Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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I PREDONI DEL SAHARA

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Salgari, Emilio 3 occorrenze

"Alzati, invoca Dio e maledici il demonio che ti ha spinto ad abbandonare il tuo sposo ed i tuoi figli." "Afza, che aveva veduto un terribile lampo balenare negli occhi del tradito, cercò di gridare al soccorso, ma venne afferrata strettamente e portata sul cammello. "L'allarme però era stato dato, e il padre di Faress e due dei suoi figli si erano slanciati sulle tracce di Alojan. "Questi, vedendosi inseguito da vicino, impugnò le sue armi e si difese come un leone. Nel frattempo Afza, liberatasi dai suoi legami, si unì agli inseguitori, scagliando sassi contro Alojan, e uno dei sassi lo colse alla testa, ferendolo. "Nondimeno Alojan uccise i due fratelli di Faress e riuscì ad atterrare anche il padre. "Io non uccido i vecchi," disse, quando lo vide a terra. "Riprendi il tuo cavallo e ritorna fra i tuoi." "Poi riafferrata Afza, si rimise in viaggio dirigendosi verso il suo primiero duar, senza aver detto una parola alla sua donna. "Quando giunse presso la rupe che avete veduto, da uno dei suoi servi che era ancora rimasto nell'oasi, fece chiamare il padre ed i fratelli della moglie, che abitavano poco discosti, e raccontò loro quanto era avvenuto. "Padre;" disse poi, quand'ebbe finito, "giudica tua figlia." "Il vecchio s'alzò senza dire verbo, trasse la scimitarra e la testa della bella Afza ruzzolò al suolo. "Compiuta la vendetta, Alojan rovinò i pozzi onde tutte le piante morissero, li riempì di sabbia, poi salito sul suo cammello scomparve fra le dune del deserto, né più si seppe nulla di lui. "La rupe però è rimasta a ricordare la vendetta del povero cacciatore del deserto sulla infedele Afza."

Certo ormai di tenerla in suo potere e che essa non avrebbe osato abbandonare il suo rifugio, raggiunse Ben e Rocco i quali avevano sollevato l'uomo che era stato assalito dal formidabile predone del deserto. Era un individuo di cinquanta o sessant'anni, dalla pelle molto bruna, con una barba lunghissima e completamente bianca, gli occhi nerissimi, animati da un fuoco selvaggio, ed il corpo d'una magrezza spaventosa. Aveva il capo coperto da un turbante d'una bianchezza dubbia e un ampio caic rattoppato. Indosso nessuna arma, eccettuato un nodoso bastone. Nondimeno doveva essersi difeso gagliardamente contro l'attacco della belva, perché non aveva riportato che una sola graffiatura che gli deturpava la gota sinistra. "Iddio vi sarà riconoscente," disse, quando Rocco gli ebbe lavato la ferita. "Chi siete e cosa fate qui solo nel deserto?" chiese il marchese. "Sono un povero marabutto e mi sono smarrito allontanandomi dalla carovana colla quale marciavo. Da cinque giorni cammino alla ventura." "Potete reggervi?" "Muoio di fame, signore, e sono così sfinito che non ho più la forza necessaria per fare un passo." "Vi metterò sul mio cavallo," disse Ben. "Desidererei prima sapere da dove venite." "Dal Sahara centrale, dalle oasi di Argan e di Birel-Deheb." Nartico scambiò col marchese un rapido sguardo che voleva significare "Quest'uomo può essere prezioso." "Rocco," disse il marchese. "Conduci questo povero diavolo da El-Haggar e fa accampare i cammelli. Noi intanto cercheremo di scovare la pantera." "Lasciatela andare, signore," rispose il sardo. "No, mio bravo Rocco; conto sulla magnifica pelliccia." L'ercole prese fra le robuste braccia quel corpo magrissimo, lo pose sul proprio cavallo e si allontanò fra le dune. "Che cosa volevate dire con quello sguardo?" chiese il marchese a Ben, quando furono soli. "Che quel marabutto potrebbe darvi delle preziose informazioni sulla strage della missione Flatters. Se egli viene realmente dal Sahara centrale, ne saprà qualche cosa di certo e forse più di quanto c'immaginiamo." "L'avevo pensato anch'io, Ben. Però ... " "Parlate." "Dovrò fidarmi di quell'uomo? I marabutti sono fanatici." "Non vi potrà tradire perché deve aver molta fretta di ritornare nel Marocco. Ho veduto che possiede una borsa ben gonfia, segno sicuro che la sua questua è stata abbondante anche fra i Tuareg. Gli doneremo un cammello e lo manderemo a Tafilelt." "Per ora andiamo a scovare quell'animale, se