Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIFI

Risultati per: abbandonarla

Numero di risultati: 2 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

Questioni politico religiose

645939
Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Niun partito confesserebbe mai di non averla a sé favorevole: la vorrà dunque avere per sé anche il partito del governo, né questo sarà perciò sicuro segno che l' abbia. « Ma noi nel nostro sistema intendiamo che l' opinione pubblica debba essere la prima regola del governo, e che il governo non possa mai abbandonarla ». E che? dopo aver abolite tutte le obbligazioni della morale e della religione, vorreste forse imporre voi stessi al vostro governo un' obbligazione. Non si riderà di voi, come voi vi ridete della morale e della religione? Il vostro princìpio non ammette temperamento. Se al governo attribuite un' assoluta Autonomia, statevi dunque zitti, che il vostro sistema è qui tutto; non potete aggiungere una sola parola di più né una condizione; dovete lasciargli fare quello che vuole, perché se gli imponeste la più piccola obbligazione, già con questo gli avreste tolto l' Autonomia. Il voto delle Assemblee Parlamentari . - E` egli certo che le assemblee parlamentari rappresentino la nazione? - Tutto ciò che di più favorevole si possa dire delle assemblee parlamentari, si è ch' esse rappresentino la maggioranza della nazione. Ma se questa maggioranza si crede indipendente da ogni legge morale e religiosa, e se il solo arbitrio della medesima deve esser legge, che cosa se ne avrà se non la tirannia della maggioranza? e per poco che altri conosca la storia delle assemblee parlamentari, e abbia osservato che cosa possono produrre cotali macchine governative, si persuaderà della verità di quello che molti pubblicisti asseriscono, cioè che di tutte le tirannie la peggiore è quella della maggioranza. Le minoranze non possono essere protette che da una potenza morale: tolta dunque questa, e proclamato il princìpio, che il solo arbitrio e la sola Autonomia della maggioranza governi, le minoranze sono alla loro mercè, al loro capriccio. Niun avvilimento, niuna servitù, niuna oppressione è simile a questa. Il Sismondi non vede altro temperamento nei sistemi costituzionali, che lo spirito di una reciproca conciliazione. Ma dove si stabilisca in principio che il governo non riconosca altra autorità che la propria, e non dipenda da una legislazione superiore, qual è la morale e la religiosa; che conciliazione si può concepire? Quella sola tutt' al più per la quale colui che ha in mano il potere, vede riuscirgli utile ad accrescere o a conservare lungamente questo stesso potere, questo potere, dico, del tutto arbitrario. Ma la supposizione da noi fatta, che la maggioranza nel Parlamento rappresenti la maggioranza della nazione, non si verifica sempre, e ad ogni modo è un puro accidente che si verifichi. Non s' è trovata ancora una legge elettorale, che guarentisca questo risultato. Me ne appello agli uomini di Stato più perspicaci; i soli cangiamenti continui della legge elettorale, che si succedono a poca distanza l' uno dall' altro, e la critica che subisce ciascuno di essi, ben lo provano ad evidenza. E poi, nell' esecuzione, chi non sa che cosa voglia dire la lotta dei partiti? Fu detto che il governo costituzionale è la guerra incruenta: guerra certo, benché non sempre incruenta; ma appunto perché guerra, vince chi può più, e può più il partito più audace, più risoluto, quello che ha meno ritegni morali, il quale di solito è uno de' partiti estremi. Allora questo è la nazione, cioè quella nazione che si dice rappresentata da' Parlamenti. La verità si è, che non è punto la nazione, ma è un pugno di gente astuta e violenta, che espila a suo pro la nazione, che la lacera e la corrompe, e che tuttavia prende il suo nome e incorona questo bel nome usurpato con l' aureola d' un altro bel nome, usurpato pur esso e mentito, quello di libertà. Niuno dunque degli espedienti, che con abuso d' ingegno, si cercano o nell' equilibrio delle forze, o nei calcoli dell' utilità, o nella potenza dell' opinione, o nella numerosità di quelli che influiscono nelle deliberazioni governative, possono aggiungere un temperamento sufficiente alla Autonomia dello Stato, quando per Autonomia s' intenda un potere assoluto di far leggi, e di governare in un modo indipendente da ogni altra legge e autorità superiore, morale e religiosa. Questa Autonomia è dunque il nudo arbitrio, l' essenza stessa dell' assolutismo, la tirannia eretta in un sistema che da alcuni si chiama liberalismo. Che se poi a questa parola tanto di frequente adoperata di Autonomia si dà un altro significato, non saremo certamente noi quelli che la neghino allo Stato. Lo Stato, come qualsiasi umano individuo, in ogni sua operazione, come abbiamo già detto, deve proporsi, prima di operare, due questioni diverse, l' una riguardante la giustizia e la moralità, l' altra l' utilità. Questa seconda è di sua natura subordinata alla prima. Lo Stato, come qualunque individuo, non può fare cosa alcuna, che giudichi a sé utile, se prima non si sia assicurato che la cosa è onesta, e onesto il modo di farla. Prima si ascolti il consiglio di Aristide, e poi quello di Temistocle. Per attignere ciò che appartiene all' onesto, deve lo Stato accostarsi ad altri fonti, e ad altri per attignere ciò che è utile. Ora né questi fonti possono essere confusi insieme, né può essere confuso l' utile con l' onesto. Se si domanda che cosa sia l' onesto per tutti quelli che professano la Religione Cristiana Cattolica, che cosa sia l' onesto secondo i princìpii di questa religione, che sparse sull' onesto cotanta luce, che ne dilatò i confini, che lo innalzò sopra tutte le cose, e lo dichiarò quella sublime ed altissima potenza, da cui dipende tutta l' umanità e il fine di tutto l' universo, si avrà bene spesso una risposta diversa da quella che si otterrebbe risolvendo la domanda secondo altri princìpii meno perfetti e meno elevati. Certo un uomo che professasse il paganesimo, o un filosofo che professasse l' ateismo, vi dichiarerà cosa onesta quello che il figlio della Chiesa Cattolica e il discepolo di Gesù Cristo pronuncierà essere turpissimo e inonestissimo. Ora quello che a noi più di tutto interessa, si è di sapere che cosa sia onesto o inonesto, giusto od ingiusto, lecito od illecito, morale o immorale, per un cristiano cattolico. Questo si desume, sia dall' insegnamento scritto o tradizionale, sia dalla viva voce di quella autorità che ha istituito Gesù Cristo nel mezzo del genere umano e che si chiama Chiesa Cattolica. Rispetto dunque a questa dottrina, e rispetto a questa autorità vivente, e che persevererà nel mondo fino alla fine dei secoli secondo la promessa di Cristo, niun governo civile è autonomo. Tale è indubbiamente il dogma del Cristianesimo. Ma risoluta una volta questa questione dell' onestà, il governo civile, per tutto ciò che riguarda l' altra questione subordinata dell' utilità, ha una pienissima Autonomia. Che cosa dunque si dovrà dire di quelli i quali, come foste de' fanciulli, vogliono spaventarvi con la parola di teocrazia, quasi come con la befana? Ecco il discorso che vi tengono: « Volete far ritornare il mondo al medio evo: volete sacrificare i progressi della civiltà moderna: volete aggiungere al pastorale la spada: volete confondere le cose sacre con le profane: volete che il governo si renda schiavo dei preti... ». Ma dove mai correte con la vostra immaginazione riscaldata? Noi non vogliamo nulla di questo: noi non vogliamo confondere, ma distinguere: vogliamo distinguere quello che voi confondete: voi confondete il bene col male, l' onesto con l' utile, e noi vogliamo stabilire quella separazione che queste due cose hanno in natura: voi volete confondere i poteri, volete che il potere dello Stato giudichi ad un tempo dell' onesto e dell' utile, ed anzi che sacrifichi l' onesto all' utile; e noi vogliamo, che altro sia il potere che giudica dell' onesto, ed altro il potere che giudica dell' utile. L' onesto, essendo una cosa eterna e divina, non può avere per giudice altro che un' autorità divina, qual è quella istituita da Gesù Cristo nella sua Chiesa; l' utile poi, essendo cosa umana, può essere benissimo oggetto di un' autorità umana, qual è quella del governo civile; vogliamo quindi lasciare alla Chiesa il suo, e allo Stato il suo. E poi non siamo noi che stabiliamo questo: perché questi non sono altro che i princìpii della religione cristiana cattolica, e questi princìpii non li abbiamo inventati noi, né possiamo noi mutarli. Noi diciamo solamente una cosa di fatto, diciamo che tale è la dottrina necessaria e inevitabile della Religione Cristiana: tali per conseguente sono i princìpii di quelli, che professano questa religione. Non volete voi professarla? sarà questa un' altra questione: l' abbiamo già detto prima, che chi non professa la Religione Cristiana deciderà in altro modo le questioni che discutiamo: abbiamo detto, che un pagano e un ateo verrebbero ad altre conclusioni, così proporzionatamente un eretico. Non si tratta di convincervi che la Religione Cristiana Cattolica sia vera o falsa, perfetta o imperfetta: si tratta di sapere che cosa consegua logicamente, secondo i princìpii di questa religione, intorno all' Autonomia dello Stato; ed è indubitato, che consegue quello che abbiamo detto, cioè che lo Stato non ha punto né poco un' Autonomia assoluta, essendo egli obbligato di seguire intorno al giusto e all' onesto, in tutta la sfera che abbracciano queste parole, un' altra legge anteriore alla sua e un' altra autorità, che è quella di Cristo e della sua Chiesa. Se voi dite che questa dottrina è del medio evo, noi vi rispondiamo, che è di tutti i tempi; perché la dottrina di Gesù Cristo e della sua Chiesa è immutabile, e durerà sino alla fine del mondo; vi rispondiamo ancora, che fu certamente anche del medio evo questa dottrina, perché anche allora si professò la Religione Cristiana, ed essa fu quella che nel medio evo concepì, e più tardi partorì la civiltà europea, di cui noi godiamo. Il corso di questa civiltà non può dare indietro, e di questo è prova luminosa questo fatto, che ella resse al terribile urto di quella rivoluzione che scosse l' Europa negli ultimi anni del secolo scorso, nella quale gli atti dell' empietà, della barbarie, dell' impudicizia, e d' una inumana crudeltà toccarono gli ultimi eccessi. Dall' immondo vortice uscirono allora a nuova vita le idee pagane: si voleva far tornar il mondo indietro di venti secoli, distruggendo gli acquisti inapprezzabili che aveva fatto l' umanità per mezzo del Cristianesimo. Ma tutto indarno: la marcia trionfale di questo non si arresta per gli sforzi impotenti dell' orgoglio umano, come non si arresta il sole nel suo corso al gracidare delle ranocchie. Le sole menti più deboli vacillarono, e molte ce ne restano ancora di ammalate e di convalescenti. Voi dunque, signori miei, prendete un equivoco chiamando progresso della civiltà uno sforzo, com' era quella rivoluzione, di farla retrocedere; e prendete alcune dottrine tendenti a imbarbarire il mondo, come fossero le massime della civiltà stessa. E questa civiltà appunto, e il vero bene, il vero progresso dell' umanità, è quello che richiede che ogni governo civile e specialmente costituzionale sia sottomesso alle leggi della morale, e da queste sia temperato il suo potere. Né il governo civile potrebbe mai essere veramente sottomesso a tali leggi, se non ci fosse nel mondo costituita da Dio una autorità reale e vivente, atta ad insegnarle e dichiararle con ogni sicurezza, o non fosse da lui riconosciuta. Senza una tale autorità morale e spirituale, che contrabbilanci l' immensa forza bruta, accumulata in alcune mani, sieno queste poche o molte, non si sarebbe mai potuto rimediare all' incomodo gravissimo che trae seco di necessità un governo civile, cioè il pericolo della tirannia. Questo rimedio e questo mezzo di emendazione non fu trovato, né si poteva trovare avanti Gesù Cristo: quindi fino allora durò la burbanza dei superbi dominatori, e le tirannie e le oppressioni non ebbero misura. Ma il consiglio e l' intendimento di Gesù Cristo, secondo un divino decreto eterno, fu quello di provvedere e di soccorrere da tutti i lati e sotto tutti gli aspetti all' umanità che egli redimeva. Eresse dunque, egli che solo il poteva, un magistero e un tribunale altissimo di morale sopra la terra, a cui promise immancabilmente assistenza; e poi facendo entrare le nazioni nella sua Chiesa, le accolse a questa condizione, che i loro imperanti e i loro civili governi, ed esse stesse le nazioni intere ed i popoli i più potenti, rinati nel suo battesimo, piegassero la fronte e prendessero la legge della perfetta giustizia, umiliati a quel magistero e a quel tribunale. Così governi civili divennero giusti, onesti, mansueti, benefici, promovitori del bene di tutti, e questo è l' unico santissimo fondamento della civiltà e della libertà civile e politica. Fu provveduto in questo modo al povero popolo, provveduto ai deboli, a tutti; su questa via solamente sta il progresso civile ed umanitario, e sono possibili le costituzioni. Solo quelli che ripugnano ad una tale dottrina, qualunque sia il lenocinio delle loro parole, sono i nemici del progresso, della libertà, dell' incivilimento, i nemici pur troppo infaticabili dell' umanità, i veri autori e fautori della servitù e della tirannia. Accordiamo dunque ai governi civili anche noi, per dirlo di nuovo, la loro Autonomia, l' Autonomia nella sfera dell' utile, sfera subordinata a quella dell' onesto. E` dunque anche per noi, ed anzi per noi soli, interamente distinto il potere dello Stato e il potere della Chiesa. Il potere dello Stato è assoluto rispetto all' utile, che forma il suo fine immediato, ma a condizione che l' utile sia subordinato all' onesto. Il sacerdote non deve entrare, come sacerdote, punto né poco in questa sfera dell' utile, perché non è sua. Le due potestà dunque hanno i loro proprii oggetti distintissimi e inconfusibili: ma tuttavia subordinati. Questo non è soltanto conseguente ai princìpii della cristiana dottrina; ma, anche in sé stesso considerato, è razionale, vantaggioso, necessario all' umanità, e desiderabile che fosse vero, quando pure non lo fosse. Abbiamo escluso il sistema d' assoluta separazione dello Stato dalla Chiesa, come affatto inconciliabile con il Cattolicismo. Coloro che, lasciandosi governare dalla fantasia, si compiaciono di rappresentare lo Stato e la Chiesa come due pianeti che percorrono orbite diverse senza mai incontrarsi, non si dimostrano soltanto mancanti de' princìpii proprii della questione, per la soluzione della quale si consigliano di ricorrere all' astronomia, ma si chiariscono ugualmente imperiti di questa ultima scienza. Infatti per appigliarsi ad una similitudine di tal fatta conviene dire che del tutto ignorino come niuna parte del sistema planetario sia disgiunta o indipendente dall' altre, e come i pianeti non percorrerebbero le diverse loro orbite con tanta regolarità, se nel bel mezzo di essi non ci fosse il sole, che con la sua attrazione ne determinasse loro il corso, e nel debito ordine, aggirantisi a sé d' intorno, li mantenesse. Che due governi che abbiano sudditi diversi possano conservar l' indipendenza reciproca e una totale separazione di leggi e d' atti, questo certamente s' intende. Ma che due governi che hanno gli stessi sudditi possano imporre a questi, senza aversi alcun riguardo reciproco, varie leggi ed obbligazioni, negandosi che possano nascere collisioni, e supponendo in pari tempo che i sudditi, nel caso che nascano, possano ubbidire contemporaneamente ai due contrarii comandi, questo è così impossibile, che lo vedono gli stessi fanciulli. Conviene dunque lasciare da banda il sistema dell' assoluta separazione dello Stato dalla Chiesa; e poiché, lasciato questo sistema, rimane che lo Stato e la Chiesa devano procedere con una certa relazione armonica, resta che al presente cerchiamo quale deva essere l' armonia che accordi tra loro le leggi e gli atti de' governi civili, e le leggi e gli atti della Chiesa Cattolica. Circa questa questione sono stati inventati, e più o meno praticati, tre sistemi, che noi chiameremo, il sistema d' immistione , il sistema d' alleanza e il sistema d' organismo . Nel sistema d' immistione le due potestà si confondono: lo Stato entra in molte di quelle cose che appartengono alla Chiesa, la Chiesa in molte di quelle cose che appartengono allo Stato. Questo fonda sulla supposizione che ci sieno delle materie veramente miste. Altri negano che queste materie miste ci sieno, tra i quali monsignor Affre, il glorioso martire della carità pastorale. Noi siamo dell' avviso di quest' ultimo. Possono bensì i due poteri determinare qualche cosa intorno ad uno stesso oggetto, ma sempre sotto un rispetto diverso; ed essendo diverso il rispetto, la materia delle due legislazioni, formalmente considerata, rimane già con questo distinta. Non si può dunque erigere in sistema il principio, che una delle due potestà, deva di necessità immischiarsi in ciò che appartiene all' altra; e se così accade per mutua concessione, questo non deriva dalla natura intrinseca delle potestà stesse, e si dee riguardare siccome cosa transitoria ed accidentale, né mai può erigersi in sistema. Tuttavia se le materie non sono miste, sono talvolta affini per le due ragioni già toccate, cioè perché le due potestà impongono le loro leggi a sudditi identici, essendo un identico uomo il cattolico e il cittadino; e perché gli stessi oggetti, sotto rispetti diversi, possono dar materia alle prescrizioni dell' uno e dell' altro potere. E` dunque chiaro, che il tracciare la linea di confine delle due giurisdizioni riesce in alcuni casi difficile: di che la necessità che i due poteri entrino tra loro in amichevoli e coscienziose trattazioni, affine di accordarsi e convenire sulla separazione delle due materie distinte sì, ma quasi impercettibilmente tra loro: e di qui conseguentemente la necessità de' Concordati (1). Ma da questo stesso apparisce, che il sistema d' immistione non è punto necessario, potendosi sempre le materie delle due giurisdizioni, con più o meno di cura e di studio, distinguere e separare. E la distinzione d' altra parte è dimandata sì dalla natura dei due poteri, sì dall' ordine e dalla chiarezza con cui devono entrambi procedere, e giova oltremodo alla conservazione del loro buon accordo, in conformità del volgare proverbio: « Conti chiari, amicizia lunga ». Il secondo sistema, che si suol chiamare d' alleanza , è quello secondo il quale le due potestà si obbligano ad aiutarsi reciprocamente, di maniera che le disposizioni dello Stato riescano vantaggiose al fine della Chiesa, e le disposizioni della Chiesa riescano vantaggiose al fine dello Stato. Sebbene questo sistema abbia tutta l' apparenza di esser utile ad entrambe le potestà, tuttavia noi lo crediamo inapplicabile e l' escludiamo del pari, come abbiamo escluso il sistema d' immistione. E` certo, che se le due potestà si mantengono dentro i propri confini, la concordia loro è immanchevole, e dai loro atti risulta naturalmente a ciascuna un reciproco vantaggio. Ma lo stabilire questo reciproco vantaggio, come la materia di un trattato espresso o tacito d' alleanza, invece di lasciare che esso nasca da sé spontaneamente per la natura stessa della cosa, lungi d' accrescere questo vantaggio