Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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I sogni dell'anarchico

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Mioni, Ugo 5 occorrenze

Egli guardava, e il suo sdegno diventa sempre più intenso; il maschio petto ansa fortemente sotto l'impulso di quella collera infinita, e gli viene la pazza voglia di correre, di arrampicarsi sul colle, di arringare gli operai, di suggerire loro di abbandonare il lavoro, di sospenderlo, di non permettere che continui; il desiderio, di atterrare, colle proprie mani. quelle mura, quella torre, d'impedire che si continui la fabbrica, del castello. Un rumore di cavalcature. Volge il capo in quella dirczione. Ah! E' lui, l'odiato. Non lo ha veduto ancora mai; ma comprende che è lui, che deve essere lui, che non può essere che lui; un uomo molto grasso, tarchiato, con una faccia, molto ampia, pingue, grandi mustacchi, pizzo, giganteschi stivaloni di cuoio giallo, muniti di enormi speroni di argento, larghe uose di velluto marrone, un enorme mantello di velluto con grandi bottoni di argento; un cappellone enorme, di panno finissimo. con gigantesche piume, una larga fascia attorno ai fianchi, dalla quale pende una grande pistola, ed il cavallo magnificamente bardato. Mani inanellate stringono le briglie ed il frustino; il portamento dell'uomo e altero, è ridicolmente altero; e dietro a lui vengono otto armati, pure a cavallo e con facce patibolari; i, capelli sono lunghi; il ciuffo enorme pende loro di dietro; uno solo lo ha lasciato cadere davanti, ed esso gli maschera il volto. E' impossibile ravvisarlo. Il piumato si arresta e comanda in un.pessimo italiano, irto di vocaboli spagnoli. - Quale è la via che conduce lassù? - ed addita col frustino il castello in costruzione. ? Non lo so! ?risponde con scherno. Sentiva di odiare quell'uomo, il quale veniva ad istallarsi, come dominatore, in mezzo a loro. Non gli avrebbe indicato la via che conduce lassù. Ad un suo nemico: ad uno di quegli spagnoli superbi? Mai! Era troppo italiano per farlo. - Lo costringiamo? - domandò uno dei bravi al suo signore. Questi ebbe un'occhiata di infinito disprezzo per l'agricoltore. - Non vale la pena! - rispose con scherno. Queste parole fecero venire al lavoratore dei campi il sangue alla fronte. Il ricco spagnolo non lo riteneva neppure degno di osservazione. Si riteneva tanto alto, da non degnarsi neppure di far conto delle sue parole e di.punirlo per quel rifiuto. Un urlo di rabbia gli uscì dalle labbra. Il signorotto rise; i bravi risero pure, ed uno di loro, quello del ciuffo, lo minacciò col pugno chiuso. ? Faremo i conti! ? gli disse minaccioso. Si allontanarono. Egli li seguì collo sguardo, in preda ad una rabbia infinita...

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Tutti portano le catene da mane a sera; i più riottosi non possono abbandonare la stiva ne uscire sopra coperta e là, nel corpo della nave, devono respirare l'aria mefitica ed i più ammorbanti fetori. Il cibo è scarso; la frustai fende continuamente l'aria e cade sulle loro povere spalle. Tra i più riottosi Ramsette. Egli si trova ià, incatenato alla parete, nell'angolo più buio della stiva, col corpo coperto di piaghe, sulle quali nidificano le mosche; si contorce dalla rabbia, dallo sdegno, freme, spuma, urla, grida. E' un prigioniero indocile, il quale si è opposto all'imbarco, ha osato aizzare gli altri prigionieri, ha tentato, quando gli hanno permesso di salire sulla tolda, di gettarsi in mare; ha detto ai suoi compagni: « Gettiamoci nelle acque. Meglio morire che condurre vita di schiavitù»; ha resistito ai soldati; si è lanciato contro di loro coi pugni chiusi e ne ha atterrato due; uno anzi lo ha conciato male. I carcerieri lo laceravano allora colle loro verghe e lo avrebbero finito, se il centurione non: si fosse intromesso. «E' un prigioniero prezioso; un antico principe. Che dirà Nerone se glie lo consegneremo con troppe piaghe sul dorso? » Avevano finito di batterlo, ma lo avevano