Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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La fatica

169760
Mosso, Angelo 5 occorrenze
  • 1892
  • Fratelli Treves, Editori
  • Milano
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In questo stato egli erasi deciso di abbandonare gli studi e di darsi alla vita campestre, perchè riteneva che si trattasse di una malattia incurabile. Esaminatogli il naso, il professor Guye trovò un grosso tumore adenoide, lo estirpò, e dopo due mesi di cura, essendo bene guarita la cavità profonda del naso, questo studente potè ripigliare i suoi studi." Il professor Guye riferisce parecchi casi simili, dai quali risultò che una malattia della muccosa nasale, può dare un disturbo grave nella attività del cervello, caratterizzato da ciò che l'attenzione non può fissarsi più su nulla e che non può più obbligarsi il cervello ad una occupazione. Non può considerarsi questo stato di incapacità a pensare, come un fenomeno della fatica, perchè prima che si presenti l'incapacità a pensare non abbiamo fatto nulla di troppo. Certo vi è in tutti una aposexia prodotta dalla fatica, perchè lo strapazzo del cervello ci rende incapaci a pensare, ma essendo eguale il risultato, il meccanismo e l'origine può essere diversa. Il professor Guye per spiegare questo fenomeno pensa che il rigonfiamento della muccosa nasale produca un disturbo nella circolazione linfatica del cervello, e che questa sia la causa di un disturbo nella nutrizione del cervello, e della incapacità a pensare. Nelle scuole dei ragazzi osservò spesso l'aposexia per malattie del naso, e vedendo dei ragazzi svogliati che non studiavano più come prima, potè egli assicurarsi che alcune volte dormivano colla bocca aperta e che la causa era del naso. Basta pochissimo per interrompere il lavoro del pensiero e levarci la ragione. Di ciò si possono dare mile prove, ma una forse meno nota a chi non è medico, è quella della così detta pazzia circolare. Sono dei matti che hanno dei lucidi intervalli con una chiarezza di mente completa: e poche ore dopo ricadono in un delirio furioso. Gli accessi maniaci possono durare più d'un giorno, delle settimane, o dei mesi, ma quello che è straordinario, e che commove chiunque siasi trovato a vederlo, è l'interruzione improvvisa dell'accesso che scompare come per un incanto. L’ ammalato cessa di gridare e di agitarsi, l' occhio suo si rasserena, egli comprende ciò che è passato e si rivolge supplichevole a chi lo assiste, pregandolo che lo sleghi. Il periodo del lucido intervallo può durare anche solo un giorno, e vi furono dei pazzi che erano savi un giorno sì e l'altro no. Vi ha di quelli che diventano matti sul serio una volta l’anno: ed altri hanno dei lucidi intervalli anche più lunghi. Il celebre filologo Gherardini in seguito ad un terribile dramma domestico, fu scosso talmente nel sistema nervoso che cadde gravemente ammalato. Il professore A. Verga, il quale pubblicò la storia di questa malattiaANDREA VERGA;Della malattia che trasse a morte il dottor Giovanni Gherardini. Milano, 1861., dice: "Si era quasi abolita la sensibilità interna ed esterna; il dottor Gherardini non sentiva nè fame nè sete, nè caldo nè freddo, nè sapore, nè odori. Stupido, stitico, insonne, abbandonato di forze, egli sembrava destinato a morire di tabe. Ma una mattina, dopo aver finalmente dormito, sente desiderio di una presa di tabacco; si risveglia, si mette al tavolino: impugna la penna e scrive le Voci e maniere di dire additate ai futuri vocabolaristi. Ma se da questa malattia l'intelletto parve sortirne avvalorato, il fisico serbò amaro ricordo. " Dopo sette anni ebbe una ricaduta col medesimo sopore profondo, perdeva l'orina, e le fecce, bisognava nutrirlo artificialmente, non deglutiva più, gli colavano le bave, e dopo un anno e mezzo che dava di sè questo spettacolo straziante, tutto d'un tratto gli si riaperse la mente e comincio a scrivere un'altra opera, la Lessigrafia e il supplemento ai vocabolari. Dopo sette anni ebbe ancora un terzo accesso, ma questa volta il dottor Gherardini aveva 77 anni, e gli mancarono le forze per una terza risurrezione.