medesimo, lo diminuisce; e molte volte lo impedisce e genera di più il pericolo, che ciascuna delle due potestà, uscendo dalla propria via, che diritta le scorge al proprio fine, per far troppo e quello che non le appartiene, faccia meno, e per giovare all' altra imperitamente, noccia a sé medesima. La Chiesa Cattolica è stata istituita da Gesù Cristo per dirigere tutti gli uomini in questa vita alla loro perfezione morale, e alla beatitudine nell' altra, per insegnar loro a non peccare, ma in tutte le loro relazioni, come individui e come membri di qualunque società, osservare la giustizia, l' onestà ed ogni virtù, e perciò le è stata data l' autorità di giudicarli, se peccano, e d' ammonirli e di castigarli; se ritornano poi in sé stessi ascoltando le sue parole, d' assolverli in nome di Dio dai peccati. Tutte le cose temporali, secondo la dottrina cristiana, devono subordinarsi a questo altissimo fine morale; ed è indubitato poi, che, mediante questa fedele subordinazione, gli uomini in complesso vantaggiano anche temporalmente; non che questo sia un fine diretto della Chiesa, ma è stato promesso da Gesù Cristo come un soprappiù, quando ha detto: « « Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno aggiunte » (2). » Laonde S. Paolo pure scrisse: [...OMISSIS...] Ma nel sistema d' alleanza si pretende che la Chiesa con le sue disposizioni influisca direttamente al bene dello Stato: almeno di questo sistema io parlo. Ora questo facilmente diventa un far servire le cose di un ordine superiore, come sono le religiose e le divine, ad un ordine inferiore; e questo è altamente riprovevole. Pure questo è quello che molti governi malavveduti, ostentando una falsa pietà, pretesero dalla Chiesa. Il sistema di questi governi conduce ai due funestissimi effetti, della corruzione del Clero, e dell' odio della religione da parte dei popoli. Se la religione fa direttamente e in proposito causa comune in tutto co' governi esistenti, egli è naturale che venga combattuta dai partiti e considerata anch' essa un partito politico, o come un istrumento politico. Allora essa non si presenta più ai popoli nella sua augusta maestà di religione e nella sua imparzialità e quasi impassibilità di giudice del bene e del male; ma travestita, ridotta negli angusti confini d' un interesse temporale, non più padrona del proprio giudizio, avente almeno l' aspetto di congiungere in sé le due qualità inconciliabili di giudice e di parte, è necessariamente presa a sospetto, disamata, disprezzata. In questo sistema d' alleanza, oltre di ciò, le scissure tra il potere temporale e l' ecclesiastico scoppiano all' improvviso e con maggior furore, come tra due alleati infedeli. Il governo pretende che la religione serva ai suoi interessi. Ma il governo talora è una usurpazione; l' usurpatore, quando è invalso questo sistema, pretende dalla Chiesa tutto ciò che pretendeva il governo legittimo. Posto che il governo sia legittimo, egli è certamente il giudice di quello che gli è utile e che gli è dannoso; pretendendo dunque di essere aiutato ne' suoi interessi dalla Chiesa, pretende di conseguenza, che la Chiesa riceva da lui la direzione, se l' assoggetta, esige che serva ai suoi capricci. Ma viene un tempo in cui la Chiesa non può, non vuole assolutamente farlo. Allora scoppia la scissura, ed anche la persecuzione: intanto il governo ha creato, per mezzo dei suoi uomini di legge, un diritto pubblico, in forza del quale egli vanta delle magnifiche ragioni, che hanno per base consuetudini o concessioni, o finalmente massime cavillose; e con un tale diritto fatto ad arte, insensibilmente introdotto, e già quasi riconosciuto, almeno in apparenza, vuol riconvenire la Chiesa del suo torto. Ma non regge questo sistema, neppur considerato da parte dei vantaggi che lo Stato si obbliga di recare alla Chiesa, mediante l' accennato trattato tacito o espresso di alleanza. Deriva bensì dalla natura del potere civile, che questo deve essere subordinato alla Chiesa nelle cose morali e religiose, in tutto ciò che riguarda il giudizio sul lecito o sull' illecito, ma non deriva nulla più di questo. Qualora il governo operi in modo che non entri mai con le sue leggi e disposizioni in niuna collisione coi giudizi e con le leggi della Chiesa, e che protegga i diritti religiosi de' cittadini, la Chiesa ne avrà vantaggio indubitatamente, ma in un modo indiretto. Se all' incontro il governo, oltre di tutto questo si propone di fare di più, eccedendo il suo mandato, nasceranno, almeno in certi tempi e in certe circostanze, molti incomodi sì per lo Stato, e sì per la Chiesa. Primieramente il governo civile non entra in questa via se non con la speranza e con la pretensione d' averne un ricambio corrispondente: vuole che i patti dell' alleanza sieno reciproci; e noi abbiamo veduto come ripugni alla natura della Chiesa il mettersi a disposizione dello Stato, ossia l' operare direttamente al fine di questo. Di poi lo Stato, occupandosi direttamente di un fine diverso dal suo, intorno al quale egli non è giudice competente, perde la sua naturale libertà e s' espone al pericolo di commettere molti errori, come s' è veduto, per parlare di cosa lontana, ne' governi teologizzanti del basso impero. Non è dunque migliore del precedente il sistema che abbiamo chiamato di alleanza, inteso in quella maniera nella quale noi l' abbiamo definito. Rimane il terzo, che abbiamo chiamato il sistema dell' organismo . Basterà esporlo brevemente per intendere, che esso è quello che nasce logicamente dalla natura delle due potestà, utile e decoroso ad entrambe e solo degno d' essere adottato. Questo sistema richiede che non rimangano confuse le materie soggette alle due giurisdizioni, e però esclude il sistema d' immistione: richiede che l' uno e l' altro potere conservi la sua libertà di operare dentro la propria giurisdizione, e però esclude il sistema d' alleanza. In altro non consiste tale sistema se non in questo, che i due poteri riconoscano ed osservino quelle relazioni fra loro, che escono dalla loro natura e non son sopraggiunte dall' artificio o dall' arbitrio, due cose che sogliono così facilmente alterare e guastare il bello e il perfetto ordine della natura. La natura de' due poteri, cioè la natura del potere della Chiesa istituita nel mezzo degli uomini da Gesù Cristo, e la natura del potere dello Stato istituito dagli uomini stessi che si aggregano in società civile, hanno di comune questo, che l' uno e l' altro potere intende ad unire e ad associare gli uomini. Associano gli stessi uomini in due società contemporanee e viventi sul medesimo territorio. Il potere della Chiesa unisce gli uomini in una gran famiglia di cui è capo Iddio, acciocché socialmente uniti, e con vari legami e mezzi interni ed esterni congiunti, tutti d' accordo, e ciascuno da sé, cooperino al bello e alla perfezione morale di ciascuno e di tutti. Il potere dello Stato, unisce questi stessi uomini in un altro modo e per un altro fine, che non impedisce l' altissimo fine della Chiesa: li unisce affinché abbiano tutela e regola i loro diritti reciproci, ed essi coesistano e convivano con sicurezza e pace e prosperità temporale tra loro. Egli è evidente, che questa seconda società con l' ottenere il proprio fine, lungi dall' arrecare nocumento, giova non poco alla prima società, cioè alla Chiesa di Gesù Cristo, che abbisogna di pace e di ordine e che desidera la felice e fraterna convivenza degli uomini. Ma di più è da considerarsi, che l' istituzione di questa seconda società, cioè della società civile, continua naturalmente e compisce l' opera della prima, considerata quest' opera come un' organizzazione dell' umanità. Infatti, la prima associa e organizza l' umanità relativamente alla sua perfezione morale. Ma l' umanità composta di spirito e di corpo, e bisognosa per la esistenza temporanea di mezzi esteriori, sente anche l' impulso d' associarsi e d' organizzarsi, per regolare pacificamente e col maggior vantaggio tutto ciò che riguarda tali mezzi, cioè i beni temporali; e questa è la ragione per cui ella si move ad istituire la società civile. Come dunque l' uomo è un individuo, così l' umanità, cioè l' unione degli uomini, aspira ad avere, propriamente parlando, una sola e individua organizzazione. Ma come l' uomo, benché individuo, è composto di due parti intimamente connesse, l' anima e il corpo, così parimente l' organizzazione dell' umanità risulta di due parti, che per la stessa natura della cosa hanno il più intimo nesso tra loro, e che si dicono la Chiesa e lo Stato, la società ecclesiastica e la civile. Queste società dunque, sebbene distinte e inconfusibili, non formano e non devono formare che una sola e perfetta organizzazione dell' uman genere. Ma l' uomo non poteva formare da se stesso la prima, la formò dunque il Padre del genere umano, Iddio: la formò Gesù Cristo, da lui mandato. La seconda società era tale, che poteva essere congregata dagli uomini, non eccedendo le loro forze: Iddio dunque ne abbandonò ad essi il lavoro. L' organizzazione della prima, cioè della società ecclesiastica, avendo per autore e capo Gesù Cristo, poté essere una e indivisibile per tutta l' umanità: la società civile, avendo per autori gli uomini stessi che si uniscono, ritenendo dell' imperfezione della causa, dovette dividersi in più governi o Stati limitati. E non di meno la Chiesa di Gesù Cristo nella sua magnifica universalità ed unità, onde riceve il nome di Cattolica, unisce nel suo seno e di nuovo organizza e moralmente avvincola i diversi Stati tra loro, formandone la Cristianità. Così, ordinati nell' umanità della Chiesa, anche gli Stati civili acquistano una specie di consacrazione, e partecipano in qualche modo di quella dignità che viene alla Chiesa dalla sua divina origine. Che se taluno sfugge ribelle, almeno per qualche tempo a questa mirabile armonica unione, non è da imputarsi il difetto dell' ideale disegno; ma parte alla malizia degli uomini che ricalcitrano al proprio bene, parte all' ignoranza che non lo intende o non lo abbraccia nella sua pienezza. Tale è indubbiamente la dottrina del Cattolicismo: né i Cattolici possono averne un' altra. Così s' avvera quello che disse San Paolo: « « Non c' è potere che non sia da Dio: ma i poteri che sono da Dio, sono ordinati » » l' ordinazione dei poteri è dunque un criterio dato dall' Apostolo, per riconoscere quali poteri si possono dire esser da Dio. Il sistema della totale separazione dello Stato dalla Chiesa, di cui noi abbiamo veduto l' erroneità e l' impossibilità, fu riprodotto sotto diverse denominazioni, tra le quali sotto una divenuta celebre, di sistema della legge atea . Questa questione nondimeno indica qualche cosa di più, perché esige che il legislatore civile, nel fare le leggi, non solo consideri come non esistente la Religione Cattolica, ma come non esistente in sulla terra né pure una religione qualunque. I fautori di questo sistema, sia che pretendano che il legislatore nella formazione delle leggi civili parta dall' ipotesi che non esista la Religione e la Chiesa Cattolica, sia che parta dall' ipotesi che non esista religione di sorta alcuna, il consigliano fondare le sue leggi sopra un errore di fatto , essendo un errore di fatto che tra gli uomini, pe' quali fanno le leggi, non esista religiosa credenza. Questa sola osservazione potrebbe sembrar sufficiente a dimostrare che il sistema della legge atea è contrario alla logica, alla ragion giuridica e al buon senso. Ed anzi sembra che non si possa trovare un pensiero più strano e più disordinato di questo, che le buone leggi devono essere basate sopra ipotesi, e queste erronee; e che il legislatore, per elevarsi al livello del presente secolo, sia obbligato a supporre che i fatti più luminosi e importanti dell' umanità e della società, uno de' quali è quello della fede religiosa de' popoli, non esistano punto. La cosa è così nuova, che riesce difficile fin anco a spiegare l' origine d' una teoria di questa fatta. E nel vero, per ispiegare come possa essere stata concepita, non basta né pure ricorrere all' ateismo dei suoi inventori. Poiché, se noi ci rivolgessimo a de' filosofi atei, ma del resto ragionevoli, e dimandassimo loro che cosa pensano d' un così fatto precetto che si dà ai legislatori civili, crediamo che ci risponderebbero: « Noi reputiamo che le religioni sieno de' meri pregiudizi, ma poiché esistono ed hanno profonde radici negli uomini, il savio legislatore dee avere ad esse quello stesso riguardo ch' egli ha alle altre condizioni di fatto in cui si trova l' umanità, agli altri istinti, passioni e forze interne, dalle quali gli uomini si lasciano movere e determinare alle loro operazioni ». L' ateismo stesso dunque, puro e solo, non avrebbe potuto inventare il sistema della legge atea. Che cosa dunque ci bisognava di più? Era necessario che all' ateismo si unisse l' odio della religione e degli uomini che la professano. Per quanto possa parere misterioso un tale sentimento, non se ne può negare l' esistenza in alcuni uomini, e solamente questa mostruosa passione è una causa sufficiente a spiegare come sia potuto cadere in mente umana il sistema della legge civile atea. La legge atea fa due cose: 1) Cancellando dai codici e dagli atti del governo ogni vestigio di religione, tende a distruggere tutte le religioni; 2) Venendo di necessità con la religione in frequente collisione, vessa e martoria tutti coloro che la professano. L' odio dunque della religione, che contiene in se stesso quello degli uomini, è lo spirito da cui uscì una tale dottrina. Ora l' odio d' Iddio e degli uomini non è per verità un felice ispiratore de' legislatori: l' odio di Dio e degli uomini non è quello che possa dare al legislatore un' intenzione retta che gli possa far conoscere e volere quel bene che è il naturale scopo della legge: ella è piuttosto una passione rea e truce, che perverte, agita, disordina la mente del legislatore medesimo, e in appresso lo rende subdolo, astuto, iniquo, sedizioso, traditore della società che gli è commessa, e che egli sacrifica alla sua irreligiosa passione. Il legislatore di questa scuola sta di continuo in sul timore che la secreta molla de' suoi atti sia discoperta; s' infinge e la ricopre con tutte le arti della simulazione e della ipocrisia. Egli di frequente ha in bocca questo già troppo vecchio sofisma: « Io non sono incaricato della religione, ma di procacciare con le leggi civili il bene temporale del popolo ». Il più leggero buon senso gli risponde: « Se voi non siete incaricato della religione, siete però obbligato a non recarle offesa: certo voi siete incaricato del bene temporale del popolo, ma a questa condizione, che badando al bene temporale non sacrifichiate ad esso quello che al popolo è ancor più caro, la sua religione ». Cotesti legislatori adunque sono sleali: secondo la loro passione irreligiosa interpretano il mandato ricevuto dal popolo contro l' intenzione del popolo. Sotto la coperta della massima « le leggi civili non sono leggi religiose », vi danno « leggi irreligiose ». Così è del tutto falso che cotesti legislatori prescindano dalla religione: anzi questa sta di continuo presente al loro pensiero: l' hanno presente, ma per distruggerla; e quand' essi vi parlano dello scopo d' un bene temporale puro e separato da ogni religioso elemento, rimangono convinti con ciò stesso, che nel formare in tal modo le leggi, il loro scopo è il progresso dell' empietà. La questione dunque svela così la sua indole: non si tratta più di sapere se la legge civile possa essere neutrale rispetto alla religione, neutralità che non esiste, ma si tratta di sapere se la legge civile deva essere religiosa ovvero irreligiosa, dovendo necessariamente e per natura della cosa aver l' una o l' altra di queste due qualità. Quest' origine del sistema che si dice della legge atea è confermata dalla storia. Le due grandi bandiere che dividono profondamente il genere umano, sono e sono sempre state la religione e l' empietà . Questo è un fatto umanitario che bisogna riconoscere e dargli tutta l' importanza che merita. Come non mancò mai una classe d' uomini cultori di Dio, così si perpetuò in sulla terra anche un' altra classe d' uomini che presero Iddio e le cose divine più o meno in odio, e con un' ira segreta o palese, che ha qualche cosa di portentoso e di oltrenaturale, cercarono con tutta la costanza e a forze unite, ogni qualvolta ebbero l' occasione e la possibilità d' unirsi, di propagare la propria empietà, aspirando a questo infernale intento, come al massimo de' loro desiderii, al più ardente de' loro voti. Quanto più l' umanità svolse di mano in mano le sue varie facoltà e propensioni, e con l' incivilimento divenne più molteplice e più scaltra nell' uso dei mezzi al conseguimento dei suoi fini, tanto più anche gl' inimici delle cose divine manifestarono d' astuzia e di potenza, e con associazioni e con sistemi sofistici tentarono di spingere avanti la malaugurata loro impresa. Di tutti questi sistemi sofistici, forse il più efficace, il più prudente e coperto, fu quello che essi applicarono al raffazzonamento delle società civili che dà materia alla nostra presente questione e fu chiamato la legge atea . Quello che è più singolare, e che dimostra come i sofismi possano allacciare anche delle menti non comuni e delle persone ben intenzionate, si è il fatto che alcune appunto di queste persone colte e sinceramente cattoliche abbracciarono e presero la difesa d' un sistema di tal natura; e a queste nostre parole non pochi forse si risovverranno d' un celebre giornale francese d' alcuni anni fa. L' inganno nasceva e nasce da questo, che tali persone suppongono sempre che la legge civile possa totalmente separarsi dalle cose religiose senza venire in alcuna collisione e contraddizione con le medesime. Ma questa è una supposizione interamente falsa, e che nasce da una imperfetta considerazione della legge civile, delle sue disposizioni e de' suoi oggetti. Non basta partire da una notizia astratta e confusa della legge civile: conviene vedere da vicino come ella è, conviene esaminarne con diligenza la natura. L' illusione infatti si dilegua, tostoché si considera la legge civile nella sua integrità, e fornita di tutti i suoi elementi essenziali. Quando dunque si medita sulla vera e compiuta indole della legge civile, allora si perviene ad una conclusione del tutto contraria alla precedente, la quale è questa. « Niuna legislazione civile può riuscire indifferente alle credenze religiose, ma sempre e necessariamente, in qualunque modo ella si faccia, riesce o amica o nemica alle medesime ». La verità di questa proposizione apparisce manifesta, tanto se si considerano le disposizioni che è obbligata a prendere la legge civile, quanto se si considerano gli oggetti , intorno ai quali ella non può astenersi dal disporre. 