ciò vi fa piacere." "Non sarà cosa lunga." "Purché si decida a lasciare il suo covo!" "Ve lo costringeremo, marchese. Gli sterpi ben secchi qui non mancano e non avremo da faticare per accenderli." Legarono i cavalli l'uno all'altro e s'accostarono all'ammasso di rocce, tenendo le dita sui grilletti dei fucili. In fondo a quella specie di corridoio videro subito brillare due punti luminosi dalla luce verdastra e udirono un rauco brontolio. "Ci spia," disse il marchese. "Badate, marchese. Se è una femmina ed ha dei piccini, si difenderà disperatamente." "Ah! è scomparsa! Che sia molto profonda la tana?" "Proverò a far fuoco; voi tenetevi pronto a dare il colpo di grazia, marchese." "L'aspetto," rispose il signor di Sartena, il quale non perdeva un atomo della sua calma. "E anch'io," disse una voce. "Ah! Tu, Rocco!" "Volevate che vi lasciassi soli nel pericolo?" chiese il sardo. "Il marabutto è nelle mani della signorina Esther e non ha più bisogno di me." "Attenzione," disse Ben. Avanzò fino a cinque passi dal crepaccio, abbassò l'arma e la scaricò dentro. Lo sparo fu seguito da un urlo, ma la fiera non uscì. "Che la galleria sia più ampia di quanto supponiamo?" chiese il marchese. "Forse descrive qualche curva," rispose Ben, "e la mia palla non ha colpito che le rocce." "Affumichiamola," propose Rocco. "Quando non potrà più resistere, balzerà fuori." Mentre il marchese rimaneva a guardia del crepaccio, Ben ed il sardo strapparono alcune bracciate di albagi e le gettarono, colle dovute precauzioni, dinanzi alle rocce. La pantera, quasi si fosse accorta delle loro intenzioni, aveva incominciato a brontolare, aumentando rapidamente il tono. Erano urla rauche, cavernose, piene di minaccia e che annunziavano un imminente assalto. "Questi preparativi non le garbano," disse il marchese. Rocco accese uno zolfanello e andò con pazza temerità a dar fuoco agli sterpi. Stava per ritirarsi, quando la belva, con uno slancio repentino, gli si scagliò addosso, attraversando le fiamme colla rapidità della folgore. L'assalto era stato così improvviso, che il gigante non aveva potuto reggere all'urto ed era caduto pesantemente sul dorso. "Fuggi!" aveva gridato il marchese. Era troppo tardi per pensare ad una ritirata. La belva gli si era gettata sopra con furia incredibile, cercando di dilaniarlo colle poderose unghie. Fortunatamente il sardo era dotato d'una forza veramente erculea. Vedendosi perduto e nell'impossibilità di evitare l'attacco, aveva stretto le braccia attorno alla pantera con tale rabbia da strapparle un urlo di furore. Un orso grigio non avrebbe potuto fare di più con un giaguaro. Rocco non lasciava la preda, mettendo a dura prova le costole e la spina dorsale della belva. Il marchese e Ben erano balzati innanzi, ma non osavano far fuoco per. paura di uccidere, colla medesima palla, anche il compagno, il quale formava colla sua avversaria una massa sola. "Scostati, Rocco!" urlava il marchese. "Lasciala andare!" Il sardo però non la intendeva così. Temendo di provare quelle unghie dure come l'acciaio, raddoppiava gli sforzi per non lasciarla libera. Le sue braccia poderose si stringevano sempre più facendo scricchiolare l'ossatura della fiera. "Lasciate fare, padrone," diceva. "Cederà." La pantera, sentendosi soffocare, faceva sforzi prodigiosi per liberare le zampe e tentava di azzannare il cranio del suo nemico. Urlava ferocemente mandando schiuma dalla gola sanguinosa e dimenava pazzamente la coda con moti convulsi. I suoi occhi, che avevano dei bagliori sinistri, pareva che schizzassero dalle orbite. A un tratto mandò un urlo più rauco, poi s'abbandonò mentre le potenti braccia del sardo si rinserravano più strette che mai attorno al suo corpo. "Va'!" gridò l'ercole, scagliandola quattro o cinque passi lontano. "Marchese, potete darle il colpo di grazia." Due palle che le attraversarono il cranio la finirono per sempre. "Mille demoni!" esclamò il marchese, che non si era ancora rimesso. "Quale vigore sovrumano possiedi tu, Rocco?" "Due solide braccia," rispose il sardo sorridendo. "Da sfidare quelle d'un gorilla." "Se troverò una di quelle scimmie gigantesche, la sfiderò alla lotta, marchese." "Ecco un uomo che ne vale venti," disse Ben. "Se i Tuareg ci assaliranno io non vorrei trovarmi nei loro panni."