trascinato nell'angolo più buio della stiva; lo avevano assicurato ad un forte anello di ferro, caricato di doppie, di triple catene; non gli portavano più ne da mangiare ne da bere; ed egli sentiva gli orrori della fame e più ancora gli stimoli della sete. Un vento forte flagella il mare; si sollevano altissime onde, dalle creste candide di schiuma, e la nave danza su quelle. Gli schiavi vengono cacciati tutti nella stiva ed accatastati colà; la bodola viene chiusa; essi si trovano al buio; incapaci di reggersi su quel suolo che danza sotto i loro piedi, che si alza, che scende, essi vengono sbattuti di qua e di là, perdono l'equilibrio, rotolano gli uni sugli altri, formando certi acervi, certi agglomeramenti di carne umana; e poi viene il terribile mal di mare, che non conoscono neppur di nome e sembra loro presagio di morte vicina; odono sul loro capo il calpestio dei marinari che corrono, urlano, bestemmiano; dei soldati, che imprecano al servizio di mare, a quel viaggio, ed invocano o maledicono gli immortali, e il rumore delle onde, che flagellano i fianchi della nave, il sibilo del vento, che passa tra i cordami e le sartie. Ramsette urla pur lui, bestemmia, grida, aizza i compagni: Se la nave resiste alla procella, mettete fine alla vostra esistenza. Il mare vi attende; stende a voi ancora le braccia. Gettatevi tra quelle! Nessuno rispondeva alle sue parole. Erano schiavi ma pure amavano la vita e rifuggivano istintivamente dalla morte. La vita rappresentava sempre una grande speranza, la speranza della libertà, la morte invece? No, no! Non morire! Vivere sempre, sempre; anche tra le catene. Vivere, magari sorretti soltanto dalla speranza della vendetta ... Ed egli, al vedere che nessuno lo abbadava, dava in smanie maggiori. Un vecchio schiavo lo avvicinò; un povero vecchio, ricurvo sotto il peso degli anni. Veniva mandato a Roma per morire nel circo, perché egli, un rettore ben noto a Cartagine, per la sua eloquenza e sapienza, era stato scoperto consenziente agli incendiari di Roma. Il vecchio disse allo schiavo. ? Ti calma fratello! Pazienza! ? Mai! Sono principe! La pazienza è la virtù dello schiavo. - Di un animo nobile. Egli abbandonò, per nostro amore, il suo trono, e non solo volle spontaneamente, da nessuno costretto e soltanto per eccesso di amore, diventare schiavo, ma volle morire financo la morte degli schiavi. ? Un pazzo, urlò Ramsette. ? Dio. Il figlio di Dio! - Il mio dio serpente non ha saputo difendere ne la mia tribù ne se stesso e venne perciò giustamente schiacciato da un soldato romano, disse Ramsette con una sghignazzata amara. - Fratello ... incominciò l'altro con dolcezza. - Io, un principe, non sono il fratello di uno schiavo! urlò Ramsette. L'altro non si perdette di pazienza. Gli rimase vicino e cercò di convincerlo della bellezza del cristianesimo e dell'amore di Gesù, ma invano. Ramsette non voleva accettare la lieta novella e si ribellava a quella dottrina, che predicava l'amore ed insegnava il perdono.... Il viaggio fu molto lungo e doloroso; ma egli non mori; arrivò ad Ostia, venne sbarcato e, caricato di ceppi, fu condotto a Roma.

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Fa il viaggio, con mille vetture; giganteschi carri portano le sue corone, che non vuole abbandonare a Roma, che conduce seco, tanto gli sono care. E' un'intiera città che emigra con lui; un esercito di senatori, di patrizi, che lo accompagna; cantanti, numi, gladiatori, liberti, schiavi suoi compagni di ebbrezza; legioni intere di donne, rotte ad ogni vizio. Ecco il bel mare; ecco le cittadine, che sorgono quali gemme alla sua sponda; ecco il bel Vesuvio, il più bello tra i monti, il più delizioso; ecco Partenope, che esce luminosa dall'onda, e che egli vuole deliziare del suo canto, la folla gli si fa incontro festosa; inneggia ad Apollo; i sacerdoti conducono pingui tori dalle corna dorate, per immolarle al sacro nume. Egli osserva dalla lettiga d'oro con scherno quella folla, che si prostra ai suoi piedi, che lo adora; è troppo