1) Infatti supponiamo prima, che la legislazione civile si possa astenere e si astenga dal disporre cosa alcuna riguardante la religione, s' astenga dallo stabilire premii o castighi all' osservanza o all' inosservanza di religiosi doveri: che si restringa ad oggetti puramente temporali, la difesa personale, l' ordine pubblico, la tutela delle proprietà e cose simili. Questa legislazione riuscirà essa per ciò indifferente alle religiose credenze? E` facile accorgersi che né pure una tale legislazione sarà indifferente, ma riuscirà anch' essa necessariamente o amica od ostile alle medesime. Restringiamo il nostro discorso per intanto alla Religione Cattolica. Egli è evidente che gli autori d' una tale legislazione nel compilarla hanno potuto prendere per loro norma due princìpii diversi, cioè o il princìpio « di prescindere dalla Religione Cattolica, come se non esistesse al mondo »; o il princìpio « di restringersi bensì agli oggetti non religiosi, ma di stare avvertiti nello stesso tempo che le disposizioni della legge intorno ad oggetti di natura temporali non vengano in alcuna collisione con la Cattolica Religione ». Ora egli è del pari evidente a chi alcun poco riflette, che nel caso che in compilando la legge avessero preso per loro norma il primo di questi due princìpii, la legge da essi formata sarà una legge ostile alla Religione Cattolica, attese molte collisioni che diverse delle sue disposizioni verrebbero indubbiamente a produrre con la medesima, le quali non si possono evitare se non da que' legislatori che se le propongono espressamente; nel caso poi che i detti legislatori avessero abbracciato per loro norma il secondo princìpio, col quale appunto si propongono d' evitarle, la legge uscita dalle loro mani sarebbe amica alla medesima religione. Tanto l' una quanto l' altra di queste due legislazioni, create secondo le due diverse ipotesi che abbiamo accennato, sarebbero limitate alla sfera di oggetti puramente temporali, escludendo tutti quelli che fossero di natura religiosa. Pure la prima riuscirebbe una legge atea: non così la seconda, perché questa anzi avrebbe un continuo riguardo alla religione, e si sarebbe composta ed ammodata ad essa per non urtar da nessuna parte con le prescrizioni della medesima. Quand' anco dunque si conceda che ci sia una sfera d' oggetti propri della legislazione civile che non hanno natura d' oggetti religiosi, e quindi che ci possa essere una separazione tra oggetti non religiosi e oggetti religiosi, rimane ancora ad esaminare se le disposizioni che dà la legge intorno ad oggetti non religiosi vengano o non vengano a collidersi con la religione medesima. Se tali disposizioni intorno ad oggetti non religiosi non arrecano collisione alcuna con le leggi della religione, in tal caso, come dicevamo, la legge non è indifferente; ma è da collocarsi tra le legislazioni amiche. Se poi ella trae seco qualche reale collisione, in modo che non si possa eseguire ad un tempo la legge civile e quello che la religione prescrive, in tal caso ella è ostile e nemica alla religione epperciò né pure in questo caso è indifferente. Si dirà forse, da chi considera poco addentro la materia, che qualunque sieno le disposizioni che fa la legge civile intorno ad oggetti non religiosi, queste disposizioni non possono venir mai in collisione con la religione. Ma questo è un manifesto inganno. E l' inganno nasce di qui, che non si considera che la Religione Cristiana Cattolica per la sua stessa essenza non si restringe già alle cose interne e spirituali, ma riguarda e prescrive molte cose esterne e corporali: tali, a ragion d' esempio, sono i Sacramenti e il sacrificio: tale la gerarchia de' Pastori e tutto il loro governo disciplinare, del quale almeno una parte è certamente essenziale: ci sono case, luoghi, persone e azioni sacre, e anzi tutte le azioni tanto interne quanto esterne degli uomini sono regolate dalle leggi e dai precetti della Religione Cristiana, e ciò perché questa non è già una religione da burla o di mera cerimonia, come vorrebbero farla credere i suoi nemici, ma è una compiuta legislazione e istituzione di Dio per la perfezione morale dell' uman genere. Per questo fra l' altre cose, Gesù Cristo ha riservato alla sua propria autorità il vincolo che stringe la società domestica, cioè il matrimonio, rendendolo cosa sacra con l' elevarlo alla dignità di Sacramento. A chi negasse queste cose non si potrebbe rispondere altro se non: « Informatevi, si tratta di un semplice fatto che ben potete verificare; la Religione Cristiana esiste; i suoi Pastori la insegnano; fatevi dunque ad ascoltarli ed interrogateli, e tantosto vi persuaderete di tutto ciò ». E` dunque cosa evidente che la legislazione civile, anche in quelle sue disposizioni che riguardano oggetti puramente esterni e materiali e per sé considerati non religiosi, può venire in gravissime collisioni con la Religione Cattolica. E questo conviene che avvenga di necessità ogniqualvolta il legislatore nella formazione delle leggi segue il principio « di non badare affatto a niuna credenza religiosa come se non esistesse ». 2) Noi abbiamo supposto che i legislatori civili si astengano nelle loro leggi da tutti affatto gli oggetti religiosi e si restringano a disporre unicamente intorno a cose di natura loro temporali. Ma è ella possibile una tale supposizione? Si trovò mai o si trova al mondo una legge civile che abbia potuto essere coerente a questo principio? Quelli che lo affermano prendono il più grossolano equivoco. Essi vi dicono: gli oggetti religiosi non sono di competenza del potere civile, e per ciò niuna disposizione della legge civile dee ricordare tali oggetti. Il principio è vero, ma la conseguenza è falsa. E` vero che gli oggetti religiosi non sono di competenza della civile autorità, ma è falso che la civile autorità possa astenersi dal fare delle disposizioni intorno ai medesimi. Solamente che ella o può fare tali disposizioni in armonia con la Religione, o in disarmonia con essa: ecco il bivio dove conviene scegliere. Spieghiamoci, e la cosa riuscirà chiarissima. Che cosa vuol dire: gli oggetti religiosi non sono di competenza della civile autorità? Vuol dire che la civile autorità non può giudicare intorno ad essi, non può fare che sieno diversi da quel che sono, non può cangiarli; deve prenderli come un fatto esistente; riconoscerli come si riconoscono i fatti che si producono indipendentemente dal civile potere: la sola testimonianza di quel corpo che professa una religione, cioè dell' autorità religiosa che in quel corpo si trova, è atta a determinare quale sia questa religione, quali i suoi dogmi, quali i suoi precetti, quali le sue pratiche obbligatorie. A questa testimonianza deve ricorrere il governo per conoscere la Religione di cui si tratta, in tutte le sue parti. Questo vuol dire non essere gli oggetti religiosi di competenza del governo civile: il principio dunque è vero. Ma ne viene forse da ciò che il governo civile possa astenersi dal dare qualunque disposizione intorno a tali oggetti religiosi? Il credere questo è soltanto proprio di quegli uomini superficiali, che, rimanendo nel mondo dell' astrazione, giudicano di quelle cose che appartengono al mondo concreto, e che sembrano persuadersi che sieno sufficienti gli astratti a regolare le cose dei concreti; ben inteso che quando ci mettono le mani essi, sono i primi a cadere nelle più aperte contraddizioni con il loro principio. Infatti il governo civile mancherebbe al fine della sua istituzione, se interdicesse a se stesso la facoltà di fare qualunque legge, e di prendere qualunque disposizione intorno ad oggetti religiosi. Vediamolo brevemente. a ) In primo luogo egli è indubitato, che il fine del governo civile abbraccia tra l' altre cose la tutela di tutti i diritti de' cittadini. Il diritto altro non è che la facoltà di operare quello che è lecito ed utile: quello poi che è obbligatorio è al sommo lecito, è al sommo utile per tutti coloro che hanno una morale e una coscienza. Laonde la libertà di coscienza abbraccia i più preziosi ed i più sacri fra i diritti. A questa classe appartengono i diritti religiosi. Se dunque il governo civile ha indubitatamente per suo fine la tutela di tutti i diritti dei cittadini, molto più de' principali che sono i religiosi. Se dunque egli è obbligato di provvedere alla tutela di questi diritti, conviene che le sue leggi e le sue disposizioni abbiano anche per loro materia degli oggetti religiosi, tali essendo i diritti di cui parliamo (2). b ) In secondo luogo, come certe disposizioni intorno ad oggetti puramente temporali possono venire in collisione con la Religione; così certe pratiche ed atti religiosi che all' esterno si manifestano, possono avere degli effetti temporali intorno ai quali debba disporre il civile potere. Ora quantunque questi effetti, presi da se stessi, appartengano all' ordine temporale, tuttavia essi sono connessi indivisibilmente con la loro causa religiosa, ed esistono quando questa è posta, non esistono se questa non è posta; e la stessa causa religiosa di tali effetti, può esser posta in diversi modi, anche senza che ne soffra la Religione. A ragion d' esempio nasce una pestilenza. A giudizio dei medici l' adunarsi il popolo in chiesa produrrebbe l' effetto di una maggiore mortalità: il governo lo proibisce per tutelare la vita de' cittadini. Il fine è temporale, ma l' oggetto di cui dispone, cioè l' adunanza sacra, è religioso. D' un oggetto religioso può anche abusare la malizia umana a danno del governo: il governo civile viene a conoscere che è ordito un tumulto popolare in occasione d' una sacra pompa; egli ne proibisce l' effettuazione: dispone di un oggetto sacro per un fine temporale. Si può dire ugualmente d' infinite cose. E` dunque impossibile, che il governo civile non prenda delle disposizioni riguardanti oggetti religiosi, per la intima connessione che questi talvolta hanno con altri oggetti temporali, intorno ai quali il governo civile può e deve disporre. Da questo si rende manifesto quanto sia erronea l' asserzione di coloro che affermano, che il governo può prescindere con le sue leggi e con le disposizioni da qualunque oggetto e da qualunque riguardo religioso. Quelli che spacciano una sì strana proposizione, contraria al fatto che tutti i governi restringerebbero il potere governativo entro confini assai più angusti di quelli che gli assegna il diritto: poiché verrebbero a sottrarre alla sua potestà non solo le cose riguardanti la religione, ma anche innumerevoli oggetti ed effetti temporali, co' quali le cose religiose sono intimamente connesse. Eppure (prescindendo da alcuni che non intendono affatto la questione di cui si tratta, e sono ignoranti sotto sopra di buona fede) gli altri che spacciano una tale teoria come un acquisto della moderna civiltà sono lontanissimi dal pensiero di restringere entro troppo brevi confini l' autorità del potere civile, che anzi sono appunto quelli che la dichiarano indipendente da ogni altra autorità. Costoro dunque non sono in buona fede, e quando vi dicono che il legislatore civile può prescindere dalla Religione, e la legge deve essere atea, adducendo per ragione di questo, che il civile governo non ha per suo oggetto la Religione o le cose religiose, essi non intendono già di dire che il governo e la legge civile devano veramente lasciar da parte tutti gli oggetti religiosi; ma intendono che il governo e la legge civile devano disporre di tutto, tanto degli oggetti profani quanto dei religiosi, considerandoli tutti come oggetti egualmente profani, e di conseguenza disporne senz' alcuna riverenza alla religiosità dei medesimi. Ora questo sistema, che è quello che domina in alcuni Stati d' Europa (benché non del tutto, perché del tutto è impossibile), questo sistema, che in altri Stati si vuole al presente introdurre, magnificandolo come un gran progresso di civiltà, è quello appunto che non solo suppone, dicevamo, l' ateismo nell' animo dei suoi autori; ma di più l' odio della Religione, e lo spirito di proselitismo all' empietà: poiché c' è indubitatamente anche un proselitismo di questa sorte. L' ateismo, per vero dire, si può speculativamente concepire sotto la forma di indifferenza religiosa. E quando non ci fosse nell' animo che un ateismo senza odio, rimarrebbe ancora nella mente sufficiente calma per intendere che il governo civile, secondo la sua istituzione e il suo proprio vantaggio, è obbligato a far leggi, e prendere disposizioni tali che non osteggino la religione dei cittadini, è obbligato di più a difendere i loro interessi religiosi. Ma se insieme con l' ateismo domina nel cuore di tali filosofi politici l' odio, come dicevamo, della Religione, questa terribile passione non calcola più né quel che deva fare il governo né quel che sia utile a se stesso o alla nazione, non calcola e non cerca altro, che di ottenere la propria soddisfazione. E la propria soddisfazione giace nella distruzione d' ogni Religione, nella estinzione nel mondo d' ogni sentimento religioso, nel regno sognato dell' ateismo. Secondo l' ardente brama e il cieco giudizio di costoro, questo è l' apice, questo l' ideale del progresso civile. Uomini animati da un sentimento infernale, formolarono questa teoria già da due secoli nel celebre « Tractatus theologico7politicus » (1670), divenuto poi il manuale delle società segrete e degli stessi gabinetti. Essi videro che il più potente istrumento per annientare la religione ed estinguere il sentimento religioso nelle nazioni, era il governo civile. Diedero dunque forma al loro concetto di una teoria politica. Nello stesso tempo che diffusero le massime di cui questa teoria si compone tra i popoli, adulandoli ed eccitandoli a scuotere ogni giogo, s' impossessarono di molti uomini di governo, e, per mezzo di essi, introdussero ne' consigli de' regnanti le stesse dottrine in forma di massime politiche, adulando al pari gl' imperanti, ed eccitandoli ad esercitare il potere più assoluto e più indipendente da ogni religione e da ogni morale. Tale è la teoria che si riassume nella parola premessa a questo articolo: La legge atea . Il sistema, come risulta da ciò che dicevamo, ha due facce, l' una onesta, ed è quella dalla quale si presenta quando coloro che lo insegnano lo espongono così: « Noi rispettiamo la religione e desideriamo che ella fiorisca, ma crediamo che la civiltà dei tempi esiga che il governo civile nelle sue leggi e nelle due disposizioni faccia astrazione da ogni religione, lasciando alle convinzioni particolari di praticare quella che ciascuno scieglie liberamente, o nessuna ». Udendo queste parole accompagnate da tali proteste, alcuni che non esaminano più avanti, sono presti a dire: la cosa è ragionevole: questo sistema non osteggia niuna religione, le lascia tutte libere, e però è il sistema della vera libertà. Ma se invece di questa faccia fraudolenta è la vera e propria faccia del sistema, quella che lo fa conoscere, noi avremo il sistema medesimo tradotto in questa altra forma più esplicita: « Il governo e la legge civile devono disporre di oggetti tanto profani quanto religiosi; ma con il pretesto che egli non è incaricato che di provvedere a un fine profano, deve riguardare come fossero profani anche gli oggetti religiosi, e però non deve prestare alcuna attenzione alle collisioni che le sue leggi e le sue disposizioni incontrassero con le religiose credenze ». Ridotto a questa formola più chiara e più vera della precedente, svanisce dal perfido sistema la lode che gli si attribuisce, di favorire la libertà religiosa, ed è messo pienamente al nudo il suo vero fine, quello di stabilire nella società l' ateismo. Infatti abbiamo veduto: 1) Che le disposizioni delle leggi civili, anche quando riguardano oggetti puramente temporali, possono venire in collisione con la Religione; 2) Che le leggi civili dispongono necessariamente diverse cose intorno ad oggetti religiosi; 3) Che dunque sotto il nome di legge atea non si può intendere né che la legge civile sia priva d' ogni relazione con la Religione, né che la legge civile s' astenga del tutto dal disporre qualche cosa intorno ad oggetti religiosi, perché l' una e l' altra cosa è impossibile. Rimane dunque che il sistema della legge atea non abbia altro significato se non questo che dicevamo, cioè che quantunque la legge civile abbia molta relazione con la Religione, e disponga anche d' oggetti religiosi, tuttavia ella non deve avere riguardo alle collisioni che ella involgesse e producesse con le religiose credenze. Egli è evidente, che i legislatori che fanno tali leggi, se si vogliono supporre coerenti a se stessi, non solo si mostrano atei indifferenti, ma le loro leggi sono un monumento d' odio e di disprezzo di ogni religione, essendo fatte quelle leggi con questo sentimento e secondo la massima, che la religione dei cittadini non meriti il più piccolo riguardo, e non sia cosa degna di alcuna riverenza. Il che suppone certamente l' odio e l' intento di abolire la Religione. Senza quest' astiosa passione la mente tranquilla del legislatore intenderebbe, che le cose che i cittadini hanno più care e preziose, quali sono le religiose, non solo vanno rispettate e non offese, ma anco protette; e che questo è un dovere e un vantaggio ad un tempo del governo. Onde non si può spiegare come un governo civile metta sotto i piedi i propri doveri, e sacrifichi i proprii vantaggi, se non supponendo che la passione irreligiosa l' acciechi e gli tolga il giudizio, oppure che pecorescamente vada dietro agli scaltri maestri della irreligione, che sanno così ben lusingare la vanità filosofica di tutti quelli che sono al potere. Ma è dunque vero che un tale sistema lasci, come si dice, alle convinzioni private il praticare quella religione che a ciascuno più piace, e però che questo sia il sistema della libertà religiosa? Se le disposizioni governative e le leggi non venissero mai in alcuna collisione con le religiose credenze dei cittadini, la cosa potrebbe passare; se poi accade appunto il contrario, ell' è una menzogna. Ora noi lo vedemmo: le leggi e le disposizioni governative non possono evitare tali collisioni, se non a condizione che il legislatore abbia un continuo riguardo, nel formarle, alle stesse credenze religiose, e le rispetti ammondando ad esse le proprie leggi. Il che è appunto proprio quello che non si vuole dagli autori del sistema che discutiamo, i quali prescrivono anzi, che la legge civile proceda così franca e così indipendente, da non badare a qualunque collisione possa insorgere tra lei e la religione dei cittadini. Le collisioni sono dunque inevitabili tra le leggi di tali governi e la Religione. E se queste collisioni devono indubitatamente essere frequenti, come ci può essere libertà religiosa sotto una legge che osteggia e cozza con la religione professata dai cittadini? La libertà religiosa importa tre cose: 1) Che la propria religione rimanga incolume in tutte le sue parti, e da tutti rispettata; 2) Che ognuno possa soddisfare ai propri doveri religiosi e agli spontanei movimenti della sua pietà, senza che per questo motivo venga a patire molestia o vessazione alcuna; 3) Che nessuno possa violare i diritti reciproci che vengono in conseguenza della Religione agli occhi di quelli che la professano. Ora quando la legge civile non si dà alcun pensiero di evitare le collisioni con la Religione, come vogliono i filosofi politici di cui parliamo, essa offenderà indubitatamente la libertà religiosa dei cittadini sotto tutti tre questi aspetti. Poiché, ora distruggerà qualche parte della Religione, ora metterà qualche impedimento al libero esercizio di lei, ora renderà impossibile ai fedeli la conservazione dei proprii diritti reciproci, quali vengono loro assegnati dalla Religione. In tutti questi tre casi c' è tirannia della legge, oppressione, e non libertà religiosa. Tutto questo è contrario all' istituzione ed alla natura del governo civile; per ciò stesso è contrario alla stabilità dei governi. Infatti ricorriamo all' origine giuridica del governo civile. Egli è indubitato che il