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Molti professori prima di entrare nella scuola sono già decisi di abbandonare qualunque esperimento, appena temono che qualche inconveniente possa rendere meno sicuro il risultato. Quelli che si provano a rifare un esperimento non andato bene, per poco che siano nervosi, sentono subito che le mani tremano, e che non hanno più la calma nè la sicurezza dei movimenti, nè l'acutezza della vista, che avevano ripetendo la medesima esperienza, prima che penetrasse il pubblico nella scuola. La fatica maggiore del far lezione, non dipende tanto dal modo con cui uno si è preparato, ma dalla materia della lezione, e dalla intonazione sua. Si stancano di più i professori che tengono ad una forma elevata, al lusso delle citazioni, dei nomi, delle date, ecc. Quanto più è solenne una lezione, altrettanto più l' elemento emozionale prende il sopravvento. I professori che si esauriscono meno, sono quelli che seguono il metodo familiare e che si mantengono più in contatto coi giovani. Ho studiato sopra di me i cambiamenti dell'organismo per effetto delle lezioni, ma ne ebbi dei risultati meno evidenti che in altri miei colleghi. Questo dipende in parte dalla mia costituzione, e più che tutto perchè io faccio scuola alla buona. Nel principio del mio libro sulla Paura, ho già descritto gli effetti gravi che però provo anch’ io nelle lezioni solenni. Mi ricordo di notti insonni passate dopo aver pronunziato un discorso o fatto una conferenza e conosco quanto sia tormentosa questa agitazione. Qualche volta mi accorgo,se devo scrivere appena finita la lezione, che il carattere mio è un po' diverso; e si riconosce dalle lettere più grosse e dalle linee meno sicure, che non è la mia scrittura ordinaria. Lungo l' anno, eccetto una leggera debolezza alle gambe, quando esco dalla lezione che faccio stando in piedi, non mi accorgo di altri fenomeni di stanchezza. Solo nella prima lezione e qualche volta nell'ultima di chiusura, provo dei fenomeni di eccitazione, e mi sento caldo al volto e mi trema la voce o vengo preso dopo da mal di capo. Intorno all'influenza che l'attività del sistema nervoso esercita sulla temperatura del corpo vi sono molte osservazioni. Le più note sono quelle di John Davy e quelle più recenti di Speck SPECK, Untersuchungen über die Beziehungen der geistigen Thätigkeit zum Stoffwechsel. Archiv. für exp. Pathologie und Pharmak. XV, 1882, pag. 88., ma in nessuno degli autori che trattarono questo argomento si trovano registrati degli aumenti così forti di temperatura come osservai sopra di me e sopra i miei assistenti. Ho misurato parecchie volte la temperatura del mio corpo in circostanze eccezionali, prima e dopo la lezione, e sempre vi ho trovato la differenza di circa mezzo grado. Una volta, dopo una conferenza che mi aveva affaticato molto per la emozione prodotta da un pubblico scelto e molto numeroso, trovai una temperatura rettale di 38,2. Era dunque una leggera febbre che mi ero procurato, semplicemente col far lezione e che cessò dopo la mezzanotte. Fu però nei miei assistenti dove ebbi occasione di osservare le più alte temperature per l' emozione e la fatica del far scuola. Tutte le volte che per malattia o per ragioni di ufficio dovevo assentarmi dalla scuola, pregavo uno dei miei assistenti di supplirmi. Così ho potuto raccogliere poco per volta un materiale importante di osservazioni per questo studio e vedere che gli aumenti febbrili della temperatura per azione nervosa sono molto più alti di ciò che non si credesse. Riferisco uno di questi sperimenti, quello del dottor Mariano Patrizi quando fece la sua prima lezione dalla mia cattedra. Egli era avviato in una ricerca, nella quale da più di una settimana studiava con grande attenzione i cambiamenti della sua temperatura interna nello stato normale, quando improvvisamente lo pregai di fare la sua prima lezione in vece mia, perchè io dovevo andare a Roma. Siccome si trattava di