assuefatto all'adorazione delle masse, è troppo avvezzo a quelle feste. S'aggira ammirato nel grande palazzo, sognando novelle feste, novelle orgie, novelli delitti. I giorni passano lenti, nella nausea suprema di quelle feste, avido cercando sempre novelle emozioni, macchiandosi di colpe sempre più infami, ma che non lo saziano ne gli procurano la soddisfazione che cerca. Sempre lo stesso spettacolo: Dorsi che si curvavano avanti a lui; omaggi che non costano lotta, piaceri che non richiedono sacrifizi. E da Roma giungono notizie di feste date in suo onore e della folla che gli plaude. Dal terrazzino del suo grande palazzo di Baia egli domina l'infinita distesa del mare, così bello, cosi tranquillo, e sogna di solcarlo un'altra volta, per andare a deliziare col suo canto altri mondi: l'Egitto, la costa africana, Cartagine; per conquistare quelle terre colla pastosità della sua voce. Guarda, osserva, contempla, ed un pensiero gli frulla per la mente. Valeva la pena d'essere imperatore? Non era meglio render felici le genti col suo canto? Un cortigiano l'avvicina collo spavento sul volto. Nella Gallia celtica è scoppiata la rivoluzione. Giulio Vindice, rampollo degli antichi re di Aquitania e vicepretore di quella provincia, ha fatto sventolare la bandiera della sommossa, ha dichiarato che l'impero non può sopportare più a lungo un tiranno come Nerone, lo ha dichiarato decaduto dal trono e marcia contro Roma. Egli diventa pallido dallo sdegno e sfoga la propria collera sul malaugurato cortigiano, sugli oggetti che lo circondano, su certi vasi preziosi, d'immenso valore, su certi ninnoli, che si trovano sui tavoli di marmo; getta tutto a terra, spezza, frantuma, rovina. - Egli vuole cingere la corona imperiale? domanda. - No. L'ha offerta al vecchio senatore Sulpicio Galba, governatore della Spagna. - A quel vecchio imbecille? Sotto qual titolo? freme il tiranno. - Perché congiunto dell'imperatrice Livia. - Galba ha accettato? Il cortigiano non lo sa. Novelle collere dell'Augusto. - Va! Domanda; informati. Galba è condannato a morte. Sicari vadano nelle Spagne per eseguire la condanna. Contornila sesterzi a chi mi porta la sua testa o può provarlo di averlo giustiziato, urla. Il cortigiano è lieto di poter allontanarsi dalla presenza dell'infuriato signore col pretesto di eseguire gli ordini. Egli urla, grida, freme. La corona imperiale spetta soltanto a lui, all'erede del divino Augusto, all'immortale Apollo, che si è degnato rivelarsi ai mortali. Guarda sdegnato Napoli ai suoi piedi; freme al pensiero, che forse nella città v'erano alcuni, parecchi, molti, i quali godevano a quella notizia e simpatizzavano con Sulpicio Galba. Tra questi erano certo anche i cristiani. Vuole sfogare la propria collera sopra di loro. ? A Napoli ci sono dei cristiani? Nessuno lo sa. - Vengano ricercati e trascinati alla mia presenza. Cerca altri oggetti, sui quali sfogare la propria collera e li trova. Cortigiani vengono cacciati in esilio; schiavi torturati, crocifissi; i delatori lavorano, denunziano, accusano; vengono imbastiti mille processi di lesa maestà e molti innocenti devono pagare il fio per la collera del tiranno. Alcuni cristiani vengono catturati; pochi, troppo pochi per le sue collere. Egli. è adirato contro la polizia e,contro i delatori; ne vuole altri, altri ancora. Ma la comunità di Napoli è così piccola. Vuole che i prigionieri facciano i nomi dei loro compagni di delitto, ma essi si rifiutano. Non sono delinquenti. - Cesare. Adoriamo Dio e rispettiamo la tua persona. Non hai sudditi più tranquilli e fedeli di noi. Vuoi dormire sicuro, specialmente ora, che alcuni si ribellano a te? Circondati di una guardia di corpo, formata di soli cristiani. Noi ti difenderemo col nostro corpo, col nostro sangue; ci lasceremo ammazzare tutti alla tua difesa. Queste parole ne aumentarono le colllere. Le ritenne sarcasmo. Eppoi, anche se questo fosse vero, avrebbe rinunziato al trono piuttosto di affidare la propria ditesa ai cristiani. Che si curava lui dell'impero: che del