governo civile nasce da una specie di mandato che una o più persone ricevono dal popolo, cioè dai padri di famiglia, col quale mandato sono investite della potestà civile (3); è indubitato che tale mandato esprime e determina i limiti di questa potestà. Ora i padri di famiglia hanno una religione, e la religione è riguardata da quelli che la professano come la più preziosa e la più importante di tutte le cose che si possedono. E` egli dunque presumibile, che questi padri nel loro mandato impongano alle persone a cui affidano il governo la obbligazione di comporre e promulgare una legislazione atea? Il che viene a dire: E` egli presumibile, o piuttosto è possibile, che quei padri di famiglia, istituendo un governo, dieno ai futuri governanti un mandato espresso sostanzialmente in questo modo: « Noi padri di famiglia vi incarichiamo di farci delle leggi, in modo che sieno tutelati i nostri diritti temporali, e che sorga fra di noi la prosperità di tutti i beni materiali. Per riguardo poi alla nostra religione, la quale c' è più cara della vita, vi dispensiamo intieramente dal proteggerla; ve ne facciamo anzi proibizione, e vi diamo ampia facoltà di far leggi contrarie alla medesima; di distruggerla tutta, o quella parte che voi crederete; di vessarci o di molestarci in conseguenza della legge atea che ci farete ogniqualvolta noi soddisferemo ai nostri doveri religiosi o alla inclinazione della nostra pietà in opposizione alla detta legge; di manomettere i nostri reciproci diritti religiosi, il che vi sarà facile parimente di fare promulgando delle leggi che esse stesse li infrangano, e che proteggano tutti quelli che li vorranno infrangere? ». Sarà dunque questa la voce dei padri di famiglia che istituiscono il governo civile? Questa la volontà del popolo? Questo il mandato che hanno ricevuto i governi esistenti, dal quale mandato essi stessi riconoscono il loro potere, sopratutto quelli che si dànno il vanto d' essere governi popolari? Si può rispondere evidentemente di no. Ci può essere sicuramente qualche ateo tra i padri di famiglia, ma la massa non è mai atea, le nazioni non sono atee: molto meno le nazioni cristiane e civili. Il sistema della legge atea dunque contraddice direttamente al mandato che hanno ricevuto i governi dai popoli; insegna loro a operare in opposizione a questo mandato, e così rompere la fede ai loro mandati, e infrangere (per usare le frasi d' un Sommo Pontefice) (4) il patto sociale, e in una dottrina così insensata ed immorale si fa consistere la civiltà e la luce del secolo. Intanto i governi risicano la propria esistenza, e nella turbazione delle pubbliche cose essi stessi sono reputati sediziosi. Trattando la questione precedente, abbiamo osservato, che il legislatore civile non può astenersi dal prendere alcune disposizioni intorno ad oggetti religiosi: uno di questi è il matrimonio. Di conseguente il legislatore dovrà scegliere tra quei due partiti che soli gli rimangono, come abbiamo dimostrato, cioè o di usare la cautela, dettando queste sue leggi intorno al matrimonio, di non far nascere nessuna collisione tra il disposto dalle sue leggi e la religione, ovvero di non fare alcuna osservazione a ciò che la religione stabilisce, il che conduce per inevitabile conseguenza a stabilire delle leggi che lottano col princìpio religioso e con la religiosa coscienza de' cittadini. Questo secondo è il sistema della legge atea, il primo è il sistema favorevole alla Religione: la legge civile, come abbiamo provato, in qualunque maniera sia dettata, non può riuscire indifferente, conviene per necessità della cosa che sia o pia od empia. Vero è che alcuni signori, di quelli che si dicono del giusto mezzo, hanno proposto come componimento amichevole di fare una legge sul matrimonio che fosse mezzo pia e mezzo empia: le leggi che si volevano introdurre in Piemonte erano appunto di questo tenore, ma il buon senso, non meno che la Religione piemontese, resero vani fin qui gli sforzi di questi incivilizzatori del giusto mezzo. Fra le ragioni che adducevano per difendere l' opera mezzanamente empia del governo, c' era questa, che si negava addirittura che il matrimonio fosse un oggetto religioso. Ma l' argomento era sciancato da due parti. Infatti, se l' oggetto del matrimonio è profano, que' diversi progetti di legge peccavano di grosso, perché lo facevano sacro; e se il matrimonio è sacro, que' progetti di legge peccavano di grosso ancora più, perché lo facevano profano. Il giusto mezzo infatti è uno di que' sistemi che non trovò mai un' argomentazione a suo favore che non possa essere ancora rivolta contro di lui. Del rimanente il decidere che il matrimonio sia un argomento profano sembra una corbelleria fino che non si sa chi decide così, poiché è necessario prima di tutto sapere, come si possa conoscere, se un argomento sia sacro o sia profano. Per arrivare a saperlo, interrogheremo noi quelli che non professano nessuna religione? Sarebbe assurdo, che è ben facile intendere che per coloro che non hanno religione d' alcuna sorte non ci sono oggetti sacri, ma son tutti profani. Interrogheremo noi di quelli che asseriscono di avere una religione, ma una religione che si compongono da se stessi sull' autorità della propria ragione e del proprio senso? Neppure: perché è certamente in arbitrio di costoro di fare e disfare gli oggetti religiosi una o più volte al giorno. Lasciando dunque da parte anche queste religioni individuali (se pur meritano un tal nome) interrogheremo noi le religioni stabili, professate costantemente e immutabilmente da una comunità di persone. Supponiamo che tra queste ce ne fosse una che non annoverasse tra gli oggetti sacri il matrimonio, e ce ne fosse un' altra che lo annoverasse tra gli oggetti sacri. In tal caso, rispetto a tutti quelli che professano la prima di queste religioni, il matrimonio sarà profano; e rispetto a tutti quelli che professano la seconda, il matrimonio sarà un oggetto sacro. Si vede dunque che l' essere sacro o profano un oggetto, è una qualità relativa alle diverse religioni; e che se una data religione riconosce tra gli oggetti sacri che gli sono proprii il matrimonio, questo, relativamente a quella religione, sarà sacro, e niuno lo potrà rendere o dichiarare profano. Non è dunque posto nell' arbitrio né degli uomini di legge, né degli uomini di Stato lo stabilire se un oggetto sia sacro o profano; ma questo giudizio appartiene essenzialmente alla Religione medesima; e se la Religione, cioè l' autorità religiosa, dichiara che un oggetto è sacro, niuno può dire il contrario relativamente a quella Religione. Ora tra gli oggetti sacri della Religione Cristiana Cattolica c' è appunto il matrimonio, il quale non solo da questa, che è l' unica vera Religione, si dichiara sacro, ma di più Sacramento. Onde per tutti quelli che riconoscono questa per la vera religione, il matrimonio è assolutamente e non già relativamente cosa sacra. Ma qui entrano in campo i signori del giusto mezzo con nuovi argomenti. In primo luogo dichiarano, che essi non negano punto al matrimonio la qualità di sacro, ma che esso nello stesso tempo è anche profano: è un oggetto che ha le due qualità di essere sacro e di essere profano ad un tempo. La sottigliezza di cotesti ingegni è maravigliosa. Che cosa significa profano? Apriamo il vocabolario, e troviamo: non sacro. Il matrimonio dunque di costoro è sacro e non sacro nello stesso tempo! Or qui, per evitare questa troppo aperta contraddizione, o piuttosto per velarla, mettono mano alle distinzioni. Noi non diciamo, dicono, che il matrimonio sia sacro e non sacro sotto lo stesso aspetto: è sacro come Sacramento, ma non è sacro come contratto. - Così dicendo, essi si sono dimenticati il criterio che abbiamo poco prima stabilito per conoscere se un oggetto sia sacro o profano. Noi abbiamo detto, che non c' è altra via per saperlo se non quella d' interrogare la Religione, e nel caso nostro la Religione Cattolica. Poiché se la Religione è quella sola che può dire se un dato oggetto sia sacro, ella sola può anche dire, di necessaria conseguenza, sotto quale aspetto quell' oggetto sia sacro. Ora la Religione Cattolica ci dice nello stesso tempo e che il matrimonio è sacro, e che è sacro come contratto, perché il matrimonio non è altro che contratto, ma contratto sacro. Quando dunque i signori del giusto mezzo gravemente ci dicono, che il matrimonio è profano come contratto, ed è sacro come Sacramento, altro non fanno che separare dal contratto matrimoniale la qualità di sacro, mentre la Religione Cattolica gliela unisce. Poiché il Sacramento non è altro che la qualità di sacro, di cui gode, per giudizio della Chiesa Cattolica, e per istituzione di Gesù Cristo, il contratto matrimoniale. Si arrogano adunque con la loro distinzione l' autorità di decidere quale sia l' oggetto sacro e come sia sacro; mentre abbiamo veduto, che nessuno può decidere questa questione se non la Religione stessa, dalla quale viene che un oggetto sia sacro. Caduta questa, eccoci in campo un' altra distinzione, sgraziatamente non meno sofistica della prima. Vi dicono: Accordiamo che nel matrimonio ci sia un contratto sacro, ma aggiungiamo che ce n' è anche uno profano: il matrimonio non è un contratto solo, ma è due contratti; l' uno è ecclesiastico, e l' altro civile. - Sarà ben difficile concepire una simile distinzione: qual più contraria al senso comune? Chi può pensare che un uomo, il quale abbia contratta un' obbligazione mediante un contratto, possa contrarre la stessa obbligazione mediante un altro contratto, di maniera che la stessa identica obbligazione possa esser prodotta da due diverse convenzioni? Poiché il matrimonio alla fine non è che un' obbligazione reciproca, che nasce pel consenso dei contraenti. Ci vorranno dunque due consensi, e non basterà uno solo per fare il matrimonio! Se uno di questi consensi è valido, cioè esso produce l' obbligazione, a che cosa servirà l' altro consenso? E se uno di questi due consensi non è valido, cioè se non produce l' obbligazione, sarà egli un consenso o un contratto? Se dunque è assurdo immaginare due consensi nel matrimonio e due obbligazioni, del pari è assurdo immaginare due contratti. Ma siamo giusti: tra i fautori del così detto matrimonio civile ce ne sono de' meno irragionevoli dei precedenti, i quali abbandonano la pluralità dei contratti per uno stesso matrimonio. De' quali alcuni vi dicono, che non c' è altro contratto del matrimonio fuori del contratto civile, il quale è materia esclusiva della legislazione civile. Altri vi dicono, che l' unico contratto matrimoniale è il naturale, ma questo poi deve essere rivestito delle formalità ecclesiastiche, acciocché sia riconosciuto valido dalla Chiesa, e deve essere rivestito delle formalità civili, acciocché sia riconosciuto valido dallo Stato; di maniera che, secondo questi, ci sarebbe un contratto valido di matrimonio benché la Chiesa e lo Stato nol riconoscessero per tale; e quando si dice contratto valido, si dice certamente contratto obbligatorio, che se non indicasse obbligazione, non sarebbe punto un contratto. Ebbene, per quanto vadano costoro errati nelle loro opinioni, quello che a noi importa dimostrare non è precisamente l' erroneità di queste. Anzi, noi vogliamo stabilire una proposizione indipendente dalla verità o dall' erroneità di tutte le opinioni accennate e d' altre simili; e con ciò vogliamo dimostrare, che questi diversi sistemi, a cui si appigliano gli uomini di legge, non sono punto atti a risolvere la vera questione di cui si tratta. Infatti la questione fondamentale è questa: « Se la legge civile deve essere amica, o deva essere nemica alla religione dei cittadini; se deva essere in accordo con questa religione, o deva mettersi in disaccordo ed in collisione con la medesima ». Ecco l' unica questione veramente importante al presente, da cui conviene che noi partiamo per risolvere l' altra delle leggi civili, intorno al matrimonio. E infatti supponiamo per un po' che il matrimonio non sia altro che un contratto civile, ovvero supponiamo che il matrimonio deva essere rivestito delle formalità civili, e cose simili. A malgrado di queste verità, come di pretende che sieno, rimarrà ugualmente vero anche questo, che, a giudizio della Religione e della Chiesa Cattolica, il contratto matrimoniale è un Sacramento, e che non ci può essere alcun contratto valido di matrimonio, cioè obbligatorio, se non è Sacramento, e se non ha tutto ciò che si richiede per essere Sacramento; e di più, che esistendo questo valido contratto, esso è indissolubile, a malgrado di tutte le leggi e di tutte le autorità cattoliche ed acattoliche della terra. Questa è la dottrina religiosa cattolica, e rimane tale a fronte di tutte le opinioni e di tutte le dispute, per quanto i disputanti pretendano avere la verità dalla loro. Ciò posto, noi dicevamo, che una legislazione civile qualunque intorno al matrimonio non può rimanersi indifferente rispetto ad una tale dottrina religiosa, ma che le conviene di necessità scegliere tra questi due partiti, o di esserle amica o di esserle inimica. Se dunque una legislazione riconosce per validi contratti matrimoniali tutti quelli che sono riconosciuti dalla Chiesa Cattolica e nissun altro in tal caso ella è amica della detta religione; e se fa il contrario, ella è inimica, seguendo in quest' ultimo caso il sistema della legge atea. Sciolta dunque la questione intorno a questo sistema della legge atea, e dimostrato, come abbiam fatto trattando la questione precedente, che la legislazione civile non deve essere ostile alle credenze religiose dei cittadini, è sciolta di conseguente anche l' altra che riguarda il così detto matrimonio civile, e che non è altro che un caso d' applicazione. Veniamo dunque alla conclusione, che sarà necessariamente questa: La questione, se ci possa essere o no un matrimonio civile, è superiore e indipendente da tutte le diverse private opinioni che possono avere i legisti e gli statisti intorno alla natura del matrimonio; e invano essi si perdono in tali dispute, non accorgendosi che la vera soluzione del problema dipende da un princìpio più elevato e più universale, che sfugge alla loro considerazione. Che poi la legge del così detto matrimonio civile sia contraria e ostile alla Religione Cattolica, non sembra necessario dimostrarlo maggiormente dopo quello che abbiamo detto di sopra e quello che ne fu scritto in occasione de' progetti di legge presentati al Parlamento piemontese. Che anzi, se ci fu mai legge che fino dalla sua origine portasse con sé i caratteri storici dello spirito irreligioso e astioso alla Religione Cattolica, essa è indubitatamente quella del matrimonio civile. Basta considerare in qual tempo e da quali mani ella uscì per restarne convinti. Chi non conosce qual era lo spirito dei legislatori francesi del 1791 e susseguenti? Lo spirito d' empietà, sempre subdolo e astuto, procede sino a un certo segno cautamente e gradatamente, ma quando crede d' essere sicuro del fatto suo, svela senza pudore la sua faccia: seguitiamolo ne' suoi passi a quel tempo e in quella nazione in cui egli, rompendo violentemente ogni tradizione co' secoli trascorsi, creò il matrimonio civile. Nella prima Costituzione politica che si diede la Francia nel 1791 fu inserito questo articolo: [...OMISSIS...] - Era appunto il contrario di quello che per 1. secoli aveva insegnato la Religione Cattolica: secondo la sua parola, che è parola di verità, il matrimonio non fu mai e non è un contratto civile. A quella Costituzione tenne dietro ben presto il decreto dello stato civile, che dedusse la prima conseguenza da quel princìpio, conseguenza sì prossima che si annunciò come una spiegazione della Costituzione stessa; e questa conseguenza fu la dissolubilità del matrimonio: [...OMISSIS...] - Ecco di nuovo il contrario di quanto insegna la Religione Cristiana Cattolica, della quale è un dogma che il matrimonio è un vincolo e un contratto indissolubile. L' effetto che immediatamente produssero queste leggi, in aperta contraddizione alla Religione si fu l' indebolimento d' ogni affetto domestico, e si vide in breve tempo triplicato il numero degli infelici bambini abbandonati dagli snaturati loro genitori (2). Tali disposizioni di quel governo civile contrariavano bensì direttamente la Religione, però con quelle forme legali che coprono, in qualche modo, lo spirito d' impietà che vi si racchiude. Ma ben presto questo spirito, tenendosi già sicuro della vittoria, si manifestò apertamente con caratteri più ributtanti dell' immoralità, mediante una serie di decreti e di leggi che sono troppo conosciuti, e provano ad evidenza come l' ateismo, di quelle leggi provenisse non già soltanto da freddi principii di diritto, o da un ateismo del legislatore puramente speculativo, ma da un odio profondo ad ogni religione; e basterà per tutte indicare la legge con la quale i legislatori pretendevano abolire il pregiudizio intorno alle concezioni illegittime, e a tal fine concedevano una ricompensa alle figlie che avrebbero avuto il coraggio di allattare i loro bambini in pubblico (3). Ognuno sa che il matrimonio civile del 1791 facendo continui progressi, nel corso di soli due anni (1793) giunse al tempio della ragione. E uno di que' legislatori del matrimonio civile e dell' abolizione del culto cristiano cattolico in Francia, il Chaumette, con molta semplicità spiegò che era la nova Dea, la ragione, che si voleva unicamente adorare. Riconducendo in trionfo alla Convenzione l' invereconda femmina ch' era stata posta in sull' altare nella chiesa di Nostra Donna, e rendendo conto del novo rito: « Colà », disse il Chaumette, « abbiamo abbandonati idoli inanimati, per seguire la ragione, per seguire quest' imagine animata, capolavoro della natura! ». Tale era la ragione, la dea di quei famosi legislatori. E uno storico del giusto mezzo trova veramente deplorabili queste scene, rappresentate senza raccoglimento e senza bona fede (4). Fu necessario che Massimiliano Robespierre, trascorsi pochi mesi dall' istituzione del culto della ragione, ammonisse questi invidiati legislatori civili, che l' ateismo era aristocratico. Allora si risolsero di distruggere l' opera della loro legislativa sapienza, riabilitando, in virtù della stessa autorità dello Stato, l' Ente Supremo. La legge civile che vuol esser atea, non arriva che ad essere incoerente; così si punisce e confonde da se medesima. E` dunque provato ad evidenza dalla storia, quanto onorati e puri sieno i natali del matrimonio civile, che può senza controversia vantare d' esser legittima prole dell' odio di ogni religione e della morale, di questo odio che nei momenti del suo trionfo rende i civili legislatori, letteralmente, de' mentecatti e de' furiosi. Chi vuol conoscere la natura del seme, esamini l' erba che da lui nasce. Ma le aberrazioni dello spirito umano non hanno lunga durata; il mondo va ogni giorno più aprendo gli occhi, ammaestrato dall' esperienza e dalla riflessione sull' empietà, sulla immoralità profonda, sull' abiezione, sul danno sociale, sulla dissennatezza del matrimonio civile: pur ora l' Olanda, dove era stato introdotto dall' armi francesi, lo scancellò dalle sue leggi, almeno pe' cattolici: la Francia stessa, esperta de' funestissimi effetti di questo nuovo matrimonio di sua invenzione, si va ogni dì più convincendo del suo antico errore: già anche gli scrittori laici di quella nazione apertamente lo impugnano (5), e