un argomento, che egli conosceva bene, accettò, benchè gli rimanessero solo tre giorni di tempo per prepararsi al suo debutto. II dottor Patrizi era laureato appena da un anno, ma egli è tanto capace che io non ho temuto di metterlo a questo cimento dinanzi ad un pubblico numeroso. Per testimonianza di colleghi che assistettero a questa sua prima lezione posso dire che le mie speranze furono pienamente soddisfatte e che egli fece una bella lezione. Per dare un documento esatto in questo studio psicologico, riferisco un frammento della lettera che il dottor Patrizi mi scrisse a Roma, dopo aver fatto la sua prima lezione. "Mi avvidi di non essere, pur troppo, tra quei privilegiati che dormono profondamente alla vigilia d' una battaglia: nella notte avanti il 3 giugno sentii la necessità di chiamare a raccolta gli argomenti che avrei esposti in iscuola e non mi coricai che a un'ora del mattino. Alle cinque ero già desto e la brevità del riposo non fu compensate da un sonno calmo e continuo. Il termometro tradì la mia agitazione, segnando alle sei antimeridiane 37°,8 della mia temperatura rettale, che in circostanze ordinarie, alla stessa ora, non supera mai i 36°,9. "Mi levai e cercai nascondere a me stesso la emozione crescente, e di ingannare le interminabili quattro ore che mi separavano dal momento solenne, col dar gli ultimi tocchi ad alcuni disegni, i quali dovevano servire per mostrare agli studenti lo sviluppo e le localizzazioni dei centri della parola. Ma io mi sforzava indarno di dominare il tremore della mano, e il pennello lasciava sulla carta, linee ineguali e ondulate. Potei però con forte volere, vincere lo stimolo del mingere che assiduamente mi tormentava. " Alle 10 la temperatura non aveva cangiato 37°.8. I movimenti respiratori erano 18 al minuto: uno sopra la media della stessa ora. Scrivo il polso dell'antibraccio destro coll'idrosfigmografo. Confrontando il tracciato con quello normale, registrato alla medesima ora di altra giornata, noto non solo la maggior frequenza (103 pulsazioni invece di 78), ma ancora la verticalità più distinta, dell' ascensione sistolica, la ripida discesa della diastole, e il dicrotismo più manifesto. Questi caratteri differenziali rispetto al polso normale apparvero maggiormente accentuati nel polso dopo la lezione, poichè era fortissimo il dicrotismo; indizio certo del rilasciamento delle pareti dei vasi sanguigni. "Alle. 10. 27. pochi istanti prima di entrare nell'aula, il numero dei battiti cardiaci s'era vieppiù accresciuto. Erano 136 in un minuto.Respiravo nello stesso tempo 34 volte. Provavo un senso di pressione e di stringimento all'epigastrio, e notai un aumento della salivazione che mi obbligava a sputare ad ogni poco. "Entrai. Dopo aver parlato 70 minuti, camminando e gesticolando vivacemente, anche per dissimulare l'imbarazzo, uscii dall'aula tutto sudato alle 11.40 e tirai un grande sospiro che mi sollevò. Scrissi nuovamente, come ho detto, il polso coll' idrosfigmografo. Aggiungo qui che il polso era tornato a battere 106 volte al minuto. "La temperatura era salita a 38°,7 mentre vicino a mezzogiorno essa suole in me oscillare tra i 37°,2 e 37°,3. "Scrissi coll'ergografo la curva della fatica sollevando tre chilogrammi ogni due secondi, col dito medio della mano destra. Eseguii un lavoro meccanico di chilogrammetri 4,50. Due ore prima quando l'agitazione era al massimo, avevo fatto un lavoro di chilogrammetri 5,95. Si vede che non ero ancora entrato nella fase della depressione delle forze, perchè il lavoro compiuto dopo la lezione riuscì superiore al lavoro normale della stessa ora, che è di chilogrammetri 4,35. Subbiettivamente avvertivo che l'eccitamento stava per dileguarsi e per far posto alla prostrazione. Trascinavo le gambe come se avessi fatto una lunga marcia; e nel pomeriggio, distesomi sul letto per leggere un po' più comodamente dell' usato, mi addormentai in un sonno grosso e filato di due ore che mi ristorò".