trono: che del benessere dei popoli soggetti. Una cosa gli premeva, una sola aveva vero valore: Che lo riconoscessero quale Apollo, quale uno degl'immortali, e i cristiani gli rifiutavano adorazione. - I nomi dei vostri compiici! Vennero messi alla tortura. Non fecero i delatori; non si macchiarono di tanta infamia. Vennero condannati alla più terribile tra le morti. Il comune di Napoli gli aveva decretato molti onori, ed egli volava da festa a festa; nei templi, dove gli si offrivano sacrifici, nei teatri, per assistere a pantomine e recite, nell'anfiteatro, nel circo, dove gladiatori, fatti venire espressamente da Roma, lo salutavano, condannati a morire; dove si faceva grande spreco di vittime umane, dove cristiani venivano dati in preda ai leoni. Egli andava a quelle feste, per soffocare i suoi timori, per dimenticare il pericolo, e, supplicato dalla plebe, cantava, cantava. Lo applaudono, ed egli è lieto di quegli applausi, e di nuovo pensa a rinunziare al trono ed a dedicarsi soltanto al canto. Il ciclo ritorna sereno. Virginio Rufo, semplice cavaliere ma uomo stimato, legato dell'Alta Germania, ha dichiarato guerra a Giulio Vindice e muove contro di lui alla tutela dell'impero. Nerone ne è lieto. Un generate fedele. Ricompenserà la sua fedeltà. Lo farà trionfare a Roma e poi.... Portava sempre con sé una boccetta di cristallo, quasi piena di un liquore incolore, che Lomita gli aveva preparato. Una goccia di quel liquore versato in un calice di vino generoso avrebbe piantato nel cuore di Virginio Rufo il germe della morte. Nessuno gli deve contrastare la gloria; egli solo ha da venir ammirato nell'impero. Guai a chi vuole emergere! Feste si succedono a feste. Virginio Rufo vince Giulio Vindice il quale suicide. Novelle feste per celebrare la morte dell'audace. Ma il cielo si offusca di nuovo. Un cortigiano, il solo che ha coraggio, osa avvicinarlo e comunicargli la triste novella. Virginio Rufo lo ha dichiarato decaduto dall'impero. - Egli aspira al trono? chiese fremendo. - No, gli venne offerta la porpora dall'esercito vittorioso ma egli l'ha rifiutata. ? Galba? - Neppure. Virginio Rufo marcia verso Roma. Vuole che l'impero si conceda soltanto per voto di senato. - Il senato! Il mio senato! Mi è fedele! Mi confermerà. Non sono io forse Apollo? esclama rassicurato. Non è possibile, che i senatori, che lo avevano ricolmato di tanti onori; lo avevano dichiarato il migliore tra i Cesari e l'amore e la delizia, del genere umano; avevano dichiarata Roma felice sotto tanto principe, non lo avessero supplicato di rimanere in carica. Doveva accettare la riconferma o non era forse meglio? ... d'imperatori v'era dovizia, ma di cantanti, di citaredi suoi pari non ve n'era nessuno. E' facile cosa governare un'impero, difficile invece cantare come cantava, lui. Egli era grande, non perché imperatore ma perché citaredo; la sua vera gloria era dovuta a!la sua gola, al suo canto armonioso, che innamorava e rapiva tutti i cuori. Non doveva, forse rinunziare al trono per andar a conquistare il mondo intero, Alessandro novello Orfeo redivivo, colla sua voce, col suo canto? A Roma, a Roma; nella Roma fedele, dal senato, che non poteva vivere senza di lui. Vuole abbandonare Napoli per mettere al sicuro le sue corone, i suoi strumenti musicali, i suoi mimi, le sue danzatrici, le sue cortigiane. Le fa vestire da amazzoni, affida loro se stesso, la sua gloria, la sua voce, il suo canto. Promette all'esercito, al popolo, frumento; ve n'era tanta scarsità. Navi verranno dall'Egitto; ve ne sarà per tutti. Canta l'arrivo delle navi cariche di pane. Il "suo canto è onnipotente! Ecco navi spuntare su' lontano orizzonte; sono desse, sono desse. Il suo canto, i! suo divin canto le ha attirate. Fa annunziare all'esercito, al popolo, che le navi sfanno per entrare nel porto; che si farà una grande distribuzione di frumento; ve ne sarà per tutti. Le navi entrano, ma sono cariche di sabbia d'Egitto, da cospargere il teatro, dove gladiatori e lottatori hanno da presentarsi alla folla.