di questi giorni stessi una numerosa petizione, presentata a quel Senato, ne domanda l' abolizione (6). E il Piemonte? Il buon senso del Senato piemontese ha mandato a vuoto il tentativo dei retrogradi che volevano regalarci questa merce straniera del 1791, e si spera che niun altro tentativo di tal sorta verrà a disonorare e ad affliggere un popolo così sveglio e religioso. Noi ci proponiamo di cercare in che cosa consista la libertà di coscienza. Lo faremo con il separare prima di tutto le interpretazioni false di questo acclamato principio, le interpretazioni mancanti di sincerità. Dimostreremo che mediante queste interpretazioni subdole e sofistiche, la libertà di coscienza è divenuta una coperta e uno strumento d' interessi egoistici e di passioni irreligiose e immorali; il che è quanto un dire, che quello che molti chiamano libertà di coscienza non è tale, ed è anzi il contrario. Rimossa poi questa libertà di coscienza finta e bastarda, facilmente apparirà da sé qual sia il vero significato di questa espressione libertà di coscienza , intesa non meno secondo il diritto, che secondo la logica. E non intendiamo punto parlare di que' legislatori o governi civili, che invocando la libertà di coscienza nelle loro leggi e nei loro atti, non si curano di velare l' insincerità del loro procedere, e di più hanno la vanità di far trasparire ad un tempo e la loro falsità e la loro incredulità, dichiarandosi per la libertà di coscienza. La prima volta che in Francia si promulgò una legge che stabiliva la libertà di coscienza, fu al tempo della Convenzione, e sotto questa legge di libertà fu abolita la religione! E` troppo noto come il procuratore del comune di Parigi, Chaumette, spasimante della libertà di coscienza, prese un bel giorno ad inveire contro la pubblicità del culto cattolico, e sostenne che questo era un odioso privilegio, che si doveva abolire; e infatti quel Comune nel giorno 14 ottobre 1793 decise, sempre appellando alla libertà di coscienza, che i ministri di qualunque religione non potessero più esercitare il loro culto fuori dei templi, instituì ancora nuove cerimonie funebri profane da sostituire alle sacre; e ne' cimiteri, rimossi tutti i simboli religiosi, fece collocare la statua del sonno, con altre disposizioni di simil genere. Di poi alcuni legislatori e governatori di quel tempo andarono in persona a sedurre il miserabile Gobel, vescovo costituzionale, e lo persuasero a rinunziare solennemente all' esercizio del culto; e nella farsa che se ne fece davanti alla Convenzione, il presidente della medesima al discorso del rinunziante rispose con tutta gravità che [...OMISSIS...] . E lo storico del giusto mezzo aggiunge, che rispose accortamente (2). Il qual fatto fu seguito dall' abolizione della religione, e da tutte quelle abbominazioni che rimangono e rimarranno nella storia siccome un indelebile commentario della maniera in cui veniva intesa da quei governatori riformatori la libertà di coscienza. Il principio della libertà di coscienza professato a questo modo non può formare l' oggetto di una seria discussione, e la menzogna della legge e de' legislatori s' affaccia tanto chiara e tanto impudente, che non ha bisogno di essere svelata. In altri non pochi di quelli che vogliono comparire come fautori della libertà di coscienza, c' è un' altra maniera di mancanza di sincerità più imprudente e s' involge in artificiosi sofismi; e questa stessa ha diversi gradi. Prima di descriverla, noi protestiamo di riconoscere che in taluni di tali uomini l' incoerenza di cui danno manifesta prova quando parlano di libertà di coscienza, non è neppure totalmente insincerità; c' è mescolato indubitatamente dell' ignoranza, del pregiudizio, dell' irriflessione. Infine quando noi nominiamo l' insincerità degli uomini, intendiamo non altro che l' insincerità dei sistemi. Crediamo perciò che molti di tali sistemizzatori possano essere utilmente richiamati al vero concetto della libertà di coscienza, e che meritino d' essere invitati a considerare le contraddizioni in cui cadono, forse senz' avvedersene, quando prendono a ridurre all' atto questo principio. Tale è l' intento che noi ci proponiamo nello svolgere la presente questione. Tre di questi fallaci e ingannevoli sistemi intorno alla libertà di coscienza ci si presentano, che noi chiameremo: il sistema legale, il sistema filosofico e il sistema utilitario. Gioverà meglio il far conoscere qual sia il carattere proprio di ciascuno di questi sistemi per mezzo di esempi, non solo perché vedendolo in atto più facilmente se ne raccoglierà l' indole, ma ben anco affinché niuno creda che noi forse gl' inventiamo e non sieno sistemi reali esistenti nella pratica de' governi e nelle teorie de' governanti. Il sistema legale, il più decente nelle forme e il più coperto, sedusse uomini d' altra parte rispettabili. L' esempio che sono per darne ne somministra la prova. Nella seduta del 10 giugno, anno corrente 1.53, nella Camera de' deputati di questo Stato, il ministro di grazia e giustizia, rispondendo all' interpellanza d' un deputato savoino, fece questa dichiarazione: [...OMISSIS...] Niente di più esplicito. Ma rimane a conoscersi l' interpretazione di questo principio ancora indeterminato; e l' interpretazione non si fa aspettare, perché lo stesso ministro ce la dà non meno esplicita in queste parole: [...OMISSIS...] Qui il ministro vuole che nessuno sia costretto, né impedito a fare un atto religioso, ma però ad una condizione, che quest' atto non sia proibito dalle leggi civili. Suppone dunque che la legge civile possa impedire o proibire un atto qualunque che emani dalla fede religiosa de' cittadini: e questa è l' assoluta e piena libertà religiosa di coscienza ch' egli loro promette. Ecco che cosa s' intende nel sistema legale quando si dice d' ammettere pienamente, interamente ed in tutte le sue conseguenze il principio della libertà di coscienza: s' intende quella porzione che non viene loro tolta dalla legge civile. All' opposto, la questione della libertà di coscienza consiste appunto nella ricerca: « Se la legge civile possa proibire o impedire un atto che emani dalla fede religiosa de' cittadini ». Chi suppone che la legge possa far questo, in generale non ammette per fermo la libertà di coscienza, stabilisce bensì l' intolleranza e il dispotismo insieme con la pazza onnipotenza della legge civile. E` anche evidente che una tal legge, se riguarda la vera religione, è assolutamente empia; e se riguarda religioni false, è almeno riguardata come empia da que' cittadini che la professano. Tutta la questione dunque viene stranamente falsata, ed è pur necessario restituirle la sua vera forma, che non può essere altra che questa: Si ricerca « se la religione sia anteriore e superiore alla legge civile, o se la legge civile sia anteriore e superiore alla religione »; ovvero « se le leggi di Dio si debbano conformare alle leggi degli uomini, o viceversa se gli uomini debbano conformare le loro leggi a quelle di Dio »; e di conseguente, quando le due leggi riuscissero contraddittorie, « se le leggi di Dio debbano essere rispettate e ubbidite a preferenza delle leggi degli uomini, o se le leggi civili degli uomini debbano essere rispettate e ubbidite a preferenza delle leggi di Dio ». Per verità, se la libertà di coscienza consiste in questo solo, che « niun cittadino possa mai essere né costretto, né impedito a fare un atto qualunque non proibito dalle leggi, che emani dalla sua fede religiosa », egli è evidente, che non ci può essere niuna legge civile, qualunque sia, che offenda il principio della libertà di coscienza, e che perciò la legge civile è sempre, per sua propria essenza, liberalissima. A valutar bene a solo colpo d' occhio questo sistema legale della libertà di coscienza, gioverà ricorrere ad un esempio estremo, poiché il principio, essendo generale, vale ugualmente pei casi estremi, che pei più moderati. Ricorriamo dunque a Nerone. Quando questo Imperatore (e lo stesso si dica degli altri governi, non pochi di simil tempra, che furono al mondo) proibì sotto pena di morte il Cristianesimo, c' era ancora in quegli Stati un' intera e perfetta libertà di coscienza? Secondo il sistema legale surriferito bisogna rispondere di sì: perché anche allora « niun cittadino era impedito a fare atto qualunque non proibito dalle leggi, che emanasse dalla sua fede religiosa ». E` vero che i cristiani non potevano fare gli atti che emanavano dalla loro fede religiosa; ma questi atti non essendo legali, poiché erano proibiti dalla legge civile, andavano esclusi dalla libertà religiosa, secondo i legisti di cui parliamo: godevano però i cittadini cristiani di quel tempo pienamente e interamente e in tutte le sue conseguenze, della libertà di coscienza, perché niuno di essi poteva essere costretto o impedito a fare un atto qualunque di quegli altri non proibiti dalle leggi che emanassero dalla loro fede religiosa! Che se non avevano altra fede religiosa che quella i cui atti erano proibiti dalle leggi civili, quei magistrati di allora potevano dire come i magistrati d' adesso: « Noi non abbiamo facoltà di ricercare o l' incredulità o lo scetticismo di nessuno ». Egli è dunque evidente, se non vogliamo corbellare la gente, quando parliamo di libertà di coscienza, che con questa questione si tratta unicamente di sapere se le leggi civili debbano essere subordinate al principio della libertà di coscienza, o se la libertà di coscienza debba essere subordinata alle leggi civili. Poiché conviene scegliere, i legisti (già s' intende, non tutti, ma quella specie di cui parliamo) scelgono che il principio della libertà di coscienza sia subordinato alla legge civile, non sofferendo che cosa alcuna sia superiore all' autorità di questa terribile legge. Ma è pur cosa maravigliosa, che chiamino principio quel che è subordinato alla legge civile, e che ci facciano tali leggi che hanno i principii non di sopra, ma di sotto. I legisti di questa sorte sono stati sempre uguali in tutti i secoli e sotto tutte le forme di governo. Gli avvocati d' Enrico V e di Federico Barbarossa partivano dallo stesso principio da cui partono oggidì gli avvocati degli Stati costituzionali e delle repubbliche, che dettano le loro leggi atee; soltanto che allora s' attribuiva alla volontà d' un legislatore individuale quello che ora s' attribuisce alla volontà collettiva d' alcuni legislatori. Questa volontà può sempre tutto indipendentemente da principii: da essa sola emana esclusivamente il diritto, l' obbligazione: [...OMISSIS...] Noi intanto crediamo che basti la più piccola dose di buon senso per intendere, che il collocare la libertà di coscienza in questo, che « niun cittadino possa mai essere né costretto né impedito a fare un atto qualunque che emani dalla sua fede religiosa, con la restrizione che questo atto non sia proibito dalle leggi », non è un dichiararsi a favore della libertà di coscienza, ma è soltanto pronunciare una celia. Escluso il sistema legale, vediamo qual sia il filosofico (già s' intende nel senso abusivo della parola), e cerchiamo se in questo secondo sistema ci abbia più sincerità che nel primo. - In uno Stato ci sono o ci possono essere anche di quelli che non hanno alcuna credenza religiosa, o che non vogliono almeno professarne nessuna. Da questo i filosofi, di cui parliamo, si credettero giustificati a dedurre, che la legge civile, acciocché riesca formata secondo il principio della libertà di coscienza, debba regolarsi in modo che, rimanendo identica per tutti, possa convenire a tutte egualmente le credenze, come pure a tutti i sistemi d' incredulità. Ma come arrivare a questo intento? Essi risposero: con la legge atea, della quale noi ragionammo nella questione precedente. I detti filosofi non si dettero, non si vollero dare la menoma pena di esaminare se sia possibile una legge alla condizione che le imponevano; ma, parlando sempre in astratto, assicurano sulla loro fede i popoli, che una legge, quando è atea, adempie perfettamente alla condizione indicata. Noi abbiamo dimostrato che non diedero in questo gran prova di sagacità, poiché s' avvera appunto il contrario; dimostrammo di più, che una legge di tal sorta è solo favorevole a quella classe di cittadini che non professa credenza alcuna, o che è indifferente a tutte; e allo stesso tempo che offende da molte parti la coscienza di tutte le altre classi de' cittadini che hanno una credenza, e che perciò essa è una legge di privilegio per gli increduli. Noi ripeteremo qui solo una osservazione, e questa si è, che quel definire la questione così in astratto, trasse in inganno anche persone non prive al tutto di fede religiosa, ma inette a cercare il fondo delle questioni. Quando la Francia, facendo ritorno al culto cattolico, abolì quelle leggi che erano state dettate dall' odio della Religione e a nome della libertà di coscienza, si esaminò se doveva essere abolita con esse anche la legge sul divorzio [...OMISSIS...] I giureconsoli che presero parte alle conferenze tenute per la compilazione del Codice di Napoleone, non erano certo più gl' increduli furiosi del 93: pure mantennero il divorzio, ingannati da quell' illusorio princìpio della libertà di coscienza, nel senso che gli avevano assegnato i filosofi della rivoluzione. « Il vero motivo », dissero, « che obbliga le leggi civili ad ammettere il divorzio, è la libertà dei culti. Ci sono dei culti che autorizzano il divorzio; ce ne sono degli altri che lo proibiscono. La legge dunque (ecco le conseguenze che ne cavano) deve permetterlo, affinché quelli la cui credenza l' autorizza, possano farne uso ». Questo argomento, ridotto a forma generale, si può esprimere così: La legge civile per rispettare la libertà di coscienza deve adattarsi a quelli che credono meno. E questa è appunto la massima che conduce all' ateismo totale della legge. Poiché tra tutte le gradazioni di credenza c' è anche quella in cui ogni credenza svanisce, e perciò la legge si dovrà adattare propriamente a quelli che non hanno alcuna credenza, e così dovrà essere essa stessa atea. Se nella gravità di quella discussione intorno al divorzio avesse trovato grazia la logica, questa avrebbe mostrato a que' legisti che la conseguenza che essi deducevano dall' esserci nello Stato dei culti che autorizzavano il divorzio, era assai più estesa della premessa; poiché dall' esserci dei culti che autorizzavano il divorzio si può trarre benissimo la conseguenza, che la legge per la libertà di coscienza permetta a coloro che professano quei culti il divorzio, ma non si può trarre la conseguenza universale, che dunque lo permetta a tutti, anche a coloro che professano dei culti che non autorizzano punto il divorzio e che lo condannano. I legisti ricorreranno qui probabilmente al male inteso e mal applicato princìpio dell' uniformità della legge civile, del quale noi ci proponiamo di trattare a parte in un' altra questione. Qui ci basta di riconvenirli, che non fu dunque il princìpio della libertà di coscienza, com' essi dichiararono solennemente, quello che suggerì loro la legge universale sul divorzio, ma un altro princìpio tutto diverso. E così appunto sogliono fare i legisti: vi dicono di partire, nella formazione delle loro leggi, dal princìpio della libertà di coscienza, e poi, quando voi li riconvenite della falsità del loro asserto, vi scambiano le carte in mano, e vi dicono di essere partiti da un princìpio tutt' altro, come nel caso nostro, dalla pretesa necessità, che le leggi civili sieno uniformi per tutti quelli che professano culti diversi ed opposti. Dicendo ciò cotesti filosofi legali, sembra che non si accorgono della necessità almeno che hanno di accordare un princìpio con l' altro, seppur vogliano persuaderci che essi li seguano entrambi. Uniformità di leggi per tutti i culti diversi e libertà di coscienza sono esse cose conciliabili? Noi abbiamo anzi dimostrato che sono princìpii perfettamente contraddittori. Se le leggi civili, abbiamo detto, potessero astenersi da disporre intorno a tutto ciò che ha qualche relazione anche lontana con le religiose credenze, la cosa sarebbe possibile, e però quelle leggi che non involgono relazione alcuna coi vari culti, possono benissimo essere uguali ed uniformi per tutti i cittadini. Ma poiché ci sono sempre molte altre leggi civili che involgono diverse relazioni con gli oggetti religiosi, perciò il princìpio dell' uniformità delle leggi cade in aperta contraddizione con quello della libertà di coscienza; e in tutto questo genere di leggi non è mai possibile conciliare i due princìpii, ma l' uno o l' altro deve essere abbandonato. E così fecero i legisti della Francia trattando e adottando le leggi sul divorzio. Ma quale dei due princìpii abbandonarono? Furono forse sinceri? ci dissero chiaro e da galantuomini che il princìpio dell' uniformità delle leggi li obbligava a sacrificare quello della libertà di coscienza? Io crederò, per diminuire il loro torto, che prima di mentire a noi, abbiano mentito a se stessi, e che perciò non si sieno accordi della falsità che profferivano. Ma il fatto si è, che l' unico princìpio, di cui fecero pompa nei motivi della legge, fu quello della libertà di coscienza, cioè quello che andavano ad immolare; e dell' altro, cioè della materiale uniformità delle leggi, che era il solo che veramente mantenevano, non fecero una sola parola. Il primo era popolare e riscuoteva facilmente l' applauso; conveniva dunque far passare sotto gli auspizi di questo princìpio una legge che da tante parti lo violava. Tale è la sincerità de' filosofi legali. E che la legge che permette a tutti i cittadini il divorzio osteggi la Religione Cattolica che lo proibisce e offenda la libertà religiosa dei cattolici, è facile di vederlo: Quella legge agli occhi della Religione Cattolica contiene un' eresia, e perciò insulta il dogma cattolico col dichiararlo falso, poiché la legge dice assolutamente e universalmente: « il matrimonio è dissolubile »; il dogma cattolico dice: « non è dissolubile »(5). La legge dunque non era già indifferente alla Religione, ma si fondava sopra un princìpio d' empietà agli occhi della Religione Cattolica. Questo offendeva tutto il corpo dei cittadini cattolici, quando la libertà di coscienza esige che la propria religione rimanga incolume, e da tutti, specialmente dal legislatore, rispettata [...OMISSIS...] ; Due coniugi cattolici divorziati, e passati ad altre nozze col favore della legge, si pentono del fatto che hanno commesso, giusta i princìpii della Religione che professano. Questa religione impone loro, come obbligazione gravissima, di dividersi l' uno dalla supposta moglie, l' altra dal supposto marito. Ma non ci sono cause per ottenere dalla legge un altro divorzio. La legge obbliga la moglie ad abitar col marito, ed obbliga il marito a ricevere presso di sé la moglie «( Cod. del R. d' Italia , 214) ». La legge dunque impedisce a questi cristiani cattolici di adempire alle più gravi obbligazioni che impone loro la fede religiosa che professano, e li obbliga a permanere in uno stato condannato dalla propria coscienza. C' è dunque sincerità in legislatori di questa sorta, quando vi fanno delle leggi che torturano crudelmente la coscienza cattolica, e poi vi danno per motivo di tali leggi la libertà dei culti, la libertà di coscienza? Avranno mentito, a se stessi, lo replichiamo, ma in qualunque modo si spieghi, la menzogna è innegabile; Due cattolici divorziati, poniamo per mutuo