Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIFI

Risultati per: abbandonare

Numero di risultati: 8 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

Manuale pratico di cucina, pasticceria e credenza per l'uso di famiglia

322646
Lazzari Turco, Giulia 2 occorrenze
  • 1904
  • Tipografia Emiliana
  • Venezia
  • cucina
  • UNIFI
  • w
  • Scarica XML

Strofinate lo zucchero sulla scorza dei limoni, mescolatelo col burro ben lavorato prima solo poi con 4 tuorli d'uovo e 2 uova intere, aggiungetevi la polpa delle carote e dimenate ancora lungamente, poi il pane, le mandorle, il cedro, gli arancetti, senza abbandonare il mestolino, finalmente i quattro albumi a neve.

Pagina 518

Lavorate il burro solo, unitevi quindi l'ammoniaca dimenando con cura, poi lo zucchero, le ova e la farina senza abbandonare il mestolo. Cuocete il composto nello stampo N.° 8 unto e infarinato, avendo però cura prima d'infornarlo di bagnarlo coll'albume e di cospargerlo di granelli di zucchero. Cotto che sia e bene freddato tagliatelo a pezzi regolari.

Pagina 655

I FIGLI DELL'ARIA

682314
Salgari, Emilio 6 occorrenze

Lo "Sparviero", raggiunta l'altezza voluta, stava filando sopra i pini e gli aceri, quando Rokoff e il capitano videro il macchinista abbandonare precipitosamente la macchina. - Che cosa c'è ancora? - chiese il comandante, stupito. - Signore ... - balbettò il giovane pallido come un morto. - La tigre è a bordo! ... - Ma tu vaneggi, giovanotto mio - disse Rokoff. - Tu hai una tigrite acuta indosso. - Ho udito ... un grido rauco ... là ... sotto il boccaporto ... - Per l'inferno! - esclamò il capitano, impallidendo. - Possibile! Stava per slanciarsi a prora onde prendere le carabine, quando vide sorgere dal boccaporto una testa che lo fece retrocedere precipitosamente. Un animale si era aggrappato al margine della botola e tentava di giungere sul ponte. Era una bestia superba che rassomigliava un po' alle tigri, di corporatura massiccia, con zampe corte, la testa allungata col muso sporgente e il pelame grigio biancastro a riflessi giallastri, sparso di macchie nere di forma circolare. Un animale pericoloso senza dubbio. Se non raggiungeva la mole delle grandi tigri reali, non la cedeva di certo, per grossezza, a quelle comuni. Pareva molto sorpreso e fors'anche spaventato di sentire il fuso ondulare. I suoi grandi occhi dalle pupille giallastre, manifestavano un vivo terrore e il suo pelame era irto. - Un irbis! - aveva esclamato il capitano. - Un leopardo delle nevi! Badate! Vale una tigre! - Per le steppe del Don! - gridò Rokoff. - E i fucili sono a prora! ... - Non muovetevi! - Comandò il capitano. - L'irbis potrebbe precipitare l'assalto. II cosacco, invece di obbedire, fece due passi innanzi e s'impadronì rapidamente d'una specie d'arpione, che serviva al macchinista per tendere la seta dei piani inclinati. - Almeno servirà a qualche cosa - disse, raggiungendo sollecitamente i compagni. - La punta è acuta e forerà la pelle della belva. - Se potessimo abbassarci, l'irbis sarebbe ben contento d'andarsene - disse Fedoro. - Mi pare che sia più spaventato di noi. - Bisognerebbe avvicinarsi alla macchina - rispose il capitano. - Chi oserebbe farlo? - Volete che provi io? - chiese Rokoff. - No, sarebbe troppo pericolosa una tale mossa. - Volete continuare il viaggio con un simile compagno? Non oserei chiudere gli occhi. - Come abbassarci? - chiese Fedoro. - Non v'è alcun mezzo, capitano? - Nessuno se non rallentiamo la battuta delle ali - rispose il comandante. - Ah! Pare che si decida a sgombrare! Se si provasse a saltare! - Un capitombolo di quattrocento metri! Non lo tenterò di certo - disse Rokoff. L'irbis, dopo essere rimasto qualche minuto immobile presso il boccaporto, rannicchiato su se stesso, aveva fatto un passo indietro, senza staccare gli occhi dai quattro aeronauti. Non pareva troppo contento di quel viaggio intrapreso involontariamente. Brontolava sordamente, arricciava il pelo e agitava nervosamente la lunga coda inanellata. Di quando in quando un brivido lo faceva sussultare e girava la testa a diritta e a manca come se cercasse di scorgere qualche albero su cui slanciarsi. Aveva cominciato a indietreggiare lentamente allungando, con precauzione, prima una zampa e poi le altre, senza abbandonare tuttavia la sua posa d'assalto. Vedendo Rokoff fare un passo innanzi coll'arpione teso, arrestò la sua marcia retrograda e si raccolse su se stesso come fanno i gatti quando si preparano a slanciarsi sul topo. Aprì le formidabili mascelle, mostrando due file di denti, bianchi come l'avorio e aguzzi come triangoli, mandando un rauco brontolio che finì in un soffio poderoso. - No, Rokoff! - disse Fedoro. - Si prepara ad assalirci. - Fermatevi - comandò il capitano, il quale si era impadronito d'una pesante cassa per scaraventarla contro la belva, nel caso si fosse slanciata