Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Numero di risultati: 14 in 1 pagine

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Passa l'amore. Novelle

241514
Luigi Capuana 2 occorrenze
  • 1908
  • Fratelli Treves editori
  • Milano
  • verismo
  • UNICT
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Passava la giornata o parte della serata seduto sur un gran sasso davanti al portone, con una specie di coma che gli faceva socchiudere gli occhi e abbandonare la testa sul petto. Il vecchio contadino, che era stato antico fittaiolo di casa Zingàli, una sera finalmente era andato dalla baronessa, non ostante il divieto del barone. - Dovrà morire colà, come un cane? - Che possiamo farci?... Ha parlato di noi? - Mai, mai! Dice che aspetta una lettera dell'avvocato. Mandino almeno un dottore.... e un letto. Dorme vestito su la paglia, in un canto del trappìtu.... Fa pietà! Una mattina stava seduto su quel sasso fin dall'alba, ostinato a restare in quell'edificio dalle mura spaccate, dal tetto sconquassato, su quel po' di paglia, che gli serviva di giacigllo, fino al giorno in cui avrebbe avuto in mano la copia legale della sentenza. Aveva sbattuto i denti pel ribrezzo della febbre durante la nottata; ora si sentiva scoppiar la testa dal calore, quasi il sangue gli si fosse mutato in liquido ardente dentro le vene, quantunque l'aria mattutina fosse fresca. Sentendo uno scalpitìo di vetture, volse la testa. - Ah, signor barone!... Ah, signor barone!... Il canonico Rametta gli stendeva da lontano le braccia, il dottor La Barba Io salutava cavandosi il cappello. Egli fece uno sforzo per rizzarsi ed evitar di riceverli, ma ricadde sul sasso, appoggiandosi con le spalle al muro, mentre essi scendevano da cavallo. - Non ho bisogno di medico; non sono in punto di morte da dovermi confessare, signor canonico. Siete venuti come i corvi all'odor del cadavere? No, no.... Sono più vivo di tutti coloro che vi mandano.... Andate a dirglielo. - Siamo venuti per conto nostro, signor barone; pel bene che vi vogliamo, pel rispetto che vi dobbiamo.... - Ho qui un plico per lei, da Catania. L'ha portato ieri sera mio cognato.... - Grazie! Date qua.... Grazie! Gli occhi torbidi e stanchi gli si rianimarono un poco. Le mani palpavano con un tremito di carezza il plico, ma non tentavano di aprirlo. La commozione gli aveva tolto ogni forza,... Sorrideva, agitava le labbra, ma non poteva parlare. Accennò al dottore che lo aprisse lui e leggesse.... - Che cosa è, dottore? - lo interruppe. - Qui!... Qui!... Accennava al cuore. Soffriva una smania dolorosa, una puntura acutissima. - Non voglio morire!... Non devo morire! - balbettava. Il dottore e il canonico si guardarono in viso. Mentre il dottore lo sosteneva per le spalle, il canonico, chinatosi premurosamente su lui, gli susurrò con voce compunta: - Faccia la volontà di Dio, signor barone! Dio padrone della vita e della morte!... Il barone spalancò gli occhi. - Non voglio morire! Non voglio morire!... Soffoco!... Dottore!... Implorava disperatamente aiuto. - Si rassegni, faccia la volontà di Dio! - ripeteva il canonico inginocchiato davanti a lui. Il povero moribondo scosse la testa, raccolse le forze: - Ah!... Questa, no, Cristo non doveva farmela! E portando le mani al cuore e tentando di strapparsi il vestito, con le sopracciglia corrugate e l'espressione dura e orgogliosa dei Zingàli nello sguardo, soggiunse, balbettando quasi con minaccia: - Ma.... ce la vedremo lassù!... Non.... doveva.... far.... E il rantolo dell'agonia gli troncò la parola su le labbra convulse.

Pagina 129

E si era tanto divertito, che aveva dovuto abbandonare la costruzione del palazzo, darsi in mano agli strozzini, troncare, di nascosto dagli avvocati e con enorme suo danno, liti che non si potevano perdere, pur di raccapezzare alla lesta, a furia di transatti, i quattrini che gli occorrevano per un viaggio a Napoli, per una apparizione da Cavaliere d'onore alle Corti di Ferdinando I e di Francesco I, per una ballerina dal Bellini di Palermo o del San Carlo di Napoli riducendosi, negli ultimi anni, ad abitare in quel paesetto, in quel palazzo che già rovinava prima di essere finito, dopo aver visto vendere all'asta i due bei palazzi e la loro ricca mobilia - uno in Palermo, l'altro in Catania - che l'avolo di lui s'era fatto fabbricare verso la fine del 1600, ed erano passati intatti di padre in figlio, fino al suo matto pronipote! Per questo la baronessa donna Fidenzia osservava con una specie di terrore tutto quel rimescolìo di cartaccie che teneva occupato suo marito, e si era sentita stringere il cuore alla risposta di lui: - Cento-Salme è nostro, non del marchese di Camutello!

