, sí; ma come genero, no. - E poi la ragazza non ti accetterebbe - intervenne Andrea. - Da un anno fa l'amore con quel ragazzaccio di suo cugino, Filippo Robillard, benché la sua famiglia la tormenti giorno e notte perché lo lasci. - È partito il mese scorso per la Luisiana. - Come lo sai? - Lo so. - E Geraldo non volle svelare che quest'informazione gli veniva da Pork né che Filippo era andato in Occidente per espresso desiderio della sua famiglia. - E non credo che ne sia tanto innamorata da non poterlo dimenticare. Quindici anni son troppo pochi, perché l'amore sia profondo. - Preferiranno quel rompicollo di cugino a te. Giacomo e Andrea furono quindi stupiti come tutti gli altri quando si sparse la notizia che la figlia di Pierre Robillard avrebbe sposato il piccolo irlandese. I commenti furono infiniti e tutta la città chiacchierò sul conto di Filippo Robillard che era andato in Occidente; ma le chiacchiere rimasero lettera morta. E fu sempre per tutti un mistero perché la piú bella delle figlie di Robillard accettasse di sposare quel rumoroso ometto dal viso rosso, che le arrivava appena alle spalle. Neanche Geraldo comprese mai perfettamente com'era andata la cosa. Sapeva soltanto che era accaduto un miracolo. E fu l'unica volta in vita sua che si sentí umile umile, quando Elena, pallidissima ma calma, posò leggermente una mano sul suo braccio dicendogli: - Vi sposerò, Mr. O'Hara. I Robillard, sbalorditi, conobbero la risposta; ma solo Elena e la sua Mammy seppero tutta la tristezza di quella notte in cui la fanciulla singhiozzò fino all'alba come una bambina col cuore spezzato, alzandosi al mattino con una ferma decisione. Con un doloroso presentimento, la bambinaia aveva portato alla sua padroncina un pacchetto proveniente da Nuova Orléans, con l'indirizzo scritto da una mano ignota; nel pacchetto era una miniatura di Elena, che ella lasciò cadere a terra con un grido, quattro lettere scritte da lei a Filippo Robillard e poche parole di un sacerdote di Nuova Orléans che le annunciava la morte di suo cugino in una rissa d'osteria. - Lo hanno cacciato via, il babbo, Paolina e Eulalia. Lo hanno cacciato via. Li odio. Non voglio piú vederli. Voglio andar via. Voglio andare tanto lontano da non vedere mai piú né loro né questa città né chiunque mi ricordi... lui. E al sorger del giorno, la nutrice, che aveva anch'essa pianto china sul capo bruno della sua padrona, aveva esclamato: - Ma non puoi far questo, tesoro! - Lo farò. È un brav'uomo. Lo farò, o andrò a chiudermi in un convento a Charleston. Fu la minaccia del convento che finalmente strappò il consenso a Pierre Robillard, che non rinveniva dallo stupore e dal dolore. Era un fedele presbiteriano, benché la sua famiglia fosse cattolica; e l'idea che sua figlia diventasse monaca gli era anche piú penosa del pensiero che fosse moglie di Geraldo O' Hara. Dopo tutto, contro costui non si poteva dir nulla, se non che non aveva famiglia. Cosí Elena, non piú Robillard, volse le spalle a Savannah per non rivederla mai piú e partí per Tara con un marito di mezz'età, la sua nutrice e venti «negri di casa». Dopo un anno nacque la prima bambina a cui diedero il nome di Caterina Rossella, come la mamma di Geraldo. Geraldo fu deluso, perché desiderava un maschio, ma ciò nondimeno fu abbastanza soddisfatto della sua bambina bruna da offrire, in segno di gioia, il rum a tutti i suoi schiavi, ubbriacandosi anche lui, felice e rumoroso. Nessuno può dire se Elena rimpianse mai la sua decisione di sposare Geraldo; meno di tutti suo marito, il quale non stava nella pelle ogni volta che la guardava. Ella aveva scacciato dalla sua mente Savannah e i suoi ricordi, da quando aveva lasciato quella graziosa città marittima; e dal momento in cui era giunta nella Contea, la Georgia era diventata il suo paese. Lasciando per sempre la dimora di suo padre, ella aveva abbandonato una casa le cui linee erano dolci e morbide come quelle di un corpo di donna, come quelle di una nave a vele spiegate; una casa intonacata di un pallido rosa, costruita nello stile coloniale francese, elegantemente sollevata sul suolo da palafitte a colonne, e a cui si saliva mediante scale a spirale, con ringhiere di ferro battuto che sembravano un merletto: una casa ricca e graziosa, ma lontana. Ella aveva abbandonato non solo la bella abitudine, ma anche tutta la civiltà che era dietro quell'edificio; e si trovava in un mondo cosí strano e diverso come se fosse addirittura in un altro continente. La Georgia settentrionale era una regione aspra, abitata da gente aspra anch'essa. Dall'altipiano che si ergeva al disotto delle cime delle Montagne Azzurre, ella vedeva ovunque distese ondulate rossicce, con vasti spazi su cui affiorava il granito sottostante ed enormi pini che torreggiavano cupamente dovunque. Tutto sembrava selvaggio e inospitale ai suoi occhi abituati alla costa e alla tranquilla bellezza delle isole drappeggiate nel muschio grigio e verde, con le larghe strisce di rena ardente sotto il sole semitropicale, le lunghe distese di terra sabbiosa ornata di palmizi. Questa era una regione che conosceva tanto il freddo dell'inverno quanto il calore dell'estate; e nel popolo erano un vigore e un'energia che la sorprendevano. Era gente buona, gentile, generosa, ma risoluta, virile, facile all'ira. Gli abitanti della Costa che ella aveva abbandonato si vantavano