innanzi. - Lasciatela indietreggiare. - Finiamola - disse il cosacco. - Siamo in quattro. - E tre sono inermi - disse Fedoro. - Vuoi farci sbranare? - Lasciate che si allontani dalla macchina - rispose il capitano. - Poi scenderemo. L'irbis stette qualche po' immobile, continuando a brontolare, poi con un balzo di fianco si avventò verso la balaustrata, aggrappandosi ai ferri e guardando abbasso. Per un momento i quattro aeronauti credettero che si slanciasse nel vuoto; la loro speranza però ebbe la durata di pochi secondi. La fiera, spaventata dall'abisso che le si apriva dinanzi, si era lasciata ricadere sul ponte. Tremava, come se avesse la febbre e gettava all'intorno sguardi smarriti, nei quali però balenava sempre un lampo di ferocia. Ricominciò a retrocedere verso la prora, guatando cupamente gli aeronauti che non osavano ancora muoversi e si rannicchiò dietro una cassa, manifestando la sua rabbia con frequenti brontolii e con un incessante agitare della coda. - La macchina è libera - disse Rokoff. - Approfittiamone. - Lasciate fare a me - rispose il capitano. - Voi non muovetevi. - Non vi assalirà? - Può darsi. - Allora signore vi domando il permesso di affrontare io il pericolo. Voi siete il capitano e dovete essere l'ultimo a esporre la vostra vita. - Ma anch'io reclamo l'onore di farmi divorare per salvare voi - disse Fedoro. - Né l'uno né l'altro - rispose il comandante. - D'altronde voi non sapete maneggiare la macchina. Vedendo poi che il russo ed il cosacco aprivano le labbra per replicare, aggiunse con voce quasi dura: - Basta, signori. Mi rincresce ricordarvi che il capitano sono io e che perciò voi mi dovete obbedienza assoluta. Poi con un sangue freddo ed un'audacia ammirabile, s'avanzò verso la macchina, dardeggiando sulla fiera uno sguardo che pareva di sfida. L'irbis non si era mosso; solamente le sue poderose unghie si erano infisse profondamente sulla cassa, sgretolando il legno. Il capitano fece agire la leva, poi retrocesse tranquillamente, senza staccare i suoi occhi dal feroce avversario. - Ecco fatto - disse con una voce perfettamente tranquilla. - Fra cinque minuti saremo a terra. Lo "Sparviero" cominciava infatti a discendere. Il movimento delle eliche era stato arrestato e le ali non battevano più che leggermente. - Dove cadremo? - chiese Rokoff. Il capitano si curvò sulla balaustrata. La collina era stata attraversata e l'aerotreno scendeva sul deserto che in quel luogo era coperto da un lieve strato di neve già indurita dal gelido vento del settentrione. - Tutto va bene - disse. - Tenetevi pronti ad afferrare le carabine, appena il leopardo ci lascerà. Lo "Sparviero", sorretto solamente dai piani inclinati, continuava ad abbassarsi dolcemente. L'irbis sempre più spaventato dalle ondulazioni che subiva il fuso, continuava a brontolare e a dare segni d'inquietudine. S'alzava sulle zampe posteriori fiutando rumorosamente l'aria e girava continuamente la testa in tutti i sensi. A un tratto avvenne un urto: lo "Sparviero" aveva toccato terra. - Attenzione! - gridò il capitano. Il leopardo con un salto immenso aveva varcata la balaustrata precipitandosi sulla neve. Stette un momento immobile, stupito forse di trovarsi a terra, poi spiccò tre o quattro salti dirigendosi verso un gruppetto di betulle nane. Il capitano, Rokoff e Fedoro si erano precipitati sulle carabine. - Fuoco! ... Tre spari rimbombarono formando quasi una sola detonazione. Il leopardo che si trovava a solo cento passi dal fuso, si rizzò di colpo mandando un urlo prolungato, girò due volte su se stesso, poi cadde in mezzo alla neve, agitando pazzamente le zampe. Quasi nel medesimo istante si udirono dei clamori selvaggi, poi degli spari. - Mille folgori! - esclamò Rokoff. - Che cosa succede ancora? - I mongoli! - gridò il capitano. - Su, alziamoci! - E il leopardo? - Lo lasceremo a quei banditi; ci manca il tempo di raccoglierlo. Presto: grandina e s'avanzano al galoppo. Un istante dopo lo "Sparviero" s'alzava maestosamente, salutato da una scarica di fucili.

Lo jack si era arenato su un banco di sabbia e una quarantina di brutti avvoltoi, col collo spellato e rognoso, le penne oscure ed arruffate, stavano dilaniandolo con ingordigia feroce; ci vollero molte sassate prima di deciderli ad abbandonare l'enorme preda che avevano già intaccata in più parti, aprendo dei buchi considerevoli. Vi era però ancora tanta carne, da assicurare i viveri per un mese intero ai cinque aeronauti. Nelle continue cadute l'animale era stato ridotto in deplorevoli condizioni. Gambe e costole erano state fracassate e la carne in più luoghi sbrindellata. - Sarà più frolla - disse Rokoff. Lo "Sparviero" giungeva volando a pochi metri dal suolo. Si posò a cinquanta passi dalla riva ed il macchinista, e l'uomo silenzioso scesero armati di scuri. Due ore dopo lo jack, ridotto a pezzi, gelava nella ghiacciaia dello "Sparviero".