Pagina 93

Cosima

243831
Grazia Deledda 1 occorrenze
  • 1947
  • Arnoldo Mondadori Editore
  • Milano
  • verismo
  • UNICT
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E furono ore di schietta, innocente allegria; e Cosima poté anche, contemplando il tramonto sulle cime opposte della valle, sopra gli oliveti sognanti, mettere da parte i tenebrosi propositi di abbandonare i suoi sogni di poesia; la ferita si chiudeva, ed ella provava come una gioia di convalescenza, quando, a stendere un'ombra sulla luce del suo cuore - la sola luce ch'ella sentiva di essere vera, limpida e dissetante come la sorgente della roccia - apparve, sulla strada sovrastante, la figura di Fortunio. Al solito, pareva che egli fosse sopraggiunto per caso. Dall'alto dei paracarri si affacciò e parlamentò con le sorelle, che lo invitavano ad avvicinarsi, a prendere parte alla merenda, con un certo diritto, poiché la roba l'avevano portata loro; ma egli rifiutò, severo e triste, conscio, anche lui, del posto che gli spettava: affacciato al parapetto dello stradone in modo che la sua gamba storta non si vedesse, e risaltasse la bella testa con gli occhi e le vivide fresche labbra lucenti al riflesso del tramonto, guardava con tristezza lontano, e appoggiava la guancia alla mano fina, dalle unghie che parevano di alabastro rosa. A Cosima pareva una di quelle figure romantiche che le piacevano nelle vignette di qualche antica edizione di Chateaubriand, possedute da Santus; cosí, un giovine sventurato, preso da una segreta passione, che si smarrisce nella solitudine di un tramonto campestre e appoggiato al riparo di un precipizio, o seduto sul tronco abbattuto di una quercia, fra tralci d'edera e rupi coperte dal fiore del muschio, medita sulla sua triste sorte. Triste, certo, era la sorte del giovine Fortunio, e il cuore di Cosima non poteva non accoglierne l'eco, fra le voci poetiche che le raccontavano l'eterna poesia del dolore umano: e cosí, quando la comitiva prese la via del ritorno, lasciando lo sventurato poeta solo appoggiato alla roccia della sorgente, intento a sentirne anche lui il mormorio melanconico, fra le ombre già dorate del crepuscolo, ella si sbandava, a capo chino, mentre le compagne si rincorrevano nello stradone e cantavano e ridevano come figlie di contadini, al ritorno dal lavoro dei campi. Sorge la luna, fra i denti del monte, sopra i macigni che dànno l'illusione delle rovine di un castello: il suo chiarore lilla si fonde con quello arancione dell'orizzonte; l'odore della vegetazione inumidisce l'aria tiepida; canti lontani rispondono a quelli delle fanciulle che accompagnano e trasportano sull'ala del loro coro la tristezza indistinta di Cosima. Che cosa vuole, Cosima? Non lo sa bene neppure lei: vorrebbe fermarsi, non tornare nella sua casa soffocante, appoggiarsi anche lei al parapetto dello stradone, sopra la valle piena di mistero, seguire il corso della luna sul cielo sempre piú chiaro e luminoso. Le compagne non badavano a lei: le sorelle, stordite dall'allegria delle amiche, si lasciavano trascinare avanti, e lei rimaneva sola, sperduta, come dimenticata nella strada e nel mondo. Sopraggiungeva qualche carro di contadini, trainato dai buoi sonnolenti, qualche uomo a cavallo, qualche tarda donnicciuola che ritornava dall'aver lavato i panni al torrente: le ombre si allungavano di traverso sulla strada bianca, le voci e i passi risonavano dolci nell'aria molle e profumata. Ed ecco un passo diverso dagli altri, con qualche cosa di ambiguo, come il passo di un essere fantastico, uno gnomo, un gigante che tenta di non far rumore, o un Belfagor fatale, o un arcangelo che con un batter d'ali può trasportarti fra le torri d'argento e gli spalti lunari della montagna. È Fortunio: sarebbe stato piú in carattere con la chitarra a tracolla, come un trovatore sceso appunto dai boschi d'elci che circondavano gli illusorii castelli dell'orizzonte: ad ogni buon fine aveva ancora un libro in mano; un libro che biancheggiava alla luna, con le parole magiche che aprono la porta dei sogni. Versi; versi d'amore. Raggiunse Cosima e le si mise a fianco, silenzioso. Ella non si stupí: tutto doveva procedere cosí; e quando egli le cinse lievemente le spalle col braccio che tremava ella non protestò, non cercò di liberarsi. Tutto doveva procedere cosí: era una cosa ordita dalle sorelle maliziose di Fortunio, ma pareva anche un incantesimo prodotto dall'ora, dal luogo, dalla sorte che protegge gl'innamorati. Anche l'ombra folta che si stendeva al margine dello stradone, in una svolta ove le rocce scendevano fino al paracarri, parve una tenda di velluto, che avvolse i due giovani poeti e permise ai loro freschi volti di formarne uno solo il volto dell'amore. Tutto sembrava proteggerli: il modo facile di scambiarsi le lettere, la strada in comune, la vicinanza dei loro orti. E dell'orto di Cosima, di notte, quando si sapeva che la madre e le sorelle riposavano, la prima avvolta anche nel sonno dal suo velo di sofferenza e di preghiere, le seconde nei loro sogni ancora bianchi di innocenza, Fortunio riusciva, nonostante la sua infermità, a scavalcare il muricciuolo, e ritrovare, sinceramente ansante e appassionato, all'ombra di un angolo protettore, la sua piccola amica che sembrava, cosí sbalordita e silenziosa, il fantasma di se stessa. Ella si lasciava baciare da lui, ne sentiva il calore della persona, i fremiti e gli ansiti di eroe incatenato, la violenza impotente con la quale egli avrebbe voluto portarsela via: ma una fredda, quasi malvagia potenza di analisi la sosteneva in quella specie di lotta dei sensi contro se stessa e contro l'altro; e ne usciva stanca, disgustata, amara di umiliazione e di rimorso. Anche di rimorso: poiché credeva, fra le altre cose, di commettere peccato: ella non avrebbe mai sposato Fortunio. Finché la vicenda non trapelò, destando una nuova ondata di scandalo fra la gente per bene del luogo. Eh! si capiva; Cosima sola era capace di quelle avventure, con uno storpio, un bastardo, un rinnegato dalla sorte. E un giorno Andrea disse, in pubblica piazza, che avrebbe fracassato col bastone l'altra gamba del «suonatore di chitarra»; e a Cosima somministrò una dose di schiaffi e pugni che oltre le membra le pestarono l'anima come il sale nel mortaio.