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Generalmente sono professori giovani che hanno poco talento oratorio, e nessuna pratica della scuola, quelli i quali devono aiutarsi con delle cifre, dei nomi e degli appunti che scrivono sulla tavola nera, e che spesso si volgono indietro a guardare, e vi si fissano sopra per dei minuti colla schiena rivolta al pubblico, tanto è grande la paura di abbandonare il filo che dovrà condurli fuori del labirinto. Ho sentito raccontare di professori celebri che sul principio della loro carriera avevano tale paura di dimenticare un numero, una formola, una data od un nome, che se lo scrivevano sulle unghie o sui polsini prima di entrare nella scuola. Poi non se ne servivano, ma ciò loro bastava per prendere coraggio. In generale i professori giovani sono tormentati dalla paura che nel far lezione manchi loro la materia su cui sono preparati, prima che sia finita l'ora. Solo il lungo esercizio dà il senso dell'ora, e la misura esatta di quanto può venir spiegato per compiere una lezione; i vecchi professori non hanno bisogno di guardare l' orologio per sapere quando è giunto il momento di finire il loro discorso.

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Tornato da un viaggio di circumnavigazione, andò cosi rapidamente peggiorando la sua salute, che egli, essendo ancora giovane, si decise di abbandonare Londra, per vivere nella solitudine di un piccolo villaggio. Carlo Darwin ci lasciò dei documenti interessantissimi intorno alle sue facoltà mentali e al modo come lavorava. Nella sua autobiografia, dice: La Vie et la corrispondence de Charles Darwin publiées par son fils M Francis Darwin. - Paris, 1888."La scuola come mezzo di educazione fu per me un semplice zero. Io fui incapace durante tutta la vita di vincere le difficoltà per apprendere una lingua qualunque. "Non ho la grande rapidità di concepimento o di spirito, tanto notevoli in qualcuno degli uomini intelligenti. Sono un critico mediocre. La facoltà che permette di seguire una serie lunga e astratta di pensieri è molto limitata in me, e non sarei mai riuscito nelle matematiche e nella metafisica. "La mia memoria è estesa, ma confusa, e basta appena per avvertirmi vagamente che ho letto od osservato qualche cosa di opposto o di favorevole alle conclusioni che tiro. La mia memoria lascia talmente a desiderare, che non ho mai potuto ricordarmi più di qualche giorno, una semplice data o un verso di poesia. "Ho tanto spirito d'invenzione, di senso comune, e di giudizio, quanto ne ha un avvocato od un medico di forza comune, a quanto io credo, ma non di più". Un uomo che si credeva in così scarsa misura fornito dei doni dell' ingegno, in quarant' anni di assiduo lavoro, è riuscito a far cambiare la faccia alla scienza. Egli era così debole e sofferente che non poteva neppure ricevere gli amici nella rustica e silenziosa sua casetta, perchè tutte le volte che cercava di sforzarsi, l'emozione e la fatica gli davano sempre dei brividi e dei vomiti. Eppure quest'uomo di abitudini campagnuole, che si occupava, solo del suo giardino e dei suoi libri, trasfuse una vita nuova nella filosofia, ed ha fecondato, si può dire, tutto lo scibile del nostro secolo. Nel piccolo villaggio di Down, sotto l'ombra dei grandi alberi, che circondavano la casa di Darwin, si è meditato e combattuto vittoriosamente una lotta gigantesca; di là si sono aperte nuove vie e nuovi orizzonti al pensiero dell'umanità. E Darwin fu così fortunato, che prima di morire vide trionfare le sue idee e crescere l’ edificio della scienza sulle basi che egli prima aveva gettate. "Il mio spirito, dice DarwinOpera citata. Tomo I, pag. 102., è vittima di una fatalità, che mi fa stabilire in primo luogo la mia esposizione, o la mia proposizione, sotto una forma difettosa, e disadatta. Nel principio avevo l'abitudine di riflettere molto alle mie frasi prima di scriverle; dopo parecchi anni ho capito che guadagnavo tempo a scarabocchiare delle pagine intere colla maggior fretta possibile, raccorciando e troncando le parole a mezzo, ed a correggere in seguito con mio comodo. Le frasi gettate giù a questo modo sono spesso migliori di quelle che avrei potuto scrivere con riflessione. Avendo così esposto la mia maniera di