Suo primo pensiero era stato quello di abbandonare subito il monastero assieme a Fedoro, ma il tempo gli era mancato, perché i monaci avevano invaso l'appartamento dei due falsi figli di Buddha, rendendo impossibile qualsiasi evasione. I due disgraziati, dopo una lotta disperata, erano stati atterrati, legati, e lì per lì condannati a essere divorati vivi dalle aquile e quindi condotti sull'alta montagna, dove avrebbero certamente lasciato la loro pelle, senza il provvidenziale arrivo dello "Sparviero". Il capitano aveva ascoltato quelle comiche avventure, ridendo a crepapelle. Perfino il muto personaggio non aveva saputo frenare più volte un sorriso. - Povero signor Rokoff! - esclamò il comandante. - E tutto in causa di quel sermone. - E un po' del sciam-sciù che avevo tracannato per farmi coraggio. - Chissà quante ne avrete dette sul conto di quel povero Buddha. - Credo di averlo paragonato a un gran diavolo con venti o trenta corna. Se aveste visto che smorfie faceva il vecchio Bogdo-Lama e che occhiate furiose mi lanciava! - Ne sono convinto. È stata una vera fortuna che quei buddisti abbiano pensato a farvi divorare dalle aquile. Potevano cacciarvi in una stanza oscura piena di scorpioni o farvi mangiare dai selvaggi di U. - Allora sarebbe stata proprio finita per noi - disse Fedoro. - Lo credo, perché non avrei potuto certo salvarvi o sarei giunto troppo tardi - rispose il capitano. - Ci avreste almeno vendicati - disse Rokoff. - Avevo già fatto preparare delle bombe ad aria liquida per far saltare il monastero. - Se lo avessi saputo prima, le avrei gettate sui pellegrini - disse Rokoff. - Perché non dirmelo? - Dovete averne schiacciati un bel numero con quella pesante cassa. Sono stati abbastanza puniti. - Avessi almeno accoppato quel monaco barbuto! Capitano, io ne ho abbastanza anche del Tibet; andiamocene al più presto. - Scendiamo al sud con una velocità di quaranta miglia all'ora. Guardate, anche il Tengri-Nor è scomparso e stiamo rasentando il Nigkorta. - Non andremo a Lhassa? - chiese Fedoro. - No, ho fretta di attraversare la grande catena dell'Himalaya e di calare nell'India. - Attraversando il Nepal? - È probabile - rispose il capitano. - E dove finiremo? - Lo ignoro ancora. Tutto dipende da certe circostanze. - Non andremo a Calcutta? - insistette Fedoro. - Non desidero che mi si veda colà. Il capitano, che non amava, a quanto pareva, spiegarsi sui suoi futuri progetti, si era alzato da tavola accendendo una sigaretta e si era recato a prora dicendo: - Guardate il Nigkorta: è stupendo. L'enorme montagna, una delle più alte del Tibet, giganteggiava verso l'est, capofila dell'immenso ammasso di picchi enormi che formava la catena del Nin- thang-la. Al pari delle altre era tutta coperta di nevi, dalla base alla cima e appariva come un enorme pane di zucchero. Sui suoi fianchi, immensi ghiacciai scintillavano sotto i raggi del sole vomitando senza posa, nelle sottostanti vallate, blocchi colossali di ghiaccio che dovevano più tardi alimentare i fiumi che scendono in gran copia da quel colosso. Lo "Sparviero", costretto a mantenersi a un'altezza di tremila metri, faticava non poco, in causa delle furiose correnti aeree che s'incrociavano in mille guise e che a ogni istante cambiavano direzione, nondimeno riusciva a percorrere le sue trentacinque o quaranta miglia all'ora. Alla sera passava sopra Gang-Ischaka, una borgata di qualche importanza, mettendo in subbuglio la popolazione che in quel momento si trovava nelle vie a mungere gli jacks domestici; poi con una rapidissima volata andava a posarsi sulla cima d'una montagna situata trenta miglia più al sud, in un luogo che sembrava deserto. L'indomani, ai primi albori, il capitano, che pareva avesse molta fretta di attraversare il Tibet, dava il segnale della partenza. Cominciavano allora ad apparire delle pianure. La regione montuosa spariva a poco a poco per riprendere più tardi il suo impero al di là del Brahmaputra, colla gigantesca catena dell'Himalaya. Alle due del pomeriggio il capitano additava a Fedoro e a Rokoff un fiume larghissimo che scorreva dall'ovest all'est con larghi serpeggiamenti. Era il Brahmaputra, uno dei più celebri fiumi dell'Asia, perché le sue acque, al pari di quelle del Gange, vengono ritenute sacre. Questo gigante fra i giganti, nasce nel Tibet occidentale, sui fianchi settentrionali dell'Himalaya. Si apre un varco attraverso l'infinito numero di montagne che ingombrano il paese dei Lama, poi con una immensa curva entra