Pagina 105

Documenti umani

244735
Federico De Roberto 1 occorrenze
  • 1889
  • Fratelli Treves Editore
  • Milano
  • verismo
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Il dover suo era di non abbandonare quella donna, suo malgrado! Chi gli diceva, infatti, che il tradimento di cui ella si era creduta vittima, non l'avesse spinta a rappresaglie; che, per colpa di lui, ella non si fosse interamente perduta?... Una specie di rimorso sorgeva allora nell'animo del Landini, un rimorso che era, in fondo, una forma di egoismo: poichè il rimprovero di averla potuta far cadere in braccio ad altri si risolveva nel rammarico di non averla più per sè.... E una grande tenerezza lo vinceva, a poco a poco, pensando a tutto quello che era stato fra di loro, a quel romanzo bruscamente troncato e non finito, così, senza ragione, per quelle assurdità di cui la vita è tanto feconda... Però, in quella lettera improvvisamente pervenutagli, quando egli si era già rassegnato all'assurdo, era la parola che avrebbe tutto spiegato. Egli riconosceva a questo tratto l'indole fiera, appassionata, di quella donna di cui si era fatto un tipo ideale. Si era creduta offesa, e nulla era valso a piegarla; ora, dopo l'espiazione di tanti anni, ora soltanto, ella veniva ancora a lui!... Che cosa gli avrebbe detto? Come avrebbe ridestata la memoria di quel passato? Quali dolci, quali armoniose, quali poetiche parole avrebbe adoperate per ricordare tanta dolcezza, tanta armonia, tanta poesia?... Alla luce improvvisa della lampada che il servo reggeva affacciandosi all'uscio, il Landini si accorse che era già notte fatta. - Si sente male, signore?... - chiedeva timidamente la persona di servizio. - No, no; lasciate qui il lume. - Il signore non desina dunque quest'oggi? - Fate apparecchiare... mi avvertirete... E appena rimasto solo, avvicinatosi alla lampada, egli dischiuse accuratamente la busta, con mano un poco tremante. Ne cavò una carta ricoperta sulle quattro facciate da una fitta scrittura, e un foglietto dello stesso gusto della busta. Il Landini vi cercò l'intestazione; non ve n'era. La lettera diceva così: "Voi sarete molto sorpreso di ricevere la presente, e vi troverete certamente costretto di correre alla firma per conoscerne la provenienza!... Il tempo ha le ali, e col tempo la forma della nostra scrittura si modifica, da rendersi irriconoscibile! Il nostro modo stesso di pensare si trasforma; ed è per questo che io sono stata, e sono ancora in forse di scrivervi, supponendo che ciò possa non farvi il piacere di una volta! "Vorrete quindi perdonarmi se, facendo appello alla vostra amicizia, che suppongo inalterata, vengo ad importunarvi per chiedervi se posso firmare l'acclusa transazione, desiderando conoscere a quali conseguenze andrei incontro per tale atto. In una quistione d'interessi che si trattano fra parenti conviventi nella stessa casa, non potendo dimostrarmi diffidente a viso aperto, io che non m'intendo di affari, non ho voluto impegnarmi prima d'aver sentito il parere di una persona su cui si può contare. "Accettate, non è vero? Domani mi farete avere una risposta? Sarei venuta personalmente, se non avessi temuto di disturbarvi ancora di più che con la presente. Il passato non ci è sempre gradito; lo comprendo anch'io! La vita ha le sue esigenze; ed io non sono così ingenua o così presuntuosa, da supporre che in questi dieci anni voi abbiate potuto pensare a quello che fummo. So, del resto, che vi siete divertito; e chissà quante altre imagini si saranno sovrapposte a quella che io ho temuto di ripresentarvi dinanzi! Guardate: divento indiscreta!! Perdonatemi anche questo e vogliate credermi a ogni modo, con rinnovate scuse ed anticipati ringraziamenti, cordialmente vostra: Anna Solari. - Fiesole, lunedì." Il servo stava di nuovo sull'uscio, interdetto, chiedendosi se il suo padrone non fosse ammattito, perchè all'annunzio che la zuppa era in tavola, lo aveva guardato con occhi stralunati, come uno cascato dalle nuvole. - È in tavola?... Va bene, va bene.... Sul punto di passare di là, Carlo Landlni si stropicciava gli occhi. Credeva di aver sognato, tanto quella lettera era incredibile, tanto egli era rimasto male! Che grossolana illusione era stata la sua!... Gli anni erano davvero passati, se quella donna era così mutata, se scriveva di quelle lettere, se domandava una consultazione legale, - a lui! - se profanava il ricordo del loro amore con quella freddezza studiata, con quel tono di filosofica rassegnazione, con quelle allusioni indiscrete... E non un accenno alla enimmatica rottura che lo aveva mortalmente ferito; non una spiegazione - nè data, nè chiesta!... E diceva di temere che egli non avrebbe riconosciuto il carattere di lei, mentre, appena scorta la lettera, gli era mancato il respiro! E diceva di sapere che egli si era divertito, mentre quell'imagine gli era stata sempre inchiodata nel cuore, come un rimpianto, come un rimorso, come l'aspirazione di tutta la sua vita!... Ma, dunque, era realmente mutata quella donna, o era stata sempre ad un modo e soltanto la sua fantasia di innamorato ne aveva fatto un ideale?... Carlo Landini scrollò le spalle, sedendo a tavola. Il suo romanzo era finito, definitivamente; e quella lettera ne rappresentava l'epilogo prosaico e volgare. - Un romanziere non avrebbe nessun partito da trarne! - si diceva egli mentalmente, e non pensava che i romanzi veri, i romanzi fatti nella vita e non ideati per amore dell'arte, finiscono quasi sempre così.

