Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Racconti 1

662676
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1877
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Quegli occhi neri e grandi però erano improntati d'una mitezza ineffabile: quelle labbra, tumide e sbiadite avevano però un invincibile fascino, se sorridevano, se parlavano, se davano baci; quelle mani, né grosse né piccoline, ma elegantemente modellate, dalle ugne rosee, dalla pelle fina, morbide e tiepide di un tepore sempre uguale, erano però cosí affettuosamente carezzevoli, che, una volta toccate e strette, uno non avrebbe voluto abbandonarle piú. La sua persona e ra simile a quelle di molte altre per isveltezza e per statura, se non che aveva una rara semplicità di movenze e di gesti. Eppure! ... Ma questo qualcosa di caratteristico che la distingueva era cosí sottile, cosí sottile da sottrarsi a qualunque analisi. Ne avevo una coscienza confusa: ne provavo una sensazione inesplicabile. Nessun'altra donna era mai penetrata cosí addentro nel mio cuore, né v'aveva mai esercitata cosí potente azione. La lontananza rinfocolava l'affetto, invece di spandervi cenere so pra. "Tu dunque ti contenti dei sogni?" ella mi scrisse una volta. Infatti era cosí. Dopo le impazienze e le smanie dei primi due mesi, non le parlavo piú del mio ritorno, non lo affrettavo coi voti, non computavo piú i mesi, le settimane, i giorni, le ore che si frapponevano inesorabili fra lei e me. Il giornale dei sogni, all'ultimo, aveva talmente invaso le mie lettere, prendevo tanto gusto nel notare quella vita fantastica a cui già s'era ridotta la felicità della mia forzata solitudine, che scrivendo provavo talvolta l'impressione di occuparmi d'un romanzo bizzarro, d i un poema in prosa, di un'opera d'arte insomma, piú che di scriver lettere a una persona amata e lontana. Ella non me ne faceva rimprovero "Giorgio! Giorgio mio!" Mi sembrava piuttosto sorridesse compassionevolmente, e non senza una certa soddisfazione di sentirsi adulata in quel modo. Soltanto una volta, dopo la narrazione d'un sogno che avevo chiamato il sogno dei sogni, tanto mi era parso meravigliosamente bello, ella mi scrisse: "No, caro; il sogno dei sogni sarebbe la realtà, se tu fossi qui." E la sua risposta mi fece male. Allora ignoravo gli effetti dell'azione dei profumi su l'immaginazione durante il sonno; ignoravo che un osservatore curioso era riuscito, prima di me, a crearsi sogni determinati, complicati, con l'aspirare diversi profumi ai quali era legato il ricordo di qualche cara persona. Credevo anzi che il vero provocatore di quei magici effetti, che mi stupivano e mi si erano ridotti indispensabili, non fosse precisamente il delicato profumo d'elitropio bianco preferito da Silvia, bensí quello, piú gentile e piú i mmediato, della sua mano, che doveva comunicarsi ai fogli da lettera nel non breve contatto, mentr'ella riempiva le otto o dieci paginette con la sua scrittura rotonda e chiara. Per ciò fui non poco meravigliato una mattina che mi svegliai senza aver sognato niente. E la mia meraviglia si accrebbe nei giorni seguenti, vedendo continuare la incresciosa interruzione. Scrissi a Silvia una lettera affannata, piena di sospetti, di paure, di gelosie. Ero diventato superstizioso. Rileggendo piú volte, al solito, l'ultima letterina, m'era parso di scorgervi tra le righe qualcosa che non mi era mai balzato agli occhi fino allora: una certa freddezza che non poteva piú dirsi l'affettuosa rassegnazione alle dure circostanze per le quali dovevamo vivere divisi parecchi altri mesi. Tempo addietro mi aveva parlato d'una corsa di un giorno in un paesetto vicino a quello dove il mio ufficio d'ingegnere mi teneva relegato; imprudenza da parte sua, ma ch'ella pareva assolutamente risoluta di commettere per verificare se le volevo davvero il bene che le mie lettere affermavano. "Non mi fido delle tue parole; questa sequela di sogni mi rende incredula." Poi, non me ne aveva piú parlato. Le rammentai quel suo progetto. Rispose: "Avevi ragione; sarebbe stato un'imprudenza. Non voglio crearti impicci: non voglio compromettere, per un breve godimento, la nostra felicità avvenire. L'ora del tuo ritorno si avvicina ..." E la lettera seguiva, fantasticando le pazze gioie di quell'ora. Come non m'ero accorto ch'ella aveva mutato profumo? Lo scopersi una mattina allo svegliarmi rattristato dal brutto sogno, dov'era inattesamente comparsa un'altra persona amata cinque o sei anni avanti, che mi era costata molte angosce, che mi aveva messo al terribile repentaglio di commettere o una viltà o un delitto, e alla quale non potevo mai pensare senza