di occuparsi di ogni cosa, anche dei loro duelli e delle loro proprietà, con aria noncurante; ma questi Georgiani erano invece dotati di violenza. Sulla Costa la vita era molle; qui era giovanile, nuova, piena di vivacità. Tutte le persone che Elena aveva conosciuto a Savannah erano dello stesso stampo: avevano tutti quanti gli stessi punti di vista, e le stesse tradizioni; qui vi era invece una grande varietà. I colonizzatori della Georgia settentrionale venivano da molti luoghi diversi: da altre parti della Georgia stessa, dalla Carolina, dalla Virginia, e anche dall'Europa e dal Nord. Alcuni, come Geraldo, erano individui recatisi colà a cercar fortuna. Altri, come Elena, erano membri di vecchie famiglie che trovavano la vita insopportabile nel loro paese e avevano cercato rifugio altrove. Altri ancora si erano trapiantati senza alcuna ragione se non che il sangue irrequieto dei loro padri nomadi scorreva ancora nelle loro vene. Questa gente, arrivata da luoghi diversi e con diverse origini, dava alla vita della Contea una mancanza di formalismo che per Elena era assolutamente nuova ed alla quale non riuscí mai ad abituarsi completamente. Sapeva per istinto che cosa avrebbe fatto uno della Costa in certe date circostanze; non riuscí mai a prevedere che cosa avrebbe fatto, nelle stesse circostanze, un Georgiano del nord. Ciò che dava vita al commercio della regione era l'ondata di prosperità che allora volgeva verso il Sud. Tutto il mondo chiedeva cotone, e il nuovo terreno della Contea, fertile e non sfruttato, ne produceva in abbondanza. Il cotone era la pulsazione del cuore del paese; la semina e il raccolto erano la sistole e diastole della vermiglia terra. Dai solchi sinuosi veniva la ricchezza e anche l'arroganza; arroganza fondata sui verdi cespugli e sugli ettari di un bianco fioccoso. Se il cotone poteva farli ricchi in una generazione, quanto piú ricchi sarebbero nella prossima! La certezza dell'indomani dava entusiasmo e gioia di vivere; e la gente della Contea godeva la vita con un fervore che Elena non riuscí mai a comprendere. Avevano abbastanza denaro e abbastanza schiavi per avere anche il tempo di divertirsi; e si divertivano volentieri. Sembrava che non fossero mai tanto occupati da dover mancare a una partita di pesca, a una caccia o a una corsa di cavalli: ed era raro che passasse una settimana senza la sua riunione a base di porchette arrostite e il suo ballo. Elena non avrebbe mai potuto o voluto diventare simile a loro - aveva lasciato a Savannah troppo di se stessa - ma li rispettava e, col tempo ammirò la franchezza e la rettitudine di quel popolo che aveva poche reticenze ed apprezzava un uomo per quel che valeva. Divenne la signora piú amata della Contea. Era una vigile ed economa padrona di casa, una buona madre e una moglie devota. L'altruismo che avrebbe dedicato alla Chiesa fu invece consacrato al servizio dei suoi figliuoli, della sua casa e dell'uomo che l'aveva allontanata da Savannah e dai suoi ricordi e non le aveva mai rivolto alcuna domanda. Quando Rossella ebbe un anno - piú sana e vigorosa di qualsiasi altra bambina, secondo Mammy - nacque la seconda bambina di Elena, Susanna Eleonora, sempre chiamata Súsele, e, alla debita distanza, venne Carolene, iscritta nella Bibbia familiare come Carolina Irene. Seguirono poi tre maschietti, ognuno dei quali morí prima di avere imparato a camminare; tre bambini che ora dormivano sotto i cedri contorti, nel cimitero a cento metri dalla casa, sotto tre pietre ciascuna delle quali portava l'iscrizione «Geraldo O' Hara, Jr.» Dal giorno in cui Elena giunse a Tara, il luogo fu trasformato. Benché avesse solo quindici anni, ella era nondimeno pronta per tutte le responsabilità di una padrona di piantagione. Anche allora, prima del matrimonio, le ragazze dovevano essere soprattutto belle, gentili, decorative; ma dopo sposate, bisognava che fossero in grado di dirigere un'azienda domestica che contava oltre cento persone, fra bianchi e negri; e venivano educate in vista di questo. Elena aveva ricevuto quella preparazione per il matrimonio che veniva data a tutte le fanciulle di buona nascita; inoltre aveva con sé Mammy, la quale, con la sua energia, era capace di galvanizzare il negro piú inetto. In breve ella portò nel governo della casa di Geraldo ordine e dignità e diede a Tara una bellezza che non aveva mai avuta prima. La casa era stata costruita senza alcun piano architettonico prestabilito, aggiungendo delle camere quando occorrevano; ma con l'attenzione e la cura di Elena, acquistò un fascino speciale che derivava appunto dalla sua mancanza di disegno. Il viale di cedri che conduceva dalla strada principale alla casa - quel viale di cedri senza il quale nessuna casa di piantatore georgiano sarebbe stata completa - spandeva un'ombra cupa e fresca che per contrasto dava maggior vivezza e splendore al verde degli altri alberi. Il convolvolo che si arrampicava sulle verande appariva di un verde chiaro sul bianco delle mura; e insieme ad esso il rosa dei cespugli di ibisco accanto alla porta e le magnolie dai candidi fiori che si ergevano sulla spianata, nascondevano alquanto le linee goffe dell'edificio. In primavera e in estate il trifoglio e l'erba medica del prato diventavano color smeraldo, di uno smeraldo cosí seducente che rappresentava una tentazione irresistibile per i branchi di tacchini