nell'India per la valle dell'Assan, raccogliendo sul suo corso oltre cinquanta fiumi tutti navigabili e va a scaricarsi in mare dopo duemilacinquecentosettanta chilometri di percorso. È più lungo del Gange e ha una massa d'acqua assai maggiore, ma è meno sacro del primo per gl'indiani, quantunque sia chiamato il figlio di Brama. Nel momento in cui lo "Sparviero" lo attraversava, numerosi battelli solcavano le acque del fiume, carichi di mercanzie. I battellieri, scorgendo quel mostro che sbatteva le sue immense ali, presi da una irrefrenabile paura, si erano precipitati in acqua, urlando come se fossero diventati pazzi. - Noi spargiamo il terrore dappertutto - disse Rokoff. - Vedremo se anche gl'indiani fuggiranno. - Se ci vedranno - disse il capitano. - Viaggeremo di notte? - Non amo che gl'inglesi mi scorgano. - Non volete aver rapporti coi popoli civili? - chiese Rokoff, sorpreso. - Per ora no. - Eppure avete attraversato l'America. - E chi mi ha veduto? - chiese il capitano. - Avete mai udito raccontare che una macchina volando sia stata osservata a Nuova York, o a Nuova Orleans, o a Buffalo, o a San Francisco di California? - No, mai, signore. - Eppure io sono passato su tutte quelle città. - E perché non volete che i popoli civili ammirino il vostro "Sparviero"? - Per ora è un segreto che non vi posso svelare, signor Rokoff. Ah! Che cosa sono questi punti bianchi? Guardate questa strana nube che stiamo attraversando. Lo "Sparviero" correva in quel momento sopra le montagne del Giangtse, le quali s'alzavano in forma d'immensi scaglioni, spingendo le loro cime a tremilanovecento metri. La gigantesca catena dell'Himalaya non era lontana, quantunque non si scorgessero ancora le vette di quei colossi che separano il Tibet dall'India. Il passo era ancora popolato. Villaggi e borgatelli comparivano di quando in quando e anche numerose carovane di cammelli e di jacks si vedevano salire faticosamente le strette vallate dei monti. Verso sera lo "Sparviero" si abbassava sulle rive del Tsono, un lago perduto quasi ai confini tibetani, rinchiuso fra montagne altissime. Il freddo era aumentato in causa della vicinanza degli immensi ghiacciai dell'Himalaya e soprattutto del gigantesco Dorkia, costringendo gli aeronauti a riprendere le loro vesti d'inverno e a riaccendere la stufa. - Sarà domani che passeremo la grande catena? - chiese Rokoff al capitano, prima di ritirarsi nella sua cabina. - A mezzodì passeremo presso il Dorkia - rispose il comandante. - E non andremo a vedere l'Everest? - Lo scorgeremo egualmente, essendo visibile a distanza incredibile. - Sicché non andremo verso l'ovest? - No, scenderemo in India attraverso il Butan. Buona notte, signor Rokoff, a domani. Erano appena le quattro del mattino, quando lo "Sparviero" riprendeva il volo per attraversare la grande catena che doveva condurlo in India. Già i primi contrafforti apparivano in forma di altipiani, i quali s'innalzavano rapidamente. costringendo gli aeronauti a portarsi sempre più in alto per non urtare contro quegli enormi ostacoli. La vegetazione scompariva rapidamente. Non più foreste di pini e di abeti, non più praterie verdeggianti, dove pascolavano prima cavalli e mandrie di jacks e anche non più villaggi. Cominciava un deserto di neve e di ghiaccio. Fu verso il mezzodì, quando le brume che coprivano l'orizzonte si furono sciolte, che agli sguardi ansiosi e meravigliati degli aeronauti apparve l'imponente massa dell'Himalaya coronata di nevi e di ghiacci. I mostruosi colossi, fra i quali primeggiava il Dorkia, che spingeva la sua vetta a oltre settemila metri, chiudevano tutto l'orizzonte meridionale, accavallandosi confusamente e mostrando vallate gigantesche, attraverso le quali si vedevano serpeggiare fiumi dal corso impetuoso. All'ovest, a una grande distanza, scintillava l'enorme Gaurinkar, o meglio l'Everest, il monte santo degl'indiani, il più mostruoso picco del globo, il re delle montagne, perché supera tutti toccando un'altezza di ben ottomilaottocentosessanta metri. La catena dell'Himalaya, che è la più vasta che esista sul nostro pianeta, e che in sanscrito significa luogo nevoso, perché è sempre coperta di nevi anche durante l'estate, corre dal Bengala al Cascemir per uno spazio di 1.096.000 chilometri quadrati, limitata all'est dal Brahmaputra e all'ovest dall'India, i due più grandi fiumi della penisola indostana. Ancora cent'anni or sono era pochissimo nota agli europei, in causa delle ostilità dei montanari e soprattutto delle