consenso, risentendo i giusti rimorsi della propria coscienza, vogliono ricongiungersi. Questo è un loro sacro diritto, è un atto altamente morale. La legge civile vi si oppone (6). Che se si riuniscono, devono farlo in onta della legge, e i loro figli sono considerati illegittimi. I diritti dunque che vengono loro in conseguenza della religione che professano, sono distrutti da quella legge civile del divorzio, ed il loro esercizio aggravato d' incomodi e danni gravissimi. Ora, come noi vedemmo, la libertà di coscienza sincera e non mentitrice, importa che coloro che professano una religiosa credenza possono liberamente esercitare i loro religiosi diritti. Di nuovo adunque hanno pronunziata una manifestissima falsità i legislatori del Codice Napoleonico, dicendo che dal princìpio della libertà dei culti erano stati obbligati a stabilire la legge del divorzio. Tale è la sincerità e la lealtà del sistema filosofico della libertà di coscienza. Gli autori di quel Codice l' avevano ereditato dai così detti filosofi della rivoluzione, e non fa maraviglia che non è la prima volta che i legisti bevano grosso in punto di princìpii (7). Il princìpio della libertà di coscienza non comparisce solo sulla bocca dei legisti e dei filosofi che arrivano al governo; comparisce financo sulla bocca dei politici utilitari. Parrà strano a prima vista, che costoro, che non hanno princìpii fissi di sorta alcuna, professino in certe circostanze il princìpio della libertà di coscienza. Ma il mistero è spiegato, quando si distingua il dire dal fare, e una professione sincera da una professione ingannatrice. Ecco in qual modo si distingue il sistema utilitario dal legale e dal filosofico. Quando gli utilitari sono al potere, essi cercano di guadagnarsi quei partiti ne' quali credono di poter trovare una forza maggiore, senza riguardo all' onestà, alla giustizia, alla moralità, alla religione, che sono cose che non hanno per essi realtà, o se ci danno qualche peso, le considerano sempre come subordinate all' utilità. Ora, egli avviene quello che noi vediamo co' nostri occhi, che il partito più violento si compone di quegli uomini che non hanno religiose credenze, o non ne hanno abbastanza per raffrenare le loro passioni, l' orgoglio sopratutto, e lo spirito di dominazione. Questi arditi brigatori e faccendieri sono temuti oltremodo per la loro attività sempre inquieta e intraprendente. I governi utilitari dunque si mettono dalla loro parte, fanno loro delle concessioni e così la fazione incredula riesce infine facilmente ad essere quella che più di tutti influisce nella formazione delle leggi e negli atti del governo stesso. Non avendo dunque gli utilitari un princìpio proprio, prendono i princìpii da quei partiti a cui s' associano, e il più delle volte ne' tempi nostri s' associano, come dicevamo, al partito irreligioso, che essendo più violento, facilmente è stimato anche il più forte. Nel che va spesso errato il calcolo degli utilitari, calcolo difficilissimo a farsi bene. La libertà di coscienza dunque degli utilitari, o è una promessa che non viene mantenuta, come quella de' due sistemi precedenti, o è una libertà effimera e accidentale, perché è quella, né più né meno, che viene loro imposta dai partiti su cui s' appoggiano. Riassumendo, tre sono dunque le false ed incoerenti interpretazioni del princìpio della libertà di coscienza: 1) Quella de' legali che definiscono la libertà di coscienza, la libertà di fare quegli atti religiosi, che non sono proibiti dalla legge civile; 2) Quella de' così detti filosofi, che definiscono la libertà di coscienza, quella che consiste nell' ateismo della legge; 3) Quella degli utilitari, che non amano definizioni, e che perciò non hanno definizione alcuna, ma consiste in promettere, quando torna conto, libertà di coscienza, e poi governare secondo l' opportunità a seconda di quel partito, qualunque sia, in cui si credono consistere la forza maggiore. Con l' aver noi indicate queste tre principali contraffazioni della libertà di coscienza, noi abbiamo risposto negativamente alla nostra questione. Ma crediamo d' aver fatto con ciò solo buona parte del cammino. Poiché il lettore, rimosse quelle libertà di coscienza illusorie, facilmente può da se stesso arrivare a trovare in qualche modo la libertà vera che andiamo cercando. Pure per approfondire e sviluppare da' suoi diversi lati il vero concetto della libertà di coscienza, dovremmo metterci in altre questioni che con questa della libertà di coscienza si complicano; il che ci proponiamo di fare in appresso. Per ora ci contenteremo di conchiudere indicando i due caratteri principali che deve presentare il vero sistema della libertà di coscienza, i quali sono: 1) Che la legge civile non s' opponga mai né direttamente né indirettamente alla coscienza religiosa dei cittadini; 2) Che la libertà di coscienza conceduta dalla legge civile sia tale e tanta, quale e quanta può essere acciocché la legge non si contraddica. Questi caratteri essenziali riceveranno lume e sviluppo dalla trattazione delle seguenti questioni. Che i cittadini sieno uguali davanti alla legge è princìpio santissimo. Ma noi abbiamo veduto già, rispondendo alle questioni precedenti, quanti equivoci si possano prendere intorno all' intelligenza dei princìpii. La loro universalità, quel ch' è più, e le parole indeterminate con le quali s' esprimono, danno luogo a varie interpretazioni delle quali una sola è vera e l' altra è falsa. Al nostro tempo non mancano i princìpii, ma le società civili sono tuttavia sofferenti e non trovano riposo, perchè i princìpii si sono divulgati senza darsi cura di determinarne esattamente il valore. Laonde, i partiti appassionati ed irreligiosi, approfittandosi sofisticamente della loro indeterminazione, se ne prevalsero per ingannare ugualmente i popoli ed i governi. Quello che resta a fare, e che è desiderabilissimo che si faccia da tutti, si è riprendere in mano i princìpii che già si sono dichiarati, rimovere da essi l' indeterminazione dei significati, fissarne il vero ed unico senso, rendendoli intelligibili alle moltitudini sin qui corbellate. Quando il popolo stesso intenderà il significato legittimo di quei solenni princìpii, che gli si fanno tuttodì risuonare all' orecchio come altrettante parole magiche, finirà il giuoco de' mariuoli, sieno questi governanti o demagoghi, e la società entrerà nella strada d' un vero e veramente umano progresso. « I cittadini sono uguali in faccia alla legge »: che cosa significa? Questo, al solito, non si dice mai. Tutt' al più si traduce quel principio in altre parole egualmente indeterminate, come a dire: « le leggi debbono essere uniformi per tutti i cittadini ». La indeterminazione tanto dell' una quanto dell' altra formola, per poco che si considerino, è manifesta. La prima, dicendo che i cittadini debbono essere eguali in faccia alla legge, non dichiara in che consista quest' eguaglianza, e pure c' è indubitatamente una disuguaglianza anche in faccia alla legge: perché la legge stessa non giudica eguale colui che è innocente e colui che è ladro; ma mette in carcere questo secondo e lascia in libertà il primo: e così essa pronunzia, che questi due cittadini non sono eguali in faccia a lei. La seconda formola dice che le leggi civili debbono essere uniformi per tutti i cittadini; e qui del pari resta indeterminato di quale uniformità si parli. Infatti, se si prendesse la cosa alla lettera, tutti i cittadini dovrebbero essere soggetti a tutte le leggi; e così ne verrebbe l' assurdo, che le leggi civili non potessero essere fatte mai per una singola classe di cittadini, e che riguardassero soltanto a quello che hanno di comune e di uguale tutti affatto i cittadini. Si dirà, a cagion d' esempio, che le leggi fatte per regolare l' agricoltura, sieno uniformi tanto per gli agricoltori quanto per quelli che né lavorano, né posseggono terreni? O che le leggi che regolano l' esercizio della medicina debbano valere anche per quelli che non sono medici, e perciò non sono uniformi per tutti i cittadini, ma riguardano solamente una classe di essi, e tengono conto della disuguaglianza delle altre classi? Essendo tutto questo assurdo, è evidente per lo contrario, che gli indicati princìpii sono nelle loro espressioni indeterminati, e che involgono dell' incertezza nel modo in cui si possono intendere. Or bene, eccovi lo spirito d' irreligione e di sofisma che abusa di questa indeterminazione, e che si prevale di essa per condurre i legislatori e le leggi a favorire l' empietà, e a vessare ingiustamente i cittadini che professano la religione. Invece di fare quel che c' era da fare, cioè spiegare prima di tutto e determinare bene il senso di quelle formole, i filosofi politici, animati da quello spirito, ne deducono francamente la conseguenza che la legge civile non debba aver nessun riguardo a quelle differenze che nascono tra' cittadini dal professare alcuni una religione e alcuni un' altra, e alcuni nessuna religione, argomentando così: Le leggi civili debbono essere uniformi per tutti i cittadini. Ma non potrebbero essere uniformi, se esse tenessero conto delle diverse comunità religiose, e provvedessero a ciascuna di esse in separato, quando volgono relazioni con oggetti religiosi. Dunque le leggi civili, benché involgano relazioni con oggetti religiosi, debbono essere uniformi per tutti i cittadini, qualunque religione professino o non professino. Su questa argomentazione si fondò da' filosofi politici, noi lo vedemmo nelle questioni precedenti, la teoria del matrimonio civile. Dovendoci essere, a giudizio di costoro, delle leggi anche sul matrimonio uniformi per tutti i cittadini, ne venne di conseguenza che la legge dovesse stabilire un matrimonio estraneo ad ogni credenza religiosa; e in tal modo s' ottenesse in Francia (che ebbe però assai pochi imitatori) di stabilire per tutti, anche per la gran massa dei cittadini che non hanno rinunziato alla fede, cioè per la immensa maggioranza, quello che a tutta ragione si può definire: « Il matrimonio privilegiato de' pochi increduli ». La legge civile infatti non riconosce altro matrimonio. Così questa legge uniforme, favorevole esclusivamente agli increduli, e gravosa, ingiuriosa ed ostile a tutti gli uomini religiosi, pei quali il matrimonio è sacro, costituisce un vero privilegio sotto coperta d' uniformità. Que' filosofi dunque e que' legislatori, che credono di avere stabilito un argomento insuperabile nel sillogismo testé riferito, non s' accorgono e non vogliono accorgersi dell' incoerenza, in cui poi cadono, quando nella formazione dell' altre leggi non seguono più quel principio d' uniformità, inteso in un modo così assurdo. Poiché, riducendo, la questione alla sua generalità, noi domandiamo loro: si devono o non si devono osservare dal legislatore nella formazione delle leggi le differenze che dividono i cittadini in classi distinte? Se rispondono di sì, perché dunque pretendono che le leggi non abbiano riguardo alle differenze religiose, che pur dividono anche esse in differenti classi i cittadini? Se rispondono di no, perché dunque nella formazione di moltissime leggi hanno essi continuamente riguardo alle differenze che distinguono appunto i cittadini in diverse classi? E, per vero dire, sono assai poche quelle leggi che riguardano tutti egualmente i cittadini. Queste si riducono unicamente a quelle che non hanno altro oggetto se non l' uomo o il cittadino, senz' altra considerazione. Ma tutte l' altre leggi regolano e dispongono di condizioni speciali de' cittadini, e però riguardano esclusivamente certi gruppi di essi, gruppi o classi formate da certe loro differenze, a ciascuna delle quali ha minuto riguardo la legge. La legge civile, a ragion d' esempio, considera la differenza dell' età; quindi attribuisce diritti ed obblighi diversi alle diverse età; attribuisce ai minori d' età obblighi e diritti diversi che ai maggiori; punisce meno severamente quelli che non hanno passato un certo numero di anni di quelli che l' hanno passato; classifica dunque i cittadini secondo la differenza dell' età, e non pretende che le stesse leggi valgano per tutti ugualmente. La legge civile considera la differenza di sesso, e molte leggi ci sono che, fatte per l' uno dei due sessi, non possono valere per l' altro. Attribuisce ai maschi doveri e diritti civili e politici, che non attribuisce alle femmine. La legge civile considera la differenza delle professioni e delle arti; e ciascuna classe de' cittadini risultante da queste differenze è regolata da leggi sue proprie. La legge civile considera la differenza del sapere; fa leggi pei professori, per gli scolari, per le accademie degli scienziati. La legge civile considera la differenza dell' avere i cittadini impiego o no dallo Stato, e tra gli impiegati distingue i civili dai militari; ciascun dicastero ha i suoi propri regolamenti e le sue leggi. La legge civile considera la differenza delle fortune, quella della nobiltà di stirpe o personale, e innumerevoli altre differenze, che sarebbe lungo d' annoverare. Se dunque la legge civile è obbligata a considerare per la necessità stessa del suo fine, tutte le altre differenze dei cittadini, perché non sarà obbligata a considerare la differenza della religione? Perché questa sola differenza sarà disprezzata e negletta dalla legge civile, e riguardo a questa sola si metterà avanti il principio che la legge civile deve essere uniforme per tutti i cittadini, e non limitata ad una sola classe di essi? Perché solo in questo caso si teme che, se la legge civile si limita ad una classe, ella costituisce un privilegio? Quasiché la massima parte delle leggi civili non fossero necessariamente fatte per classi distinte, o quasiché fosse un privilegio il dare a tutti il suo, e non fosse anzi privilegio la legge universale, quando riesca utile a pochi e dannosa ed offensiva a molti? Come se dovendosi decretare l' uniforme per un esercito si pretendesse che la misura dell' abito si dovesse desumere dalla statura minima assegnata al soldato, e ciò per non creare un privilegio a favore de' soldati di statura più alta. Certamente ci sarebbe in tal caso l' uniformità materiale della legge, e lo Stato non somministrerebbe più braccia di panno all' un soldato che all' altro; ma la legge non si rimarrebbe d' essere stoltissima, e costituirebbe veramente un ridicolo privilegio a favore dei soldati più piccoli. In un modo somigliante, se quelle leggi che involgono relazioni con le credenze religiose e con i doveri e diritti che procedono dalle medesime, si vogliono fare materialmente uniformi, e per ciò stesso riguardare come non esistenti le differenze religiose, si avranno leggi d' uguale stoltezza, ingiuriose ed offensive a tutti i credenti, e favorevoli ed utili a quei pochi che avessero totalmente rinunziato ad ogni fede religiosa, e che sarebbero i privilegiati. Forse si risponderà che il legislatore non considera la differenza della religione, perché egli non vuol perscrutare i pensieri e le opinioni degli uomini: che le differenze religiose non sono differenze esterne; e che le altre differenze a cui la legge ha riguardo, essendo esterne, sono tali che distinguono gli uomini secondo la vita sociale. Certamente non mancherà e non è mancato chi risponda a questa maniera. Ma si può egli credere che una tale risposta sia di buona fede? Quando sia così, ella ci rivela la più crassa ignoranza di ciò che costituisce una religione. E infatti le religioni non sono soltanto opinioni interne, benché le interne e invisibili credenze ne sieno il fondamento: come anche in ogni altr' ordine di cose le interne opinioni e i sentimenti invisibili dell' animo sono il fondamento delle operazioni umane. Che cosa è dunque la Religione? La Religione è una credenza che produce un' esterna e visibile società; in ispecie la Religione Cattolica, l' unica vera e compiuta, è la grande società fondata da Gesù Cristo, la quale, oltre la fede, ha una organizzazione visibile, de' magistrati visibili, distribuiti in una certa gerarchia, e composta da un sorprendente numero di soci, sparsi sopra tutta la terra, che tutti si riconoscono come appartenenti al medesimo corpo sociale, aventi le stesse obbligazioni, gli stessi diritti, un culto esterno comune, un codice di leggi disciplinari, dei tribunali e dei giudizi. Tale è la Religione Cattolica. Incominciando dal simbolo, che è il segno esterno della fede, e che tutti sono obbligati di professare esternamente in faccia a tutti i governi civili, e anche a tutti i tiranni del mondo, sigillandolo con il proprio sangue, se l' empietà delle leggi civili a ciò li riduca: tanti altri sono i segni esteriori e visibili, tante le differenze profonde che separano questi credenti da tutti gli altri uomini, che presi insieme, tutti questi segni formano la maggiore e più complessa delle differenze esterne che possono mai separare una classe d' uomini da un' altra, una classe di cittadini da un' altra, né v' ha cosa che possa distinguere i cittadini tra loro, in tutta la loro vita e in tutte le loro abitudini, e in tutto il modo di operare, anche riguardante le cose umane, quanto questa credenza religiosa, da tutti quelli che la professano. Perché dunque il legislatore civile, che fa le leggi speciali per tante altre società di commercio e d' industria, società di lettere e di scienze, società di beneficenza e di carità, chiuderà poi gli occhi in faccia a questa sola, la più grande e la più importante di tutte, anche per gli interessi temporali, e dirà: Io non la vedo? Perché o affetterà d' ignorare o pretenderà d' essere obbligato a lasciar da parte una differenza così visibile, che è come città fabbricata sul monte, così luminosa, che è come il sole che illumina il mondo, una differenza che risulta da tanti doveri e diritti, costumi e azioni? Perché sarà così schifiltoso da adattare le sue leggi a questa immensa classe de' cittadini per non offenderla e danneggiarla con le sue leggi ne' più cari interessi di lei, e qui solo tutt' ad un tratto gli nascerà scrupolo di non forse creare a suo favore un privilegio, quand' egli pure adatta senza alcuno scrupolo, l' altre leggi all' altre classi e società, e tien conto, secondo il dovere, delle diverse condizioni in cui i cittadini si trovano, e delle varie loro differenze? Se la legge civile è istituita all' utilità de' cittadini, e non a soddisfare a chimeriche e incoerenti teorie, ella è obbligata certamente a rispettare tutti gli interessi religiosi dei cittadini medesimi; e quindi a considerarli, per non mettersi a cimento co' suoi ordinamenti di pregiudicarli. Non ha dunque il legislatore che due sole vie d' esser coerente a sé medesimo, o di proibire e condannare la Cattolica Religione (e lo stesso dicasi d' un' altra qualunque) o, ammettendole, di conformare ad essa le sue proprie leggi. Nel primo caso, non si parli dunque di libertà di coscienza; nel secondo caso soltanto questa libertà è salvata. La ragione dunque, che importa di necessità la coerenza, non si trova punto dalla parte de' legislatori di cui parliamo, e di cui è infetta l' Europa. Non è in un qualche ragionamento che si possa trovare il fondamento del loro sistema, ma nelle loro disposizioni d' animo e ne' loro istinti. Alcuni di essi non si persuadono che la Religione sia qualcosa di serio. Essendo essi indifferenti, o credenti freddi e trascurati, si persuadono che anche tutti gli altri cittadini non ne facciano gran conto, e sieno