e di oche bianche che avrebbero, in realtà, dovuto abitare solo le regioni dietro alla casa. I volatili tentavano sempre delle clandestine avanzate sulla spianata, attratti dal verde dell'erba e dalla seducente promessa dei cespugli di gelsomini del Capo e delle aiuole di zinnie. Contro le loro ruberie era stata installata sotto al porticato una piccola sentinella nera. Il bambino seduto sui gradini, armato di un grande straccio bianco, faceva parte del quadro di Tara; ma era molto infelice perché gli era proibito di inseguire i gallinacei e doveva limitarsi a gridare e ad agitare lo straccio per spaventarli. Elena addestrava a questo còmpito dozzine di bambini negri: era il primo ufficio con una responsabilità che gli schiavi maschi avessero a Tara. Dopo i dieci anni venivano mandati dal vecchio Daddy, il ciabattino della piantagione per imparare il suo mestiere, o da Amos, il carpentiere, o da Filippo, il vaccaro, o da Cuffee, il guardiano delle mule. Se non mostravano attitudine per alcuno di questi mestieri, diventavano coltivatori e, nell'opinione dei negri, avevano perso il diritto a qualsiasi posizione sociale. La vita di Elena non era facile né felice; ma ella non si era aspettata che fosse facile, e quanto alla felicità, quello era il destino della donna. Il mondo era degli uomini ed ella lo accettava cosí. L'uomo era lodato per l'ordine della sua proprietà e la donna lodava la sua abilità. L'uomo rugghiava come un toro se una scheggia gli si ficcava in un dito e la donna soffocava i gemiti, quando metteva al mondo un figlio, per timore di disturbarlo. Gli uomini erano sgarbati e spesso ubriachi. Le donne ignoravano le cattive parole e mettevano gli ubriachi a letto senza parlare. Gli uomini erano rudi e brontoloni, le donne erano sempre buone, gentili e disposte a perdonare. Era stata educata nella tradizione delle grandi dame e le era stato insegnato a sopportare i propri dolori conservando il suo sorriso; ed ella intendeva che anche le sue tre figlie fossero, come lei delle vere signore. Con le figlie piú giovani era riuscita, perché Súsele desiderava tanto di essere piacente che prestava orecchio attento agli insegnamenti di sua madre, e Carolene era timida e facile da guidare. Ma, per Rossella, figlia di Geraldo, la via della signorilità fu dura. Con grande indignazione di Mammy, ella preferiva compagni di gioco che non fossero le sue ubbidienti sorelline o le bene educate fanciulle Wilkes, ma i bambini negri della piantagione e i maschietti del vicinato, ed era capace di arrampicarsi su un albero e di lanciar sassi. Mammy era molto turbata che la figlia di Elena avesse simili inclinazioni, e spesso la scongiurava di «condursi come una signora», ma Elena considerava la faccenda con una tolleranza piú lungimirante. Ella sapeva che i compagni d'infanzia sarebbero piú tardi diventati dei corteggiatori; e il primo dovere di una ragazza era sposarsi. Diceva quindi fra sé che la bimba era semplicemente piena di vita e che vi era tempo per insegnarle le arti e i modi che attraggono gli uomini. A tal fine Elena e Mammy riunirono i loro sforzi, e col passare degli anni, Rossella divenne una buona allieva, ma solo in questa materia, ché per tutto il resto imparava assai poco. Malgrado una successione di istitutrici e due anni trascorsi nella Accademia Femminile di Fayetteville, la sua educazione era incompleta; ma nessuna fanciulla della Contea parlava piú graziosamente di lei. Ella sapeva sorridere con garbo, camminare facendo ondeggiare i cerchi della sua gonna in modo attraente, sapeva guardare un uomo in faccia e poi abbassare gli occhi e battere le palpebre rapidamente in modo che sembrasse il tremito di una dolce emozione; e, soprattutto, aveva imparato a nascondere agli uomini un'intelligenza acuta sotto un viso dolce e semplice come quello di un bambino. Elena con la sua voce ammonitrice e Mammy con le sue costanti censure cercavano d'inculcare in lei le qualità che l'avrebbero resa veramente desiderabile come moglie. - Devi essere piú dolce, cara, piú remissiva - diceva Elena. - Non devi interrompere gli uomini che ti parlano, anche se credi di saperne piú di loro sull'argomento. Gli uomini non amano le ragazze troppo perspicaci. - Ragazze superbe che darsi arie e dire «voglio questo, voglio quello» di solito non trovare marito - profetizzava cupamente Mammy. - Le ragazze dovere abbassare occhi e dire «bene signore» e poi «Sí signore» e «avete ragione signore.» Le insegnarono dunque tutto ciò che una gentildonna doveva sapere, ma ella imparò soltanto la vernice della gentilezza. Non apprese mai la grazia interiore da cui questa gentilezza doveva sgorgare, e non vedeva neppure la ragione di apprenderla. Le apparenze bastavano, perché le apparenze della signorilità le acquistavano dei corteggiatori; ed ella non desiderava di piú. Geraldo proclamava che sua figlia era la piú bella di cinque Contee, e con un certo fondo di verità; infatti ella ebbe proposte di matrimonio da quasi tutti i giovani del vicinato ed anche da luoghi lontani, come Atlanta e Savannah. A sedici anni, grazie a Mammy e ad Elena, appariva gentile, simpatica e briosa, mentre in realtà era volontaria, vana e caparbia. Aveva ereditato la facile eccitabilità del padre irlandese e nulla della natura altruista e indulgente di sua madre, se non d'apparenza. Elena non si rese mai completamente conto