Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNICT

Risultati per: abbandonare

Numero di risultati: 18 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

Giovanna la nonna del corsaro nero

204896
Metz, Vittorio 1 occorrenze
  • 1962
  • Rizzoli
  • Milano
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E si allontanò lasciando Nicolino il quale, non sapendo che Giovanna e gli altri erano usciti, si rimise a passeggiare al posto che aveva dovuto abbandonare poco prima. Intanto Giovanna, nascosta nel canneto, teneva con gli altri un piccolo consiglio di guerra. "Avete sentito? Non era il governatore che avevamo rapito, ma il Viceré... Abbiamo sbagliato camera... Cosa si può fare, Battista?" "Io opino, signora contessa," rispose rispettosamente Battista"che dobbiamo trovare la vera camera del governatore..." "Sì, ma per far questo bisogna rientrare nella villa" disse Giovanna. "Chissà dov'è andato a finire il nostromo Nicolino" disse Jolanda. "C'era un'altra sentinella, prima, al suo posto..." "Giusto" disse Giovanna. "Venite con me..." Così dicendo Giovanna estrasse la spada dal fodero e la impugnò per la punta della lama flessibile, uscendo dal canneto e avanzando cautamente verso Nicolino che la vide avanzare. "Chi è?" domandò con voce tremante. Poi riconoscendo la sagoma della vecchia: "Oh, finalmente, siete voi... Oh, mamma mia bella?" Questa sua ultima esclamazione era dovuta al fatto che Giovanna, convinta di aver a che fare con la sentinella di prima, aveva usato la spada come una clava colpendo alla testa con un terribile colpo il povero Nicolino che strabuzzò gli occhi, girò su se stesso e si accasciò lentamente a terra. "Bel colpo, nonnina!" esclamò accorrendo Jolanda. "Leghiamolo ed entriamo" comandò Giovanna, rivolta al maggiordomo. Il maggiordomo si chinò su Nicolino per rivoltarlo sotto sopra allo scopo di legargli le mani dietro la schiena, ma, poiché l'elmo gli era andato via dalla testa, lo riconobbe. "Ma è Nicolino!" esclamò. Lo scosse. "Ehi, Nicolino... Nicolino!" E gli assestò degli schiaffetti per risvegliarlo. Nicolino aprì gli occhi e fissò lo sguardo davanti a sé con una sorridente espressione da ebete dipinta sul volto, brontolando qualcosa. "Che hai detto?" gli domandò Battista. "La pecheronza!" gli sembrò che rispondesse Nicolino. "La pecheronza! E che è la pecheronza...?" domandò Giovanna. "La pecheronza" ripeté Nicolino. "Qui, nella mia testa..." "Non capisco" disse Jolanda. "Mi sia consentito il dire che credo abbia voluto dire: l'ape che ronza..." spiegò Battista. Quindi, rivolto a Nicolino: "Non ci sono api che ronzano da queste parti: è il colpo che hai ricevuto in testa..." "Io vorrei sapere perché prima non c'eri tu di sentinella!" disse Giovanna, irritata. "Perché," rispose Nicolino che cominciava a riprendersi "mi avevano dato il cambio... Adesso mi avevano rimesso di sentinella perché l'altra l'avete messa voi fuori uso..." "Se prima ci fossi stato tu al posto della sentinella, questo adesso non ti succedeva." "E invece mi è successo," rispose Nicolino, rialzandosi faticosamente in piedi "perché avete messo fuori uso anche me!" Giovanna si chinò, raccolse l'elmo e glielo rimise in testa. "Be'," disse "resta di guardia..." "Speriamo che vada tutto bene, questa volta" disse Nicolino. "Andrà tutto bene" assicurò Giovanna, con forza. "Perché questa volta invece di rapire il governatore, lo sfiderò al duello e voi due, Battista e Jolanda, mi farete da padrini... Andiamo..." "Tornate presto!" si raccomandò Nicolino mentre i tre si allontanavano verso il patio.

Pagina 142

Una famiglia di topi

205159
Contessa Lara 1 occorrenze
  • 1903
  • R. Bemporad &Figlio
  • Firenze
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abbandonare per sempre li luogo della sua nascita, nè i suoi cari parenti; ma un po' di svago voleva pure goderselo. Con tutti questi progetti d' indipendenza, che gli frullavano per il cervellino, passò parecchie notti riposando meno del solito; e un po' in vidiava, un po' compativa tutti gli altri della sua famigliola, che se la dormivano in una quiete perfetta. Erano creature con idee ristrette, pensava Moschino; e lui era proprio un topo superiore. Una bella mattina che la Letizia, rimasta come unica persona di servizio in casa Sernici, aveva lasciata dischiusa la porta delle scale, perchè era scesa un istante a comprar qualcosa per la colazione dei padroni in una bottega lì accosto, Moschino, che, secondo il suo solito, correva qua e là per le stanze, prese la grande determinazione di quel suo viaggio, diremo così, all' estero; e guardato bene che non lo vedesse anima viva, infilò rapidamente l'uscio. Il contatto del marmo delle scale con le zampine avvezze a passeggiare sempre sui tappeti, gli fece subito una sgradita impressione, e un leggiero brivido gli corse per tutto il corpo. - Diamine! - pensò - non si cammina sempre su' tappeti, a quanto pare! - Ma non per questo tornò indietro, ormai era fuori, e qualcosa dovea pur arrivare a conoscere. Del resto, c' è un vecchio proverbio che dice: «Il peggio passo è quel dell' uscio.» Magàri fosse stato fin lì tutto il male per il povero Moschino! Ma non precorriamo gli avvenimenti, ch' è meglio raccontare per filo e per segno.