Pagina 307

Il marito dell'amica

245053
Neera 1 occorrenze
  • 1885
  • Giuseppe Galli, Libraio-Editore
  • Milano
  • Verismo
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. - Dovrà allora abbandonare il suo capitano. - O tenerli entrambi. Il silenzio si rifece su queste parole. La carrozza andava avanti lentamente, nelle vie semi buie dei sobborghi lontani dal centro. Tratto tratto un fanale sull'angolo di una viuzza o al di sopra di una bottega gettava nell'interno un rapido sprazzo; fu in uno di questi momenti che Maria vide lo sguardo di Emanuele rivolto su di lei e ne provò un senso di tormento che tradusse rincantucciandosi più ancora nel buio. La sua gran calma era messa a una dura prova, nè ella stessa avrebbe saputo dire se più temeva la vittoria o la sconfitta. Giunta a casa si fermò a discorrere con Sofia cinque minuti, in piedi, tra due usci. Sofia le disse che il giorno dopo doveva andare ancora a trovare il suo bambino, che sarebbe tornata subito, e appena appena fosse rimesso in salute l'avrebbe condotta anche lei a trovarlo. Non glielo voleva mostrare brutto, giù di ciera... Le mamme sono molto civette... La salutò, baciandola sulle guancie, e poi sul punto di allontanarsi: - Ah! mi dimenticavo; domani è il mio giorno di ricevimento; sarò a casa per l'ora delle visite, senza alcun fallo, ma se capitasse qualcuno, te ne prego, fa gli onori e scusami presso i miei amici. E scusami tu pure. Sotto l'apparente volubilità, l'accento di Sofia aveva qualche cosa di incerto, come un pensiero nascosto a stento nell'onda delle parole; Maria, nel salutarla di nuovo, sentì che le tremava la mano e si ritirò turbata da mille dubbi strani, inverosimili, malcontenta di una posizione dove tutto era mistero. Emanuele amava Sofia? Sofia gli sarebbe rimasta a lungo fedele? Sapeva ella qualche cosa del passato di lui? Egli si curava dell'avvenire di lei? Da qual parte stava la virtù? Chi soffriva più dei due?... Chi mentiva meglio? Queste e altre domande fluttuarono per alcun poco nella mente di Maria, confuse alle impressioni del concerto, all'attitudine spavalda di Bandini e a quella indifferente di Emanuele; ma tutte insieme non erano di natura tale da tenerla desta; al contrario le pesarono e le si aggravarono addosso finché trovò pace in sonno greve, senza sogni. All'indomani, era un bel mattino primaverile e gaio, il terzo da che Maria si trovava a Milano. Aprendo la finestra le parve di sentire un'onda di profumi che venissero a darle il buon giorno. Maria li respirò a lungo, sentendosi rinascere nella purezza dell'aria fresca. Appoggiata al davanzale, mentre respirava gli olezzi del sambuco e delle glicinie fiorite, le veniva in mente il suo meraviglioso giardino delle Estancias, dove tutta la flora americana pompeggiava nel massimo sviluppo, dov'ella aveva trovato la pace, dove tanti cuori di persone ignoranti e buone l'avevano amata sinceramente - e si domandò se era tornata nella sua patria per rivedere una vana amica e un amante infedele. Dovette pur confessare a sè stessa che la speranza di incontrarsi con Emanuele l'aveva spinta al lungo viaggio; e perchè la speranza non aveva oramai ragione di essere, poichò il passato era irrevocabilmente distrutto, a che restare? Da un alto ramo della glicinia si staccò una fogliolina lilla, attraversando lo spazio: roteò un istante portata da una folata di vento, leggera, iridescente, bagnata nei vapori biondi del mattino che la facevano scintillare come un ame tista, poi cadde a piombo sul viale, dove fu presto confusa nell'umida e grigia uniformità della sabbia. - Così è! - mormorò Maria a fior di labbro; e si staccò dalla finestra, tranquilla, ma con una punta di malinconia in fondo al cuore. Nella cameretta che le avevano assegnata e che serviva prima di studiolo, c'era una libreria. Maria incominciò a guardare distrattamente il titolo dei libri, quasi tutti romanzi e poesie, finchè la colpì il cartoncino di un piccola volume; quel cartoncino era giallo, con dei mazzi di rose rosse, somigliante a nessun altro; antico, puerile nelle sue aspirazioni di eleganza; aveva i tagli dipinti in color lacca e un nastrino verde, succinto, pendeva dal mezzo delle pagine. Ella sentì un palpito alla vista di quel libro, lo prese tremando; era Puschin, uno di quelli che aveva letti in compagnia di Emanuele, uno de' suoi più simpatici. Lo strinse nelle mani come un amico, e si pose a sfogliarlo febbrilmente, quasi dalle carte ingiallite potessero uscire fresche e vitali le illusioni d'una volta. Rilesse: «Le procelle delle passioni rinfrescano, rinnovellano, maturano i cuori di vent'anni e fanno loro produrre splendidi fiori e frutti; ma nell'età provetta e infeconda il ravvivamento degli affetti, non genera che doglia e pianto, simili alle piogge d'autunno, che sfrondano i boschi.» «Felice colui che si alza dal banchetto della vita prima di vedere il fondo del bicchiere. » E rimase col libro aperto, abbandonato sui ginocchi e sovr'esso gli occhi immobili pieni dì lagrime. Fu bussato all'uscio timidamente. Maria si alzò. Era la cameriera che veniva a chiederle se le occorresse la sua opera prima della colazione. - La colazione? - domandò Maria trasognata - Quante sono le ore? - Le dieci e mezzo. Il padrone è già nella sala da pranzo. Il padrone! Maria aveva dimenticato che la. sua amica non c'era, che il padrone sarebbe stato solo con lei. - No - rispose in modo reciso - non vengo a colazione. Favorite dire al mio domestico che si tenga pronto. Esco. Uscì difatti quasi subito, seguita da Pablo.

Pagina 64

Il ritorno del figlio. La bambina rubata.