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Abbandonare la sua casa, i suoi campi, le sue mandrie? Mai! Doveva dunque rimanere e lottare, alla difesa di quel suolo santo, benedetto? Ma che è quel bagliore lontano, rosso; che è quel fumo che là si alza al cielo? In quella direzione sono i campi di un suo amico, sono le case di lui, le abitazioni dei suoi compagni di lavoro, i suoi granai grandi, ampi, ricchi. Quelle case ardono? Chi ha dato loro fuoco? I barbari! Sente un fremito infinito; un immenso timore per la sua sorte, per le sue campagne, per le sue messi, per le sue mandrie; uno sdegno indicibile che altri, stranieri, abbiamo diritto di profanare, in tal modo, l'Italia, la sua Italia, di calpestarla, di rovinarla, d'impoverirla, di maltrattare gli italiani, di derubarli, di renderli schiavi, di ucciderli. Allo sdegno si sposa la brama della difesa e della vendetta. Vuole difendere le proprie terre dai. barbari, vuote punirli per il male che fanno; vuole vendicare l'onta che hanno recato, che recano all'Italia. Da fiato al corno. Accorrono i suoi dipendenti, i forti lavoratori della terra, i pazienti pastori. Egli parla loro e diventa eloquente. Dice delle stragi, che i goti vanno menando; indica loro quelle fiamme lontane, quel fumo acre, denso, che sale al cielo; li esorta a stare uniti a lui, a lottare; ma non ottiene l'effetto. I Goti! Terribile nome, che evoca antichi, dolorosi ricordi, di una potenza fiera, indomabile, la quale scende come valanga; che tutto travolge, rovina, distrugge e cui nessuno sa resistere. Un terribile flagello di Dio. - A periculo Gothorum libera nos, Domine, - si pregava nelle chiese. I goti! Ogni resistenza era vana. Non restava che la fuga! - Scappiamo, padrone! Rifugiamoci nella foresta, in certe caverne, che essi non conoscono. Colà attenderemo, che il flagello sia passato. E salviamo quanto possiamo! - Vili! Resistiamo; lottiamo! Difendiamo le nostre terre, pronti a morire per l'Italia! ? dice loro. Già appariscono i primi fuggiaschi; gente spaventata, terrorizzata. Raccontano cose terribili dei goti: uomini truci, crudeli, barbari, senza misericordia. Giganti nel corpo, orribili nell'esterno, terribili nelle armi, veri demoni incarnati. E' impossibile resistere loro. Bruciano tutto; scannano gli uomini e le mandrie, per il solo piacere di scannare; rubano e fanno schiavi; non hanno compassione di nessuno. Hanno ucciso il padrone e catturato i suoi figli. Non resta che di scappare, per mettere in salvo la vita. Scappano, scappano. Invano egli dice loro di arrestarsi, di lottare, di difendersi, di resistere. Invano li supplica, per amore di quella terra si buona, che ha diritto alla difesa, perché è stata loro madre amorosa e larga di aiuto. Invano promette loro vittoria. Essi scappano; ed i suoi dipendenti; i suoi schiavi secondo la legge; gli assidui agricoltori, i pastori cosi pazienti, scappano pure; nessuno resta indietro: lo abbandonano tutti. Egli resta solo, là, immobile, nel crepuscolo serotino, nelle tenebre della notte, collo sguardo fisso verso quelle lontane fiamme rosse, le quali annunziano il grande incendio; fremente dallo sdegno; pieno di un livore infinito, contro il nemico che si avanzava borioso, crudele, e contro gl'italiani sì vili; che non vogliono, che non sanno resistere ed opporsi all'impeto nemico, e mentre maledice alla boriosa crudeltà dei primi ed all'ignavia degli altri, il suo ciglio viene inumidito da una lagrima amara sulla sorte d'Italia; del suo amato suolo natio, in balia del primo venuto, dello straniero, sempre.

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Il ricordo delle immagini vedute nel sogno non lo voleva abbandonare. Rivedeva.... E il ricordo gli creava grande disagio; gli ripeteva con insistenza certe verità, alle quali rifiutava fede, che non poteva, non voleva ammettere. Eppure ... eppure ... - No, no! - urlò adirato. - Maledette campane! Il loro suono! Tese il braccio ed interruppe la corrente. Nella stanza si fece di nuovo scuro; tutto ripiombò nelle tenebre. Gli venne un pensiero. Allo stesso modo tu fai volontariamente tenebre al tuo spirito. No, no! Egli non voleva le tenebre, voleva la luce; l'aveva cercata sempre; l'aveva trovata, e quella mattina... la bomba... la bomba! Sogni pazzi di notte di Natale, causati dalle stupide osservazioni dell'amico, dal suono delle campane, e dal microbo della superstizione che ammorba tuttora l'Italia. Dormire, e non sognare, oppure sognare rivoluzioni, bombe, tiranni uccisi, aristocratici e borghesi sfracellati in un mare di sangue; sognare vescovi scannati, papi col ventre squarciato; la rivoluzione, la grande voluzione, operazione terribile ma necessaria, che sola può salvare l'Italia. Maledette campane! Si avvolge ben bene nelle coltri, cela la testa nel lenzuolo e cerca sonno. Morfeo fa scendere lentamente fiori di papavero sul suo capo. Sbadiglia; le idee gli si confondono; dimentica il luogo dove si trova; dimentica che è la notte di Natale. Dorme....

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