disposti facilmente a transigere, quando la legge civile viene a cancellare, se non direttamente, almeno le conseguenze, qualche linea del Codice religioso. Quindi, con tanto più piacere inseriscono nelle loro leggi qualche elemento d' empietà, inquantoché sembra loro con ciò di fare una bravata, e d' ostentare nello stesso tempo la potenza e l' autorità dello Stato, mettendola al di sopra delle cose divine ed umane. Schiavi del rispetto umano (segno di una gran debolezza di carattere morale), si mettono così al sicuro di non apparir troppo religiosi e un tantino increduli. E` questo un gusto delicatissimo alla loro vanità! Fatti uomini leggeri da questa loro tutta individuale disposizione (quando altramente potrebbero essere uomini serii), applauditi dagli increduli o settari di professione, a cui s' accordano tutti quelli che vogliono ficcarsi negli impieghi e procacciarsi onori governativi, con merito e senza merito, si trovano infine aver perduto totalmente di vista lo scopo vero della legge, la giusta e ragionevole soddisfazione di tutti i cittadini, per cui dovrebbe esser fatta. Costoro straziano i popoli e guastano le nazioni. Contro l' aspettazione poi, incontrano fermo ostacolo nelle coscienze, onde o sono rovesciati da' loro gradi, o, essendo scaltri e proteiformi, cedono senza convertirsi. Del resto, a coloro che s' immaginano poter le leggi civili indirettamente modificare la Religione Cattolica e abituare i cittadini cattolici a far senza di qualche suo articolo, come si tentò con il progetto di legge sul matrimonio civile, io direi: Disingannatevi; imparate a conoscere che cosa sia questa Religione: ella è un tutto solo, e questo è più duro del diamante: voi potrete con le vostre ugne graffiarlo quanto volete, ma non potrete farne saltare la più piccola scheggia, né manco un atomo. Infatti la Religione, per la sua propria essenza, o è tutto o è nulla: i cattolici lo sentono, e il volere che essi vi cedano un briciolo della loro religione, è impresa così pazza, come pretendere che ve la cedano tutta. E sta qui appunto un altro pregiudizio di certi civili legislatori: sono contrariissimi (a udire le loro proteste) a voler distruggere la Religione, ma si contentano che essa si adatti in qualche piccola cosa alle leggi civili dello Stato, e ciò per il pubblico bene. All' incontro la Religione Cattolica è di natura sua così inflessibile, sapete voi perché? perché è divina. Sembrando loro impossibile che la cosa sia così da vero, scherniscono come fanatici coloro che non si adattano alle loro voglie discrete. Ma tant' è: o conviene abolire il Cattolicismo con la legge civile, o conviene che questa legge s' inchini a lui riverente, lo rispetti in tutte le sue parti; se no, la legge cozzerà e si spezzerà contro lo scoglio: quelli che lo professano, il Cattolicismo, sanno d' essere in questo superiori alla legge civile, e superiori a tutta la forza da cui è circondata: poiché questa Religione è essenzialmente libera anche sotto il ferro, ed ella sola dà al suo seguace la vera indipendenza e il coraggio dell' uomo libero. Uno dei più grossolani equivoci è certamente quello che prende il volgo delle rivoluzioni, quando gli si fa risuonare agli orecchi la parola libertà . Per lui la libertà è la facoltà illimitata di fare tutto ciò che gli attalenta, di soddisfare agli impulsi delle sue passioni senza ostacolo d' alcuna autorità, di non essere obbligato ad alcun ordine nel suo operare. E` consentaneo che coloro i quali in un dato stato vogliono distruggere l' ordine stabilito, s' approfittino di questa viziosa disposizione d' una gran parte della plebe, e facciano risuonare a' suoi orecchi questa parola vaga di libertà, senza darsi alcuna sollecitudine di determinarla; anzi tenendola sempre a bella posta sull' indeterminato. Se ella venisse determinata ad un senso razionale, sarebbe finito l' incanto, e la magica verga si spezzerebbe nelle mani dei prestigiatori. Per questo è impossibile ragionare co' rivoluzionari di professione, e sperare di indurli a distinguere la libertà dalla licenza, considerando essi come mezzo opportuno al loro intento la confusione stessa de' concetti. Tutto questo non ci può sorprendere. Ma c' è una cosa che deve cagionare giustamente maraviglia, ed è, che non tutti quelli che prendono la licenza per la libertà , rivolgono per questo nell' animo di rovesciare i governi stabiliti: meraviglia ancor maggiore dee produre, che ce ne sieno degli altri che con quella confusione tanto volgare e tanto immorale credano di stabilirli; e sopratutto che anche non pochi di questi stessi che presiedono a' governi, almeno nella pratica, si mostrino di un tale avviso. Una persuasione così fatta genera una politica abbietta e dispregevole; si crede guadagnare al governo l' affetto del popolo abbandonandolo alla licenza e promovendola con mille modi indiretti sotto il magnifico nome di libertà; ma i governi immorali non solo si discreditano nell' opinione de' savi, ma il popolo stesso più si corrompe, e dispregia quel governo che gli fornisce i mezzi di corrompersi. Che se si cerca il fondo di questo sistema politico della licenza, si riconoscerà che i governi licenziosi, lungi dal mirare co' loro atti a stabilire la libertà, mirano veramente ad edificare il dispotismo: partono da una segreta persuasione che sia più facile dominare un popolo corrotto e sfibrato, a cui in pari tempo sia dato ad intendere che è libero, perché è libero il vizio di spaziare impunito, in parte anche onorato. Questa perfidia s' è più volte praticata tanto da' governi assoluti, quanto da' governi costituzionali e dalle Repubbliche, ché la forma del governo non impedisce punto che i governanti e i governi possano andar privi d' ogni moralità. Solamente che i primi non possono coprire la licenza sotto il mantello della libertà: è un previlegio de' secondi l' abusare ipocritamente di questa parola per trasformare il vizio in diritto pubblico. D' altra parte a questa maniera d' operare de' governi licenziosi, che per abuso di parole si dicono liberi, si rattaccano molte questioni: questioni di morale, questioni di diritto, questioni di religione e di politica. Che cosa è la licenza? - Ecco già una questione grave di morale, e può essere anco di religione, su cui si può disputare e si può non intendersi. Ha il governo civile il diritto di reprimere la licenza? o una qualche parte almeno di ciò che costituisce la licenza? - Ecco un' altra questione di diritto, che divide parimenti le opinioni. Può il governo reprimere la licenza, ogni licenza, senza mettere a rischio o la tranquillità o la sicurezza dello Stato? - Ecco una terza questione di politica, o di prudenza governativa, la cui soluzione varia indefinitamente secondo le indefinite circostanze in cui si trova la società civile. Ma qualunque sia la maniera di risolvere queste diverse questioni, conviene prima di tutto convenire in questo, che la licenza e la libertà sono cose diverse e che non conviene attribuire all' una il nome dell' altra, non conviene credere, o mostrare di credere, di far progredire la libertà quando si fa progredire la licenza. Ora la confusione delle idee nel mondo è pervenuta a tal segno, che su questo stesso è difficile ad intendersi « se esista della licenza », se differisca d' essenza dalla libertà, e l' una sia l' opposto dell' altra. Infatti, come possono concedere che si abbia una licenza opposta essenzialmente alla libertà, coloro che non riconoscono l' essenza della morale e tutto riducono ad un calcolo d' utilità? Egli è evidente, che agli occhi di costoro la licenza non può differire dalla libertà, se non per essere in certe circostanze inopportuna e disutile: non ci vedono costoro nessun male intrinseco ed assoluto: tutti credono dover valutare dagli effetti che la licenza produce. E da quali effetti? Non certamente da effetti moralmente buoni, o moralmente cattivi, ché la questione si volgerebbe in circolo, ma dagli effetti piacevoli o dolorosi, da vantaggi o svantaggi temporali, i quali si possono avere nella vita presente, da effetti utili e disutili alla potenza del governo e all' economia pubblica. Egli è dunque evidente che per tutti quegli uomini che non riconoscono la Morale, e non vedono altro che l' utilità e la disutilità nelle azioni umane, non ci può essere azione alcuna che non sia essenzialmente licenziosa e assolutamente malvagia. Epperò, se costoro hanno in mano le redini de' governi, non possono avere scrupolo a promulgare leggi licenziose e a pretendere disposizioni immorali, quando ci trovino il tornaconto, o credano secondo il loro calcolo di trovarcelo: né si può entrare con cotestoro in discussione su ciò, perché disconoscono la prima e fondamentale distinzione del bene e del male, sulla quale s' appoggia la dignità e la nobiltà del vivere umano e la sua viltà e ignobilità. Il nostro discorso adunque non può indirizzarsi a questi. Altro non possiamo dir loro, se non: ritornate ad essere uomini: se il vostro imbrutimento nasce da errore d' intelletto, istruitevi e vi sarà facile convincervi, che esiste una morale che non è l' utilità, e che quella è d' un valore assoluto, a cui niun vantaggio temporale è comparabile. Se poi, rinunziando alla morale, avete rinunziato anche alla ragione, e negate l' autorità morale unicamente perché non la volete, non ho alcun rimedio a suggerirvi; il libero arbitrio appartiene a voi, non a me; ma a chi ve l' ha dato appartiene il dimandarvene conto. Vi fo soltanto riflettere, che, se voi negate l' esistenza della legge morale e di una conseguente obbligazione morale, abdicate tutti i suoi diritti. Poiché come potete imporre altrui la obbligazione di rispettarli, quando negate ogni obbligazione? Dovete dunque convenire che voi non avete più diritti, perché non esiste più la natura del diritto, quando non ci sia di contro l' obbligazione morale che lo protegga; né voi potrete più lamentarvi, che gli altri uomini seguendo la vostra dottrina si levino la vita, l' onore, la roba, ecc., ogni qual volta il calcolo dell' utilità (ché nessun altro può fare per essi) li consiglia di operare in questa maniera. Vi resterà la forza: ma n' avreste sempre abbastanza per difendervi? Questo è quello che è dubbioso, specialmente se la dottrina che voi professate sia abbracciata da chi è più forte di voi. Lasciati adunque da parte costoro, noi vogliamo ragionare, come abbiamo cominciato, con uomini onesti, di buona fede, che non solo riconoscono l' esistenza d' una morale, ma l' apprezzano al di sopra di tutte le cose. Esistendo agli occhi di questi l' autorità, superiore ad ogni autorità, della legge morale, esiste per essi l' obbligazione e il diritto, la virtù e il vizio, la libertà e la licenza. Con costoro si può dunque proporre e discutere la questione: « che cosa è la libertà, che cosa è la licenza? ». La libertà, per contrapposto alla licenza, non può essere che il libero esercizio di tutte le facoltà umane regolato dalla legge morale. La licenza all' opposto è bensì in qualche modo un esercizio delle facoltà umane, ma non regolato dalla legge morale, anzi a questa opposto. Tutto quello adunque che è vizioso nell' umana attività, è licenza e non libertà: tutto quello che è lecito e virtuoso, appartiene alla libertà. Questi princìpii non possono esser addotti in controversia da quelli che ammettono l' ordine morale, né sono mai stati dubbiosi pel senso comune. Se dunque noi vogliamo partire da questi semplici princìpii, ci riuscirà facile rilevare quale sia la natura dei governi liberali, e quale la natura de' governi licenziosi che fanno uso riprovevole del nome di libertà per venirci. Poiché que' governi, che con le leggi e con le loro disposizioni lasciano i cittadini liberi ad operare quanto naturalmente è lecito e buono, questi, qualunque sia la loro forma, o monarchia, o aristocratica, o democratica, o mista, sono a tutta ragione governi liberali, e quanto più li lasciano liberi a ciò e meno dànno loro impacci di leggi e di decreti, tanto più sono liberali. Que' governi all' incontro, di nuovo qualunque sia la loro forma, che nella formazione delle loro leggi, e in tutti i loro atti seguitano la massima, che c' è tanto più di libertà in un popolo, quanto maggiore gli si lascia facoltà, e maggiore gli si dà occasione di ubbidire alle passioni e di sfogarsi ne' vizi: que' governi, di conseguenza, che con le dette leggi ed atti stabiliscono quasi un diritto universale l' essere impunemente licenzioso (il che provoca la pubblica licenza), questi, liberali falsamente si chiamano, ma sono veramente licenziosi. Egli è pur singolare a vedere che nell' animo di molti s' è confitta questa assurda opinione, che ci possa essere un diritto del vizio. Il vizio non può essere oggetto d' alcun diritto, assolutamente parlando, perché il diritto è cosa morale, non un semplice fatto: il diritto è una facoltà di operare protetta dalla legge morale, il vizio all' incontro è ciò che la legge morale condanna. Ma qui nasce un dubbio, che è quello che complica la questione e la rende difficile; poiché gli uomini viziosi difendono la loro libertà di peccare impunemente in due modi. Alcuni con la fronte alta vi dicono: noi siamo in diritto di fare quello che vogliamo. Alcuni altri, più cauti, dicono: l' operare viziosamente non può costituire un diritto, lo accordiamo, ma neghiamo che il governo civile abbia alla sua volta il diritto d' impedire l' operar vizioso e immorale; e però reclamano questa pretesa libertà. Questa è la seconda questione che ci proponevamo. Ai primi adunque crediamo superfluo rispondere, poiché quando dicono: noi abbiamo il diritto di operare tanto il bene quanto il male, scambiano manifestamente il diritto col fatto: che abbiano la libertà naturale d' eleggere il bene o il male non è che un fatto; non è e non può essere per modo alcuno un diritto: converrebbe confondere tutte le nozioni per dire il contrario. Se si ammette che l' operare il male sia proibito dalla legge morale; con ciò stesso si riconosce che non può essere. O dunque non ammettono l' esistenza della legge morale, e in tal caso non esiste più diritto alcuno, come dicevamo, ma dei puri fatti; o ammettono l' esistenza d' una tale legge, e in tal caso il diritto non può essere che una facoltà d' operare protetta dalla medesima, e però una facoltà d' operare il lecito. La potenza dunque che ha l' uomo di scegliere il bene ed il male, è un fatto naturale, che contiene un diritto, ma che non è tutta diritto nel suo esercizio; poiché operare il bene essendo approvato dalla legge morale, acquista con ciò la dignità di diritto; ma operare il male non ha in sé alcuna dignità morale, e però non può costituire diritto alcuno. Rispondiamo adunque ai secondi, a quelli che concedono a noi, che non si può dare un diritto assoluto del male, ma tuttavia vogliono stabilire un diritto relativo del male, cioè un diritto di non essere molestati dal governo a cagione del loro operare vizioso: onde in questo senso chiamano l' impunità del vizio, diritto di libertà civile. Interviene in questa questione un singolare equivoco. Volete voi dire, noi dimanderemo a costoro, che il vizio non possa essere represso dall' autorità de' governi civili, purché esso abbia qualche cosa di rispettabile, per un titolo insomma inerente al vizio stesso? Ovvero, volete dire che l' autorità del governo ha i suoi limiti, determinati dal fine della sua istituzione, e che la sua autorità a cagione di questi limiti non può arrivare fino alla repressione del vizio? La prima di queste due cose è così apertamente stravagante, che non fa bisogno di parlarne; convien dunque che vi appigliate alla seconda. Ora che cosa prova la seconda? Che cosa prova e che cosa viene a dire la proposizione, che il governo civile ha un' autorità ristretta entro certi limiti determinati dal suo fine? Null' altro, se non che il governo civile non avrà forse autorità di stabilire pene per tutti gli atti viziosi, potendovene essere di quelli che al fine della società civile non s' oppongono, almeno direttamente, ovvero che non si possono sopprimere senza cagionare un male maggiore. Ma poiché ci sono indubitatamente anche quegli atti viziosi ed immorali, i quali nuociono gravemente alla società civile ed al suo fine; per ciò appunto è da dire, che il governo civile abbia l' autorità e il diritto di reprimerli e di punirli. La questione in tale modo cangia di natura, e non si tratta più di sapere « se il governo possa e deva reprimere ciò che è vizioso, senza offendere la libertà »; ma si tratta di determinare entro quali limiti questo diritto del governo civile sia naturalmente ristretto, ristretto dico, non già da un sognato diritto di libertà che possa avere l' uomo a peccare impunemente, ma dallo stesso fine del governo, che ne determina le incombenze e i poteri. Ora questa è la seconda questione che noi accennavamo intorno al diritto e al dovere de' governi civili, di reprimere la licenza: tentiamone la soluzione. Ma prima qual è, ci si dice, la soluzione della questione nel sistema utilitario? parlo di quella che logicamente deriva da questo sistema. Sarà forse favorevole alla licenza? Può essere, ma certo è contraria alla libertà. Non esistendo più né morale né giustizia, per l' utilitario (poiché di tutte queste cose tien luogo la sola utilità) consegue che anche il governo civile, non possa prendere a sua direzione altra norma o regola, che la sola utilità. L' utilità checché si dica, è sempre ed essenzialmente personale, poiché colui che preferisce l' utilità altrui alla propria, non seguirebbe la norma della utilità, ma della virtù. Onde gli utilitari al governo devono di necessità considerare l' utilità propria come fine, l' altrui come mezzo, che è il carattere del dispotismo. Ma supponiamo che gli uomini del governo per una felice incoerenza si propongano a fine l' utilità pubblica; anche in questo caso ne verrà che il sistema penale, come ogn' altra disposizione governatica, sarà regolato unicamente secondo il calcolo dell' utilità. Quando la sia così, alla legge o ai giudici sarà facoltativo di sottoporre a pene anche degli innocenti, se parrà che questo sia utile. Così infatti presso certe nazioni utilitarie si puniva di morte il generale che perdesse una battaglia, benché senza la menoma sua colpa. Le vite dunque e le sostanze de' cittadini, ammessa una tale dottrina, sono subordinate a' calcoli utilitari, più o meno approssimativi degli uomini che governano. Ora da una parte quest' è il più orribile e barbaro dispotismo, dall' altra è la più obrobriosa servitù e il più profondo avvilimento della dignità umana. Per compenso questo governo tirannico potrà essere a sua voglia licenzioso, purché da' suoi calcoli utilitari risulti proficua la licenza. Il diritto penale filosofico senza alcuna base di giustizia era divenuto in fatti la dottrina comune, prima che Pellegrino Rossi, e qualche altro scrittore italiano, di nuovo lo rimettesse sulla sua base naturale ed eterna, rovesciata da sensisti e da quello spirito d' empietà e di immoralità che guastò profondamente ne' tempi recenti, più o meno, tutte le università e i governi d' Europa. Sembra già tempo di guarire da questa vertigine, di ritornare ai princìpii di giustizia e d' onestà, non meno che di ragione. Secondo questi princìpii esiste nello Stato un diritto di punire che non può applicarsi che ai colpevoli: è un diritto rivolto appunto a reprimere la licenza e a proteggere la libertà... (2).