che era soltanto una vernice, perché Rossella le mostrava soltanto il suo volto migliore, nascondendo le sue scappate, piegando il suo temperamento e apparendo in presenza di Elena piú dolce che poteva, perché sua madre, con un solo sguardo di rimprovero, riusciva a mortificarla fino alle lagrime. Ma Mammy non aveva illusioni sul suo conto ed era continuamente sul «chi vive» per le screpolature della vernice. Gli occhi di Mammy erano piú acuti di quelli di Elena, e Rossella non ricordava di essere mai riuscita ad ingannarla per molto tempo. Non che questi due mentori affettuosi deplorassero la vivacità, il fascino e la disinvoltura della giovinetta. Di tali qualità le donne meridionali andavano fiere. Erano invece preoccupate dalla natura impetuosa e dalla cocciutaggine di Geraldo che risorgevano in lei; e talvolta temevano che questi difetti non si sarebbero potuti nascondere prima che ella facesse un buon matrimonio. Ma Rossella intendeva sposarsi - e sposare Ashley - e perciò voleva apparire modesta, docile, e leggera, se queste erano le qualità che attraevano gli uomini. Non sapeva perché gli uomini fossero cosí; sapeva soltanto che questi metodi funzionavano. La cosa non l'interessò mai tanto da farle cercare la ragione di questo, poiché ella ignorava il lavorio interiore di ogni essere umano, e perfino il suo. Sapeva soltanto che se ella diceva o faceva «cosí - e cosà» gli uomini invariabilmente rispondevano col complimento «cosí - e cosà». Era come una formula matematica e non piú difficile di questa, perché la matematica era l'unica materia che era sembrata facile a Rossella quando andava a scuola. Se conosceva poco il raziocinio maschile, conosceva ancor meno quello femminile, perché le donne l'interessavano poco. Non aveva mai avuto un'amica e non ne aveva mai sentito la mancanza. Per lei tutte le donne, comprese le sue due sorelle, erano nemiche naturali che inseguivano la stessa preda: l'uomo. Tutte le donne, eccetto sua madre. Elena O'Hara era diversa, e Rossella la considerava come qualche cosa di sacro, fuori da tutto il resto del genere umano. Da bambina confondeva sua madre con la Vergine Maria, ed ora che era grande non vedeva ragione di mutare la sua opinione. Per lei Elena rappresentava la completa sicurezza che solo il cielo o una madre possono dare. Ella sapeva che sua madre era la personificazione della giustizia, della verità, della tenerezza affettuosa e della profonda saggezza: una gran dama. Rossella desiderava molto di essere come sua madre. La sola difficoltà era che essendo giuste e sincere, tenere e altruiste, si lasciavano sfuggire la maggior parte delle gioie della vita e senza dubbio si allontanavano molti corteggiatori. La vita era troppo breve per rinunciare a tante cose piacevoli. Un giorno, quando avesse sposato Ashley e fosse vecchia, un giorno, quando ne avrebbe il tempo, cercherebbe di essere come Elena. Ma fino allora...

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Caracciolo De' Principi di Fiorino, Enrichetta

222317
Misteri del chiostro napoletano 1 occorrenze
  • 1864
  • G. Barbèra
  • Firenze
  • Paraletteratura - Romanzi
  • UNICT
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Ma per ragioni non abbastanza note, i monasteri di donne abbandonarono la regola di san Basilio, per abbracciare l'altra non molto dissimile ed omogenea di san Benedetto, ancor prima che i conventi di monaci Basiliani si fossero del tutto latinizzati: fatto avvenuto dopo quelle tre potenti e consecutive crisi della Chiesa occidentale: la riforma, il gesuitismo, ed il concilio di Trento; crisi successe nel XVI secolo. Nella facciata della chiesa di san Gregorio, Napoli e sue vicinanze. Tomo I, p. 228. sopra un alto basamento con tre archi di fronte, costrutto a bugne, si elevano due altri ordini di costruzioni, il composito sul dorico. Pochi scalini conducono all'atrio spazioso retto da quattro pilastri, su cui poggia il coro grande delle monache. In fondo è l'ingresso principale della chiesa; ed entrandovi, trovasi una sola navata con quattro cappelle in ciascun dei lati, e due vani, di grandezza eguale alle cappelle, occupati al davanti per metà da due organi: di quei vani uno serve al passaggio della sagrestia e della minor porta, l'altro per i confessionali. Un balaustro divide la nave dal presbiterio, dove si erge l'altar maggiore, fra quattro archi simili che sorgono per sostenere la cupola. L'ordine architettonico dell'intera fabbrica è il composito, ma oltremodo ripieno di cornici, fogliami, decorazioni ed ornamenti d'ogni genere, tutti dorati, e nelle superficie piane dorati a foggia di damasco; e non è spazio vuoto che non sia coperto di pittura a fresco: cose tutte le quali certo meglio si addicono al fasto de' ricchi palagi baronali (o dei teatri), anzi che alla devota semplicità della casa del Signore. La porta grande è costrutta di legno di noce con buoni intagli in rilievo, rappresentanti i quattro Evangelisti, ed in mezzo i due santi Stefano e Lorenzo, circondati da ornamenti. La soffitta, che è di legno intagliato e dorato, dividesi in tre grandi quadri principali, in cui sono tre pitture di Teodoro il Fiammingo, figuranti san Gregorio in vesti pontificali con libro aperto nelle mani fra due assistenti all'altare; lo stesso santo che riceve le monache nel suo ordine; ed il battesimo del Redentore; suddividesi poi in tanti