scrivere, devo aggiungere che per le mie voluminose opere consacravo molto tempo ad un ordinamento generale della materia. Facevo prima un abbozzo grossolano in due o tre pagine; alcune parole ed anche una sola, rappresentavano una discussione intera od una serie di fatti. Ciascuna di queste divisioni era aumentata o trasposta prima di cominciare il libro in extenso. Siccome ho sempre lavorato sopra più soggetti ad un tempo, devo ricordare che avevo organizzato da trenta a quaranta portafogli dentro a dei mobili che portavano le loro etichette e che mettevo in questi gli appunti staccati o le note. Ho comperato un grande numero di libri, e alla fine di ciascuno aggiunsi una tabella di tutti i fatti che riguardavano il mio lavoro; se il libro non era mio ne facevo un sunto. Ed avevo un cassetto pieno di questi estratti." Appena ritornato dal suo viaggio intorno al mondo, Darwin scriveva a Lyell: "Mio padre spera che lo stato della mia salute possa appena migliorarsi fra qualche anno. E il prognostico è grave per me, perchè sono convinto che la corsa sarà guadagnata dal più forte e non farò altro nella vita che seguire le tracce lasciate dagli altri nel campo della scienza." Un' altra volta scrivendo da Londra a Lyell, dice: "Ho adottato il vostro sistema di non lavorare che due ore di seguito, dopo le quali esco di casa per le mie faccende, poi rientro e mi rimetto al lavoro. Così d'un giorno ne faccio due". Riferisco ancora qualche tratto caratteristico della figura di Darwin, quantunque la vita scritta dal suo figliolo sia molto conosciuta. "Due particolarità, del suo modo di vestire in casa, consistono in ciò, che egli portava sempre uno scialle sulle spalle, e dei grandi stivali di panno foderati che calzava sopra le scarpe di casa. Come il maggior numero delle persone delicate, egli soffriva tanto il caldo, quanto il freddo. Il lavoro mentale gli dava sovente troppo caldo, ed egli si levava il paletot, se nel corso del lavoro qualche cosa non gli andava a suo genio. Si alzava di buon'ora, e faceva, una piccola passeggiata prima della colazione; e considerava il tempo che passa fra le otto e le nove e mezzo, come il momento dei suoi studi migliori: alle nove e mezzo ritornava colla famiglia, si faceva leggere le lettere e qualche pagina dei giornali, di un romanzo o di viaggi. Alle dieci e mezzo ritornava nel suo studio; dove lavorava fino a mezzo giorno o mezzogiorno e un quarto." A questo momento egli considerava come finito il lavoro della sua giornata e diceva spesso con soddisfazione, "ho fatto una buona giornata di lavoro". Egli usciva allora a passeggiare, senza badare se era sole o se pioveva. Suo figlio ricorda un motto di Darwin che egli ripeteva spesso, cioè che noi arriviamo a fare il nostro compito economizzando i minuti. Darwin faceva questa grande economia del tempo per la differenza, che egli sentiva tra il lavoro di un quarto d'ora e quello di dieci minuti. La maggior parte delle sue esperienze, dice Francis Darwin, erano così semplici che non richiedevano preparativi, e credo che queste abitudini egli dovesse in grande parte al desiderio di risparmiare le sue forze e di non logorarsi in cose poco importanti. "Io fui spesso sorpreso, dice egli, del modo con cui mio padre lavorava fino all'estremo limite delle sue forze; spesso, dettandomi, s'arrestava tutto di un tratto e diceva : credo che bisogna che io mi fermi". Darwin durante quarant'anni non ebbe mai un giorno di buona salute come gli altri uomini. Il segreto suo fu la pazienza di arrestarsi a riflettere (come diceva lui) per degli anni interi sopra un problema inesplicato; e di esser nato colla forza di non poter adattarsi in verun modo a seguire ciecamente la traccia degli altri. E Darwin per queste sue virtù, malgrado che soccombesse ogni giorno sotto il peso della fatica per qualunque piccolo sforzo, fece maravigliare il mondo per le importanti leggi scoperte, per la interpretazione più logica che diede della formazione degli esseri viventi, per la luce che ha gettato su molti fenomeni della natura. E nel secolo nostro, Darwin rimarrà immortale per la novità dei suoi concetti elevatissimi, per un ideale sublime, come non era uscito mai dalla mente dei filosofi che avevano meditato sull'origine della vita.