Pagina 102

I ragazzi della via Pal

208058
Molnar, Ferencz 3 occorrenze
  • 1929
  • Edizioni Sapientia
  • Roma
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Barabàs dovette abbandonare la cinghia; Ghereb raccolse le gambe, Vais ricompose le proprie tasche, Cionacos nascose la bocca con la mano terminando uno sbadiglio dietro la palma, Ciele lasciò in pace i suoi fogli e Boka mise rapidamente in tasca il proprio calamaio, il quale — sentendosi in tasca — lasciò subito filtrare il suo bel copiativo turchino. — Che c'è?, ripetè il professore. Tutti erano immobili nei loro banchi. Poi il professore guardò la finestra dalla quale entrava sempre la voce dell'organetto quasi per dimostrare che essa era esente dai doveri della disciplina scolastica. Ma gli occhi del professore divennero severi e la sua voce imperiosa: — Cienghe, chiudi la finestra! Cienghe, il piccolo Cienghe, il primo della prima fila, si alzò tutto serio e si avviò verso la finestra, per chiuderla. In quel momento Cionacos si sporse dal suo banco e sussurrò ad un ragazzino biondo: — Attento, Nemeciech! Nemeciech guardò di sbieco dietro a sè, poi in terra: una pallottola di carta rotolava verso di lui. Egli la prese, la spiegò. Da una parte c'era scritto: «Passalo a Boka». Nemeciech comprese che questo era soltanto l'indirizzo e che la lettera, la vera comunicazione, doveva trovarsi dall'altra parte: ma Nemeciech era un vero gentiluomo, fiero della propria lealtà, e non avrebbe quindi mai letto una lettera indirizzata ad un altro. Ne rifece una pallottola ed aspettò il momento propizio. Toccò a lui sporgersi e mormorare: — Attento, Boka! E toccò a Boka guardare per terra poiché questa era la via di comunicazione per tutti i loro affari. E la pallottola di carta giunse rotolando. Sul verso, cioé sulla parte del foglio che il biondo Nemeciech per lealtà non aveva letto, c'era scritto: Ore quindici: Assemblea. Elezione del Presidente sul campo. Pubblicazione! Boka mise in tasca il pezzettino di carta e diede un ultimo strappone alla cinghia. Erano le tredici. L'orologio elettrico cominciò a trillare ed anche il professore capì che la lezione era finita: spense la lampada. Bunsen, assegnò il compito e tornò nel gabinetto di storia naturale tra le collezioni di dove, ad ogni socchiudersi di porta, spiavano fuori con stupidi occhi di vetro animali imbalsamati e, di su gli scaffali, uccelli imbottiti con le penne ben ravviate, e dove in un angolo, silenzioso ma con dignità, stava ritto l'arcano degli arcani, lo spettro degli spettri: uno scheletro umano ingiallito. E tutta la classe in un minuto ha sgomberato l'aula. Per lo scalone adorno di colonne c'é un precipitar selvaggio di passi che si attutisce in strisciare frettoloso sol quando la figura di un professore si mischia alla folla dei ragazzi schiamazzanti: allora i più impetuosi si frenano, per un momento regna il silenzio, ma appena il professore é scomparso alla svolta, la corsa giù per le scale ricomincia. Dal portone erompe la folla di bambini. Metà si dirige a destra, l'altra metà a sinistra. I professori passano in mezzo, ed allora i piccoli berretti volano in aria. E tutti camminano stanchi ed affamati per la strada invasa di sole: e il piccolo intontimento che annebbiava il cervello sparisce ora adagio adagio di fronte ai molti spettacoli gai e pieni di vita che offre la strada. Come piccoli prigionieri appena liberati, barcollano all'aperto, sotto il troppo sole e vagano per la rumoreggiante, vivace e tumultuosa città che per essi rappresenta soltanto il labirinto confuso di tram, strade, negozi, attraverso il quale si giunge a ritrovare la casa. Sotto il portone vicino, Ciele stava mercanteggiando sul prezzo del torrone. II venditore del torrone aveva rialzato scandalosamente i prezzi. Il prezzo del torrone è di cinque soldi in tutt'il mondo, il che significa che l'uomo del torrone taglia con un colpo di coltello dalla massa bianca punteggiata di nocciuole tanto quanto se ne può dare per cinque soldi. Sotto il portone tutto deve costare cinque soldi: questa è l'unità! Cinque soldi tre prugne inflate in uno stecchetto di legno, o tre mezzi fichi o tre mezze noci, il tutto incaramellato di zucchero liquido. Cinque soldi una lunga cannuccia di liquerizia e cinque soldi anche il cartoccio della cosiddetta «biada degli studenti», miscuglio di nocciuole, zibibbo, zucchero, mandorle, polvere di strada, pezzetti di carrube e mosche! Per cinque soli soldi la «biada degli studenti» comprende molti prodotti dell'industria, del mondo vegetale e di quello animale! Ciele dibatteva sul prezzo: ciò significava che l'uomo del torrone aveva rialzati i prezzi. I conoscitori delle leggi del commercio sanno bene che un motivo per il rincaro può essere costituito dal pericolo che accompagna taluni commerci. Così, ad esempio, costano molto i té d'Asia che le carovane debbono trasportare attraverso paesi infestati da briganti: questo pericolo dobbiamo pagarlo noi, uomini dell'Europa Occidentale. E l'uomo del torrone doveva avere il genio affaristico perchè il disgraziato stava infatti per essere cacciato dai paraggi della scuola. Egli sapeva benissimo che il giorno che avessero voluto vietargli il suo commercio in quelle vicinanze, avrebbero potuto; e malgrado il suo grande rifornimento di dolciumi sapeva che non avrebbe mai potuto sorridere ai professori con tanta dolcezza da poter non essere considerato il nemico della gioventù. — I ragazzi sciupano tutti i loro quattrini da quel turco! — solevano dire. E il turco sentiva che il suo spaccio accanto al ginnasio non avrebbe avuto lunga vita. Perciò aveva rialzato i prezzi. Se doveva andar via, almeno aumentar prima i guadagni. E aveva detto a Ciele: — Prima costava tutto cinque soldi. D'ora in poi tutto costa dieci soldi! E mentre spiccicava balbettando queste parole gesticolava furioso con il coltello in mano. Allora Ghereb sussurrò all'orecchio di Ciele: — Butta il berretto tra i dolci! Ciele era solleticato da questa proposta! Sarebbe stato una bellezza! Tutti i dolciumi sparpagliati a terra! e che risate, i ragazzi! Ghereb, come un diavolo, gli sussurrava all'orecchio le parole della tentazione: — Buttagli il berretto! E' uno strozzino! Ciele si tolse il berretto. — Questo bel berretto? — disse. E capì che era un'idea sbagliata. Ghereb aveva fatto una bella proposta a una persona inadatta, perchè Ciele era un ragazzo elegante che portava staccate le pagine dei suoi libri. — Non vuoi? — domandò Ghereb — Hai paura? — Non voglio — rispose Ciele. Ma non perchè abbia paura. Io non ho paura. Ma non voglio per il berretto. E te lo dimostro anche perché, se ci tieni, io ci butto volentieri il tuo berretto! Non si può dire una cosa simile a Ghereb: è quasi un'offesa. E Ghereb si risentì e disse: — Se si tratta del mio berretto, lo butto da me. Questi è uno strozzino. E se tu hai paura, scappa! — E con un gesto che in lui significava intenzioni aggressive, si tolse il berretto pronto a far schizzare in tutte le direzioni i dolciumi allineati in bell'ordine sulla panchetta del turco. Ma da dietro qualcuno gli afferrò il polso. E una voce seria, quasi d'uomo, gli chiese: — Cosa fai? Ghereb si volse. Boka era dietro a lui. — Cosa fai? Boka lo fissava serio ma mite. Ghereb brontolò come un leone quando fissa la pupilla del domatore. Diventò piccolo. Rimise il berretto in testa e scrollò le spalle. Boka gli disse: — Lascia stare quell'uomo. A me piace il coraggio; ma questa sarebbe una sciocchezza. Andiamo! E gli porse la mano, una mano sporca di macchie d'inchiostro. Il calamaio tascabile aveva fatto colare il suo sangue blu scuro e Boka aveva messo, senza sospetto, la mano in tasca! Ma nessuno se ne preoccupò: Boka sfregò la mano contro il muro, per cui anche il muro divenne sporco d'inchiostro e la mano non divenne per questo più pulita, ma la faccenda dell'inchiostro con ciò era conclusa. Boka prese Ghereb sottobraccio e s'incamminarono lasciando dietro di loro Ciele, il quale con voce strozzata, con la voce avvilita del rivoluzionario sconfitto e rassegnato, diceva al turco: — Se d'ora in poi tutto costa dieci soldi, ebbene mi dia del torrone per dieci soldi! E aperse il suo bel borsellino di pelle verde. Il turco sorrideva e pensava forse a quel che potrebbe accadere se da domani tutto costasse quindici soldi. Ma non era che un sogno, come quando uno sogna che uno scudo vale cento franchi! Spaccò dall'alto in basso il torrone e mise la scheggia spaccata su un piccolo pezzo di carta. Ciele lo guardò avvilito. — Ma questo è meno di prima! II successo commerciale aveva reso il turco insolente. Disse: — Ora è più caro appunto perchè è meno! E si volse a un nuovo cliente che, ammaestrato dall'esempio, teneva già pronti in mano i dieci soldi. E si mise ad assalire il torrone col suo coltello facendo gesti strambi come se fosse un gigantesco carnefice medievale che decapitasse uomini bianchi dalle testoline color nocciola. Compiva un eccidio nel torrone. — Vergogna! — disse Ciele al cliente sopraggiunto — Non comperate niente! E' uno strozzino! E con un sol colpo si ficcò in bocca tutt'il torrone; e la carta rimase appiccicata alle labbra. 2 — Aspettate! — gridò allora verso Boka e si mise a correre per raggiungerlo. Boka aveva quattordici anni e sul suo viso c'erano pochi tratti dell'adulto. Ma quando apriva bocca, subito aumentava di qualche anno. La sua voce era profonda, mite, seria. E quel ch'egli diceva era un po' come la sua voce. Diceva raramente delle sciocchezze e non amava le biricchinate. Non interveniva mai nelle piccole questioncelle; e se lo chiamavano a far da arbitro, non accettava. Sapeva che dopo la sentenza, una delle due parti restava insoddisfatta e conservava rancore all'arbitro. Ma quando la lite s'inaspriva e il bisticcio cominciava a diventar pericoloso tanto da richiedere l'intervento di qualche autorità, allora Boka s'intrometteva per rappacificare. E chi cerca soltanto di far rifare la pace non corre pericolo di inimicarsi i litiganti. Insomma Boka pareva un ragazzo intelligente e aveva l'aria — se anche non fosse certo che la sua carriera futura sarebbe stata brillante per questo — aveva l'aria di essere una persona per bene. La piccola strada tranquilla era riscaldata da un dolce sole di primavera e la manifattura tabacchi che si allungava da un lato rombava piano. C'erano soltanto due passanti, due ragazzi, che in mezzo alla strada aspettavano. Uno era Cionacos, il forte Cionacos, e l'altro il piccolo biondo Nemeciech. Quando Cionacos s'accorse dei tre compagni che s'avvicinavano, mise due dita fra le labbra e fischiò come una locomotiva. Era la sua specialità, fischiare! In quinta nessuno sapeva fischiare come lui, anzi in tutto il ginnasio pochi avrebbero saputo imitare questo fischio da cocchiere. Sì, c'era Scinder, il presidente del Circolo di Letteratura, che sapeva fischiare così; ma Scinder fischiava soltanto prima d'essere eletto presidente del Circolo. Da quel giorno non aveva mai più messo le dita in bocca: non era conveniente per ii Presidente di un Circolo Letterario! Cionacos fischiò dunque e i tre sopraggiunti gli si accostarono; i ragazzi formarono un gruppo in mezzo alla strada. Volgendosi verso il biondo Nemeciech, Cionacos domandò: — A loro l'hai detto? — No — rispose Nemeciech. — Che cosa? — domandarono i tre ad una voce. Invece del biondino parLò Cionacos ed annunziò: — Ieri neL giardino del museo hanno Fatto ancora «einstandt». — Chi? — I Pastor. I due fratelli Pastor. Si fece un gran silenzio. Ma per capire bisogna sapere che cosa sia einstandt. Questa è una parola tutta speciale dei ragazzi di Budapest. Se un ragazzo più forte vede uno più debole che sta giocando coi birilli o coi pennini o con i semi e vuole prendergli il gioco, dice: einstandt. Questa brutta parola tedesca significa che il ragazzo più forte dichiara il gioco bottino di guerra e chi osa resistergli dovrà subire la sua violenza.Einstandt è perciò anche dichiarazione di guerra: è la formula breve ma efficace della violenza, del diritto del più forte e del brigantaggio. Ciele fu il primo a parlare, il fine ed elegante Ciele che esclamò inorridito: — Hanno fatto einstandt? — Sì — disse il piccolo Nemeciech, prendendo coraggio al vedere che la sua comunicazione suscitava interesse. — Non si può andare avanti così! — proruppe a dire Ghereb. — E' un pezzo che io dico che bisogna fare qualcosa, ma Boka storce sempre la bocca. Se non facciamo qualcosa finiremo con l'essere picchiati! Cionacos mise ancora le dita in bocca e si preparava a fischiare d'allegria per dimostrare che approvava con entusiasmo qualunque proposta rivoluzionaria, ma Boka lo afferrò al polso. — Non assordarci! — intimò. E rivolgendosi al bambino: — Com'è andata? — chiese. — L'einstandt? — Sì. Quand'è stato? — Ieri, nel pomeriggio. — Dove? — Al museo. — Racconta com'è accaduto. Ma dì la verità, con esattezza, perchè noi dobbiamo essere informati se dobbiamo decidere qualcosa... Nemeciech era agitatissimo perchè sentiva d'essere diventato il centro dell'interesse, il che gli capitava di rado... Nemeciech era per tutti un ragazzo insignificante; nessuno si curava di lui. Si mise a parlare e i ragazzi accostarono i visi: — Ecco, — disse — è stato che dopo colazione siamo andati nel giardino del museo, Vais e io e Richter e Colnai e Barabàs. E prima volevamo giocare a palla con il tamburello, ma la palla era di quelli del liceo e non ce la volevano dare. E allora il Barabàs dice: «Andiamo a giocare alle biglie sotto il muro». E siamo andati tutti in giardino a giocare alle biglie sott'il muro. E si giocava che ognuno deve tirare una biglia e chi riesce a pigliare una di quelle che sono giù, prende tutte le biglie già giocate. E facevamo correre le biglie e ce n'erano già una quindicina per terra e due anche di vetro, quando il Richter si mette a gridare: «E' finita! Ci sono i Pastor!» E sull'angolo c'erano i Pastor con le mani in tasca e con la testa bassa che venivano avanti così adagio che tutti abbiamo avuto molta paura. Va bene che noi eravamo in cinque e loro in due, ma è come se non fossimo in cinque perchè al primo pasticcio Colnai scappa e Barabàs anche, quindi era come se fossimo in tre. E poi forse scappo anch'io, e allora era come se fossero stati in due. E se anche poi si scappa tutti e cinque, non serve, perchè i Pastor corrono di più e ci pigliano subito, e sono sempre più forti. Allora i Pastor vengono sempre più vicini e guardano le biglie. Io dico piano a Colnai: «Stanno a guardare... Arnano le biglie!» Ma il più intelligente era ancora Vais che ha subito detto: «Vedrete! Ci sarà un grande einstandt!» Ma io pensavo che non ci avrebbero fatto niente perchè noi non li abbiamo mai disturbati. E infatti non facevano nulla; stavano soltanto a guardare il gioco. E il Colnai mi dice: «Ora Basta. Andiamo via!» Ma io gli rispondo: «Bravo! Proprio adesso perchè tu hai sbagliato il colpo! Ora tocca a me! Se vinco, ce n'andiamo...» E prima di me toccava a Richter, ma gli tremava la mano dalla paura e a forza di guardare i Pastor di traverso ha preso male la mira. Ma i Pastor non si muovevano, erano lì, in piedi, con le mani in tasca. Tocca a me: piglio giusto. Vinco tutte le biglie. Faccio per raccoglierle, erano una trentina, e il più piccolo Pastor interviene e mi grida: «Einstandt!» Mi volto e vedo che Colnai e Barabàs già filano a tutta corsa, Vais è appoggiato al muro, bianco di paura, e Richter è li che ci pensa su se andarsene o no. Io ho tentato con gentilezza di dire: «Scusate. Non avete diritto di prendermele!» Ma il Pastor grande stava già mettendosi le biglie in tasca; e il piccolo mi prende per il bavero gridando: «Non hai sentito l'einstandt?» E allora, si capisce, non ho fiatato più. Vais piangeva contro il muro. Colnai e Barabàs spiavano di lontano quello che stava capitando. I Pastor presero tutte le biglie, non dissero più una parola e se ne andarono. Questo è tutto. — Inaudito! — disse indignato Ghereb. — Un vero furto! — aggiunse Ciele. Cionacos fischiò per far comprendere che c'era in aria odor di polvere. Boka stava silenzioso e rifletteva: tutti fissavano lui. Tutti erano curiosi e ansiosi di quel che avrebbe detto Boka di questa faccenda della quale tutti si lamentavano da mesi, ma che Boka non aveva mai preso sul serio. Ma questa volta, l'ingiustizia clamorosa di quel ch'era accaduto commosse anche Boka. Parlò piano: — Ora andiamo a far colazione. Nel pomeriggio ci vedremo sul campo. Discuteremo lì la questione. Dico anch'io che la cosa è inaudita! Tutti furong contenti di questa dichiarazione. Boka, in quel momento, divenne simpaticissimo a tutti. I ragazzi fissavano con affetto la sua testa intelligente, i suoi occhi neri scintillanti che mandavano lampi battaglieri. E tutti avrebbero voluto abbracciare Boka perchè anche lui si era finalmente indignato. S'avviarono verso casa. Grandi avvenimenti maturavano. In ognuno divampava l'energia e l'ansia di sapere quel che ora si sarebbe fatto di certo. Andavano, camminando adagio, lungo il viale. Cionacos rimase indietro con Nemeciech. Quando Boka si rivolse verso di loro, i due erano fermi, vicini a una finestrina della cantina della manifattura tabacchi sul cui davanzale si depositava in grossi strati gialli la fine polvere di tabacco. — Tabacco da naso! — gridò allegro Cionacos. Fischiò e si ficcò nelle narici un po' di povere. Il piccolo Nemeciech rise di cuore. Ne pigliò anche lui e di sulla punta delle sue dita sottili aspirò un poco. Attraversarono, starnutendo, la strada, ed erano tutti felici della loro scoperta. Cionacos starnutiva a gran colpi tuonanti come di cannone. II biondino sbuffava come un coniglio seccato. Soffiarono, tossirono, corsero, risero e in quel momento erano così contenti che dimenticavano anche la grande ingiustizia, quella che Boka, che lo stesso Boka, il tranquillo e serio Boka qualificava inaudita!

