Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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L'arte contemporanea tra mercato e nuovi linguaggi

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Vettese, Angela 4 occorrenze

La strada era già stata aperta, del resto, dal concetto di Kant di sublime: cioè di qualcosa che causa un’emozione impossibile da elaborare in termini di giudizio e a cui ci si può soltanto abbandonare. Il sublime kantiano è il primo passo, in effetti, verso immagini così perturbanti da risultare letteralmente insopportabili. Le correnti espressioniste hanno messo in evidenza per tutto il Novecento quanto sia rilevante per noi, oggi, evidenziare questo modo del sentire, che nel lessico di Georges Bataille è diventato l’«abietto».

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Sarebbe stata una follia, dato che nessuno degli artisti del XX secolo ha mai avuto l’intenzione di abbandonare una storia culturale e una culla di valori che hanno nell’Umanesimo e nelPllluminismo le loro radici. Se Pablo Picasso, Constantin Brancusi ed Ernst Ludwig Kirchner hanno preso ispirazione dall’arte primitiva non è stato forse più per allargare i propri orizzonti che per smantellare un’eredità di cui erano figli? Lo stesso vale per l’azzeramento delle forme e dei materiali iniziato negli anni Cinquanta e poi radicatosi nel ventennio successivo: se Lucio Fontana, Yves Klein e John Cage hanno guardato a Oriente e alla filosofia zen, è stato per dare nuovo vigore all’arte non certo per farla morire.

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A partire anche da quegli esperimenti, gli artisti hanno iniziato a giocare con le immagini in movimento e ad abbandonare la logica narrativa servendosi di vari effetti: lo sfocato o blurred, la sovrapposizione, l’errore, il disturbo, il flashback, l’intrusione inaspettata. La lezione delle avanguardie si ritrova nei video di oggi, nell'uso di spezzoni trovati e montati tra loro, da un lato, e nella consuetudine di abbinare scene fittizie e brani documentari, dall’altro. Provocare piccoli traumi percettivi o anomalie nella visione è ancora uno dei traguardi principali degli artisti filmmakers. Ricordiamo il belga Johan Grimonprez, che in Dial H-I-S-T-O-R-Y (1997) accostò a una lunga sequenza di immagini found footage di incidenti aerei una colonna sonora rilassante tipo quelle da sala d’attesa. Il contrasto tra le scene e la musica, oltre essere spiazzante, alludeva alla capacità di assuefazione dei media, che riescono ad addolcire qualsiasi pillola alzando la soglia di sopportazione dello spettatore e anestetizzandone lo spirito critico.

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Già al tempo delle avanguardie, Vladimir Tatlin immaginò una torre ricetrasmittente; il futurista Filippo Tommaso Marinetti nel 1933 fantasticò con la stesura del manifesto La Radia «la possibilità di captare stazioni trasmittenti poste in diversi fusi orari»; il drammaturgo Bertolt Brecht sognò una radio in grado di «abbandonare il suo ruolo di fornitrice e far sì che l’ascoltatore diventi fornitore». Lucio Fontana, nello scritto Noi continuiamo l’evoluzione del mezzo dell’arte, del 1951, pensò a una ricetrasmittente televisiva da inserire in un aerostato; Robert Rauschenberg e Robert Morris si avventurarono in una precoce collaborazione con ingegneri e scienziati nel progetto Eat (Experiments in Art and Technology), orchestrato, a partire dal 1966, da Billy Kluver, per cercare di varcare i confini dell’arte in senso stretto in un ciclo di happening interdisciplinari (9 Evenings: Theatre and Engineering). Oggi viviamo tutti in quell’ambito attraversato da onde magnetiche, segnali radio e altri invisibili trasportatori di informazioni che chiamiamo «cyberspazio» un termine coniato nella prima metà degli anni Ottanta dallo scrittore di fantascienza William Gibson con il romanzo Neuromancer -, viviamo circondati da protesi che vanno dal personal computer (una definizione del tutto calzante, che ci dice come il vecchio «calcolatore elettronico» sia diventato un’estensione e un contenitore aggiuntivo per la nostra personalità) a tutti gli orpelli che il geniale marketing Apple ha definito con il pronome personale «io» nella versione inglese: iPod, iPhone, iPad. L’individuo si estende nei suoi strumenti.

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