Pagina 305

Non conosciamo bene le ragioni che indussero lo Stenone ad abbandonare dopo alquanti mesi la patria e fare ritorno in Toscana. Il Redi scrivendo nel dicembre del 1674 dice che Stenone "sarebbe stato fra poche settimane in Firenze e forse avrebbe condotto seco Swammerdam che è un giovane assai virtuoso". Questo Swammerdam è il grande naturalista olandese, uno del più forti ingegni del suo secolo, la cui vita presenta un punto di rassomiglianza curioso con quella di Stenone. Swammerdam fu soggiogato da certa Antonietta Bourignon de la Porte. L'esaltazione religiosa di questa donna esercitò un' influenza fatale sulla vita di Swammerdam, il quale diventò melanconico, pieno di misticismo, e finì per non occuparsi più d'altro che di teologia. Stenone fece la medesima fine, e la donna che lo ha dominato fu una monaca di Firenze, certa Suor Maria Flavia del Nero. Ho raccolto intorno a questo dei documenti a Firenze, ma non mi sembra che sia qui il luogo di fare una ricerca storica sulla vita intima di Stenone. Certo è stata per me una cosa divertente il rintracciare la storia di questa Suor Maria Flavia del Nero, e l' influenza che esercitò sulla conversione, e sul ritorno a Firenze di Stenone. Esistono parecchie lettere di Stenone a lei: e quando ebbe passata la giovinezza, Suor Maria Flavia del Nero scrisse nella Cronaca del Convento, che la conversione di Stenone e la vita di quel santo era stata opera sua. Da una biografia contemporanea dello Stenone si ricava che "chiamato dal duca di Annover all' ufficio di vescovo, quante penitenze, quanti esercizii di pietà, ha egli fatti! Fatto voto di andare da Firenze a Loreto, da Loreto a Roma e da Roma al luogo destinatogli, a piedi, elimosinando, dispensato prima ai poveri ogni suo avere, si è di più messo in viaggio a piede scalzo, e così è giunto a Loreto, ma con iscapito della sua sanità, ove è bi- sognato curarlo".MANNI, Vita di Stenone. Pag. 268. Quanta sono mutati i tempi! Non v' ha uomo a cui ora queste sublimi pazzie non destino un sentimento amaro di commiserazione! Eppure nella biografia del Manni si fa merito a Stenone di tutte queste sofferenze patite, che lo condussero immaturamente alla tomba. Mentre egli era nella Germania del Nord, per riconquistare al cattolicismo le provincie che aveva perduto la Chiesa, sappiamo da documenti di testimoni che esso faceva una vita estenuatissima ANON, Notizie della vita e della morte di Monsignor Niccolò Stenone. Questo manoscritto trovasi nella Biblioteca Nazionale di Firenze , dove pure conservansi parecchie lettere scritte da Stenone al Magliabecchi.. Gli ultimi anni della vita di Stenone furono quelli di un martire, finchè le penitenze e le vigilie non lo condussero alla tomba. Egli morì nel fervore della sua missione l'anno 1684, in Schwerin nel Mecklenburg. Io non so se l'amor suo per l'Italia fosse rimasto sempre così grande da desiderare che qui avessero pace le sue ossa, o se l'intolleranza religiosa di quei tempi gli abbia negato il riposo che ognuno spera di trovare nella terra dove è nato. Cosimo dei Medici fece condurre con grandi onori la sua salma a Firenze e le spoglie dell'immortale fisiologo riposano in San Lorenzo sotto la cupola grandiosa della cappella medicea, vicino ai monumenti con cui Michelangelo rendeva immortali le tombe di quei principi benemeriti delle scienze e delle arti. Un giorno sono stato a visitare la tomba di Stenone nei sotterranei di San Lorenzo: per giungervi bisogna passare sulla pietra che copre le ossa di Donatello, il grande maestro del verismo nell'arte. Di fronte vi è la cripta di Cosimo padre della patria, e a destra contro un pilastro una lapide dice:

Pagina 49

Fisiologia del piacere

170768
Mantegazza, Paolo 4 occorrenze
  • 1954
  • Bietti
  • Milano
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Ad accennare l'immenso campo che abbraccia questa questione diremo soltanto che tra gli indigeni di Otahiti, che sacrificavano senza scrupoli al dio d'amore innanzi a tutti, e l'Inglese che ha vergogna di nominare il ventre e le mutande, stanno le donne di Musgo, nell'Africa centrale, le quali rifuggono con orrore dall'idea di abbandonare per un sol momento il frac, che copre la parte che sia fra il dorso e le cosce, e lasciano scoperto tutto il resto del corpo agli sguardi dei profani. Così rimangono abbozzati i confini indeterminati di uno dei sentimenti più misteriosi, ch'io definirei volentieri rispetto fisico di noi stessi.