. — Non possiamo abbandonare la barchetta — disse il presidente —. Se la scoprono non c'è via di ritirata. Sul ponte ci sono le sentinelle. Cionacos, tu rimani alla barchetta. Se qualcuno s'accorge della barchetta, due dita in bocca ed un fischio de' tuoi! Allora noi ripiegheremo di corsa, saltando nella barchetta. Cionacos tornò, carponi, fino alla barca e in cuor suo si rallegrava della probabile occasione di emettere un fischio, de' suoi! Boka e il biondino continuarono l'avanzata, lungo la riva. I cespugli erano più alti; i due poterono alzarsi in piedi. Si fermarono e scostarono le fronde degli arbusti; scorsero così il centro dell'isoletta, una radura dove stava seduto l'esercito delle camicie rosse. Il cuore di Nemeciech si mise a galoppare. Il biondino si strinse a Boka. — Non aver paura! — gli sussurrò il presidente. Nel mezzo della radura c'era una grande pietra sopra la quale era stata posata la lampadina. Attorno alla lampada erano accovacciate le Camicie Rosse. Accanto a Franco Ats c'erano i due Pastor ed accanto al minore dei Pastor c'era qualcuno che non aveva la camicia rossa... Boka sentì che il biondino cominciava a tremare accanto a lui. — Vedi? — chiese. — Vedo — rispose Boka con tristezza. Accanto alle camicie rosse stava seduto Ghereb! Non si era sbagliato dunque, osservando dall'altura! Era proprio Ghereb che camminava in su e in giù con la lampadina. I due fissavano con raddoppiata attenzione la compagnia delle camicie rosse. La lampada illuminava stranamente i Pastor, i loro visi cupi. Tutti tacevano: il solo Ghereb parlava. Doveva riferire qualcosa che interessava molto gli altri perchè tutti erano curvi verso di lui. Nel gran silenzio serale anche i due ragazzi della via Pal poterono percepire le parole di Ghereb: — ...al campo si accede da due parti... Si può entrare dalla via Pal, ma è difficile perchè i regolamenti prescrivono che chi entra deve sprangare la porta dietro di sè. L'altro ingresso è dalla via Maria. La porta della segheria è sempre spalancata; e di lì, attraverso le cataste di legname, si può giungere al campo. Ma lì, tra le viuzze, ci sono le fortezze... — Lo so — disse Franco Ats a voce bassa e con un tono che fece rabbrividire quei della via Pal. — Infatti, tu ci sei stato — continuava Ghereb —. Nelle fortezze ci sono le vedette che danno subito l'allarme se qualcuno si avvicina per le viuzze tra il legname. E non mi pare prudente entrare da quella parte.... Si trattava dunque di invasionse! Le camicie rosse volevano entrare nel campo! Ghereb diceva: — La miglior cosa sarebbe che ci mettessimo d'accordo prima. Stabilito quando venite, io entro per ultimo sul campo e lascio aperta la porta: non la sprango. — Sta bene — concluse Franco Ats —. — In nessun modo vorrei occupare il campo quando è deserto. Faremo la guerra con tutte le regole. Se saranno capaci di difendere il campo, benissimo. Se non riescono a difenderlo, l'occuperemo noi, issando la nostra bandiera rossa. Non lo facciamo per avidità, lo sapete bene... Intervenne uno dei Pastor: — Lo facciamo per avere un luogo dove giocare alla palla. Qui non si può e in via della Libertà bisogna sempre leticare per il posto. A noi occorre un campo di giuoco e niente altro! Avevano decisa la guerra per motivi simili a quelli dei veri soldati. Ai russi occorreva il mare; e fecero la guerra ai giapponesi per questo! Le Camicie Rosse avevano bisogno di un campo dove giocare alla palla e poichè non potevano averlo in altro modo, intendevano conquistarlo con la guerra. — Allora siamo d'accordo, — disse Franco Ats, capitano delle camicie rosse — che tu dimenticherai di chiudere la porta sulla via Pal. D'accordo? — Sì! — disse Ghereb. Al povero piccolo Nemeciech doleva il cuore. Se ne stava lì, col suo abito fradicio, fissando con occhi spalancati le camicie rosse sedute attorno al lume e tra loro «il traditore»! Il suo strazio era così grande che quando dalla bocca di Ghereb uscì il «sì» definitivo che chiudeva ogni speranza, Nemeciech si mise a piangere. Piangeva sommessamente e mormorava: — Signor presidente... Signor presidente... Signor presidente... Boka volle calmarlo: — Andiamo! Col pianto non si conclude niente! Ma anche la sua voce era strangolata: era pur una cosa dolorosa questa di Ghereb! D'un tratto, ad un cenno di Franco Ats, le camicie rosse balzarono in piedi. — A casa! — disse il capitano. Avete tutti le vostre armi? — Sì! — risposero tutti ad una voce e sollevarono da terra le loro lunghe lancie di legno che portavano in cima una sottile bandieruola rossa. — Avanti! — comandò Franco Ats. Le armi in fascio, tra i cespugli. E s'avviarono tutti, con Franco Ats alla testa, verso l'interno dell'isola. E anche Ghereb andò con essi. La radura rimase deserta con nel centro la pietra e sulla pietra la lampadina accesa. Si udivano i loro passi che s'allontanavano sempre più, perdendosi nel folto. Boka si mosse: — E' il momento! — disse, e cavò di tasca il cartone rosso nel quale già era infilata una puntina da disegno. Scostò i rami del cespuglio e disse al biondino: — Aspettami qui! Non ti muovere! E balzò nella radura dove poco prima erano state le camicie rosse. Nemeciech trattenne il fiato. Boka s'accostò al grande albero che era sul margine della radura e che copriva col suo ampio fogliame tutta l'isoletta: attaccò il cartone al tronco e poi s'avvicinò alla lampadina. Aperse la finestrina e soffiò sulla candela. La Luce si spense e in quel momento Nemeciech perse di vista anche Boka; ma i suoi occhi non s'erano ancora abituati all'oscurità quando Boka gli era già tornato vicino: — Via! Corrimi dietro, più presto che puoi! E si misero a galoppare verso la riva, verso la barchetta. Quando Cionacos li vide, montò a bordo e appoggiò il remo contro la riva per essere pronto a staccare di colpo l'imbarcazione. I due ragazzi saltarono pronti nella barchetta. — Via! — ordinò Boka. Cionacos puntò il remo e spinse ma la barchetta non si mosse. Giungendo, avevano approdato con troppo impeto e la barchetta era per metà in secca. Bisognava scendere, sollevare la prua e spingerla in acqua. Intanto le camicie rosse eran tornate sulla radura ed avevano trovata spenta la loro lampadina. Sulle prime credettero che l'avesse spenta il vento, ma quando Franco Ats s'accorse che lo sportello era aperto: — Qui c'è stato qualcuno! — esclamò, e la sua voce fu così forte che la intesero anche i ragazzi nella barchetta. La lampada fu riaccesa ed allora si trovò anche il cartello appeso al tronco: I RAGAZZI DI VIA PAL SONO STATI QUI! Le camicie rosse rimasero allibite; ma Franco Ats gridò: — Se sono stati qui, ci devono essere ancora! Inseguiteli! Emise un lungo fischio. Le sentinelle accorsero dal ponte e riferirono che di lì nessuno era passato. — Allora sono venuti con la barchetta! disse il Pastor più piccolo. E mentre i tre ragazzi si affaticavano per smuovere la barchetta; udirono il comando che si riferiva ad essi: — Inseguiteli! Proprio quando risonò questa parola, Cionacos riuscì a spingere in acqua la barchetta: con un balzo fu a bordo anche lui. Afferrarono immediatamente i remi e remarono a gran forza verso la riva. Franco Ats dava a gran voce i suoi ordini: — Vender, sull'albero: osservazione e informazione! Fratelli Pastor, via per il ponte e aggirateli, da destra e da sinistra! Circondati! Prima che essi abbiano fatte le loro cinque o sei remate, certo i Pastor campioni di corsa, avranno già fatto il giro del lago, ed allora non c'è scampo nè a destra nè a sinistra. E se giungono prima dei Pastor, la vedetta in cima all'albero può seguirli con lo sguardo e comunicare la direzione presa! Dalla barchetta si vedeva il fanalino, in mano a Franco Ats, muoversi sulla riva dell'isoletta. Poi uno scalpiccio sul ponte: i Pastor che lo varcavano di corsa! Quando la barchetta giunse all'altra sponda, la vedetta raggiungeva il suo posto d'osservazione in cima all'albero: — Approdano! — urlò la voce dall'albero — E la voce del capitano rispose pronta : — All'attacco! Tutti! Ma già i tre ragazzi della via Pal galoppavano disperatamente: — Non devono raggiungerci — disse pur mentre correva Boka —. Sono in molti più di noi! Corsero a precipizio, attraverso strade, praterie, girando boschetti: Boka in testa, gli altri due dietro. Erano diretti alla serra. — Dentro, nella serra! — rantolò Boka, e corse alla porticina. Per fortuna era aperta. Scivolarono dentro e si nascosero. Fuori era silenzio. Forse gli inseguitori avevano perdute le traccie. I tre ragazzi ora riposavano un poco. Si guardavano attorno: le pareti e il tetto di vetro dell'edificio strano lasciavano trapelare il lontano chiarore della città. La grande serra era un luogo nuovo ed interessante! Si trovavano nell'ala sinistra della costruzione: c'erano alberi piantati dentro gran vasi verdi, alberi con larghe foglie. Dentro lunghi cassoni vegetavano mimose e felci. Sotto la cupola del corpo centrale s'ergevano palmizi con fronde a ventaglio e tutta una foresta di flora tropicale. In mezzo a questa foresta c'era una piscina con dentro dei pesciolini dorati, e vicino una panchina. Poi magnolie, lauri, aranci, ed enormi felci. Un profumo intenso carico d'aromi, rendeva pesante l'aria. E nell'altra ala, quella riscaldata a calorifero, l'acqua gocciolava sempre. Le goccie colavano sulle larghe foglie carnose e quando una foglia di palma si mosse sotto il peso di queste goccie ai ragazzi parve di scorgere qualche strano mostro equatoriale sbucare da questa foresta calda ed umida, in mezzo ai vasi verdi. Si sentivano al sicuro e cominciavano a pensare al modo di uscire. — Purchè non ci chiudano dentro! — mormorò Nemeciech che s'era seduto ai piedi d'una grande palma e si sentiva bene nella località riscaldata perchè era inzuppato fino alle ossa. Boka lo rassicurò: — Se non hanno chiuso ancora la porta, non la chiuderanno più. Stavano seduti ed ascoltavano: nessun rumore. Certo a nessuno sarebbe venuto in mente di cercarli qui. Si alzarono e si mossero a tastoni tra gli alti scaffali, zeppi di piante, di erbe odorose e di grandi fiori. Cionacos andò a cozzare contro uno scaffale e inciampò. Nemeciech volle essere premuroso: — Fermati — disse — ti faccio luce! E prima che Boka avesse potuto impedirglielo aveva cavato di tasca i fiammiferi, ancora asciutti malgrado il bagno, e ne aveva acceso uno. La fiammella divampò ma si spense subito perchè Boka l'aveva strappata dalla mano dell'imprudente. — Merlo! — diceva Boka furioso — Non sai che sei in una serra? Che qui anche le pareti sono di vetro...? Di certo avranno visto la luce. Si fermarono e si posero in ascolto. Boka aveva ragione: le camicie rosse 6 avevano veduto la luce divampare, rischiarare per un istante tutta la serra. Ed ecco si udivano già i loro passi sui ciottoli. Anch'essi si dirigevano alla porta dell'ala sinistra. Franco Ats diede gli ordini: — I Pastor per la porta di destra — gridò — Sebeni per quella di mezzo, io per di qui! I te della via Pal si nascosero in un baleno. Cionacos si mise disteso sotto uno scaffale, Nemeciech, con la scusa ch'era bagnato di già, fu mandato nella piscina. II biondino si calò nell'acqua fino al mento e nascose la testa sotto una grande felce. Boka fece appena in tempo a ritirarsi dietro il battente che si apriva. Franco Ats entrò col suo seguito: teneva in mano il fanalino. La luce di questo cadde sulla porta vetrata in modo che Boka poteva vedere benissimo Franco Ats, ma questi non poteva vedere Boka nascosto dietro la porta. E Boka osservò bene il capitano avversario, ch'egli aveva veduto soltanto una volta da vicino, nel giardino del Museo: bel ragazzo, Franco Ats, col viso tutto acceso dall'ardore del combattimento. Ma subito si allontanò: percorse con gli altri le stradicciuole della serra e nell'ala di destra guardarono anche sotto gli scaffali; ma a nessuno veniva in mente di cercar nella piscina. Cionacos poi scampò dal pericolo d'essere scoperto perchè quando stavano per esaminare anche sotto lo scaffale dov'egli si trovava, il ragazzo che Franco Ats aveva chiamato Sebeni, disse: — Se ne sono andati da un pezzo, per la porta di destra... E poichè si avviava in quella direzione, tutti gli altri, nel fervore della ricerca, lo seguirono. Attraversarono la serra, ed alcuni sordi tonfi dissero che anch'essi non avevano troppi riguardi per le terraglie. Uscirono. Nuovo silenzio. Cionacos sbucò fuori: — Un vaso m'è capitato in testa e sono pieno di terra! E si mise a sputare con molto zelo la terra che gli era entrata in bocca. Secondo apparve Nemeciech: uscì dalla piscina come un mostro acquatico. Era bagnato come un cencio e gocciolava tutto: — Passerò tutta la vita in acqua? — diceva — Cosa sono? Una rana? Si scosse tutto come un cagnolino bagnato. — Non ti lamentare — disse Boka —. Almeno ora non potrai più accendere fiammiferi di certo. Ma andiamo... Nemeciech sospirò: — Come vorrei già essere a casa! Ma, pensando alle accoglienze che avrebbe avuto a casa vedendo il suo vestito in quello stato, corresse: — No. Non vorrei essere neanche a casa! Ritornarono correndo verso l'acacia dove avevano scavalcato lo steccato. Cionacos s'arrampicò sull'albero, ma prima di mettere il piede sullo steccato si rivolse verso il giardino: — Vengono! — esclamò. — Su, all'albero! — ordinò Boka. Cionacos tornò sull'albero ed aiutò anche i compagni a salire. S'arrampicarono quanto più in alto riuscirono e quanto la resistenza dei rami consentiva. Sarebbe stato seccante essere presi quando stavano per essere in salvo. La banda delle camicie rosse giunse sotto l'albero con corsa rumorosa. I ragazzi si rannicchiarono tra le foglie come tre uccellini spaventati. Tornò a parlare quel Sebeni che nella serra aveva guidato i suoi sopra una falsa pista: — Li ho visti scavalcare lo steccato! Questo Sebeni doveva essere il più stupido fra i nemici, e perchè era il più stupido era anche il più turbolento ed era lui che parlava e gridava di continuo. Le camicie rosse che eran tutti ottimi ginnasti, in pochi balzi, sono al di là dello steccato. Franco Ats è rimasto per ultimo e prima di uscire spegne la lampada. Mentre si arrampica sull'acacia per poi passare sullo steccato, gli cadono addosso, da Nemeciech fradicio, alcune goccie d'acqua. — Piove — disse; e si asciugò il collo. — Eccoli laggiù! — disse Sebeni; e tutti si misero a correre. — Se non ci fosse stato questo Sebeni ad aiutarci — disse Boka — ci avrebbero presi da un pezzo. Ora sentivano d'essere definitivamente scampati da ogni pericolo. Avevano creduto di riconoscerli in due ragazzi che se n'andavano pacificamente per i fatti loro e s'erano messi ad inseguirli: quei due, spaventati, s'eran dati a scappare. E allora le camicie rosse, urlando selvaggiamente, via, all'inseguimento. II rumore della corsa si perdette lontano. Scesero dallo steccato e respirarono di soddisfazione quando tornarono a sentire la pietra del marciapiede sotto le loro scarpe. Incontrarono una vecchietta barcollante; poi altri passanti. Erano di nuovo in città: ogni pericolo era scomparso. Erano stanchi ed affamati. Passarono davanti all'orfanotrofio le cui finestre illuminate guardavano verso la sera buia: una campanella annunciò che là dentro si stava per andare a cena. Nemeciech batteva i denti. — Facciamo presto — disse. — Aspetta — disse Boka —. Tu prendi il tram per andare a casa. Ti do i soldi. Mise la mano in tasca. Ma il presidente non aveva che sette soldi. Nella sua tasca non c'erano che sette soldi di rame e l'elegante calamaio tascabile ricoperto di pelle, dal quale colava un filo d'inchiostro azzurro. Cavò i sette soldi macchiati d'inchiostro e li diede a Nemeciech: — Non ne ho altri! Ma Cionacos cavò fuori due soldi; e il biondino aveva un soldo portafortuna che aveva con sè in una scatoletta per pillole. Tutto sommato si arrivava a dieci soldi. Con questi, il biondino salì sul tram. Boka si fermò in mezzo alla strada: aveva ancora il cuore gonfio per il tradimento di Ghereb. Se ne rimaneva triste e taceva. Ma Cionacos che non sapeva ancora niente era allegro e disse: — Attenzione, signor presidente! — e quando Boka lo guardò, mise due dita in bocca e fischiò da rompere i timpani. Poi si guardò attorno come uno che si sia finalmente sfogato. — L'ho tenuto finchè ho potuto, ma ora non ne potevo più! Prese a braccetto il malinconico Boka e, dopo tante avventure, s'avviarono stanchi verso la città, lungo il grande viale...