Giacomo l'idealista

663175
De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Mentre andava cosí parlando, col cuore ghermito come dentro una mano di ferro, poté sollevaredonna Cristina dalla sua posizione umiliante, e, sorreggendola in un momento in cui parve che le forze stessero per abbandonarla, la condusse a sedere sul canapè: e nella coraggiosa dimestichezza degli istanti supremi, quando non restano che le anime nude a soffrire, le afferrò le mani, che essa si era portate al viso, gliele distaccò con forza, per cercare la fatale risposta nel fondo degli occhi. Essa sostenne un brevissimo istante il suo sguardo investigatore e tagliente: poi, cedendo avvilita, chiuse lentamente gli occhi in una dolorosa agonia. Fu allora che, riassumendo in un nome la formidabile tragedia: - Giacinto? - chiese lui, e strinse nelle sue irritate le piccole mani della contessa, che gemette di dolore. Essa rialzò gli occhi e li fissò con lento e pauroso stupore in viso al giovine, che l'ammaliava co' suoi. Fu un momento di tragico incanto. Giacomo vide balenare nelle pupille della madre una luce di spasimo immenso, che si spense in una piccola lagrima di supplicazione. - Ah Dio! - gemette: e, distaccandosi inorridito, la respinse cosí brutalmente che la misera donna cadde per la violenza dell'urto col viso sui cuscini, dove non trattenne piú nessuna voce di pianto. Il gran momento preveduto, ritardato, temuto e invocato con raccapriccio e con ansioso desiderio, era venuto; ora essa lasciava che tutti i dolori passassero sopra di lei. Si sarebbe detto che tutta la sua vita di donna, di madre, di cristiana, si rompesse sotto la frenesia di quel pianto, che stemperava l'anima, che non voleva riposo. E Giacomo? era per lui una tenebra fitta, un rumor sordo sotto i piedi come di terremoto, un senso acre e un peso di piombo in tutta la sua oscura esistenza. A questo fiotto di dolori, di terrori, a questo precipizio improvviso di mali, non resse: e si lasciò cadere pesantemente nella vicina sedia, a cui si aggrappò, còlto da un tremito, da una fisica incapacità di reagire. A poco a poco, passata la prima tumultuosa tempesta, quando gli spiriti cominciarono a calmarsi, si trovarono l'uno in faccia all'altra, sfiniti, come due miseri flagellati. Fu allora che Giacomo, seguendo la violenza del pensiero, si alzò, e agitando le mani con un movimento di spasimo, con parole che gli uscirono velate e scialbe, come se venissero da un uomo sepolto, - Signora! - disse - non posso piú resistere. Qualunque sia la mia disgrazia, aspetto prima di sera una sua lettera. Farò di tutto, perché entro domani le sia restituito il prezzo del disonore. Non aveva egli ancor finito di parlare che donna Cristina, scattando per una trafitta interiore, sostenuta dalla forza prodigiosa, che la natura femminile attinge da inesauribili profondità, gli pose una mano sulla bocca. Poi colle due mani, che ardevano di febbre, gli strinse la testa, e lasciando sgorgare dal sentimento mite e forte le parole come volevano venire, nel tono confidenziale, che aveva usato con lui quando era un giovinetto, senza la freddezza del pronome signorile: - No, Giacomo, non dite queste brutte parole, - seguitò amaramente - merito ogni oltraggio, non questo. Nessuno crederà mai che noi vogliamo comperare il vostro perdono. Non maledite a questo modo una povera madre. È la mia casa che rovina sulla mia testa, guardate! Il conte non sa ancor nulla, non immagina nemmeno quel che ci fa piangere, ma sarà un gran colpo il giorno che non gli si potrà piú nascondere la verità. Pensate, son la madre di Enrichetta, della vostra Enrichetta, che non deve sapere come si soffre e perché si soffre a questo modo. Se potessi dare tutto il mio sangue, perché non fosse avvenuto quel che è avvenuto, fino all'ultima goccia, Gesú lo sa se ne farei il sacrificio. Nemmeno il vostro dolore, Giacomo, è uguale al mio, no, no, nemmeno il vostro dolore! Nulla c'è di piú sacro sulla terra quanto un'angoscia di madre. Il giovine, che avrebbe voluto riprendere il suo risentimento e stringere in una parola d'esecrazione tutti i pensieri d'odio che gli tumultuavano nel cuore, si sentí, se non disarmato, molto impedito ne' suoi movimenti di violenza da queste parole. Perché avrebbe infierito contro una donna, contro una madre, che si era già umiliata piú di quanto a un cuore generoso piace di veder umiliato un nemico? Questo momento di esitanza bastò alla contessa per impadronirsi della fortezza di lui, perché pare dimostrato che, dove contrasta per un qualunque motivo un uomo con una donna, l'uomo perde sempre, se non vince subito. Giacomo, a cui non era ignota la storia della povera signora, che conosceva quanto avesse combattuto per sostenere l'ideale della sua casa, non seppe respingere con un atto di reazione brutale la seduzione dolente di questa voce, di queste lacrime, di questi occhi supplichevoli, di questa percossa bellezza, a cui le mani del dolore davano una cosí nobile e appassionata scompostezza. Come poteva dimenticare a un tratto che in questa casa era, si può dire, cresciuto come un figliuolo, e che a questa gente era in gran parte debitore della sua ricchezza morale? Sentendo in quest'urto di pensiero le piú forti risoluzioni venir meno, si avvilí del tutto. Una leggera vertigine lo colse, cominciò a tremare in tutto il corpo, l'occhio si coprí d'ombre per un istante rimase ignoto a sé, forse svenuto. Un vivo senso di freschezza alla fronte e un forte profumo lo svegliò. Donna Cristina, mentre sorreggeva la testa, passava un finissimo fazzoletto inzuppato un'acuta essenza sulla fronte, sussurrando parole, ch'egli non riusciva ad afferrare, come avviene qualche volta nei sogni. A poco poco, riconobbe il salottino, che gli parve immerso in un'acqua verdognola, come se ei sognasse veramente in un fondo di mare; riconobbe la contessa, che, seduta davanti, gli raccontava con brividi di febbre la tristissima storia d'una colpa. Celestina era innocente e il voler incrudelire contro di lei sarebbe stato peggio che calpestare una vittima. Ogni atto di severità, ogni parola acerba di rimprovero, lo stesso abbandono silenzioso sarebbe stato da parte di Giacomo un colpo mortale per la povera creatura. - Il male è grande - seguitava a ripetere la voce, che egli stentava ad afferrare, come appunto capita nei sogni - ma da ogni male si può ricavare una redenzione. Vendicatevi, dice il diritto volgare; perdonate, dice la legge del Signore. Una vendetta contro di noi è una cosa assai facile: ma voi esporreste Celestina al giudizio della gente. Non imploro per me e meno ancora per il disgraziato, che ci ha precipitati in questo abisso: ma, prima di lanciare una pietra, si pensi a quanti cuori ne andrebbero spezzati. Forse che Dio non ci perdonerebbe, se gli chiedessimo grazia con queste lacrime? Celestina per il momento è al riparo di ogni scandalo, e quanto si potrà umanamente riparare sarà riparato. - Non si risuscita un uomo ucciso, - interruppe Giacomo, stendendo i pugni verso la terra, come se provocasse una maledizione: - Dio, Dio, è il disonore, è il ridicolo, è la morte: avete sputato sull'innocenza d'una povera creatura, sulla mia dignità, sulla mia virtú, sul nostro amore . - No, no, Giacomo - supplicò la contessa. - No, no, no - proruppe egli piú forte, alzandosi, in preda a un singhiozzare nervoso. E poiché la contessa cercava con un'ultima insistenza di afferrargli la mano, egli se la cacciò con un gesto disperato dentro i capelli, e premendo con spasimo, la fronte corrugata: - Questo è l'inferno, disse - questa è la maledizione di Dio! Ma, Dio santo, qualcuno pagherà!. - E si mosse per uscire, dopo aver preso di sulla sedia il cappello. Donna Cristina fece un ultimo sforzo. Stese le braccia verso di lui, mormorando con una scossa dolente del capo: - Giacomo, noi vi abbiamo sempre voluto bene - e pose la mano sulla chiave, quasi per impedire che egli la lasciasse cosí. - Qualcuno pagherà col sangue - ruggí l'uomo ferito, mentre cercava di aprire; e colla furia di chi invoca uno scampo contro le fiamme che lo inseguono, tirò l'uscio, andò fuori: e, trovata nell'andito oscuro la scaletta, scese a precipizio, a lume d'istinto, uscí a precipizio dall'atrio, pigliando a scendere pel viale della fontana tutto giallo di foglie, senza vedere davanti a sé che una nuvola di nebbia, da cui non riusciva a liberare il capo. Valicata la soglia del giardino, entrò in una vigna, e poi da questa vigna in un bosco di castagni, che viene a cadere quasi sulla chiesa del Santuario, e sempre a corsa discese il dosso del Ronchetto fin sulla strada comunale, che traversò per entrare in altre boscaglie piú basse e piú fitte, sempre nella direzione del fiume. Cosí una fiera ferita cerca i cespugli e va a inasprire nei rovi la piaga che sanguina, ma teme, arrestandosi, di sentire piú vivo il suo dolore. Seguendo la stradicciuola che costeggia il corso dell'acqua, ora per luoghi aridi, ora per campi di stoppia, ora tra vecchie paludi disseccate, dove i canneti e le scope contrastano il terreno alle alluvioni, egli andava cercando il deserto per poter mandare il suo grido di dolore, un gran grido, che, non potendo uscirgli dalla strozza, minacciava di soffocarlo. La verità turpe, sguaiata, gli si avventava contro con impeti improvvisi, lo mordeva, facendogli provare orribili strazi, quantunque il caso gli paresse cosí inverosimile da far pensare piuttosto a un delirio angoscioso e crudele. Che Celestina fosse perduta per lui e perduta in quel modo nefando, era un pensiero atroce, che spingeva l'animo a propositi atroci: ma quando gli si presentava l'idea che in compenso di questo delitto, egli aveva allegramente accettato e speso un denaro che non era piú in grado di restituire: quando ricordava i commenti che la gente da un pezzo andava ripetendo alle sue spalle, erano lampi di vera follia che luccicavano nel suo cervello. I vili, i bigotti avevano voluto ipotecare la sua coscienza! I vili, i bigotti volevano pagare a denaro il prezzo di due vite! Ignominiosa bindoleria! esecrato delitto! A quest'infamia non c'era che una riparazione possibile: la lama di un coltello nel cuore dell'assassino, o nel proprio cuore. Oh distruzione di ogni illusione! oh rovina d'ogni ideale! Aveva cercato l'uomo morale e non trovava che la belva! Che farne di Celestina? come proteggerla contro i morsi del mondo? come purificare o almeno giustificare la sua condotta d'uomo pagato? Dove trovare credito e stima e un denaro meno infame per riscattare sé stesso da questa schiavitú? Se egli avesse potuto fare un gran rogo di tutta la sua casa e se in questo rogo avesse potuto gettare sé stesso, non gli pareva ancora sufficiente olocausto per redimersi da questo cumulo d'ingiustizie e di offese, che l'opprimevano. Anche dalle ceneri delle sue ossa sarebbe uscita abbastanza vergogna per far ridere un Brognòlico. Da qualunque parte si voltasse, si sentiva respinto, come se agitasse in una gabbia irta di punte. A impeti d'odio e di vendetta mescolavansi altre immagini piú miti che avevano nella loro desolazione la forza d'arrestarlo sul sentiero. Alla sua povera mamma non poteva dire: andiamo via, mi hanno assassinato. Egli non aveva il diritto di affamare dei poveri innocenti. O Dio, come mai era potuto venire in questo abisso di mali? In qual parte del mondo era egli vissuto finora, per non accorgersi di questa enorme e grottesca canzonatura, a cui aveva dato fin qui il nome pomposo di ideale filosofico? A che cosa aveva giovato a lui l'aver studiato tanto nei libri, l'esser vissuto onestamente povero, castamente fedele a una dolce immagine, se all'uomo sapiente e virtuoso non era riservata che una corona di spine e una finale fischiata? Inseguito, sferzato da questi furori, dopo aver percorso in un vacillamento da sonnambulo forse due miglia nel ghiaieto del fiume, trovato un luogo cespuglioso in mezzo a morti stagni, dove era sicuro che nessun occhio umano poteva rattristarsi della sua vista, si lasciò stramazzare sulla sabbia, che per voglia di mordere strinse nelle unghie e portò rabbiosamente alla bocca. Non aveva piú lagrime negli occhi, ma se le sentiva piovere sul cuore. Il patimento morale, fondendosi col patimento fisico in un unico spasimo, produsse un lungo e doloroso singhiozzo, in cui gli parve che si rompesse tutta la compagine della sua vita. Un'onda amara e verde di saliva rigurgitò e traboccò in un fiotto spumoso dalla bocca, mentre i sudori freddi scorrevano a irrigidire la sua carne. Rimase cosí come morto tutta la notte. Fu un sabbionaio che, scendendo sul fare dell'alba con un carro a prendere materiale al fiume, vide quel corpo intirizzito e umido di guazza. Riconosciuto el sor Giacom, lo prese sul carro e lo portò alle Fornaci.

Cerca

Modifica ricerca