tribù dei Gorka, le quali negavano ostinatamente il passo agli esploratori inglesi, come se temessero che i piedi degli uomini bianchi portassero sventura o scatenassero i Mani nascosti nelle caverne di quelle enormi montagne. Fu solamente nel 1809 e poi nel 1815 che gli ufficiali inglesi, approfittando della guerra che combattevano contro le tribù montanare del Bopal, poterono spingersi su per quelle immense vallate e quindi misurare una ad una le altezze delle montagne con strumenti così imperfetti, da non poter dare a essi la loro esatta dimensione. Kirpatrik e Fraser, due distinti ufficiali, furono primi a tentare l'ascensione di quei colossi, seguiti poi dal capitano Webb e da Colebrosk. Il colonnello Waugh saliva in seguito l'Everest, poi Humbold il Fawahir, Gerard il Chipca-Pic ai confini della Tartaria cinese, poi Hodgson e il tenente Herbet visitavano la catena centrale, scoprendo nel 1821 la vera sorgente del maestoso Gange, il fiume sacro degli indiani, situato a circa 4.480 metri, vicino al Vanaro Fuga. Oggi tutta la catena è nota e tutti i monti sono stati esplorati e misurati scrupolosamente. Questo enorme ammasso di montagne ha undici passaggi posti però ad altezze che variano fra i cinquemila e i seimila metri, ventisette picchi culminanti che toccano i seimilacinquecento metri fino ai settemilaseicentosettanta e un numero infinito di ghiacciai situati a un'altezza straordinaria, quasi quanto il Chimborazo, il colosso dell'America meridionale. Tutti gl'indiani hanno una grande venerazione per la catena dell'Himalaya, che per loro è d'origine santa e da migliaia e migliaia d'anni milioni di pellegrini si recano a visitare i templi sparsi su quelle giogaie. Anzi, secondo una loro tradizione, esisterebbe fra quei monti un lago sacro ove risiederebbe la dea Yamuna, che nessuno può vedere perché verrebbe arrestato prima di giungervi. - Che cosa ne dite di queste montagne? - chiese il capitano, mentre lo "Sparviero", che aveva raggiunto un'altezza di cinquemilacinquecento metri, imboccava un vallone che s'apriva da un fianco orientale del Dorkia. - Mettono spavento - disse Rokoff. - Un panorama meraviglioso, unico al mondo - rispose Fedoro. - Che cosa sono i nostri Urali in confronto a questa catena? Delle semplici colline, meno ancora, dei monticelli di terra. - Farebbero una meschina figura anche le Alpi, che pure sono annoverate come una meraviglia dell'Europa - disse il capitano. - Questi colossi vincono tutti. - E animali se ne trovano qui? - chiese Rokoff. - Qualche orso. Quando però avremo raggiunto la falda boscosa, che ha una estensione considerevole, non avrete a lamentarvi della selvaggina. Troveremo sciacalli, tigri, elefanti, rinoceronti e orsi in maggior numero. - Spero che non lasceremo l'India senza aver almeno dato la caccia a qualche tigre - disse Rokoff. - Vi condurrò più tardi in un luogo ove ne troverete quante vorrete - rispose il capitano. - Probabilmente sarà là che noi ci lasceremo. - Per sempre? - chiesero a una voce Rokoff e Fedoro. - Chi può saperlo? - rispose il capitano. - Può darsi che un giorno noi possiamo di nuovo vederci. Che cosa direste, per esempio, se io venissi a trovarvi a Odessa o fra le steppe del Don? Sbrigate certe faccende che non vi posso spiegare, tornerò libero e allora ... guardate laggiù quella fortezza appollaiata come un'aquila, su quel dirupo. È Pharò, l'ultima del Tibet; laggiù ecco il Tabilung, un bel monte che separa questa regione dal piccolo Stato di Sikkim. Signori, stiamo per entrare nell'India: il Butan non è che a due passi. Lo "Sparviero" era uscito da quell'immenso vallone aperto fra la catena e ora volava su un caos di picchi e d'altipiani nevosi, mantenendosi sempre a un'altezza che variava fra i cinque e i seimila metri. Avanzava sempre faticosamente in causa dei venti che turbinavano su quei desolati altipiani con mille ruggiti e mille sibili, fra le gole spaventevoli che si aprivano in tutte le direzioni, veri baratri scavati dai fiumi di ghiaccio che scendevano dagli enormi ghiacciai della catena e dalle acque che si vedevano precipitare dovunque, in gigantesche cascate. Alle quattro del pomeriggio anche la piccola fortezza veniva lasciata indietro, senza che il suo presidio si fosse accorto del passaggio del mostro volante e mezz'ora dopo gli aeronauti varcavano la frontiera tibetana, entrando nel Butan. L'India s'apriva dinanzi a loro coi suoi fiumi giganti, le sue sterminate foreste, le sue giungle immense e le opulente città.