E avrebbe abbandonato tutto volentieri, su questa terra; soltanto il campo, il dolce campo gli doleva troppo abbandonare per sempre! E, cosa che non gli era mai accaduta durante tutta la malattia, a questo pensiero le lagrime gli sgorgarono dagli occhi: ma non era la tristezza che lo faceva piangere, ma il furore impotente di non poter vincere l'avversità che gli impediva di andar ancora in via Pal, sotto le fortezze, accanto alla capanna. Ricordava la segheria, la rimessa, i due gelsi dai quali coglieva le foglie per portarle a Ciele che aveva uno stabilimento di bachi-coltura ed ai bachi occorrevano le foglie dei gelsi, ma Ciele era tutto accurato ed aveva paura di sciuparsi il suo bel vestito arrampicandosi sull'albero ed allora Ciele ordinava a lui di arrampicarsi perchè egli era l'unico soldato semplice. Pensava allo snello comignolo che sbuffava vispo emettendo sull'azzurro del cielo nuvolette di fumo bianchissimo, che si scioglievano subito nel nulla. E gli pareva di sentire ancora lo stridere della sega quando intacca i legni per ridurli a tavole sottili. Il viso gli si accese; gli occhi brillarono. Esclamò: — Voglio andare sul campo! E poichè nessuno rispondeva a questa sua richiesta, si ostinò e con voce risoluta chiese: — Voglio andare sul campo! Boka gli prese la mano: — Verrai la settimana ventura, quando sarai guarito... — No, no! — ribattè — Voglio andarci ora! Adesso! Subito! Datemi il mio vestito! Metterò il berretto di via Pal! Mise la mano sotto il cuscino e ne cavò fuori, trionfante, il berretto rosso e verde dal quale non aveva voluto staccarsi neppure un minuto. Se lo mise in testa. — Il vestito! Triste il padre gli disse: — Quando sarai guarito! Ma non era possibile persuaderlo. Gridò con quanto fiato potevano i suoi polmoni malati: — Non guarirò! E poichè parlava con tono decisamente imperativo, nessuno lo contraddisse. — Non guarirò! — diceva — Voi mentite! Io so che morirò e voglio morire dove voglio! Voglio andare sul campo! Discutere non si poteva. Tutti accorsero per persuaderlo, per chetarlo, per spiegargli. — Ora non si può... — Il tempo è cattivo... — La settimana ventura... E continuavano a dirgli le parole che quasi non osavano ripetere di fronte ai suoi occhi intelligenti: — Quando sarai guarito... Tutto li smentiva. Quando accennavano al tempo cattivo, ecco il sole inondare col suo raggio il piccolo cortile, il sole di primavera forte e rigeneratore, il sole che infonde vita a tutti, meno che ad Ernesto Nemeciech. La febbre invase il ragazzo con tutto il proprio furore. Annaspava come pazzo; le narici gli si allargavano. — Il campo — disse — è tutto un regno! Voi non potete saperlo perchè non avete mai combattuto per la patria. Bussarono. La donnina uscì. — Cienechi — disse rientrando al marito — cerca te! Il sarto andò in cucina. Questo Cienechi era un impiegato municipale che si faceva fare i vestiti da Nemeciech; e gli chiese: — E il mio vestito marrone a doppio petto? Di dentro giungeva la voce che affermava: 17 — Squilla la tromba... II campo è pieno di polvere... Avanti! Avanti! — Scusi tanto — diceva il sarto —; se il signore vuole provare, ma bisogna provare qui in cucina perchè di là c'è mio figlio molto malato... — Avanti! Avanti! — ripeteva la voce rauca del bambino. Seguitemi tutti all'assalto! Ecco le Camicie Rosse con alla testa Franco Ats con la lancia inargentata... Ora mi butteranno in acqua... Il signor Cienechi porse l'orecchio. — Che c'è? — E' lui che grida! — Ma se è malato, perchè grida? Il sarto scrollò le spalle. — Non grida. Delira. E' fuori di sè... E andò a prendere la giacca marrone a doppio petto, che era cucita con un'imbastitura bianca. Quando la porta s'aperse, si udì: — Silenzio in trincea! Attenti! Ora vengono! Ci sono! Trombettiere, la tromba! Fece portavoce della mano: — Taratatà! Taratatà! E ordinò a Boka: — Suona anche tu! E Boka fu costretto a fare anch'egli delle sue mani portavoce ed ora imitavano la tromba in due: una vocina stanca, rauca, debole, ed un'altra sana ma che sonava triste anch'essa. A Boka la commozione strozzava la gola, ma resistette; sopportò da uomo e fingeva d'essere felice di potere imitare il suono della tromba. — Mi spiace — disse il signor Cienechi — ma questo vestito mi occorre subito! — Taratatà! Taratatà! — si sentiva venire dalla stanza. Il sarto lo aiutò ad infilare la giacca. E si misero a parlare sottovoce. — Mi stringe sotto le ascelle! — Sissignore! — Taratatà! Taratatà! — Questo bottone è troppo in alto. E la stiratura, mi raccomando... — Sissignore! — Assalto generale! Avanti! — Mi pare che la manica sia un po' corta! — Non credo, signore! — Ma guardi bene! Il guaio è che voi mi fate sempre le maniche un po' corte! — Non è questo il guaio, creda a me! — pensava il sarto; e segnava con il gesso le maniche della giacca. Di dentro lo schiamazzo cresceva sempre. — Ah! Ah! — gridava la voce del bambino — Sei qui? Sei di fronte a me! Finalmente ti posso afferrare. Ora vedremo chi è il più forte! — Ci metta dell'ovatta — diceva Cienechi —. Un po' sotto le spalle, un po' sul petto, a destra ed a sinistra... — Bum! Sei per terra! Il signor Cienechi si tolse la giacca marrone ed il sarto l'aiutò ad infilarsi quella di prima. — Quando sarà pronta? — Dopodomani. — Mi raccomando. Non vorrei che tardasse! Ha altro da fare? — Eh! Se non fosse malato il bambino... Il signor Cienechi scosse il capo: — E' spiacevole, ma ho proprio bisogno del vestito, d'urgenza. Si metta subito al lavoro. Il sarto sospirò: — Mi ci metto. — Buongiorno! — esclamò Cienechi; e si allontanò allegro. Ma di sulla porta si voltò un'ultima volta per ripetere: — Subito al lavoro, mi raccomando! Il sarto prese il vestito marrone e pensò a quel che gli aveva detto il dottore: che bisognava provvedere a quello che occorre in simili casi. Dunque bisognava lavorare! A che avrebbe servito il danaro che gli avrebbero dato per il vestito marrone? Forse sarebbe andato al falegname... Ed il signor Cienechi sarebbe andato a passeggiare vanitoso col suo abito nuovo sul Corso! Tornò in stanza e si mise a cucire. Non osservava nemmeno il letto, ma aveva preso ago e filo per terminare al più presto il lavoro, che in ogni modo era urgente. Cienechi ne aveva bisogno; ed il falegname anche ne aveva bisogno. Il piccolo non si calmava più. Sembrava che le forze gli fossero ritornate. Si era alzato in piedi sul letto: la camicia da notte gli giungeva fino alle calcagna. Aveva il berretto rosso e verde di traverso. Fece il saluto militare. E parlava rantolando con lo sguardo perduto nel nulla: — Signor capitano, debbo riferire che ho buttato a terra il capo delle Camicie Rosse e chiedo d'essere promosso! Guardatemi! Sono capitano! Ho combattuto per la patria e sono morto per la patria! Tromba, Ciele! Taratatà! Con una mano s'aggrappò alla spalliera del letto. — Bombardate, fortezze! Ecco Giovanni! Sarai capitano anche tu, Giovanni! E il nome con lettere minuscole, no! Siete cattivi! Vi fa rabbia che il generale voglia bene a me! La Società dello Stucco è una stupidità! Do le dimissioni! Do le dimissioni! Poi aggiunse sottovoce: — Scrivete sul registro. E il povero sarto, accanto alla tavola bassa, non vedeva, non sentiva più nulla. Le sue dita magre agucchiavano sulla stoffa: il ditale ogni tanto dava un bagliore. Egli non avrebbe guardato il letto a nessun costo. Aveva paura che, se avesse guardato, gli sarebbe mancata la voglia di lavorare, avrebbe gettato per terra il vestito di Cienechi e si sarebbe messo in ginocchio vicino al letto del suo figliuolo. Il capitano sedette sul letto e si mise a fissare taciturno la coperta. Boka gli chiese piano: — Sei stanco? Non rispose. Boka lo ricoperse. La madre gli aggiustò il guanciale sotto la testa. — Sta tranquillo! Riposa! Fissava Boka ma si capiva che il suo sguardo non vedeva. Disse: — Papà... — No, no — disse con voce strozzata il generale —. Io non sono il papà. Sono Giovanni Boka... E il malato con voce stanca e confusa ripetè: — Io sono... Giovanni Boka... Cadde un lungo silenzio. Il ragazzo chiuse gli occhi e sospirò a lungo e profondamente come se tutti i dolori degli uomini infelici si fossero dati convegno dentro la sua piccola anima. Silenzio. — Forse s'addormenta — sussurrò la donna bionda che appena si reggeva in piedi a forza di vegliare. — Lasciamolo! — rispose con un soffio Boka. Sedettero in disparte sopra uno sdrucito divano verde. Anche il sarto aveva smesso di lavorare: aveva posato sulle ginocchia la giacca marrone ed aveva chinato il capo sopra la tavola. Nel silenzio profondo si sarebbe potuto sentir volare un moscerino. Dalla finestra filtrarono voci di ragazzi, come se fossero in molti nel cortile e parlassero tranquillamente fra di loro. Ed ecco una voce conosciuta giunse all'orecchio di Boka; ed un nome sussurrato da un'altra: — Barabas... S'alzò. Uscì dalla stanza in punta di piedi. Quando aperse la vetrata della cucina e fu in cortile, vide visi amici: uno sciame di ragazzi di via Pal se ne stava lì, accanto alla porta. — Siete voi? — Sì — sussurrò Vais —. Tutta la Società dello Stucco è qui. — Che volete? — Gli abbiamo portato un diploma d'onore sul quale abbiamo scritto in inchiostro rosso che la Società dello Stucco chiede perdono e gli annuncia che sul registro il suo nome è stato scritto tutto a lettere maiuscole. Abbiamo anche il registro. Siamo in deputazione. Boka scrollò il capo. — E non potevate venir prima? — Perchè? — Perchè ora sta dormendo. I membri della deputazione si guardarono. — Non abbiamo potuto venir prima perchè c'è stata una grande discussione per stabilire chi dovesse essere il presidente della deputazione, ed è durata mezz'ora. E poi è stato eletto Vais. La donnina comparve sulla soglia. — Non dorme — disse —. Vaneggia. I ragazzi s'irrigidirono. Erano atterriti. — Entrate, figliuoli — disse la madre —. Chissà che non torni in sè al vedervi. Ed aperse la porta. Entrarono uno alla volta, impacciati, reverenti come se passassero la porta d'una chiesa. Si tolsero i cappelli prima di varcare la soglia. E, quando, dietro l'ultimo, la porta si rinchiuse, rimasero tutti nello strombo della porta, silenziosi, rispettosi, con gli occhi sbarrati. Fissavano il sarto e il letto. Il sarto non sollevò la testa nemmeno a questo: la teneva reclinata contro il gomito, ma non piangeva. Era molto stanco. Il capitano giaceva con gli occhi spalancati nel suo letto, respirava raucamente ed a fatica: aveva la bocca spalancata. Non riconobbe nessuno. Forse i suoi occhi vedevano già cose che i nostri occhi terreni non possono vedere. La donna spinse avanti i ragazzi: — Andate da lui! S'avviarono adagio adagio verso il letto. Ma camminavano esitanti. Uno incoraggiava l'altro: — Va avanti tu! — No, tu! Barabas disse: — II presidente della deputazione sei tu! Vais s'accostò al letto: e gli altri gli eran dietro. Ma il ragazzo non li guardava nemmeno. — Parla — suggeri Barabas. E Vais con voce tremante cominciò: — Tu... Nemeciech... Ma Nemeciech non udiva. Ansava e guardava fisso la parete. — Nemeciech... — ripetè Vais; e il pianto gli serrava la gola. Barabas gli sussurrò: — Non strillare. — Non strillo — rispose Vais; ed era soddisfatto di poter dire quache parola senza piangere. Poi si riprese: — Signor capitano illustrissimo! — cominciò