piccioli compartimenti di forme diverse, i quali contengono una pittura di esso Teodoro, se non mostrano un rosone intagliato. I due organi collocati con le orchestre ne' due vani sono ricchi de' più bizzarri intagli, dorati ad oro fino. Ornano poi le cappelle molti lavori a commettitura di marmi scelti e svariati, ed han tutte un balaustro di marmi, parimente commessi in forma di fogliami a traforo; e sopra, altri lavori di bronzo a getto, con in mezzo un cancellino composto dello stesso lavoro e metallo. Delle pitture, i tre quadri sulla porta, nei quali è rappresentato l'arrivo in Napoli e l'accoglimento qui avuto dalle monache greche; come parimente quelle collocate tra' finestrini, che sono pur de' fatti della vita. di san Gregorio; quelle dei piccioli scompartimenti sopra gli archi, le altre della cupola, e quelle infine del coro grande, che figurano storie di san Benedetto, son tutte di mano del Giordano. Ed è a notare, che, dei tre quadri sulla porta, in quello che è a sinistra dell'osservatore, nel volto dell'uomo in atto d'indicare un luogo alle monache arrivate al lido in una barca, il pittore dipinse sè medesimo dell'età di circa cinquant'anni, quanti allora ne contava. Dietro l'altar maggiore, che è costrutto con disegno di Dionisio Lazzari, mirasi la gran tavola dell'Ascensione del Signore, opera di Bernardo Lama. Nella prima cappella del lato destro della chiesa è il quadro dell'Annunziata di bel colorito, dipinto da Pacecco De Rosa. La terza cappella è dedicata a san Gregorio Armeno, ed è più grande e meglio ornata delle altre; sull'altare, in mezzo a due colonne di rosso di Francia, si vede un assai pregevol dipinto di Francesco di Maria, e rappresenta il santo vescovo assiso e corteggiato dagli angeli; su i muri laterali è figurato in due composizioni il Santo, mentre se gli fa d'avanti tutto umiliato il re Tiridate col viso trasformato in porco; e nell'altra, nel momento di esser tirato fuora del lago di Ararat, dove era stentatamente vissuto per quattordici anni: questi due quadri, dipinti con robustezza e verità di colorito e con bell'effetto di luce, sono usciti dal pennello di Francesco Fracanzano, discepolo dello Spagnoletto. Di Cesare Fracanzano, fratello del primo, son le due lunette sovrapposte a' descritti quadri, che rappresentano due maniere di martirii dati al santo. La volta di questa cappella è divisa in più partizioni, dove in picciole figure sono istoriati vari fatti della vita di san Gregorio dallo stesso Francesco di Maria; le quali pitture a fresco richiamaron l'attenzione dello stesso Giordano, che narrasi averle molto ammirate e lodate. Nella quarta cappella, la tela della Madonna del Rosario è di Niccolò Malinconico, scolaro del Giordano. Delle cappelle del lato sinistro, la prima ha una tavola della Natività, della scuola di Marco da Siena; la terza, la tavola della decollazione del Battista, di Silvestro Morvillo, detto il Bruno; e la quarta, una tela, in che è dipinto san Benedetto, adorante la Vergine che apparisce dall'alto, attribuita allo Spagnoletto. Nel mattino del tre di marzo 1443, essendo giorno di domenica, re Alfonso I d'Aragona cinse il capo del suo figliuolo Ferrante d'un cerchio d'oro, e posegli nella man destra una spada ornata di gemme, confermandolo in tal guisa Duca di Calabria e suo successore nel regno, siccome un giorno avanti era stato acclamato dal general parlamento nella sala del Capitolo in San Lorenzo. Una tal solenne cerimonia fu compiuta con regal pompa, in presenza de' baroni e di tutta quanta la corte del re, nell'antica chiesa già demolita, di cui si è fatta menzione poc'anzi. In quella stessa chiesa conservavansi fino al 1574 le sepolture delle monache, e le ossa d'altri defunti, in monumenti che rimontavano fino alle primitive età del monastero, siccome risulta dalla cronaca di donna Fulvia Caracciolo, una delle mie antenate e monaca nel detto monastero, vissuta intorno all'epoca in cui venne introdotta la clausura. Commovente è la descrizione ch'essa ci lascia del trasferimento delle surriferite reliquie dalla chiesa antica a luogo più sicuro, avvenuto sotto l'abbadessato di Lucrezia Caracciolo: «Restavano, scrive essa, solo nella chiesa le sepolture, nelle quali erano posti i corpi morti delle sorelle, e d'altri defonti: e perchè rimanevano scoverte, pungeva a noi il core estremo dolore, avvenga che non havevamo luoco atto, dove potessimo riserbare l'osse de' nostri antecessori, tanto più che di fresco erano morte alcune, che a volerle tor via, poichè erano i corpi jntieri, n'inducevano a tanto ramarico, che di pietà ogn'una di noi si sentiva venir meno; all'ultimo una notte, seguente a' 20 d'ottobre di detto anno 1574, per non dare spavento et horrore alle sorelle, jo, insieme con donna Beatrice Carrafa, donna Camilla Sersale, donna Isabella, e donna Giovanna de Loffredo, chiuse prima le parte della chiesa, e dicendomo l'officio de' morti, fecimo in nostra presenza votare tutte le sepolture, usando ogni diligenza possibile, che fossero ben nettate, e riponemmo l'ossa in un'altra cantina, con quest'ordine: fecimo far tante casse de' morti quante erano le sepolture, et havendo di quelli riposte le già dette osse, fecimo ad ognuno un scritto di fuori, acciò che si conoscessero di chi fossero.» Questo passaggio, che ho letto più volte nello stesso manoscritto, mi ha fatto ogni volta rabbrividire, pel