245492
Grazia Deledda 2 occorrenze
  • 1919
  • Fratelli Treves, Editori
  • Milano
  • Verismo
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L'uomo intanto si era seduto dall'altro lato della tavola, senza abbandonare la sua roncola. Allora io trassi il taccuino e ne strappai alcuni foglietti blanchi. Sul primo scrissi: "Sono venuto a chiedervi la mano di Fiora. Voglio coltivare il mio terreno, e fabbricarci una casa,,. Spinsi il foglietto attraverso la tavola: l'uomo lesse; parve rassicurarsi; sollevò il viso e mi guardò. Ah, adesso, sì, i suoi occhi rassomigliavano a quelli del ritratto. Egli si rideva di me. Ma io tornai ad alzarmi, come sull'altura del mio terreno, e il mio aspetto e i miei occhi avevano certo qualche cosa di minaccioso perchè l'uomo ripiegò tosto il capo e rilesse il foglietto. Io feci il giro della tavola, mi misi accanto a lui, dominandolo con la mia persona; gli posi il lapis davanti. Egli ne bagnò la punta con la saliva, scrisse: "Fiora è fidanzata: lei sola deve scegliere il suo stato,,. Io mi chinai e scrissi: "Voglio sapere subito dov'è,,. E con mia gioia e sorpresa l'uomo mi diede l'indirizzo di lei. Potevo dunque cercarla, scriverle, dirle tutta la mia pena e le mie speranze, farmi intendere da lei. Fu tanto il mio sollievo, che non mi impressionò il vedere d'un tratto alcune figure d'uomini aggrapparsi alla finestra alla quale si era affacciata la vecchia. C'era anche il ragazzo col cane: e tutti mi guardavano attraverso le sbarre dell'inferriata come una bestia rara e pericolosa in gabbia. Lo stesso cane aveva una diversa disposizione verso di me: abbaiava, e il ragazzo doveva tenerlo fermo per impedirgli di entrare nella casa. Io non avevo più paura di nulla, di nessuno: mi sentivo la forza di lottare anche coi cani arrabbiati. Misi il foglietto con l'indirizzo nel portafoglio e anche questa volta lasciai intravedere il denaro che avevo là dentro. Vidi il ragazzetto che si volgeva agli uomini come per dire: "vedete che non sono stato bugiardo,,, e subito mi pentii del mio atto. I mietitori erano tutti dei poveri diavoli, tristi, bruciati dal sole e dalla fatica: mi pareva di averli insultati col far loro vedere il mio denaro e la mia speranza. Se ci fosse stata un'osteria lì accanto, li avrei invitati a bere: non potevo domandare del vino a quell'uomo che non cessava di tenermi d'occhio, con la sua roncola in mano: però mi venne una delle solite idee: salutai, e nell'andarmene feci segno al ragazzetto che mi venisse incontro nella strada. Ci arrivò lui prima di me. E io gli diedi una moneta, accennandogli di comprare del vino e distribuirlo a mio nome ai mietitori. Avevo fatto qualche centinaio di passi quando due di essi mi raggiunsero e mi si misero uno per fianco cercando subito di farmi intendere qualche cosa: mi proponevano, a quanto ho potuto capire, di farli lavorare nel mio terreno. Erano tutti e due scalzi, coi piedi enormi di vagabondi, coi capelli rossicci e il petto nudo che pareva scorticato. Al tramonto le loro ombre si allungavano come due pali davanti a me ai fianchi della mia ombra tozza; e le loro falci scintillavano. Mi destarono dapprima un senso di diffidenza: mi sembrava, guardando le nostre tre ombre sul bianco della strada, di essere Cristo fra i due ladroni. Ma gli occhi dei due uomini erano buoni, dolci, e mi rassicuravano. Si arrivò al paese che era già sera. Il mio treno partiva alle dieci e io mi fermai per mangiare qualche cosa in una piccola trattoria popolare vicina alla stazione, ove di solito cenavano i ferrovieri, gli operai, i carrettieri e i facchini. Anche i miei due compagni entrarono poco dopo di me e presero posto a una tavola accanto alla mia. Ma ordinarono solo del vino. Avevano con loro del pane e pomidoro; ed uno di essi mi accennò scherzosamente se volevo partecipare al loro pasto. II locale costruito in legno, cucina e sala da mangiare assieme, era rischiarato da lumi ad acetilene che spandevano un odore soffocante e una luce cruda velata dal fumo dei fornelli. Uomini in camiciotto azzurro, soldati e ferrovieri entravano ed uscivano. Non si vedeva una donna, tranne quelle che stavano nella cucina. Io ordinai uova e frutta e del vino bianco che subito mi diede una leggera ubriachezza. Alcuni soldati vennero a sedersi alla mia tavola; erano giovani allegri e si urtavano ridendo e, offrendosi il vino con tale insistenza che se lo versavano addosso. Mi venivano in mente i miei compagni d'Istituto, i giuochi e gli spintoni con loro. Una grave tenerezza mi vinceva: quel movimento, quelle luci attorno, mi davano un piacevole capogiro; pensavo di prendere il treno, ma di non fermarmi presso la zia: potevo proseguire in cerca di Fiora: consultai l'orario: quando sollevai gli occhi non vidi più i due mietitori. Il locale era pieno di gente; il padrone con tre bottiglie e tre piatti per mano non faceva a tempo a servire tutti. Suonai più volte perchè mi portasse il conto: egli sembrava più sordo di me. Stanco di aspettare, mi alzo e vado in fondo, verso la cucina: urto contro qualcuno; finalmente riesco a farmi capire: ma quando cerco i denari per pagare mi accorgo che non ho più il portafoglio.

Pagina 115

Infatti la porticina del corridoio era aperta, con un barlume di luce in fondo: io picchiai, senza abbandonare il mantello dell'uomo, che sembrava un po' impaurito ma non cercava di allontanarsi; e subito riapparve iI vecchio: ci venne incontro, disse qualche cosa. Qualche cosa che doveva essere molto rassicurante perchè il nano non esitò ad aprire il suo mantello e a dare al vecchio un involto bianco.... Mi ritrovai solo nella strada, appoggiato al muro della casa del mio creditore. Mi pare che piangessi. Non so, ero tutto agitato; mi pareva di dovermi spaccare e cadere a pezzi per terra.

Pagina 184

Il romanzo della bambola

245688
Contessa Lara 4 occorrenze
  • 1896
  • Ulrico Hoepli editore libraio
  • Milano
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Si deve abbandonare ogni idealità pretensiosa, e sopratutto la fissazione di fare una parte principale nella vita. Ciascuno, si sa, è necessario: altrimenti Dio non lo avrebbe posto al mondo; ma egli è un sassolino, niente altro che un umile sassolino, nell'immenso, meraviglioso edifizio che si va costruendo da secoli e secoli con pietre tutte eguali, benchè qualcuna sembri grande e qualche altra piccina. A poco a poco, nel cervello di cartone del burattino le memorie del suo tumultuoso passato si confondevano come un sogno di cui le immagini si cancellano insensibilmente; e tutti i trionfali successi ottenuti su le scene di tanti paesi diversi, paesi non veduti da lui nè da' suoi compagni, viaggianti entro un bussolotto, erano ormai echi cosi deboli ch'egli non li udiva più nemmanco come un lontano mormorio. Bisogna dire che il vivere insieme alla Giulia, stanca, disgustata lei pure di fittizi piaceri e vuote soddisfazioni di vanità, avea contribuito non poco, fino da quando stavano nella soffitta del rigattiere, a correggere le tendenze vagabonde e battagliere d'Orlando; ora, poi, il soggiorno dei campi faceva il resto. - Vedi un po' come si sta benino, tra questa buona gente! - osservava la Giulia, con la sua vocina misteriosa, che solo Orlando, di quanti le stavano intorno, udiva. Una ottava piena di serenità e di quiete intima le rispondeva:

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Allora principiò per l'infelice pupattola il martirio di sentirsi divorar lentamente il povero piccolo piede, senza poterlo ritirare, anzi, dovendolo abbandonare inerte, come cosa morta. Le sembrava che, insieme al piede, la bestia le dilaniasse il cuore, la testa, ogni nervo del corpicino. Perchè, perchè non veniva ora la sua Marietta a strapparla di lì, a salvarla? Nessuno! Nessuno si ricordava piú di lei, rifiutata, buttata via senza pietà, come un impiccio, come un limone spremuto. Dal buco fatto nella pelle fina del roseo pieduccio, una ferita orrenda, la segatura scorreva, e ne' sussulti impressi dal topo nel roderla, si vuotava parte della gambina; che rimase poi lì con la sua pelle floscia, cadente, quando l'animale si fu ben impinzato e volle mutar cibo. Fuori, l'inverno era finito, e la primavera, con le sue magnifiche giornate, già tiepide e odorose di fiori, invitava a lasciar la città per i semplici divertimenti all'aria aperta della bella campagna. Anche per i signori de' Rivani era prossima la partenza; e già si facevano in casa tutti i preparativi. Il Moro era stato il primo a esser nominato dalla Marietta tra le cose da portare con sé. Con lui ella avrebbe fatto chi sa quante galoppate allegre per il bosco, sotto gli alberi, dove anche a mezzogiorno c'è ombra. Si trattava di condurlo perfino ai bagni di Viareggio; per le gite lungo la spiaggia e le colazioni nella pineta, dove tutte le sue amiche e più ancòra le bambine conosciute colà l'avrebbero invidiata. Innanzi di lasciare Roma per tutti i mesi della villeggiatura, la signora de' Rivani soleva fare una distribuzione degli oggetti usati di vestiario alle sue persone di servizio e a' suoi poveri; ma prima che agli altri alla famiglia della propria sorella, signora Amalia Cerchi, mamma di Camilla: una signora che, come abbiamo detto, s'era maritata male ed era poco felice. Alla signora Amalia e a Camilla, dunque, venivano, quasi di diritto, gli oggetti migliori fra quelli scartati; e si dava loro anche roba addirittura nuova perchè non si mortificassero. Quell'anno, poi, c'era un monte di vestiti, di sottane, di mantelletti, una sfilata di cappelli, e scatole di guanti, e cassette di scarpe; più regali del solito, perchè anche il signor Giovanni aveva inzeppato il guardaroba al suo ritorno da Milano. Nella stanza degli armadi, davanti agli sportelli spalancati, stavano la signora de' Rivani con la signora Amalia e le due cuginette: la Marietta e Camilla. Nessuna persona di servizio assisteva a quella scelta, per non offendere la miseria della signora Cerchi. - Questo non lo prendo, sai - diceva la signora Amalia alla sorella, tenendo in mano un abitino di velluto - perchè per Camilla è troppo bello. - No, anzi, prendilo; l'ho messo da parte proprio per lei - insisteva la madre della Marietta.

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Sicchè la pupattola vedeva la sua povera amica abbandonare il calduccio del letto e la sentiva tossire, con que' colpi di tosse secca che, in chi ascolta, entra per gli orecchi e si conficca nel cuore. Più in là i brividi si fecero più acuti. La bambina batteva i denti come uno che è nudo nel gennaio; e si doveva accatastare sul letto tutto quel che trovava capace a coprirla: persino il tappetuccio del tavolino, persino i suoi vestiti da estate. Ma dopo, il caldo era terribile; le faceva buttar via tutto da dosso; e allontanare la Giulia, come se la pupattola avesse avuto del sangue nelle vene. In quel calore eccessivo smaniava, senza riposo. Una notte, finita ch'ebbe la bottiglia che si era messa vicino al letto, s'alzò a piedi nudi, trovando un rifrigerio nel freddo de' mattoni, e andò a bere al mesciacqua, attaccandovisi come un'assetata. - T'amo! T'amo! - si faceva dire ogni poco dalla pupattola, quasi che la dolcezza di quella parola avesse potuto farla star meglio. La bambola ripeteva: T'amo; con tutta l'animuccia sua; ma a che pro? Non basta l'affetto a risanare, a salvare le persone amate. Ormai Camilla rimaneva parte della giornata in letto; s'alzava tardi e si coricava presto; non era più buona a sfaccendare in casa; e accorata guardava sua madre, che passava e ripassava, brontolando un poco ma meno di prima, coperta d'un largo grembiule la bella veste da camera, ch'era uno spoglio della signora de' Rivani. Quando il male s'aggravò e la bambina non potè levarsi quasi più affatto, la sua solitudine le sarebbe parsa insoffribile, se quella bambola, piccola immagine umana, non fosse stata con lei. La Giulia sentiva perfettamente la propria azione benefica, e si compiaceva d'esser lì a fianco della povera inferma. Com'era diversa la malattia di Camilla da quella che aveva avuta Marietta per la sua gola! Si ricordava d'aver patito anche quella volta, ma adesso era tutt'altro tormento; e le faceva l'effetto d'aver perfino un cuore diverso per sentirlo. Spesso, voltandosi e rivoltandosi nella smania dell'insonnia, Camilla sbatteva un braccio su la pupattola: e subito la paura d'averla sciupata, più ancora quella di averle fatto male, gliela faceva attirare a sè, e osservarla e carezzarla. Povera Giulia! I suoi bei capelli biondi s'erano aggrovigliati come serpentelli d'oro; di vestirla non se ne parlava più; non sembrava, certo, più lei. Una sera Camilla non istette alle mosse. Chiese con voce fioca: - Mamma, mi dai una camicina? La signora Amalia aprì un cassetto e prese una camicia della figlia. - No, non per me... - fece questa. - O per chi? - Per la Giulia... Sono lì, accanto alle mie, le sue camicine. La madre prese quel che le si chiedeva, ma ci fece la sua brava osservazione: - Sei malata e pensi sempre ai balocchi! Pensa piuttosto a guarire. Camilla avrebbe voluto dirle che per essa la Giulia non era soltanto un balocco; ma stette zitta; e raccogliendo le poche forze che le restavano, si sollevò a stento sul guanciale e lentamente mise la camicia linda, bene stirata, alla sua compagna di letto. Quando la zia de' Rivani seppe che la bambina era tanto malata, venne subito a trovarla, rimproverando la sorella di non averla avvertita prima. La signora Amalia si scusò assicurandola ch'ella avea ritenuto trattarsi di cosa passeggera. Allora cominciarono le visite regolari del dottore, mandato da casa de' Rivani; e Camilla dovette prendere molte medicine disgustose, che non le fecero alcun bene, perchè ormai il suo male era troppo avanti; anzi le stava a dirittura nel sangue fino dalla nascita. - Quando sarai guarita ti regalerò un giocattolo nuovo - le diceva la zia - basta che tu sia ubbidiente al dottore. Un giocattolo nuovo! Non lo desiderava affatto, lei, affezionata com'era alla Giulia. Soltanto, se guariva, avrebbe domandato qualche pezzo di roba da far dei vestiti alla pupattola, ormai in cattivo arnese. Questa miseria dell'amica sua e l'impossibilità in cui ella si trovava per allora di rimediarvi, era il suo principal dispiacere, quasi un pensiero fisso. Ma non ne disse mai nulla alla zia, contentandosi di baciarle piano piano una mano: la bella mano inguantata e odorosa. - Marietta come sta? - era una delle sue poche domande. La Marietta stava bene; ma non aveva voglia di far niente; disubbidiva a più non posso; e una signorina di Berlino che avevano preso in casa perchè la bambina imparasse il tedesco, se n'era andata su due piedi per le impertinenze ricevute.