Pagina 112

Così il piacere di cacciarsi d'estate in un letto fresco di bucato cessa subito, perchè il calore che noi cediamo alle lenzuola le riscalda; mentre nell'inverno non sappiamo mai risolverci ad abbandonare le tiepide coltri, e spesso occorrono sforzi erculei ed atti di vero eroismo per esporci al rigore del mondo esterno. Non c'è bisogno di spiegare perchè i piaceri, che provengono dalle variazioni della temperatura, siano assai diversi secondo il clima del paese e le stagioni. Nella Guiana e a Madera, ad esempio, dove la temperatura è quasi uniforme in tutto l'anno, questi piaceri sono certamente meno numerosi e variati che nei paesi dove l'avvicendarsi delle stagioni ci fa vivere in quattro diversi climi in un anno solo. Le idiosincrasie individuali per questi piaceri sono infinite. Alcuni fremono di voluttà sotto la pioggia minuta di una doccia fredda, o gettandosi nelle acque di un fiume, e non si sentono pieni di vigore che nell'inverno; mentre altri intirizziscono alle prime brume, e non aspirano che all'alitare degli zefiri di luglio e agli ardori della canicola. Pochissimi altri, come me, si soffregano allegramente le mani nel veder cadere la neve in un rigido mattino di gennaio, mentre nell'estate sanno provare la voluttà di starsene distesi a terra in un bagno di sole. Anche lo stato elettrico dell'atmosfera influisce assai sul benessere generale, e, quindi, produce alcuni piaceri particolari o modifica quelli che provengono da altre sorgenti. A questo proposito, però, noi manchiamo di notizie positive, come pure manchiamo di infiniti elementi che modificano l'aria nei diversi paesi e nelle diverse ore del giorno. Gli endiometri più perfetti non sanno trovare che variazioni appena sensibili nell'aria di opposti emisferi, mentre i nostri polmoni riconoscono differenze notevoli nell'atmosfera a poche miglia di distanza.

Pagina 20

Per ridurre ad una formula generale le vicende del piacere nelle diverse età della vita, direi che il fanciullo gode della verginità di molte sensazioni, per cui prova molti piaceri piccoli e vivaci; il giovane gode le gioie più intense e più tempestose della vita, ma non sa apprezzarle degnamente; all'adulto sono concesse le compiacenze della calma e del riposo; e al vecchio sono lasciati gli ultimi piaceri che si provano nel gettare un estremo sguardo pieno di desiderio e di affetto alle cose care che si stanno per abbandonare. Il capitale dei nostri piaceri è nelle mani della natura finchè siamo fanciulli adolescenti, e noi godiamo degli interessi senza prenderci la più piccola briga dell'amministrazione. Arrivati alla giovinezza, la natura ci dichiara maggiorenni, ed entrando d'un tratto nel possesso di tutti i nostri beni, siamo presi da un vero delirio di possesso, diventiamo prodighi, scialacquatori, e poniamo quasi sempre in grande pericolo le nostre finanze. Bene spesso l'eccessiva nostra ricchezza ci impedisce una totale rovina, e arrivati all'età adulta raccogliamo i frammenti della nostra fortuna, e diventiamo economi, per poi divenire nella vecchiaia sempre avari od usurai.

Pagina 262

Io confesso però che vedrei con dolore abbandonare dalle nazioni americane la cannuccia del mate per vederlo versare fumante in eleganti tazze di porcellana. Il guaranà, fatto coi frutti della Paullinia sorbilis, era una bevanda aristocratica, riservata, per il suo alto prezzo, ai ricchi del Brasile e della Bolivia. Ma ora è più largamente diffusa. Si prende fredda e zuccherata; ha sapore piacevole che rammenta i lamponi e il cioccolatte; scuote l'inerzia e il sonno, dispone ai lavori intellettuali e alle gioie dell'amore.

Pagina 53

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