timore che le mie ossa, destinate a restare in consegna alle mie compagne di reclusione, non subissero un giorno le medesime vicende. Egli è pur da questa cronaca che siamo informati del vestire antico delle monache Benedettine e del loro ufficiare ne' libri longobardi: «Intorno poi al vestire che noi usavamo, dirò, che andavamo vestite di bianco; però le tuniche a modo di un sacco, a punto come sono quelli che portano oggidì le donne vidue, ma di panni fini e bianchissimi; in testa portavamo una legatura greca, ornata con molta modestia; leggevamo a' libri longobardi, e perciò la maggior parte della vita spendevamo ne i divini uffici, per esserno in quei tempi assai lunghi e da noi con molta solennità celebrati. Le moniche ch'entravano in questa religione in tre diverse giornate, usavano tre modi di cerimonie. Primieramente si monacavano per mano dell'abbadessa, un giorno dopo dette le Vespere, ove ne troncava le trezze. Dopoi alcuni mesi, o anni, secondo l'età, pigliavano il secondo ordine, ch'erano alcune dignità nel coro. Il terzo ordine si pigliava nell'età perfetta, da quindici anni in su, e nel pigliar questo ordine si diceva primieramente la messa dello Spirito santo; e mentre quella si celebrava di nuovo, ne tornavamo a tagliare i capelli. In questa guisa cavavamo nella fronte una ghirlanda de capelli, la quale spartita in sette fiocchi, nell'estremo di ciascun di quelli l'abbadessa poneva una ballotta di cera bianca e così stavamo finchè si celebrava; ma poi finita la messa, la medesima madre tagliava i fiocchi e copriva la fronte d'un bianco velo, e ne ponevano una veste negra sopra la bianca che fino a quel tempo portavamo, e la negra era più corta della bianca mezzo palmo, senza la quale non era lecito a veruna di comparir nel coro nei giorni festivi. Questa veste adunque era la prerogativa, che ne donava la voce attiva e passiva, e ci faceva partecipe de i beni del monastero. Questa medesima veste ne vestivamo ne i giorni estremi di nostra vita, con la quale si moriva e si andava alla sepoltura. I giorni feriali si ufficiava in coro con un manto nero, senza di cui non si poteva dire un picciolo verso in quel loco, e questo s'osservava tra noi in quel tempo.» Malgrado questi rigori, vero è che le monache di quel tempo andavano liberamente alle ville e possessioni del monastero per trattenervisi parecchie settimane, uscivano dalla mattina alla sera, previa licenza della badessa, e per giorni ed anche mesi rimanevano in casa dei loro parenti, siccome fino ai nostri giorni, ad onore dell'ordine monastico, è praticato ne' chiostri della chiesa greca, presso la quale l'autorità de' canoni tridentini non è riconosciuta. Sono custodite nel santuario del monastero parecchie reliquie di santi e martiri, cui le monache e la volgare superstizione attribuiscono la virtù di operare miracoli. Tranne il capo di san Gregorio l'Illuminatore, che vuolsi importato dalle profughe greche, vi sono pure la testa di santo Stefano e quella di san Biagio, coverte di argento; parte del legno della santa Croce; due bracci, uno di san Lorenzo e l'altro di san Pantaleone; la catena di san Gregorio Armeno e le strisce di cuoio con cui il Santo fu battuto: entrambi oggetti che, per prerogative soprannaturale, sanano gl'indemoniati; il sangue di santo Stefano e quello di san Pantaleone, il quale, se perpetuamente è liquefatto, pure non si fa vedere in tre diversi colori, siccome quello del medesimo martire che è venerato in Roma nella chiesa di santa Maria in Vallicello e nella cattedrale d'Amalfi. Questo Santo gabinetto di anatomia dà motivo a feste, che non mancano d'essere periodicamente segnalate da fatti miracolosi. Vastissimo è il monastero costruito intorno alla chiesa. Entrandovi dalla porta esterna, scorgesi una comoda scalinata che mena ad una seconda porta, su cui veggonsi delle pitture a chiaroscuro di Giacomo del Po, e donde si va ne' differenti parlatorii. Ricco poi di fregi, d'inesauste comodità, di principesca magnificenza è l'interno del monastero, albergo di donne, tanto altiere della nobile loro discendenza, da non voler accogliere per sorella nella congrega nessuna giovine, la cui prosapia non sia stata almeno aggregata in uno de' quattro seggi di Napoli. Grande e pur belle e il dormentorio; non meno bello il refettorio, spazioso il coro che risponde nella chiesa; largo il chiostro, con in mezzo una fontana e due statue, Cristo e la Samaritana, scolpite da Matteo Battiglieri; immensi e deliziosi specialmente i terrazzi elevati sopra il convento, ornati di fiori e di dipinture, donde si gode una delle più belle prospettive di Napoli, poichè da quei belvederi spazia lo sguardo su i monti e le colline circostanti, su parte della sottoposta città, sul mare, sul paesaggio ameno de' contorni. - Tranne queste costruzioni, vedonsi poi nel monastero la cappella di santa Maria dell'Idria (corruzione del vocabolo greco Odigitria), con l'immagine bizantina della Vergine venerata sotto questo nome, con dipinture di Paolo de Matteis: cappella ridondante di sontuosità; e finalmente la sala dell'archivio, ove fra gli altri storici monumenti è conservata la cronaca summenzionata della Caracciolo, documento di non poco rilievo. Ma è tempo di ritornare alle mie vicende. La novità del luogo, delle persone, degli oggetti, dei costumi, mi divagò un poco. Era quello un mondo nuovo a me