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Saper vivere. Norme di buona creanza

248718
Matilde Serao 1 occorrenze
  • 1923
  • Fratelli Treves Editore
  • Milano
  • Verismo
  • UNICT
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Non basta, se siamo in estate e non in inverno, smettere le pellicce odorose, le vesti di panno e le mantelline di velluto, per darsi alle batiste, ai crespi e alle garze: non basta, se siamo in estate e non più in primavera, abbandonare le vesti di leggero drappo, e le giacchette meno pesanti, e le gonne di seta, per chiedere al tussor, al foulard, allo chiffon, le loro aeree mollezze: vi è tutta un'altra categoria di cose, nella toilette femminile, che segna la profonda differenza fra l'estate e l'inverno, fra l'estate e la primavera. Prendiamo, per esempio, l'acconciatura dei capelli. Credete voi che, d'estate, ci si possa acconciare come d'inverno? Quei leggeri edifizii o quei pesanti edifizi ricciuti, e adesso già abbastanza complicati, non reggono in estate: qualunque leggiadra pettinatura, opera di mani pazienti, dopo due ore, è un ammasso informe. Il calore disfà i ricci, e le ondulazioni non naturali, ed esercita la sua azione demolitrice, anche su i ricci naturali. Vorreste voi, in estate, portare i capelli molto bassi sulle orecchie, molto bassi sulla nuca, e molto bassi sulla fronte? E non vi darebbero un fastidio enorme? Ed ecco, che l'estate consiglia la pettinatura bassa a radici diritte, libera la fronte, libere le tempie, libera la nuca, e rialzati, questi capelli, sul sommo della testa. Prendete, per esempio, i guanti: vorreste voi, in estate, portare l'elegantissimo guanto glacé dell'inverno, che modella la perfetta mano, e non preferite voi il guanto largo, la pelle di Svezia, che si leva e si mette ogni minuto, di cui si può gittarne un paio anche ogni due giorni? Prendete, per esempio, le calze: vorreste voi portare, in estate, la indispensabile, ineluttabile calza nera dell'inverno, quella calza nera, che è la civetteria egualmente delle gambe troppo sottili e delle gambe troppo grosse! Quella calza nera, che è la più profonda delle illusioni umane? Voi sapete bene che l'estate discaccia la calza nera, e permette ai piedini femminili di adornarsi dei colori più delicati e più estetici, che si intravvedono dalla scarpa di bulgaro, alla scarpa bianca, che bene si vedono dalla scarpetta nera. E voi sapete, sopra tutto, che l'estate rende immortale la fine, morbida, sottile calzetta di filo, la calza da viaggio o da escursioni, la calza da spiaggia e da montagna. Vorreste voi, come nell'inverno, adornarvi di molti, di moltissimi gioielli? Essi vanno d'accordo con le stoffe pesanti, coi drappi serici, con le pellicce esotiche, e sono troppo grevi, troppo ricchi, troppo di lusso, per le trasparenti vesti dell'estate. Qua e là, un fermaglio, una barrette. un sottile filo d'oro, da cui pendono gli oggettini delle escursioni estive, ecco quello che l'estate vi consiglia: cioè, un completamento di toilette più semplice, più disinvolto, che quasi sempre ringiovanisce e rende più gaie le fisonomie.