. - E non possono abbandonare quel brutto vizio? - Sarebbe peggio; ricadrebbero in una profonda apatia che ben presto li condurrebbe alla morte - rispose Fedoro. - E fumandolo, invece? - chiese il capitano. - I fenomeni sono quasi identici, tuttavia meno intensi. Volete farne la prova? Il tartaro non mancherà di pipe, né di oppio; devo avvertirvi, innanzi tutto, che le prime volte quel narcotico produce nausee e acuti dolori di testa. - Non ne ho alcun desiderio. Ho udito raccontare che si beve anche col caffè. - Sì, nel Turchestan; e quella bevanda eccitantissima si chiama koknar. È anzi tale l'abitudine che hanno ormai quegli abitanti, che non potrebbero farne a meno. Per loro è diventata una vera necessità, come per la maggior parte degli europei il vermut, l'assenzio o la birra. L'uomo che volesse rinunciarvi, non potrebbe resistervi a lungo; diverrebbe presto un infelice, privo di qualsiasi energia, apatico, svogliato e non saprebbe imprendere qualsiasi lavoro. - Al diavolo l'oppio! - esclamò Rokoff. - Preferisco mille volte la mia pipa carica di buon tabacco. In quel momento il tartaro usciva dalla capanna, recando su un tondo d'argilla i fagiani e l'anitra mandarina con un contorno di pien-hoa, specie di radici e di hing, frutti angolosi che crescono negli stagni e che assieme alle prime surrogano, fino a un certo punto, il pane, che è quasi sconosciuto nella Tartaria e nella Mongolia. Portava inoltre un vaso colmo di acquavite e di riso e alcuni prosciutti, che dalla loro forma dovevano essere di cani e forse ingrassati con bachi da seta, come usano i cinesi. - Riporta i prosciutti - disse Fedoro. - Non fanno per noi. Il tartaro lo guardò con una certa meraviglia, poi ritornò nella sua casupola borbottando. I tre aeronauti si sedettero sotto una superba quercia che nonostante il freddo aveva conservato ancora gran parte del suo fogliame e attaccarono con molto appetito l'arrosto, le radici e gli hing, magnificando soprattutto la squisitezza dei due fagiani. - Ecco una colazione che molti ci invidierebbero, - disse Rokoff che divorava per quattro. - Capitano, i vostri pasticci di California e dell'Australia farebbero certamente una ben meschina figura dinanzi a questi deliziosi volatili. - Nessuno c'impedirà di provvederci sempre di questi arrosti - rispose il comandante. - La Mongolia è ricca di uccelli e anche di selvaggina da pelo e faremo ogni giorno una battuta. Voi non avete fretta di tornarvene in Europa, è vero? - No, signore - rispose Fedoro. - Desiderei però avvertire la mia casa di Odessa di non fare, almeno per un certo tempo, alcun assegnamento su di me e d'incaricare il mio rappresentante a Hong-Kong di acquistare il tè che io non ho potuto avere dal defunto Sing-Sing. - Una cosa facilissima - rispose il capitano. - Si manda un telegramma. - Ma ... signore ... voi vi dimenticate che qui non vi sono uffici telegrafici e che siamo nella Mongolia. - Se qui non ve ne sono, ne troveremo presto uno il quale trasmetterà in poche ore il vostro dispaccio. - E dove lo cercheremo? - Non occupatevene, - disse il capitano con un sorriso misterioso. - Preparate il telegramma e fra tre giorni o quattro la vostra casa lo riceverà. Ehi, tartaro, portaci delle altre radici. Il signor Rokoff ha divorato tutto. - Erano così eccellenti! - rispose il cosacco, ridendo. - Mi avete capito? - gridò il capitano, dirigendosi verso l'abitazione. Con sua sorpresa il tartaro non si fece vivo. - Dove sarà andato? - chiese Fedoro, un po' inquieto. Il capitano si spinse fino alla porta chiamando il proprietario ad alta voce e anche questa volta senza successo. Entrò nella cucina e vide solamente i mangiatori d'oppio coricati l'uno presso l'altro e profondamente addormentati. - Non c'è più? - chiese Rokoff raggiungendolo. - È sparito - rispose il capitano. - Che sia fuggito? - Signori miei - disse il capitano - questa scomparsa m'inquieta. Raccogliamo la nostra selvaggina e andiamocene. Io non sono tranquillo. - Che cosa temete? - chiese Fedoro. - Non dimentichiamo che noi siamo stranieri e che l'odio del cinese e del tartaro verso l'uomo bianco non è ancora spento. - Che quel briccone si sia recato in qualche villaggio a chiamare degli amici, per poi farci prendere? - È quello che sospetto. Orsù, prendiamo i nostri volatili e corriamo al fiume. - Maledetto paese! - esclamò Rokoff. - Non si può nemmeno fare colazione senza apprensioni! Stavano per slanciarsi attraverso il bosco, quando Fedoro si arrestò dietro un gruppo di pini colossali, esclamando: - Fermi tutti! - Che cosa c'è - chiese Rokoff. - Ci hanno tagliato la ritirata. - Chi? - I manciù! Eccoli che si avanzano attraverso il bosco. - Ah! Brigante d'un tartaro! - gridò Rokoff. - Egli ci ha traditi! Che siano i soldati del fortino? - Lo saranno di certo - rispose Fedoro. - Nella casa - disse il capitano. - Là almeno ci troveremo al coperto e potremo resistere lungamente. - E lo "Sparviero"? - chiesero con angoscia il cosacco e il russo. - Il mio macchinista non è uomo da lasciarsi sorprendere e le eliche possono funzionare subito. Siamo noi invece che corriamo il pericolo di passare un brutto quarto d'ora. Fortunatamente abbiamo dei buoni fucili da caccia e mitraglieremo i manciù.