Subito urla furiose si erano alzate fra la folla e una tempesta di sassi era volata addosso al negro, il quale si era messo a correre a perdifiato senza abbandonare l'animale. "Perché lo trattano così?" chiese il marchese, stupito. "Per incitarlo a correre," rispose Ben Nartico. "Dalle sue gambe può dipendere la rovina della sultania." "Che frottole mi raccontate?" "Sono verità, marchese. Il negro deve portare il montone al palazzo del sultano e giungervi prima che le carni si siano raffreddate, meglio poi se saranno ancora palpitanti." "E se arrivasse troppo tardi?" "Cattivo augurio, sia nel sultano, sia per gli abitanti. Oh, ma non dubitate! Il negro, per non venire lapidato, giungerà in tempo. Andiamo, marchese. Non aspettiamo che il sultano torni al suo palazzo." L'arabo aveva già fatto segno di mettersi in marcia. Il drappello si aprì il passo con spinte e pugni e si cacciò in una viuzza laterale che era ingombra solamente d'asini e di cammelli. Avevano appena percorso poche dozzine di passi, quando Rocco, che veniva ultimo, s'accorse che ne mancava uno: El-Melah. "Signore," disse, appressandosi al marchese. "Il sahariano si è smarrito fra la folla." "Eppure poco fa era presso di me," rispose il signor di Sartena. "L'ho veduto anch'io," disse Ben. "Dove si sarà cacciato costui?" "Lo ritroveremo di certo presso il palazzo," disse il marchese. "El-Melah conosce Tombuctu e non si smarrirà." Per nulla inquieti dell'assenza del miserabile, non avendo alcun sospetto su di lui, proseguirono la via, ripassando per la piazza del mercato che era stata occupata da alcuni Tuareg, quindi attraversate parecchie altre strade giunsero dinanzi alla kasbah o palazzo del sultano. Era una costruzione molto elegante di stile moresco, con porticati, cupolette, terrazze, torricelle esilissime e meravigliosamente lavorate e fiancheggiata da due padiglioni ad un solo piano, le cui finestre s'aprivano a due metri dal terreno. Solamente dinanzi alla entrata principale si vedevano due kissuri in sentinella; tutte le altre erano chiuse e senza guardie. "Dove si trova il colonnello?" chiese il signor di Sartena, il cui volto era trasfigurato da una estrema ansietà. L'arabo indicò uno dei due padiglioni che era sormontato da un minareto dove in quel momento stava affacciato, sotto la cupoletta, un marabuto, forse per pregare o per godersi di lassù il panorama di Tombuctu. "Là," disse. "Ma la porta è chiusa," osservò Ben. "La finestra è aperta." "Entreremo da quella?" "Sì." "Sarà solo, il colonnello?" "Sì, perché è stato avvertito del vostro arrivo." "Andiamo!" esclamò il marchese, slanciandosi innanzi. La piazza che si estendeva dietro la kasbah era deserta, quindi non correvano pericolo di venire scoperti. Attraversarono velocemente lo spazio, si assicurarono d'aver tutti la rivoltella ed il pugnale e si radunarono sotto la finestra le cui persiane erano semiaperte. Il marchese stava per aggrapparsi al davanzale, quando si volse, dicendo "El-Melah?" "Non si vede," rispose Ben, dopo aver lanciato uno sguardo sotto i palmizi che ombreggiavano la piazza. "Che sia rimasto presso la moschea? Bah! Faremo senza di lui." Il marchese, aiutato da Rocco, scavalcò lesto il davanzale, impugnò la rivoltella e balzò nella stanza. Essendo la persiana mezzo calata, ed avendo egli gli occhi ancora abbagliati dal sole, subito non distinse nulla. Dopo qualche istante però s'avvide di trovarsi in una bellissima sala col pavimento di mosaico e le pareti coperte da stoffe fiorate. Tutto all'intorno vi erano divani di marocchino rosso e nel mezzo una fontanella il cui getto manteneva là dentro una deliziosa frescura. In quel frattempo Rocco e Ben erano pure entrati. "Dov'è il colonnello?" chiese l'ebreo. "Eccomi," rispose una voce in lingua francese. Un uomo di alta statura, avvolto in un ampio caic che lo copriva tutto, e col capo coperto da un turbante che gli nascondeva