cavando di tasca una pagina scritta — Quando noi siamo comparsi qui... io come presidente... in rappresentanza della Società... noi... ecco ci siamo sbagliati... e tutti ti chiediamo perdono... con questo diploma d'onore... vi è scritto tutto... Si voltò. Due lagrime spuntavano nei suoi occhi. — Signor cancelliere... — sussurrò — Mi dia il registro sociale! Lesik glie lo porse premuroso. Vais lo depose timido sul canto del letto e sfogliando trovò la pagina dell'annotazione. — Guarda qui... — disse al malato — c'è questo! Ma gli occhi del malato adagio adagio si richiusero. Aspettarono. Poi Vais disse: — Guarda! Non rispose. Tutti s'avvicinarono al letto. La madre si fece strada in mezzo ai ragazzi, tremando. Si chinò sul figliuolo. — Tu! — disse poi al marito con una voce strana, nuova —. Non respira. Gli posò la testa suI petto. — Tu! — ripetè forte, gridando — Non respira più! I ragazzi si ritirarono. Si misero in un angolo della stanza, uno vicino all'altro. Il registro della Società cadde per terra aperto come l'aveva lasciato Vais. E la donna gridava: — Ha la mano gelata! E nel grande silenzio che seguì si intesero i singhiozzi del sarto che fino allora era rimasto immobile sullo sgabello, con la testa sul braccio; ma erano singhiozzi soffocati, contenuti. E le spalle gli si scotevano tutte. Ma ancora faceva attenzione alla giacca di Cienechi, la faceva scivolare di sul ginocchio perchè le lagrime non la bagnassero. La donna baciava, stringeva a sè il bambino, poi s'inginocchiò accanto al letto, affondò il viso nella coperta e si mise a piangere anche lei. Ernesto Nemeciech, segretario della Società dello Stucco, capitano per merito sul campo di via Pal, giaceva muto per sempre, pallido, gli occhi chiusi; ed era certo che oramai non vedeva nè sentiva più niente di quel che gli succedeva attorno, perchè vista e udito del capitano Nemeciech erano stati presi dagli angeli e portati là dove non si sentono che musiche soavi e non vi sono che luci divine; là dove non esistono altri esseri se non simili al capitano Nemeciech. — Sono venuti troppo tardi! — sussurrò il sarto. Boka era nel centro della stanza, ed abbassò il capo. Poco prima era riuscito a stento a trattenere il pianto; ed ora era meravigliato che le lagrime non gli sgorgassero dagli occhi, meravigliato di non poter piangere. Si guardò attorno: i ragazzi erano ammassati nell'angolo. Davanti a tutti, Vais col suo diploma d'onore in mano, il diploma che Nemeciech non aveva potuto vedere. S'accostò ad essi: — Andate a casa. E i disgraziati quasi si rallegrarono di poter lasciare quella stanza sconosciuta dove il loro compagno giaceva sul letto, morto. Strisciarono uno alla volta in cucina, e dalla cucina sulla strada piena di sole. Ultimo era rimasto Lesik. Era rimasto ultimo volontariamente. Quando tutti furono usciti, in punta di piedi s'avvicinò al letto e raccattò il registro della Società; guardò il letto e il capitano silenzioso, poi uscì anche lui, dietro gli altri; nel cortile pieno di sole, gli uccelli cinguettavano sugli alberi striminziti. I ragazzi fissavano gli uccelli e non capivano. Il loro camerata era morto, ma non ne capivano il significato. Si guardavano l'un l'altro, stupiti, come chi rimane incerto davanti a una cosa incomprensibile, strana, incontrata per la prima volta nella vita. Verso sera Boka uscì di casa: bisognava che studiasse perchè l'indomani sarebbe stata una giornata grave: esame di latino. Ed era certo che il professor Raz l'avrebbe interrogato. Ma non aveva voglia di studiare. Mise da parte libro e dizionario ed uscì. Girò per le strade senza meta; evitava le vicinanze della via Pal. Non voleva rivedere il campo in quella giornata triste. Ma dovunque andasse qualcosa gli ricordava Nemeciech. Viale Ulloi: c'erano passati in tre, con Cionacos, quando s'erano recati per la prima volta all'Orto Botanico... Via Costelech: una volta, a mezzogiorno, dopo scuola, s'erano fermati proprio lì, in mezzo alla strada, e Nemeciech aveva raccontato con gravità come i due Pastor gli avessero prese le biglie di vetro nel giardino del Museo... I dintorni del Museo... Sentiva che più egli schivava il campo e più se ne allontanava, tanto più lo attirava lì un sentimento doloroso. E quando si decise a recarcisi, senza raggiri, direttamente, coraggiosamente, allora un senso di leggerezza sollevò la sua anima. S'affrettò per arrivarci il più presto possibile. E quanto più s'avvicinava al suo «regno» tanto più nel suo cuore entrava la pacatezza. Quando, nel tramonto che scendeva, vide il grigio steccato ben noto, il suo cuore palpitò forte. Dovette fermarsi. Non c'era più da aver fretta; era arrivato. S'avvicinò con passi lenti al campo, la porticina del quale era aperta. Davanti alla porticina, con la schiena appoggiata allo steccato, Giovanni stava fumando la pipa. Appena vide Boka gli disse, festoso: — Glie le abbiamo date! — Sì — disse piano il generale. E Giovanni s'entusiasmò: — Le hanno prese. Li abbiamo spazzati via! Pulizia! Giovanni indugiò davanti allo slovacco, tacque un istante, poi disse: — Sapete, Giovanni, che cosa è accaduto? — Che cosa? — Nemeciech è morto! Lo slovacco si tolse la pipa di bocca. — Qual'era Nemeciech? — Il biondino... — Ah! — disse lo slovacco. E rimise la pipa in bocca — Poveraccio! Boka entrò dalla porticina. Si stendeva silenzioso ai suoi piedi quel gran pezzo di terra cittadina che era stato testimone di tante ore gaie. Lo attraversò adagio e giunse alla trincea. Qui si vedevano ancora i segni della battaglia. La sabbia portava ancora le orme dei combattenti. I baluardi della trincea erano un po' demoliti: erano stati i ragazzi a disfarli quando s'erano arrampicati per l'assalto. E cupe, una accanto all'altra, nereggiavano le cataste di legna. Il generalissimo si appoggiò al terrapieno, il mento contro il gomito. II campo era silenzioso. Il fumaiolo taceva ed aspettava il mattino quando mani laboriose gli avrebbero acceso sotto il fuoco. Anche la segheria riposava e la casupola tra la fiorente vigna selvatica dormiva. Di lontano, come attraverso un sogno, giungeva il fracasso della via. Le carrozze risuonano sull'asfalto, la gente vocia, e dalla finestra d'un cortile, forse dalla finestra d'una cucina dove il lume già acceso, giunge una gaia canzone. Forse una serva. Boka si alzò. Si diresse verso la casupola. Si fermò sul posto dove Nemeciech aveva atterrato Franco Ats come una volta Davide Golia. Si curvò per cercare le orme: ma la terra era smossa e non si vedevano orme. Eppure avrebbe riconosciuto l'orma del piede di Nemeciech che era tanto piccolo che anche le Camicie Rosse se n'erano stupite quando avevano trovato l'impronta delle sue scarpe sulla sabbia dell'Orto Botanico, quel giorno memorabile... Continuò sospirando. Giunse alla fortezza numero 3. II generale era stanco: l'anima ed il corpo erano estenuati dalla giornata passata. Barcollava come se avesse bevuto un vino forte. S'arrampicò a stento sulla fortezza numero 2 e vi si accoccolò. Almeno qui nessuno lo vedeva, nessuno lo disturbava, poteva riflettere, pensare ai propri ricordi, si sarebbe anche sfogato a piangere, se gli fosse riuscito. La brezza gli portò delle voci. Guardò giù dalla fortezza e vide due piccole ombre davanti alla capanna. Non poteva riconoscerli, ma prestò orecchio alle voci. I due ragazzi parlavano piano: — Eccoci, Barabas... — diceva uno — eccoci dove il povero Nemeciech ha salvato la patria. Silenzio. Poi la voce riprese: — Facciamo la pace, qui, ma sul serio e per sempre. E' stupido litigare fra di noi. — Va bene — diceva commosso Barabas —. Sono venuto per questo. Facciamo la pace. Nuovo silenzio. Stavano muti uno di fronte all'altro. Poi Colnai disse: — Allora, ciao! E Barabas rispose: — Ciao! Si strinsero le mani; e rimasero a lungo, mano in mano. E non si dissero altro, ma si abbracciarono. E' accaduto anche questo. E' accaduto anche questo miracolo. Boka li guardò dall'alto, dalla fortezza, ma non si fece vedere: egli voleva restar solo. E poi, a che scopo disturbarli? I due ragazzi s'avviarono quindi verso via Pal conversando piano. — Per domani c'è molto latino — diceva Barabas. — Sì — rispondeva Colnai. — Per te è facile — sospirò Barabas —. Sei stato interrogato ieri, ma io non sono stato chiamato da molto tempo e mi toccherà certo uno di questi giorni. — Fa attenzione. Dal verso 1al 23 del secondo capitolo c'è un taglio. L'hai segnato? — No. — Quello è inutile studiarlo! Vengo io da te e ti segno il taglio sul libro. — Grazie. Ecco: quei due già pensano alla lezione. Dimenticano presto. Se Nemeciech è morto, il professor Raz è vivo e con lui la lezione di latino. Se n'andarono, scomparvero nell'oscurità. Ed ora Boka era solo. Ma non rimase nella fortezza. E poi era tardi. Dalla chiesa veniva uno scampanio mesto... Scese e si fermò davanti alla capanna. Giovanni stava tornando: Ettore, il cane, gli scodinzolava accanto. — Ebbene... — disse lo slovacco — II signorino non rincasa? — Sì, me ne vado — rispose Boka. Lo slovacco sorrideva. — A casa, cena calda... — Cena calda... — ripeteva macchinalmente Boka e pensava che in via Racos due infelici sedevano a cena, il sarto e la moglie. E nella stanza erano accese le candele. Per caso guardò dentro la capanna; s'accorse di strani strumenti appoggiati contro la parete. Un disco tondo di latta dipinto di rosso e bianco come le targhe dei passaggi a livello quando passa il direttissimo. Pali dipinti di bianco, un cavalletto a tre piedi con un tubo d'ottone in cima. — Che c'è? — domandò. — Roba dell'ingegnere. — Di quale ingegnere? — Dell'architetto. Il cuore di Boka palpitò selvaggio. — Architetto? E che viene a fare qui? Giovanni soffiò una boccata dalla pipa, poi disse: — Costruiscono una casa. — Qui? — Sì. Lunedì vengono gli operai, scaveranno il campo, costruiranno le fondamenta... — Come? — gridò Boka — Costruiscono una casa qui? — Una casa... — disse indifferentemente lo slovacco — A tre piani. Il padrone del campo fa costruire. Ed entrò nella capanna. A Boka pareva che la terra gli mancasse sotto i piedi. Le lagrime gli spuntavano. S'incamminò verso la porticina in fretta. Fuggiva. Fuggiva dalla terra infedele ch'essi avevano difeso con tanto dolore, con tanto eroismo e che ora li abbandonava per prendersi sulle spalle una gran casa d'affitto, per sempre. Si rivolse ancora, dalla porticina, come chi lascia la patria per sempre. E nel grande dolore che gli serrava il cuore si mescolò una goccia, una goccia sola di conforto. Se il povero Nemeciech non ha potuto vivere fino ad ascoltare la deputazione della Società dello Stucco che gli domandava perdono, almeno non aveva saputo neanche che la patria per la quale egli era morto gli sarebbe stata tolta. E il giorno dopo, quando tutta la classe era seduta in silenzio, il professor Raz salì a passi lenti e gravi sulla cattedra e parlò con parole semplici e commosse, di Ernesto Nemeciech e invitò tutta la classe a volersi trovare l'indomani alle 15 in via Racos, vestiti tutti di nero o almeno di scuro. Giovanni Boka guardò cupo davanti a sè e per la prima volta cominciò ad albeggiare nella sua semplice anima di fanciullo un vago sentore di quel che possa veramente essere la vita, della quale tutti noi siamo schiavi ora tristi ora gai.