sentirmi correre un fremito da capo a piedi. L'avevo dimenticata da gran tempo ... Fu cosí che riconobbi la sostituzione dell'iride fiorentina all 'elitropio bianco. L'iride era il profumo dell'altra. Scrissi a Silvia rimproverandola, e aggiunsi: "Non posso soffrire l'iride. Se mi vuoi bene, bandiscila subito." Ma quando le lettere tornarono ad odorare di elitropio bianco, dovetti finalmente convincermi che qualcosa era venuto meno dentro di me, o tra me e lei; e n'ebbi strazio acutissimo. Sentivo un gran vuoto nel cuore e, nello stesso tempo, una specie di stanchezza dell'amore e di lei; stanchezza, anzi sazietà, che conoscevo per prova, avendola sperimentata altre volte. Quantunque continuassi, prima di addormentarmi, ad aspirare il profumo dei fogli, i rari sonni avvenivano rapidi, sconnessi, quasi l'immaginazione fosse stanca e sazia anch'essa pel gran lavoro di tanti mesi. Dal tono delle lettere, ella si avvide del mio cambiamento, e se ne mostrò afflittissima. Negai; non volevo farle dispiacere ... "Giorgio! Giorgio!" Ora mi tornava insistente nell'orecchio la piú desolata delle sue inflessioni di voce al momento dell'addio; alla mia compassione s'univa un po' di rimorso. "E i tuoi sogni?" ella mi domandò una volta. Ne inventai, per consolarla, per nasconderle la realtà di quel che provavo dentro di me. Avevo vergogna di mentire in tal modo, eppure continuavo a mentire. Mi confortavo, pensando che la vicinanza avrebbe fatto sparire l'atonia del mio cuore. Le sue lettere, dopo che ne rilessi parecchie per confrontarle, per vedere se mai fosse avvenuto in lei qualcosa di simile, e se mostrassero anch'esse ombra di stanchezza e di sazietà, mi parvero uguali, affettuose, tutte con quell'aria di delicata rassegnazione che tanto mi piaceva. O dunque? Il mio ritorno era prossimo. Ci pensavo con curiosità piú che con altro sentimento; cercavo di antivedere quel che sarebbe accaduto al nostro incontro. Ora mi osservavo freddamente, ragionavo intorno alle mie impressioni. Studiavo il fenomeno dei miei sogni, e mi pareva di trovare in essi il bandolo che doveva guidarmi verso l'esatta spiegazione del mio caso psicologico. - C'è stata - dicevo - una semplice inversione. Quel che sarebbe naturalmente accaduto nella vita ordinaria - il lento maturarsi, l'affievolirsi dell'amore, la sua totale sparizione - per una serie di bizzarre circostanze, è avvenuto nei sogni. Identico processo; identico risultato. Nell'ovvio andamento delle cose, la lontananza avrebbe prodotto il suo immancabile effetto. Sopravvenuta un'eccitazione casuale, che avea tenuto attivo il mio spirito, come avrebbe fatto nella vicinanza il contatto di Silvia, la passione aveva proseguito il suo corso ordinario. Che questo fosse seguito nello stato di sogno invece che nella veglia, non voleva dir niente; non c'era discontinuità nella mia vita. Ed io, con grande stupore, mi trovavo nello stesso caso in cui mi sarei trovato se fossi rimasto sempre vicino a Silvia; solamente le circostanze esteriori sarebbero state diverse. Confesso che questo mi faceva dispetto. Mi sentivo defraudato. Non rimpiangevo il mio amore; mi offendeva il modo con cui mi era stato tolto. Mi irritava, sopra tutto, il pensiero che la medesima cosa poteva esser avvenuta in lei, quantunque dalle lettere non trasparisse; ma traspariva forse dalle mie? Non m'ero affaticato a mettere in esse tutta la pietosa ipocrisia di cui è capace una creatura umana raffinata dall'educazione, dirò anzi, sofisticata dalla civiltà? Eppure non scusavo la povera Silvia. Incon seguente - me n'accorgevo - provavo contro di lei un vivo rancore, quasi mi avesse vilmente tradito, ed io le fossi rimasto immutabilmente fedele. Mi aveva scritto che sarebbe venuta alla stazione; da un cantuccio, per non essere scorta da qualche persona conoscente, voleva vedermi scendere dal vagone e darmi il bene arrivato anche non vista da me. Mi avrebbe seguito o preceduto a casa, secondo le circostanze. Non venne né alla stazione, né a casa mia. Mi scrisse lo stesso giorno del mio arrivo, per iscusarsi. Ci vedemmo due giorni dopo. - Sognerai piú? - ella disse, ridendo. Feci una mossettina con le spalle. Non mi pareva lei. Gli occhi, le labbra, le mani, la voce ... nulla, nulla della mia Silvia di otto mesi avanti! E odorava di quella odiosa iride fiorentina! Ella non ci aveva badato, venendo. Allora capii che soltanto la carta da lettere della nostra corrispondenza era stata profumata d'elitropio bianco per farmi piacere, proprio come, per non dispiacerle, io avevo inventato tanti sogni! Roma, 31@ 31 gennaio 1890@. 1890.

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