quasi interamente il volto, era comparso sulla soglia d'una porta nascosta da una tenda. Il marchese stava per slanciarglisi contro colle braccia aperte, quando al di fuori si udì El-Haggar urlare "Tradimento! I kissuri." Poi risuonò un colpo di pistola seguito da un urlo di dolore. Contemporaneamente l'uomo che avevano creduto il colonnello si sbarazzava del caic ed impugnando un largo jatagan si scagliava sul marchese urlando: "Arrendetevi!" I due isolani e l'ebreo erano rimasti così stupiti da quell'inaspettato cambiamento di scena, che non pensarono subito a fuggire. D'altronde era ormai troppo tardi; al di fuori si udivano già le urla dei kissuri del sultano. Rocco, preso da un terribile impeto di rabbia, si era scagliato sul preteso colonnello. "Prendi canaglia!" urlò. Gli scaricò in pieno petto due palle, gettandolo a terra moribondo, poi spinse il marchese e Ben verso una porticina che s'apriva in un angolo delle pareti. "Fuggiamo per di là," disse. Nel medesimo momento alcuni kissuri armati di pistole e di jatagan irrompevano nella sala mandando urla furiose. I due isolani e l'ebreo chiusero rapidamente la porta e vedendo dinanzi a se stessi una scaletta, vi si slanciarono, montando i gradini a quattro a quattro. Quella scala, stretta e tortuosa, metteva sulla cima del minareto che già avevano osservato prima di entrare nel padiglione e che s'innalzava sull'angolo destro della piccola costruzione, dominando la kasbah del sultano e la piazza. Era una specie di torre, molto sottile, come sono tutti i minareti delle moschee mussulmane, e che a trenta metri dal suolo terminava in una cupoletta rotonda, dove il muezzin del sultano andava a lanciare la preghiera del mattino e della sera. La scaletta però invece di essere esterna era interna, una vera fortuna pei fuggiaschi, diversamente avrebbero corso il pericolo di venire subito moschettati dai kissuri che avevano invaso la piazza. Giunti alla cupoletta essi si trovarono dinanzi al marabuto che avevano già veduto affacciato pochi momenti prima. Il santone, vedendo comparire quei tre uomini armati di pugnali e di rivoltelle, e coi visi sconvolti, cadde in ginocchio, gridando "Grazia! Io sono un servo devoto di Allah! Non uccidete un santo uomo!" "Per le colonne d'Ercole!" esclamò il marchese. "Ecco un uomo che ci darà dei fastidi." "Anzi sarà per noi un prezioso ostaggio," disse Ben. "Cosa devo fare?" chiese Rocco. "Legarlo per bene e lasciarlo in pace." Il sardo si levò la larga fascia di lana rossa che gli cingeva i fianchi e legò strettamente il disgraziato senza che questi, mezzo morto dalla paura, osasse protestare. Il marchese e Ben si erano intanto affacciati al parapetto della cupola. Più di cinquanta kissuri armati di vecchi fucili a pietra, di lance, di pugnali e di scimitarre, si erano radunati dinanzi al padiglione, urlando e minacciando. Sotto la finestra giaceva un uomo colla testa fracassata: era l'arabo che aveva guidato il drappello promettendo la liberazione del disgraziato Flatters. "Che sia stato El-Haggar a ucciderlo?" chiese Ben. "Non lo so, né mi curo di saperlo, almeno per ora," rispose il marchese. "Occupiamoci invece di cercare un modo qualsiasi per salvare le nostre teste." "Signore," disse Rocco, "vengono!" "I kissuri?" "Sì, marchese, hanno atterrato la porta." "E quelli della piazza si preparano a fucilarci," disse Ben. "Ci hanno veduti." "Rocco, prendi il marabuto e minaccia di farlo cadere sulla piazza." "Subito, signore." L'ercole afferrò il santone, il quale mandava urla da far compassione anche ad una belva, lo sollevò fino al parapetto e poi lo spinse fuori tenendolo sospeso per un braccio, mentre il marchese gridava con voce tuonante: "Se fate fuoco, lo lasciamo cadere!" "Attenti alle vostre teste," aggiunse Rocco. "Il santone precipita e vi assicuro che nemmeno Maometto lo salverà."

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