Lo stralisco

208389
Piumini, Roberto 1 occorrenze
  • 1995
  • Einaudi
  • Torino
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Una volta, poi, agitato nella notte da quel vuoto, ho preso la decisione di rinunciare, e di abbandonare all'alba seguente la tua casa. È accaduto prima dell'inizio di questa luna. — Sí, — fece Ganuan annuendo, — io so ora che la tua mente, e quella di mio figlio sono piene di immagini e figure stupende. So che se riuscirai a dipingere anche solo la decima parte di quello che insieme state immaginando, il tuo sarà un lavoro ammirevole. Disse le parole con una specie di soprassalto gioioso. Poi tacque sorridendo, e aggiunse: — Spesso, in silenzio, io entro nelle stanze di Madurer, e da una certa distanza vi guardo e sento parlare mentre, vicini alle pareti bianche, muovete le braccia indicando le figure che vi nasceranno... Non mi avvicino mai troppo, ma credo che in quei momenti, anche se arrivassi ad un passo da voi, non vi accorgereste di me. Forse mio figlio, immerso con te nel lavoro gioioso del pensiero, non baderebbe a suo padre. Non credere che questo mi rattristi: mi dà anzi una grande contentezza, giacché non ho mai visto Madurer vivace e lieto come in questi vostri progetti. È sempre stato un bambino fervido e ricco: ma ora sembra godere di una eco splendida, e la gioia che da lui esce, in un modo che non so, gli torna addosso, e lo fa felice... Ecco dunque come, non veduto sebbene non mi nasconda, seguo e imparo il vostro gioco, ammiro la tua prudenza e la tua sapiente curiosità. Ganuan tacque, versando tè fresco all'ospite. Bevvero guardandosi negli occhi, come usano gli uomini di quel paese per dimostrarsi, senza parlare, riverenza e stima. — Ma ora, amico mio, — prosegui il burban seriamente, posando la tazza preziosa, — io vedo assai bene che il tuo gioco è un gioco grande, e che si può allungare nel tempo e nella fatica piú di quanto tu ed io potevamo prevedere. Io desidero che continui, ma penso con preoccupazione: «Forse Sakumat ha altri lavori che lo aspettano nella sua città, o delle promesse da mantenere laggiú. Forse ha persone che lo amano e attendono il suo ritorno, e che il suo cuore desidera rivedere». Cosí io penso, ed è come un'angoscia. Tu sai, mio caro, quanto io apprezzo quello che stai facendo: tanto più perché va molto oltre il dono che volevo fare... Ma se una delle cose che penso, o tutte insieme, sono cosí importanti da farti affrettare l'opera, o interromperla prima che sia compiuta, ti prego con tristezza di non cominciarla nemmeno, e di abbandonare subito la mia casa. Questo mi permetterebbe, con una scusa adatta e nel momento opportuno, di deludere il mio figliolo ad un punto in cui, come accade nei giovani, la sua delusione non durerà che qualche giorno. Anche in questo caso, naturalmente, il tuo compenso sarà quello che avresti avuto lavorando un anno nella mia casa... Ma se, in qualche modo, è possibile che tu continui l'opera che hai cominciato, e le dia tutto il tempo che essa richiede, io ti prego con umiltà e amore di restare. Se hai famiglia, o persone a te care, le manderò a prendere e le accoglierò nella mia casa come la famiglia di mio fratello, e per tutto il tempo che sarà necessario. Oppure, se tu preferisci, vi assegnerò una palazzina fresca e di grande conforto che sorge presso il bosco. Metterò cinque uomini al vostro servizio, e tre donne per il cibo e il lavoro della casa. Avrete tutti i cavalli che serviranno al vostro diletto, e rimarranno vostri per sempre. Alla fine, quando sarà, il mio compenso ti farà un uomo ricco. Sakumat non rispose subito. Ormai la sua barba copriva guance e mento, e il gesto ruvido dei primi giorni era diventato una calma e abituale carezza che accompagnava, o precedeva, le sue parole. — Vedo anch'io, burban, che il gioco si fa grande, - disse il pittore, — e so che per compierlo dovrò essere come un gigante muto, piú servizievole di quello che usci dalla lampada del buon Aladino. Tuttavia, mio signore, il gioco ha preso anche me: io sto ai suoi bordi come un assetato a quelli di una fonte fresca e zampillante. Non ho sposa né famiglia a Malatya, e i miei amici sanno ricordarmi nella mia assenza, e sanno che io li ricordo. Quanto alla ricchezza che prometti, io ti dico che un pittore ha una sola bocca per i sapori del cibo, e un solo ventre da consolare. Chi guarda a lungo la terra e gli alberi e il mutare luminoso del cielo, non sente bisogno di altre abbondanze. Piuttosto, signore, vorrei chiederti qualcosa. — Ti ascolto, — disse il burban, inchinandosi lievemente. — Ho constatato che a niente mi giova alloggiare nella — stupenda stanza che mi hai assegnato. In realtà ci sto pochissimo, perché i colloqui e la compagnia del tuo figliolo mi riempiono il giorno. La visione che godo da quella stanza, poi, per quanto meravigliosa, in qualche modo distrae e impoverisce la mia mente, occupata a costruire con Madurer il paesaggio del mondo. Ti chiedo dunque, se non c'è una ragione contraria, di far mettere per me un tappeto nelle stanze del tuo figliolo, in modo che io possa passare con lui ogni istante del tempo, come si addice alla forte amicizia. Cosí non perderò le occasioni della parola mattutina, il ricordo dei sogni che cosí presto svanisce, o le parole serali, in cui la pace e la saggezza si radunano. Il burban sorrise e abbassò il capo tre volte, in segno di assenso profondo. Questo fu il patto tra Ganuan, signore di Nactumal, e Sakumat il pittore: mentre il piccolo Madurer, nelle sue stanze ancora immacolate, guardava le pareti sdraiato fra i cuscini. Guardava con desiderio e con affanno gioioso, simile ad un innamorato che guarda gli occhi della sua amica.

Pagina 18

Il libro della terza classe elementare

210807
Deledda, Grazia 5 occorrenze
  • 1930
  • La Libreria dello Stato
  • Roma
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Ma il malcontento di Roma per questo fatto era stato tale, che il Papa aveva dovuto abbandonare la città e rifugiarsi presso il Re delle Due Sicilie. I Romani avevano proclamato la repubblica, ed in aiuto di Pio IX si erano mossi soldati Austriaci, Spagnoli,

Pagina 239

Gli Austriaci già battevano rabbiosamente i dintorni; e col cuore lacerato Giuseppe Garibaldi dovette abbandonare la salma della sposa adorata. Attraverso avventurose peripezie, egli potè infine scampare agli inseguitori, e così fu conservata all'Italia la sua vita preziosa.

Pagina 241

Giuseppe Garibaldi, dopo un'accanita resistenza, dovette ritirarsi ed abbandonare l'impresa.

Pagina 275

Il nostro esercito dovette abbandonare l'Isonzo, e

Pagina 297

Senza abbandonare un attimo i remi, arrivò a toccare la sabbia; di là, un po' sgambettando, un po' nuotando, uscirono tutti fradici e stanchi, dalle onde in tempesta. E Marino, assumendosi ogni responsabilità, andò ad avvertire le guardie. Sulle prime, non creduto, si prese anche qualche scapaccione; ma, dopo alcuni giorni, con soddisfazione seppe che lo straniero era stato arrestato perchè era una pericolosissima spia.

Pagina 83

La freccia d'argento

212141
Reding, Josef 1 occorrenze
  • 1956
  • Fabbri Editori
  • Milano
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Esasperato, Alo cerca di costringere l'altro, con una doppia presa alla nuca, ad abbandonare la lotta; ma quello riesce sempre a sottrarsi alla stretta e tenta con le mani di abbrancare il collo di Alo per soffocarlo. La lotta ha vicende alterne: una volta è Alo che ha il sopravvento e un'altra volta è il suo avversario. Ecco lo spilungone che punta un ginocchio sul petto di Alo... Infine Alo, con uno sforzo disperato, riesce a sollevarsi e a liberarsi dell'avversario: ora ha la testa del perticone sotto l'ascella e stringe forte, sempre più forte! Quello mugola per il dolore; ma non mugola soltanto: Alo non può accorgersi che il suo nemico, con la mano libera, si fruga alla cintura. E in quella mano ora luccica qualcosa: un pugnale! Il pugnale che manca sotto il vessillo della banda del Nord. Chinato com'è, lo spilungone distende perfidamente il braccio per prendere lo slancio e piantare la lama nella schiena di Alo... Ma proprio all'ultimo istante il pugnale gli viene strappato di mano. Quello non può girarsi e quindi non sa chi sia improvvisamente intervenuto... Alo non si è accorto del pericolo corso: con energia sempre maggiore stringe col braccio la testa dell'altro. Allora questi trova una scappatoia alla sua disperata situazione: affonda i denti nel braccio di Alo, attraverso la stoffa della tuta. Per il dolore lancinante Alo allenta un attimo la stretta, e tanto basta perché l'avversario gli sfugga. A balzi felini quello vorrebbe uscire dal capannone, scavalcando il groviglio di coloro che ancora si battono, ma il Segantino, che è finalmente riuscito a farsi largo e a scrollarsi di dosso gli assalitori, quando vede che il mascherato sta per raggiungere la porta, gli scaraventa con un tiro ben aggiustato il suo bastone nodoso fra le gambe, facendolo cadere bocconi. Quello si rialza però subito e scompare nella notte. I suoi complici, quando si accorgono che il capo se l'è data a gambe, si danno anch'essi a fuga precipitosa, mugolando e zoppicando. Solo ora i crociati, esausti, possono finalmente occuparsi di Mikro e Makro, che, strettamente legati e imbavagliati, si rotolano per terra davanti al capannone. Tagliati i lacci, strappati i bavagli, i due possono raccontare con frasi mozze come vennero sopraffatti. Essi tenevano d'occhio soprattutto il sentiero, mentre gli aggressori non eran

Pagina 42

Quartiere Corridoni

216614
Ballario Pina 2 occorrenze
  • 1941
  • La libreria dello Stato
  • Roma
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Una intensa commozione gli gonfiò il petto; egli non poteva abbandonare il suo comandante nemmeno nella morte. Si buttò in acqua, lo raggiunse e si inabissò con lui.