- gridò il capitano, che aveva potuto finalmente abbandonare la radice. - Odo i muggiti degli altri jacks! Presto, cerchiamo un rifugio! - Qui! Qui! - disse Rokoff. Fedoro e il capitano stavano per slanciarsi verso la rupe, quando videro ritornare a corsa sfrenata l'animale che aveva ricevuto poco prima i due colpi di carabina. Non era però solo. Guidava la mandria, alla quale si erano uniti parecchi maschi che fino allora dovevano essersi tenuti nascosti dietro le rocce e che erano occupati a combattersi. Quei venti o trenta animali passarono come un uragano attraverso la gola e scesero il burrone col fragore d'una valanga. - Per tutti gli storioni del Volga! - esclamò Rokoff, che era riuscito ad issare il capitano e Fedoro sulla rupe. - Se ci sorprendevano sul loro passaggio, ci riducevano in briciole! Che siano discesi fino nel deserto? - E lo "Sparviero"? - chiese Fedoro, impallidendo. - Ho detto al macchinista di mantenere la macchina in funzione - rispose il capitano. - E poi non credo che gli jacks lascino queste rupi. - Che li ritroviamo? - chiese Fedoro. - Non mi sorprenderei; anzi, se troviamo un altro passaggio, seguiamolo. Non vorrei imbattermi ancora con quella mandria. - E l'animale che abbiamo ucciso? - Sceglieremo i pezzi migliori. - Signor Rokof, avete le braccia che non tremano, voi. Ecco qui una ferita che i migliori cacciatori del Far-West americano vi invidierebbero certamente. - Toccato al cuore? - Sì, signor Rokoff. - Si trattava di salvare Fedoro da una morte certa. - E che morte! - esclamò il russo, gettando uno sguardo atterrito verso l'abisso. - Che salto! Più di venti metri con un torrente nel fondo! Rabbrividisco ancora pensando al pericolo corso. - Dovete la vostra vita a quella palla fortunata - disse il capitano. - Eppure io non avrei esitato a tentare il salto - disse Rokoff, che guardava il torrente. - L'acqua deve essere profondissima e me la sarei cavata con un semplice bagno. - Voi cosacchi trovate tutto possibile - rispose Fedoro, ridendo. - So che per una scommessa qualunque non esitate a saltare da un bastione coi vostri cavalli e senza fiaccarvi il collo. - Facciamo anche di peggio - disse Rokoff. - Aiutatemi - disse il capitano. Aveva estratto il bowie-knife e aveva cominciato a sventrare l'jack con un'abilità da far stupire i suoi compagni. - Voi avete ammazzato ancora di questi animali? - chiese Rokoff. - No, ma invece dei bisonti. - Maneggiate il coltello meglio d'un cow-boy - disse Fedoro. - Ho imparato da loro - rispose il capitano. - Ah! Siete stato nel Far-West? Il capitano, invece di rispondere, aprì la gola all'animale e con un colpo maestro strappò la lingua, dicendo: - Ecco un boccone da re. La depose sul muschio che cresceva lì presso e cominciò a disarticolare il corpaccio dell'jack spaccando ad una ad una le costole alle loro congiunzioni colla spina dorsale, mentre Rokoff e Fedoro s'impadronivano del fegato e del cuore. Avevano già separato interamente l'animale, quando verso la gola udirono un fragore assordante. - Prendete le carabine! - gridò il capitano ringuainando prontamente il bowie- knife. - Gli jaks tornano. - Ancora! - esclamò Rokoff. - Se ci sorprendono qui siamo spacciati. - Guadagniamo le rocce - disse Fedoro. Stavano per slanciarsi attraverso il piccolo altipiano per cercare un rifugio, quando videro la mandria sbucare a corsa sfrenata. I vendicativi animali, dopo aver percorso tutto il burrone, erano risaliti senza che i cacciatori se ne fossero accorti ed ora stavano per caricarli su quello spazio ristretto che pareva non avesse alcuna uscita. Il capitano e i suoi due compagni, atterriti da quell'improvviso ritorno, si erano raggruppati nuovamente verso l'abisso, essendo loro mancato il tempo di salvarsi sulle rupi. - Siamo perduti! - aveva esclamato il capitano. Gli jacks, vedendoli, si erano fermati colle teste basse, mostrando le loro lunghe corna. Pareva che esitassero ad attaccare, forse tenuti in rispetto dalle tre carabine che li minacciavano. - Non fate fuoco - disse il capitano, precipitosamente. - Cerchiamo di non irritarli. - E se ci assalgono, dove ci salveremo noi? - chiese Fedoro, rabbrividendo. - Chi resisterà a simile carica? - Verremo scagliati nell'abisso - disse Rokoff. - Cercate di saltare nel torrente, se vi sarete costretti, o vi sfracellerete sulle rocce. Gli jacks non accennavano a muoversi, come se si divertissero delle angosce terribili dei disgraziati cacciatori. Solamente i maschi erano passati dinanzi, disponendosi su una linea, come per proteggere le femmine. Il capitano e i suoi compagni, pallidissimi, tenevano sempre le carabine puntate, quantunque non avessero molta speranza di fugare la mandria con tre sole palle. Quella situazione tremenda durò due o tre minuti, che ai cacciatori parvero lunghi come ore, poi gli jacks, con un movimento fulmineo, si disposero su un mezzo cerchio, caricando alla disperata. - Fuoco! - gridò il capitano. Scaricarono precipitosamente le carabine. Un animale cadde, ma gli altri, maggiormente inferociti, non interruppero la corsa. - Saltate! - gridò Rokoff. Con un coraggio che doveva rasentare la follia, pel primo diede l'esempio. Chiuse gli occhi e si lasciò cadere nel vuoto, roteando due o tre volte su se stesso. Gli parve di sentirsi mancare il respiro, come una specie d'asfissia fulminante, poi provò un'atroce sensazione di freddo e udì un rombo assordante che gli parve gli spezzasse il cranio. Era caduto in mezzo al torrente, inabissandosi in un'acqua così gelata che credette, di primo colpo, di morire assiderato. Per sua buona sorte e come d'altronde aveva previsto, l'acqua era assai profonda, sicché, invece di sfracellarsi sulle rocce che dovevano coprire il letto, poté risalire a galla stordito sì, ma incolume. Aveva appena aperto gli occhi che vide Fedoro e il capitano precipitare a dieci metri più sopra assieme a un enorme jack che non era stato capace di fermarsi a tempo sull'orlo dell'abisso. Tutti e tre s'immersero, sollevando giganteschi sprazzi. - Capitano! Fedoro! - gridò, mettendosi a nuotare vigorosamente per non venire trascinato via dalla corrente che era impetuosissima. Prima a comparire fu la testa del capitano, poi anche Fedoro emerse agitando disperatamente le braccia. - Che non sappia nuotare? - si chiese il cosacco. Fendette la corrente e lo raggiunse nel momento in cui stava per scomparire di nuovo. - Coraggio, amico! - gli gridò. Sorreggendolo per un braccio, si spinse verso la riva, sulla quale stava arrampicandosi il capitano. - Aiutatemi, signore! - gridò. - A voi! - rispose il comandante. Si era slacciata la lunga sciarpa di lana rossa che gli cingeva i fianchi e gliela aveva lanciata, tenendola per l'altro capo. Rokoff la prese al volo e si lasciò portare verso le rocce, sempre sorreggendo l'amico. - Ferito? - chiese il capitano, vedendo Fedoro pallidissimo. - No ... No ... è il freddo e anche l'emozione - rispose il russo - e poi non so nuotare ... grazie Rokoff. Senza di te l'acqua mi avrebbe trascinato via. Che salto! Tremo come se avessi la febbre. - E quel maledetto jack? - chiese Rokoff. - Credevo che vi piombasse addosso e vi schiacciasse. - Si è messo in salvo sull'altra riva - rispose il capitano. - Mi pare però che si sia spezzate le gambe o fracassate le costole. L'animale pareva infatti che non se la fosse cavata molto liscia in quel terribile capitombolo. Era riuscito a salire la riva, poi si era lasciato cadere al suolo muggendo lamentosamente e perdendo sangue dalla bocca. - Muori dannato! - gridò Rokoff. - Ed ora, che cosa facciamo? - chiese Fedoro. - Mi sembra di avere al posto del cuore un blocco di ghiaccio. Come era gelata quell'acqua! - Cerchiamo un'uscita e torniamo allo "Sparviero" - disse il capitano. - Ne ho anch'io abbastanza di questa caccia. - Uscire! - esclamò Rokoff. - Lo potremo noi? Guardate, signore, e ditemi come potremo fare a tornare lassù.