del tutto sconosciuto. Durante quella prima visita al convento, m'imbattei in molte religiose per la via: tutte quante mi fecero la stessa domanda: "Vuoi farti monaca?" Io rispondeva di no. A questo detto, sorridendo in atto di suprema convinzione, ripigliavano: "San Benedetto non ti lascerà scappare, quando avrai indossate le sue lane!" Qualche giorno prima di entrare nel monastero, era venuta la domestica di mia zia a comunicarmi, come una giovine monaca, chiamata Paolina, desiderava di farsi mia amica e confidente inseparabile, non appena avessi posto il piede nel chiostro. Mi vi trovava intanto da più ore, nè vedeva al mio fianco altre monache, che le due sorelle, da mia zia pregate di guidarmi nella visita. Chiesi a codeste quale fosse la monaca nominata Paolina: risposero essere una giovine, solita sempre a ricrearsi in compagnia di due educande. M'avvidi infatti d'averla incontrata nel mezzo di due giovinette, passeggianti nel chiostro; ed anzi mi maravigliai, che di tutte le monache fosse stata l'unica a non avvicinarmisi. Fatti altri pochi passi lungo l'arcato corridoio del pianterreno, la incontrammo novellamente; atteggiatami d'ilarità, le mandai da lungi il saluto con un sorriso, ma parvemi d'osservare che, in risposta, essa e le sue compagne si fossero scambiate sotto voce qualche parola in tuono beffardo: questo mi mortificò assai; ma non basta. Concettina mi domandò perchè avessi voluto sapere quale monaca fosse nominata Paolina, e dove l'avessi conosciuta: raccontai dell'ambasciata ricevuta. Si rammentò allora Checchina, che essendosi quella Paolina disgustata colle sue amiche, alcuni giorni prima, mi aveva mandato tale messaggio non per altro che per indispettirle, ma che poscia, rappattumatasi con esse loro, aveva lor promesso di non mai avvicinarsi a me, essendone le educande di già gelose. "Gelose!" esclamai stordita: "vi sono dunque delle gelosie fra voi!" "Eh, pur troppo, signorina! così non ve ne fossero!" risposero le sorelle in coro. "Misericordia!" soggiunsi: "ci sarà anche la discordia, inseperabile dalla gelosia." Strana infatti mi sembrò la gelosia fra donne, stranissimo e volgare il pettegolezzo della monaca Paolina, pestifera la discordia in una casa ermeticamente chiusa e non beneficata dagli influssi della rimanente umanità. Da quel primo sintomo di corruzione mi accorsi che avea da far con donne, le quali, benchè nobilissime per nascita, pur tuttavolta non avevano che l'educazione negativa delle loro proprie domestiche. Io aspettava la sera con ansietà per dare libero sfogo all'inquietudine che mi rodeva, credendo di avere una stanza tutta per me. Ma quale non fu la mia sorpresa nel vedere il mio letto collocato nella camera stessa della zia badessa, con al fianco un terzo letto destinato alla sua conversa! - Mi veniva pure intercettato il conforto della solitudine e delle lagrime! Mentre mia zia spogliavasi recitando delle preghiere sotto voce, io dovetti soffrire il tormentoso interrogatorio della converse. Questa donna, Angiola Maria di nome, aveva 32 anni in circa, era d'una costituzione ferrea, di voluminosa corporatura; tarlata dal vaiuolo, con bocca larghissima e denti neri; a questo insieme disgustevole aggiungeva, ora un riso agro e smodato, ora una cupa fissazione, con un rotar senza posa di due occhi squilibrati che sembravano pronti a balzare fuori dell'orbita. D'altronde scortese, disattenta colla mia vecchia zia, e molto petulante, allorchè questa interrompeva il suo eterno cicaleccio con un qualche rimbrotto. Finalmente si pose in letto, e prese sonno per lasciarmi sola coi miei tristi pensieri, sola nel mezzo d'un silenzio, da altro rumore non turbato che dall'isocrona battuta d'un orologio a pendolo. Io era di poco addormentata, vinta più dall'oppressione morale che dal sonno, quando sul far del giorno fui svegliata da Angiola Maria che voleva sapere da me se io voleva assistere alla prima o alla seconda messa. "Ormai sono desta," risposi traendo un sospiro: "assisterò a quella messa che piacerà a te." La conversa mi diè mano a vestirmi, non cessando sempre di ciarlare: poi, presami confidenzialmente per la mano, nel modo che è menato un cieco, mi fece scendere al comunichino, dove trovai riunite parecchie monache nell'atto d'ascoltare la messa e di comunicarsi. Alle 10 venne mia madre: la ritrovai assisa nel parlatorio. Al primo vederla proruppi in pianto stemperato. Le dissi essere infelicissima in un luogo, la cui inoperosa e stupida reclusione era, a parer mio, più insoffribile della stessa prigionia: tremendo martirio per me dover esser quello di convivere con gente non meno ignorante, che ineducata: che già parlavano di farmi monaca: ch'io presentiva di dover perdere la salute, com'era in procinto di perdere la libertà, dovendo dipendere finanche dal capriccio della conversa di mia zia, la quale mi voleva far alzare prima di giorno, per trattenermi un'ora in chiesa, esposta ad un freddo insopportabile, ad un disagio che m'avrebbe fatta prendere a noia la preghiera stessa. Stava per rispondermi la madre mia, quando entrò la portinaia, ed in seguito accorsero altre monache per salutarla. - Dopo di avere scambiati alcuni termini di cortesia, diss'ella di voler andare ad ascoltare la messa in san Lorenzo, e che più tardi sarebbe ritornata. Uscì dunque del parlatorio, ed io, attendendola, mi trattenni fuori del corridoio, immersa