Pagina 77

Nino vede il cane ruzzolargli contro, sta per abbandonare il fucile di legno e la posizione, ma qualcosa gli grida dentro - Vergognati! un soldato che ha paura! E rimane sul posto. Chi indossa la camicia nera indossa una divisa militare. MUSSOLINI

Pagina 80

Il Plutarco femminile

217334
Pietro Fanfano 3 occorrenze
  • 1893
  • Paolo Carrara Editore
  • Milano
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Il padre però non vi fu presente, perchè richiamato dal suo signore, stato eletto capo della fanteria imperiale, dovè seguitarlo in Alemagna, e abbandonare le pure gioje di famiglia. Che cuore fosse quel della Porzia, non può significarsi a parole: tuttavia la sventura sopportò da sua pari; e solo dopo un anno potè rivedere il suo caro marito, e mostrargli tutta lieta il piccolo Torquato. Breve per altro fu la dimora di Bernardo; il quale per debito di suo ufficio, dovette poi sempre star lontano dalla famiglia; e la cara sua moglie si consolava solo con le affettuose e gravi lettere del suo sposo; e attendendo con ogni sollecitudine alla educazione del suo Torquato, il quale, se diventò quel che diventò, si deve in gran parte al senno e alla maravigliosa prudenza di sua madre. Ma essa doveva sopportare altri dolori! Essendo Bernardo a Parigi, seppe clic la sua Porzia e la Cornelia sua figliuola erano state colte da grave malattia, il perchè, presa assoluta licenza dal Sanseverino fece proposito di fermarsi a Roma, non tenendosi sicuro in Napoli: intanto procurò che la moglie con la figliuola riparassero in un monastero di Napoli, e Torquato col suo ajo venisse a Roma. La Porzia rimase dolentissima di doversi separare da Torquato, che per dieci anni era stato l' objetto di ogni sua cura, di ogni suo studio: si consumava dal desiderio di ricongiungersi a lui ed al marito; ma sempre più afflitta dal desiderio che si prolungava, fu presa da morbo repentino, che la rapì all' amore del suo Bernardo il dì 9 febbrajo 1556. I molti valentuomini che in Napoli, a Salerno, a Sorrento avevano ammirato le doti del suo animo e del suo ingegno, pietosamente la piansero; e il desolato suo marito non poteva trovar conforto a tanta perdita; e per lettere e in versi sfogava il suo dolore, che però non si disarcerbava. Torquato, benchè fanciullo, conobbe la sventura di tanta perdita, cui pianse amaramente, e amorosamente ricord� la madre nella più bella fra le sue canzoni." Finita la lettura e gli applausi, il cavalier Rossi e la sua signora ringraziarono la direttrice dell'avergli invitati, e la Rachelina di aver parlato con tanto garbo della loro illustre antenata. Sapendo poi che la domenica seguente era quella ordinata per la ricreazione delle alunne, vollero che la direttrice promettesse di andare a passar giornata alla loro magnifica villa di Felceti; e dopo che, non senza qualche cerimonia, la direttrice lo ebbe loro promesso, qua' signori salutarono garbatamente e partirono. Essendo per altro tuttora presto, il maestro propose che prima di andar via, una delle signorine leggesse parte di una bellissima e gravissima lettera di Bernardo alla sua Porzia, dove appunto parla della educazione de' figliuoli: e trovato libro e pagina, lo diè alla signora Zaira, accennandole il luogo, la quale lesse quanto segue: "Dico adunque che, eziandio che il Datore d' ogni grazia ce li abbia dati (se la paterna affezione non m' inganna per quanto in questa tenera età si può conoscere) belli di corpo e d' animo, nulladimeno per ridurgli a quella perfezione che si desidera, hanno bisogno di coltura Parla de' suoi figliuoli.; perchè, siccome non è terra sì aspra, sì dura e sì infeconda, la quale, còlta, non divenga subito molle, fertile e buona; nè alcun buono albero, che, non essendo, col trasportarlo o con l' innestarlo, coltivato, non ritorni sterile e selvaggio; così non è ingegno di natura rustico e rozzo, che con una lunga e buona instituzione e disciplina non si faccia gentile e docile; nè sì buono e felice, che senza buona e diligente creanza non si corrompa e a degeneri dal primo suo buono instituto. E perchè l' uso agevolmente si conserve in natura, a dobbiamo con ogni studio affaticarci, mentre che l' albero è tenero e pieghevole, di volgere e piegare il tronco de' loro pensieri, e i rami delle loro operazioni, alla parte più virtuosa e più bella: chè, siccome nella tenera scorza d' un giovine arboscello le piccole lettere stampate ed iscolpite crescono col tronco già fatto grande, e con lui vivono eternamente, così questi documenti ed esempi di virtù s'imprimono, e pigliano tanto vigore e spirito nell'animo del fanciullo, che non n'escono giammai: altrimenti, lasciandolo indurare e crescere in mal uso, non a si potr�, per alcuna diligenza nè studio che vi si ponga, volgere a miglior parte, non più che si possa la ruota del carro, già torta, raddrizzare. Però, poichè Cornelia nostra è ormai uscita a dall'infanzia, e si fa di giorno in giorno di corpo più grande, e di spirito più acuto e più vivace, nel quale, come in terreno fertile e atto, si può già incominciare a spargere alcun seme degno di noi: e perchè non è semenza più nobile, a nè donde nascano in abbondanza più preziosi frutti, nè più utili, o necessarj per iscacciare la fame e la sete delle mondane delizie, che quella del nome e dell'amore di Dio; è di mestieri che procuriate con tutte le forze vostre, e con ogni diligenza d'imprimere nella pargoletta anima il nome, l'amore e i pensieri di lui affine che impari ad amare e ad onorare colui, dal quale riceve, non solo la vita, ma tutti i beni e le grazie che possono fare l'uomo felice in questo mondo e beato nell'altro. Studiate medesimamente d'innestare nella tenera mente sua il timore di esso Dio: il timor, dico, non vile, non servile, il quale a non piace alla maestà sua; ma quel nobile e gentile, il quale stia ad ogni ora sì unito e sì a congiunto con l'amore, che non si possano in alcun modo dividere nè separare: perciò da questi due fratelli, così congiunti e così uniti, ne nasce la religione; la quale, a guisa d'ombra, che, ancorchè lasci l'erbe inutili e selvaggie germogliare, non le lascia però maturare nè far frutto, così non lascia alcun vizio vergognoso nè capitale fermar le radici negli animi loro, ne venir a tempo che possa produrre alcun frutto di scellerità Or perchè sappiate ciò che importi questa parola costumi, vi dico che, costume non è altro che, in tutte le cose che si dicono, servire una certa modestia e onestà; e in quelle che si fanno un certo ordine e un certo modo atto e conveniente, a ne' quali riluca e risplende quella dignità e quel decoro, che, non solamente gli occhi e gli animi de'prudenti, ma degli imprudenti ancora diletti e muova a maraviglia. "I costumi si dividono poi dalla ragione e dal tempo: perciocchè alcuni s'insegnano e s'imprimono ne' puerili animi dalla ragione e dalla diligenza d'altri: alcuni dalle loro considerazioni e dal proprio loro giudicio col tempo s' imparano. Piglierete adunque pensiero d' insegnar loro quella parte che a voi più si richiede. Due sono i modi dell' insegnare: l' uno con le ragioni e con gli ammaestramenti; l'altro con gli esempj: e perciò il senso dell'occhio è più veloce che quello dell' orecchio, e ha maggior forza della natura, "bisogna, signora Porzia mia, volendo creare Creare vale educale, come creanza, educazione: onde buona o mala creanza, bene o mal creato. i vostri figliuoli e rendergli tali, che coi loro costumi e virtù meritino d'esser andati, che vi mostriate tale a loro, quali desiderate che essi si mostrino ad altri. La tacita disciplina, e quella che più ragiona co' fatti che con le parole, è quella che più giova; chè, se vorrete a' vostri figliuoli que' documenti dare, de' quali voi non vi serviate, sarà il medesimo che se uno volesse insegnare ad un amico un cammino, ed egli s'inviasse per un' altra strada. "è di mestieri, dovendo instituir bene i suoi figliuoli, che il padre e la madre siano di natura moderati e gentili; e con tanta diligenza e studii affettino Affettino, cioè facciano mostra, diano a conoscere. la loro virtù, che a guisa d'un prezioso liquore s' affatichino d' infondersi per gli occhi, e per gli orecchi nell'animo e nell'ingegno del fanciullo, e di trasformarsi tutti in lui," perchè, subito che comincia con puerili pensieri a discorrere e a spaziarsi, se non nelle interne, almeno nell'esteriori e superficiali parti della ragione, rivolge e affissa gli occhi e gli orecchi nel padre e nella madre; e mira e osserva con grandissima attenzione tutto ciò che essi fanno o dicono. "E l' ammirazione della paterna virtù è pungentissimo sprone per far correre lo spirito del figliuolo per quel medesimo cammino che corre il padre." E sovra tutto abbiate pensiero alla disciplina domestica, della vostra famiglia e procurate che niuna brutta, empia nè lasciva parola pervenga agli orecchi dei figliuoli; nè alcuno atto disonesto, nè vergognoso, agli occhi loro si rappresenti; e questa dee essere propria cura e studio vostro: poichè il più del tempo gli tenete nel seno Nel seno, in collo, come dicesi oggi; e stando con voi affissano gli occhi nel vostro volto, e da voi imparano e a parlare e a camminare. Non gli menate in alcuna casa ove non sia una gentile e casta creanza; perchè, siccome dai luoghi che sono d'ogni intorno salutiferi non pu� venir aura che non sia benigna e vitale, così dalla consuetudine de' buoni e de' virtuosi costumi non può venire se non fiato di buona disciplina. Ed eziando che questi costumi, da alieno studio impressi nella mente dei fanciulli, non siano vera virtù ma similitudine, immagine e ombra sua; nulladimeno avviene in corso di tempo (tanta è la forza della consuetudine) come della femminile statua di Pigmalione, che, per grazia di Dio, in ispiraci e vita di vera virtù si trasformono. E avvertite di non cadere in quell'errore, nel quale caggiono la più parte delle altre madri, le quali con la troppa indulgenza, col compiacere di soverchio alla volontà e al desiderio de' figliuoli, non pur non facendo o dicendo, ma non consentendo che altri faccia o dica cosa contra la loro volontà corrompono i costumi loro; e a questo modo gli danno in preda alle delizie, facendo il piacere e 'l senso signore, anzi tiranno, dei loro giovani pensieri. Non dico per questo che dobbiate correre per quello estremo del timore nè delle battiture; anzi biasimo quelli che battono i figliuoli, non meno che se nella immagine di Dio avessero ardire di porre le mani. La virtù non si ha da conservare ne' pargoletti animi nè delle battutine; anzi biasimo quelli che battono i figliouli, non meno che se nella immagine di Dio avessero ardire di porre le mani. La virtù non si ha da conservare ne' pargoletti animi nè con sferza, nè con timore, perchè "il timore è "debile e infermo custode della virtù; ma è di mestieri di servare quella mediocrità tanto lodata in tutte le nostre operazioni. E siccome si dee guardare che la troppo durezza e severità non divella Divella, Divenga, strappi, diradichi. l'amore del padre talmente dall'animo del figliuolo, che tutto ciò che conosca essergli grato sia in odio a lui, così medesimamente si dee procurare che, per la troppa piacevolezza e indulgenza, non si spogli di quel timore e di quel rispetto, nè di quella reverenza, che egli è solito e debitore di portarli. E se pur alle volte (chè per la imperfezione della nostra natura è impossibile altrimenti) cadono i figliuoli in qualche errore, se è picciolo, mostrate di non vederlo, s'è mediocre, riprendeteli con amorevoli più che non severe riprensioni, a guisa di buon medico, il quale vuol piuttosto sanar l'infermo con la dieta e con la vigilia che con la scamonèa: se pur è grande, non usate più con loro della solita piacevolezza e liberalità; montatevi loro collerica, severa e difficile. Infiniti altri sono gli ammaestramenti che alla buona educazione s'appartengono; ma, perchè dubito col troppo cumulo di non confondervi l'animo; e perchè mi pare d'aver anco toccati tutti i capi principali e generali, sotto le cui leggi si restringono gli altri particolari, mi contenterò d'aver parlato sin qui; lasciando così come a me riservo la cura delli studj di Torquato, allor che l'età convenevole lo ricercherà a voi, che donna siete, il pensiero d'insegnare a Cornelia tutti quelli esercizj che a virtuosa vergine, quasi ornamento della sua bellezza e virtù, sono dicevoli e necessarj; il che so che saprete fare perfettamente. Vivete lieta; e col piacere che pigliate de' cari figliuoli, che ognor presenti vi rappresentano l'immagine mia, passate il fastidio della lontananza del marito. - La direttrice, fatta notare la bellezza di saggi ammaestramenti di questa gravissima lettera, e confortate le signorine a meditarle studiosamente, le licenziò, invitandole per la domenica appresso alla ricreazione.