- gridò il comandante, mentre il macchinista continuava a far tuonare la mitragliatrice per fugare i volatili sopravvissuti alla prima scarica e che non volevano decidersi ad abbandonare le prede. - Per le steppe del Don e anche dell'inferno! - urlò Rokoff. - Liberateci, signore! Le canaglie! I miserabili! Andiamo a sterminarli tutti! Urrà per lo "Sparviero"! Il capitano, che aveva portato un coltello, s'arrampicò sulla croce e liberò entrambi dalle corde che li avvincevano. Fedoro, assiderato, istupidito, mezzo asfissiato, si era subito abbandonato fra le braccia dello sconosciuto, borbottando con voce appena intelligibile: - Grazie ... Aveva il sangue al naso e anche agli orecchi in causa dell'estrema rarefazione dell'aria. Lo si dovette portare sullo "Sparviero", perché non si reggeva più. Rokoff invece, appena liberato, si era messo a correre verso l'estremità opposta del piccolo altipiano, coi pugni chiusi, gli occhi scintillanti d'ira. - Signor Rokoff! - gridò il capitano. - Dove correte? Siete impazzito? Il cosacco pareva che non lo udisse nemmeno e che non provasse lo stordimento che s'impadroniva sempre più dei suoi compagni. Quando giunse sul margine estremo, un urlo selvaggio gli sfuggì. - Eccoli! Cane d'un lama, avrò la tua pelle! Il capitano lo aveva raggiunto. - Venite ... lo "Sparviero" ci attende ... è pericoloso fermarci quassù ... la rarefazione ... - Guardateli! - gridò Rokoff, furioso. - Scendono la montagna. - Ma chi? - I buddisti ... i monaci ... gli assassini ... Il capitano guardò abbasso. Sotto di lui, sei o settecento metri più giù, una lunga fila di persone, composta di monaci e di montanari, scendeva i fianchi della montagna, fermandosi di quando in quando per guardare verso la cima. Erano almeno tre o quattromila persone e buona parte di esse armate di moschettoni e di lance. - Eccoli quelli che volevano fare delle nostre ossa delle pillole da dare da mangiare ai cani - disse Rokoff. - Lasciate che vadano ad appiccarsi altrove - rispose il capitano. - Promettetemi di passarvi sopra. - Sì, ma fuori di portata dei loro fucili. - Andiamo allo "Sparviero". Ripresero la corsa e raggiunsero il fuso, dove il macchinista stava facendo sorseggiare a Fedoro un bicchiere di vecchio ginepro, per rimetterlo un po' dalle emozioni provate e per riscaldarlo. - Partiamo! - disse il capitano. - Non è prudente fermarsi troppo a simili altezze. Si erano imbarcati tutti. Lo "Sparviero" attraversò il piccolo altipiano e scese il versante opposto, dirigendosi là dove i pellegrini e i monaci calavano. Questi si erano subito accorti della presenza di quel mostruoso uccello che piombava dalle cime del nevoso colosso con rapidità fulminea, come se volesse schiacciarli. Un immenso urlo di terrore si era alzato fra quelle centinaia e centinaia d'uomini, ripercuotendosi lungamente nelle vallate, poi era subentrato un profondo silenzio. Pareva che tutti, monaci e pellegrini, fossero impietriti dallo spavento. Alcuni si erano lasciati cadere al suolo, nascondendosi il viso fra le cappe villose dei loro mantelloni. Rokoff si era curvato sulla prora del fuso, per farsi meglio vedere e agitava le braccia come se scagliasse sui suoi assassini delle maledizioni. D'un tratto si slanciò verso la macchina, afferrò una cassa di zinco ripiena d'acqua e la precipitò in mezzo alla folla terrorizzata, urlando: - Prendete! Ecco il saluto dei Buddha viventi! Quante persone avesse accoppate o storpiate, non lo poté sapere perché già lo "Sparviero" era lontano, volando in direzione del Tengri-Nor.

Cerca

Modifica ricerca