nel sentimento dell'abbandono, in cui slanciata mi aveva una dura fatalità. Scorse un'ora, un'ora e mezza, ne scorsero due, mentre io misurava a passi lenti il pavimento del corridoio, e frattanto non la vedeva ritornare. Dolente del suo ritardo, mi volsi alla portinaia, pregandola di mandare alla vicina chiesa di San Lorenzo una delle tante donne che se ne stavano oziose all'atrio del monastero, per sapere la ragione che impediva mia madre di ritornare. La portinaia, presami la mano, mi disse: "Abbi pazienza, cara mia.... per amore o per forza bisogna trangugiare questo calice...." "Di qual calice parli?" le chiesi spaventata, e col presentimento di qualche nuova sventura. "Ti dico che mia madre tarda a tornare, e vorrei conoscerne il perchè." "Inutilmente l'aspetti." "Perchè?" "Tua madre è già partita alla volta di Reggio." Se la portinaia non mi avesse sostenuta pel busto, sarei caduta in terra. Per lunga pezza restai pietrificata. Ben sapeva io che la madre doveva lasciarmi, ma perchè mai partiva l'indomani della mia chiusura? perchè partiva senza avvertirmene? I miei nervi, scossi già di troppo da tanti dispiaceri, non poterono resistere a quest'ultimo colpo. Fui assalita da convulsioni. Quand'ebbi ricuperati i sensi e riaperti gli occhi, mi vidi circondata da uno stuolo di monache, di converse, di educande, tutte straniere a me, tutte intente a pascere l'ozio, la curiosità, l'apatia, proprie alla loro condizione, nello spettacolo del mio abbattimento. Chi bisbigliava di qua, chi commentava di là, chi dell'altra parte componeva il viso al sarcasmo; non una sola di esse che mi volgesse un accento di sincera carità. Il medico Ronchi, che allora entrava nella porteria, essendo uno dei curanti della comunità, mi fece somministrare pronti rimedi. La febbre, che mi sopravvenne mi confinò in letto per più d'una settimana. Quando il destino è avverso, concatenate vengono le disgrazie. Di lì ad un mese incominciai a, persuadermi ch'era pur troppo reale anche l'abbandono di Domenico. Nutriva, sino allora in quel mio sepolcro la dolce speranza, non solamente di ricevere qualche sua lettera, ma, sì ancora di vederlo ritornato in Napoli, e farsi il mio liberatore. Se uguale al mio era l'affetto suo, se generosi sentimenti albergavano nel petto suo, se la voce dell'umanità gli favellava in cuore, se la reminiscenm della mia verace e costante devozione poteva nell'animo suo, più che il vile interesse, come avrebb'egli tollerato ch'io cadessi vittima, della giuratagli fedeltà? Quanta volte guardai dal coro della chiesa per vedere se vi era! Quanta volte dall'alto dei belvederi con febbrile ansietà slanciai lo sguardo in cerca di lui lungo le vie circonvicine! Spesso, delusa dalle sembianze, dall'andatura, dal vestiario di chi parevami che gli somigliasse, mi sentii in procinto di svenire, credendo che giunto fosse il momento del mio riscatto. Ma, ohimè! nè egli direttamente m'indirizzava due linee, nè mia madre nelle sue lettere mi faceva motto di lui. Vedeva di tratto in tratto Giuseppina, ma la presenza di questa diletta sorella, non faceva ogni volta che aumentare le cagioni del mio dolore. L'infiermità alla gamba, provocata, dalla caduta, erasi col cambiamento dello stato dichiarata incurabile, talchè, per muoversi, la misera era costretta di appuntellarsi alle gruccie. Veniva pur talvolta a porgermi pietoso conforto il generale Salluzzi, cui tributo figliale gratitudine. Gli altri parenti, l'amante, gli amici, non si rammentavano più dell'orfana. Sarebbesi detto che già un abisso mi separasse dal mondo intero, a dispetto de' concenti umani, che tuttora echeggiavano teneramente dentro l'animo mio. Se non che, nel mezzo di tanto abbandono, una consolazione sublime rattemprò le mie pene: l'elevazione dello spirito a quel Dio della carità, che volle nascere, vivere e morire, non già per i muti orrori del deserto, per l'inanimata solitudine, ma sibbene per la salute dell'umanità, in civile e vasto consorzio tenuta da una sola ed indivisibile legge di connessione. Una sera di febbraio mi trovai sola sul terrazzo. I raggi del sole morente non isplendevano più che sulla cima del Vesuvio e sulle vette di Castellammare, le cui nevi ripercuotevano un chiarore, che respingeva il progresso dell'oscurità. Regnava, intorno un insolito silenzio; lo schiamazzo del carnevale aveva attirate le genti ne' centri più frequentati della città, per modo che il quartiere di San Lorenzo, ove ergesi il monastero, restava del tutto spopolato. Non giungeva, all'udito mio che l'eco spirante delle popolari esultanze, siccome fragore di mare lontano. Una commozione novella m'invase: all'aria libera sotto l'immensa vôlta del firmamento mi sentii sola, è vero, come prima, ma non isolata. La voce del Signore m'appellava alla contemplazione della sua misericordia. Piegai il ginocchio a terra, giunsi le mani, sollevai al cielo le pupille bagnate di pianto, ed invocai l'aiuto dell'Onnipossente. "E che son io?" esclamai, rialzatami poscia e tergendo le lagrime; "che sono i miei patimenti in confronto a quelli della nazione cui appartengo? Se sotto il doppio giogo della temporale e della spirituale tirannide langue l'Italia intera, pretenderei io, atomo incalcolabile, io sola fra tanti milioni di oppressi, consumar la vita nei contenti e nella prosperità?"

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