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Morì nel 1778, compianta da tutti, e celebrata in morte da varj nobili ingegni; come una raccolta di poesie era stata fatta in suo onore, e stampata in due volumi, quando le fu data la laurea dottorale, e accettata nella Facoltà di Filosofia." " Lo studio, disse il maestro come prima si tacque la Clelia, si vede che le ha profittato, perchè nel suo discorso, non solo ci sono i pregi medesimi che erano nell' altro, ma c' è migliore ordine, e più franchezza di periodare: il perchè le faccio le medesime lodi, ed anche maggiori, confortandola di non abbandonare lo studio. Sulla fine per altro, se non m' ha ingannato l' orecchio, mi è parso di sentirle pronunziar nuocerebbe per nocerebbe. Ho frainteso, o sta veramente così? "Sta così, perchè, venendo dall'infinito nuocere mi pare che si dovesse dir nuocerebbe. "Se le pare, le par male. Qui milita la regola del dittongo mobile, della quale pur mi ricordo aver loro detto qualcosa in iscuola; ma, a quel che sembra, con poco frutto; e però, se piace a loro e alla signora direttrice, io ne tratterò adesso un po' distesamente, perchè una bella vergogna il vedere, non dico da loro, ma quasi universalmente trascurata questa regola, che è quella forse la quale patisce meno eccezioni." La direttrice e le alunne, non solo acconsentirono ma mostrarono vivo desiderio, che il maestro spiegasse loro la regola ed il maestro disse così: "Regola, costante adunque, e che ha meno eccezioni di qual altra si voglia, è questa che in una voce, la quale abbia il dittongo uo o ie, se, ne' derivati da essa, l' accento trasportasi in altra sillaba, il dittongo si scempia; per esempio cuore ha l' accento sulla prima che è dittongo; facendone coraggio, l' accento si trasporta sulla seconda, e il dittongo sparisce, nè si può dir cuoraggio. Siedo ha la posa sulla prima ed è dittongo; in sedeva l' accento va nella seconda, e il dittongo sparisce, nè si può dir siedeva. Nel modo medesimo si dice abbuono, abbuonano, abbuona; e non abbuonare, abbuonava, abbuonerò, ma abbonare, abbonava, abbonerò, ecc.: si dice cielo e non cieleste, ma celeste; si dice accieco, acciecano, ecc., e non acciecare, acciecavano, ecc,, ma accecare, accecavano e così di mille altri simili casi. Nè il dittongo si scempia solo per trasporto d' accento, ma anche perchè seguono u i. esso due consonanti uguali; per esempio, CUOCERE non solo scempia l'accento in coceva, cocerà, ecc., ma anche in cossi e cotto. Il trasporto di accento poi ha virtù di far cambiare una vocale nello diverso voci di uno stesso verbo; per esempio, in UDIRE quelle che han l'accento sulla prima cominciano per o, come odo, odono: quelle dove l' accento passa alla seconda, cominciano per u, come udire, udirò, udrà e nel verbo USCIRE cominciano per e quelle che hanno l' accento sulla prima come esco, escono, esci; o per u quelle dove l'accento passa oltre, come uscire, uscirò, usciva. Non ci ha grammatico antico o moderno (dico di quegli noti da quattro al centesimo) che questa regola non insegni, e non assegni buona ragione; Bombe, il Castelvetro, Il salviati, il Salvini, il Buommattei, il Rogacci, il Bartoli, Celso Cittadini, Loreto Mattei, il Manni, il Parenti, il Gherardini; tutti insomma i migliori antichi e moderni, tra' quali i più largamente e dottamente che ne parlino sono il Cittadini, il Mattei, il Salvini ed il Bartoli fra gli antichi; e fra' moderni il Parenti in più luoghi delle sue Strenne filologiche, e il Gherardini nella Appendice alle Grammatiche teoricamente, e praticamente ne' suoi lavori lessicografi. E quel che prova la incontrastabilità della regola è questo, che e guelfi e ghibellini della filologia italiana si accordano nell'insegnarla e nel difenderla: segno proprio che non c' è via da dirle contro. Eppure tuttor c'è chi non la capisce! ed ancora di quelli che vanno per la maggior parte scappucciano in questa materia! Ecco perchè qui ho battuto un po' più che altrove. "Anche la Crusca, che ne' primi sette fascicoli della quinta impressione avea trascurato tal regola, fattane accorta, non pure la osserva scrupolosamente nella ricominciata edizione; ma ne assegna ottime ragioni nella prefazione. - Ma che Crusca? che grammatica? che Bembi, che Bartoli, che Parenti, che Gherardini o altri medaglioni il popolo non usa tali dittonghi, e per conseguenza non si debbono, nè parlando nè scrivendo, adoperare. - Ma è vero proprio che il popolo non gli usa? - No che non è vero una persona civile, qui in Firenze, gli usa, anche parlando, quasi sempre, pronunziandoli molto raccolti, è vero, ma facendo pur sentire tanto o quanto della u, se il dittongo èuo, e della i se il dittongo è ie; nè certo una persona, civile dir� sole per suole, poi per puoi, voi per vuoi, celo per cielo, sedo per siedo, ecc., ecc., e molto meno lo scriverò. Se poi si esce di Firenze e si va ne' luoghi dove l' italiano è senza dubbio meglio pronunziato, come a Siena, a Pistoja, e sulla montagna pistojese, questi dittonghi si odono spiccatissimi sulle bocche di tutti. E poi quando fosse altrimenti, il popolo è autorità assoluta in opera di pronunzia? No, risponde Cicerone, Aulo Gellio, Dante, il Bembo, il Salviati, e tutti i primi maestri: no, perchè allora bisognerebbe dire e scrivere sua e tua per tuoi e suoi; issole per il sole; e molte altre simili: no, perchè è una mattia l' accettare, a chius' occhi questa autorità sconfinata del popolo, la quale ci porterebbe a dover dire e scrivere molti errori che al popolo son comuni, come radino, dicono, e simili per vadano e dicano: andiedi per andai: vai e fai e stai, per va, fa, sta, imperativi; si fece, si disse, ecc., per facemmo e dicemmo: lui e lei, per egli ed ella in ogni caso: cosa per che cosa; ed altre simili gioie, che pur brillano negli scritti di questi ciechi seguaci dell' uso e no, finalmente, perchè non è vero niente che l' uso di questi e simili errori sia generale tra 'l popolo, essendoci pure una gran parte, anzi la maggior parte delle persone civili, che mai non li dicono. "Non altro ho da dire circa a questa regola. Mi sono fatto intendere? Sì, signore, rispose la Zaira a nome di tutte; e spero che niuna, di noi caderò più in tal errore. Intanto, essendo passata l' ora, la direttrice si alzò, e tutte facevano altrettanto, quando la Eglina: "Scusino, ma ci siamo scordate d' una cosa. "Che cosa? domandò la direttrice. "La Clelia ha detto delle parole latine; ma noi non sappiamo quel che voglion dire. "O povera signora Eglina, continuò il maestro, ha ragione, ed eccomi qui a spiegargliele. La signora Clelia ci ha raccontato che sulla medaglia coniata per la Bassi ci era il motto: Soli cui fas vidisse Minerva, le quali vengono a dire che quella medaglia fu coniata per onorare colei a cui solo fu conceduto di vedere Minerva, volendo significare che la Bassi fu la più sapiente fra le donne, tanto sapiente che vide a faccia a faccia Minerva, la quale è simboleggiata per la sapienza stessa.

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Avvenne una volta che Brunoro, volendo abbandonare il re Alfonso di Napoli, a' cui servigj militava, mentre si preparava a fuggire, fu preso e messo in prigione. Pensate come se ne addolorò la povera Bona! la quale per altro non si sgomentò, pronta ad ogni disagio e pericolo per il suo signore. Che ti fa? se ne va da tutti i principi e potentati d'Italia, non che dal re di Francia, a impetrar lettere di favore per Brunoro, tanto che il re Alfonso lo liberò; nè contenta a questo, operò tanto che fu preso al soldo da'Veneziani con provvisione di più di 20,000 ducati. Allora Brunoro, in merito di tanto affetto e di tanta fede, benchè sino allora l'avesse tenuta al suo servigio, e benchè fosse così brutta di aspetto, se la prese per moglie; ed attenendosi a' consigli di lei venne sempre in fama maggiore, per essergli tutte le imprese riuscite prospere; ed in tutte le imprese si vedeva questa valente donna condur genti a piede, ed esser sempre la prima ad ogni zuffa ed assalto. Diventò insomma peritissima dell'arte della guerra; e per la sua accortezza e valore si espugnarono forti castella. Si mantenne poi sempre casta, e pudica, e fedele al suo Brunoro. Ultimamente, avendo il Senato veneziano gran fede in Brunoro e nel valore di questa donna, gli mandò alla difesa di Negroponte contro a' Turchi, i quali mai non ardirono di dar loro noia; ma essendole morto in questo mezzo il suo caro Pietro nella città di Calcide, la Bona, tornando a Venezia per vedere di far confermare la provvisione del padre a' due suoi figliuoli, presa dal mal di flusso in Modone, città di Morea, e conosciuto che quella malattia era mortale, si fece fare una ricca sepoltura, la quale coi propri occhi volle vedere prima che morisse; ed ivi fu veramente sepolta nel 1468. Degna d'essere annoverata tra le donne più illustri, perchè nata di bassi e vili parenti, si acquistò con opere virtuose chiarissima ed eterna fama con vera nobiltà, dove molte, nate di sangue gentile, ed anche reale, spesso oscurano i loro natali con opere indegne." Se la Giannina fu applaudita non se ne domanda; e non erano ancora finiti gli applausi, che si alzò una di quelle ragazze dicendo: "Vorrei, se la signora direttrice si contenta, fare una osservazione. "Dica, rispose la direttrice.. In queste cinque domeniche abbiamo udito raccontar molti atti di valorose donne, che fanno vergogna a molti signori uomini: o perchè dunque ci ha essere chi s'ostina a dire che noi altre donne non siamo buone a nulla, e che si dee pensar solamente a far la calza, a cucire e a badar a casa? questa è una bella soverchieria... "Signorina, interruppe la direttrice, coloro che dicono, le donne non esser capaci di ogni atto virtuoso come gli uomini, sono stolti; ma anche più stolti sono coloro che vorrebbero le donne capaci di ogni pubblico ufficio, pareggiandole in tutto e per tutto agli uomini. Ci pensi un pochino e mentre quieta, e vedrà che, se la natura ha fatto la donna diversa dall' uomo, destinandola a far figliuoli e ad allattargli, è segno che anche l' ufficio loro debb' essere diverso nella umana compagnia; e come la cura del governo familiare, e tutte le arti donnesche sono essenziali al buon vivere civile, così, facendo uomini anche le donne, una delle due, o gli uomini dovrebbero essi attendere a quelle arti, operando contro l' ordine della natura; o il viver civile diventerebbe una confusione orribilissima. Non si nega che sieno degne di eterne lodi le donne, che si rendono eccellenti o nelle arti, o nelle scienze, o nelle lettere; ma guai se tutte le donne volessero essere o scienziate, o letterate, o politichesse! Il mandato della donna è sublime, chi sappia valutarlo: siamo noi donne quelle, che, attendendo alla prima educazione de' fanciulli, mettiamo loro in cuore i semi delle cittadine virtù, i quali poi fruttano a tempo e luogo gloria ed onori: siamo noi altre donne che temperiamo le troppo accese passioni, che facciamo parer più leggere le gravi cure de' nostri uomini... Io non posso stendermi ora di più su questa materia. Creda a me, signorina: pensi ad animo quieto, e ci pensino tutte le sue compagne, a queste mie parole; e se loderanno ed ammireranno sempre quelle donne delle quali ogni domenica qui si celebrano le virtù, potranno menar vanto che anche le donne sono capaci de' più nobili atti virili, e con l' esempio di esse tureranno la bocca agli stolti, che dicono il contrario; ma ne conchiuderanno per altro, che al bene ordinato viver civile, giovano molto più quelle che intendono il mandato loro proprio, e cercano di essere buone spose e buone madri.

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Il ponte della felicità

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Il Cielo non ci può abbandonare. - E infatti il Cielo vegliava sui miseri. Una leggera brezza cominciò a soffiare, aumentò gradatamente d'intensità, gonfiò le vele, e la galea scivolò rapida sulla superficie increspata. Agnolo e Alvise ringraziarono Dio e tornarono sul ponte. Il marinaro fece rettificare ad Alvise la direzione delle vele, poi si pose al timone. - Tu, - disse al ragazzo - scendi; un po'di riposo ti farà bene. - Alvise s'impadronì di un mantello che giaceva vicino all'albero di trinchetto, vi si avvolse, e sdraiato accanto ad Agnolo disse: - Rimango con voi a farvi compagnia. Chiacchiereremo un pochino. - Ma la testa del giovane aveva appena toccato le dure tavole che gli occhi gli si chiusero in un sonno di piombo. Agnolo, le salde mani strette alla ruota del timone, rimase a vegliare quel letargo innocente. La notte era senza luna, ma un'infinità di stelle brillavano in cielo e la loro luce fu indicibilmente consolante per il cuore del vecchio marinaro.

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