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Una peccatrice

249927
Giovanni Verga 2 occorrenze
  • 1866
  • Augusto Federico Negro
  • Torino
  • Verismo
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Tutt'a un tratto Raimondo corse al pianoforte, come cedendo ad un'ultima e subitanea ispirazione; lo strascinò sulle sue carrucole sino al canapè dov'era sdraiata l'agonizzante; sollevò questa fra le sue braccia, perchè le braccia di lei potessero ancora circondare il collo di Pietro che non volevano abbandonare; e disse a Brusio che sembrava istupidito: - Non c'è più che un miracolo che possa prevenire la coma, che possa salvarla: bisogna prolungare questo delirio per dare il tempo di operare all'infuso di caffè... Suonale quello che vuole... Ci son dei casi in cui la scienza bisogna che ricorra all'arte o al caso. Pietro cominciò a suonare quel valtzer allegro e brillante, di cui le note acquistavano la più triste inflessione sotto i suoi diti increspati e tremanti, e che strillavano sinistramente in mezzo al funereo silenzio di quella stanza. Due o tre volte le labbra di Narcisa sorrisero; i suoi lineamenti perdettero la loro rigida alterazione per esprimere il piacere più intenso che quel suono certamente le procurava o che determinava i sogni deliziosi del suo delirio... Ella stringeva più fortemente, sebbene con moto convulso, quella testa che abbracciava; e qualche volta i suoi labbri si agitarono come per baciare; e il sui capo si avanzava tentoni come se avesse voluto incontrare quello di lui;... e la sua pupilla appannata, vitrea, fissa, ebbe un lampo, un raggio di uno sguardo in cui balenava tutto l'ineffabile amore che l'agonia non poteva assopire in quel cuore. - Oh! Pietro! Pietro!... ti vedo!! - gridò esultante; con un accento indescrivibile che avea più dell'urlo dello spasimo che del trasporto della gioia; - m'ami?!... m'ami tu?!!!... E si rovesciò assieme a lui sul canapè vincendo, con uno sforzo disperato, miracoloso, la difficoltà di proferire, il torpore della mente, l'inerzia delle forze, l'agonia insomma. - Pietro m'ami ancora?! - Sì! sì! t'adoro!...- singhiozzò egli tentando inumidire l'aridità di quella pelle coll'umido dei suoi labbri, di scacciare il torpore di quelle membra, la pesantezza di quelle palpebre coll'impeto dei suoi baci; cercando trasfondere la vita che sentiva rigogliosa, giovane, potente in lui, nel soffio che alitava fra le labbra di lei violacee, semiaperte e convulse. - E non me lo dici perchè hai pietà di me?... e non me lo dici perchè io muoio?!... - seguitò ella aggrappandosi al suo collo, nelle convulsioni dell'agonia, con quel moto incerto e straziante del volto e delle labbra che cercavano il volto di lui per baciarlo. - Oh, no!... non ti ho mai amato come t'amo!... Narcisa!... Narcisa!... non mi abbandonare!... - Grazie!... grazie!... - mormorò la moribonda con un anelito interrotto che la stentata respirazione soffocava nella sua gola; - grazie!... oh! la vita!..., dottore, fatemi vivere... egli mi ama!!... io non voglio morire!!! - finì con accento straziante. E non potè più proferire, quantunque agitasse ancora penosamente le labbra, e alcuni suoni rochi e interrotti scappassero dalla sua gola arida. Ella rimase come profondamente assopita; riscossa di tratto in tratto da sussulti convulsivi: rivelando mille impressioni, ora deliziose ora tristi, nella mutabile espressione dei suoi lineamenti, in cui l'occhio soltanto, colla sua larga e lucida fissazione faceva prevedere la morte. Era orribile a vedersi la rapida decomposizione di quella fisonomia. Finalmente sopraggiunse il sonno. Pietro rimaneva, com'ella l'aveva attirato rovesciandolo nella sua caduta, ancora avvinchiato a quel corpo per tre quarti cadavere, e che aveva tuttavia i suoi ultimi moti convulsivi, gli estremi sforzi dei suoi rantoli, la disperata tensione della pupilla per lui; egli era come affascinato da quell'orribile spettacolo che impietrava le lagrime nel suo occhio ardente e dilatato quasi al pari di quello di lei. - Ma parti, disgraziato! - gli gridò Raimondo tentando strapparlo a quell'amplesso di morte; - non vedi che ciò ti uccide!... Pietro non rispose, e abbracciò più strettamente quel corpo inerte; in cui gli parve sentire un ultimo sussulto al suo abbraccio; mentre le mani gli parvero lo stringessero più tenacemente, come per ringraziarlo e non lasciarlo. Quell'agonia fu lunga, penosa, orrenda. A pena il medico, colla mano sul petto di lei a numerare i battiti del cuore, potè discernere il punto in cui il sonno del veleno si mischiò al sonno della morte. Pietro rimase istupidito come un pazzo; per un mese intiero. Il secondo rivide sua madre; poi gli amici. Un anno dopo ricomparve in società... Chi sa quante volte al giorno pensa a quest'ora a Narcisa, la donna ch'è morta d'amore per lui?!... Le splendide promesse del suo ingegno, che l'amore di un giorno aveva elevato sino al genio nella sua anima fervente, erano cadute con quest'amore istesso. Pietro Brusio è meno di una mediocrità, che strascina la vita nel suo paese natale rimando qualche sterile verso per gli onomastici dei suoi parenti, e dissipando il più allegramente possibile lo scarso suo patrimonio. Misteri del cuore!

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Egli ebbe paura di quest'idea... paura di non esser più padrone di se, della sua vita, nel momento che sentiva averne maggior bisogno, per inebbriarsi di tutta la terribile voluttà di quel dolore che l'attaccava alla vita istessa; ebbe paura di abbandonare questa, come in trastullo, agli uomini: egli si fece alcune domande che erano strazianti nella loro calma forzata; si propose ragionamenti posati che tradivano ancora la convulsione dello sforzo che avevano costato, dominando l'uragano che tempestavagli in cuore con volontà disperata di calma, per convincersi che non era pazzo... poichè egli avea paura d'esserlo... poichè egli odiava ferocemente... Udì suonare nove ore all'orologio della stanza contigua. . - Vediamo! - mormorò egli alzandosi - a quest'ora dev'esser buio... Ho tutta la mia ragione ancora!... Che vale disperarsi per colei?.. quali diritti ne ho io?... Siamo uomini, perdio!... come dice Raimondo... Ma chi dice questo spesso è segno che teme di non esserlo abbastanza... Non è vero che son pazzo!... Non voglio essere pazzo io!... Ebbene!... io voglio esser uomo!... sì... ho la testa lucida!... comprendo che bisogna annegarne la memoria... annegarla fra il vino... le donne... l'orgia!... Aprì le imposte, per vedere s'era notte davvero: era buio affatto; raccolse il cappello da terra e se lo calcò sul capo senza nemmeno aggiustarsi i capelli arruffati e appiccicati col sudore sulla fronte, ed uscì, quasi fuggendo la madre che udiva camminare nell'altra stanza.

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