Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Giacomo l'idealista

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De Marchi, Emilio 5 occorrenze

Tu non puoi, qualunque sia il tuo modo di vedere, abbandonare Celestina in mano agli altri, non puoi chiuderle l'uscio in faccia, come se fosse una donna perduta, non puoi spingerla sulla brutta strada, come purtroppo capita a queste povere figliuole senza protezione. E se la disperazione le andasse alla testa? e se in un momento di pazzia commettesse uno sproposito? Non v'è bisogno d'avere studiato per capire certe necessità. Non puoi nemmeno far cadere il castigo delle colpe altrui su tua madre, su tua sorella, sulla tua casa, a cui oggi sei piú necessario di prima. L'amore sarà, anzi deve essere una bella cosa, dal momento che Dio lo mette nel cuore degli uomini; ma il mondo non lo si mantiene soltanto coll'amore. Ci deve essere anche il dovere per fodera. E non si abbandona mica una povera madre vecchia a morire di stenti e di dolore colla scusa che un fringuello ci ha rubata l'amorosa. I tuoi crediti non pagano i tuoi debiti. Queste massime le sai meglio di me, perché se non mi sbaglio, devi averle stampate con altre parole in qualche sito: ebbene, ecco arrivato il momento di metterle in pratica. Il miglior modo per fare della filosofia, è quello di viver da uomini onesti e coraggiosi. Ad agitare dell'inchiostro ogni fedel minchione è filosofo: e se la va a parole, non c'è un prete che non meriti d'essere messo sugli altari, caro Giacomo, - soggiunse, stringendo tra le due mani massiccie lo stomaco e la schiena del nipote che, rannicchiato nel seggiolone, pareva diventato ancor piú poco - ma vedi invece quanti pochi sappiano essere quel che si dovrebbe essere. Coraggio e pazienza! Prima di morire ne avrai a vedere molte ancora delle corbellerie, e non c'è nulla di piú inutile quanto il meravigliarsi; l'ha detto anche Salomone qualche buon secolo primache si inventasse d'attaccare il picciuolo alle ciliege. Ci vuol pazienza! Lascia operare il tempo, e vedrai che tutto passa e ripassa. Per una foglia che cade ne spuntano mille. - E siccome Giacomo non sapeva che cosa rispondere, don Angelo si offrí di prender lui l'iniziativa: - Vuoi dare carta bianca a me e a tua madre per accomodare questa faccenda? Tu non ci dovrai entrare. Cosí potrai dire di non essere venuto a patti con nessuno. Lascia fare a quelli che hanno stracciate molte paia di scarpe, e ti troverai contento di non aver impedita la pace. Che cosa poteva opporre Giacomo a queste ignude argomentazioni di un senso comune cosí attaccato alla realtà delle cose? Il nostro idealista non poteva impedire che le ragioni della filosofia pratica e dell'esperienza, contro cui venivano a battere le sue illusioni, non fossero, dure, immutabili, inamovibili. Chinò la testa, chiuse gli occhi, e pregò che lo lasciassero riflettere.

Come potrei abbandonare questo campo di battaglia? Alla ragazza non dite nulla per ora di questa malattia del giovine; ma procurate di secondare le idee, che espongo nella lettera qui inclusa per lei. E poi pregate per me: mai ho avuto tanto bisogno della preghiera di tutti. Giacinto non scrive piú, ma so che mi rimprovera di non saper far nulla per lui. Non immagina nemmeno quel che mi costa di fatiche e di spasimi questa sua colpa. Dio salvi lui e me dal dover rendere i conti, Quando mi sforzo d'immaginare quel che accadrebbe intorno a noi, se uno di questi giornali nostri nemici, che combattono per l'empietà, stampasse il nostro nome nella cronaca degli scandali; quando penso al giudizio che di lui, di me, di suo padre pronuncerebbero i nostri parenti e gli amici che ci stimano, dico il vero, non mi pare quasi che sarebbe un maggior avvilimento, se Giacinto riparasse al suo errore, come si fa in altri ceti, sposando la ragazza."

. - Tu hai troppi meriti, perché il Signore ti debba abbandonare. Sono tribolazioni che ti manda per provare la tua virtú. Vedo tutta la gravità del caso e trovo che non c'è tempo da perdere. È necessario, assolutamente necessario, evitare questo scandalo, che darebbe i nostri nomi in bocca ai framassoni, che non aspettano che un pretesto per dar fuoco alle mine. Lodovico dice che quest'anno la lotta amministrativa sarà combattuta con accanimento, perché il governo, che è tutto nelle mani dei progressisti, vuol rompere la crosta clericale e moderata e sbarazzare il terreno per le prossime elezioni politiche. Converrà quindi fare un concentramento di forze dei vari partiti conservatori controla falange abissina dei sovvertitori, dei radicali, dei massoni, dei socialisti, e di tutti quelli che amano pescar nel torbido. Siamo dunque interessati a difenderci e a riparare i punti deboli della fortezza. Vuoi che io ne parli a Lodovico? Può essere che colla sua influenza morale arrivi a tempo a scongiurare il pericolo. E se vedrò il tuo Giacinto, gli farò una predica coi fiocchi. Noblesse oblige, specialmente lui, che può contare sublimi trionfi. Ragazzacci! - aggiunse, aggrottando le ciglia la bella magra, come se indagasse un mistero: - È un'altra conseguenza di questo sordido sport, che hanno messo di moda. On s'encanaille, ecco! Rimasero d'accordo che Fulvia, senza mettere fuori per il momento i nomi, avrebbe sottoposto il problema alla saggezza politica di don Lodovico, che in questo giuoco di elezioni e di partiti politici aveva sul banco la sua persona e la sua candidatura. L'esperienza insegna che in politica bisogna giovarsi specialmente dei peccati degli altri; e sarebbe stata una bella sorpresa che per il capriccio di un giovinotto ubbriaco fosse andato sommerso il lavoro paziente di dieci o dodici anni di candidatura incontrastata. La di Breno, che, non avendo figliuoli, amava anche lei, alla sua maniera alquanto nervosa, la politica, che le permetteva di passar l'inverno a Roma, non era donna da dormire in pace su questo peccato di Giacinto come aveva dormito sempre sui suoi.

Se mammà lo trovava questo rimedio, egli prometteva di metter giudizio davvero, di non toccar piú una carta, di non veder piú un bicchiere, di lasciare le cattive compagnie, di abbandonare anche la carriera militare, se era necessario, per darsi tutto a una vita di raccoglimento e di studio. E finí col suggerire il nome delle buone zie di Buttinigo, che piú di tutti dovevano sentir compassione di lui, e che avrebbero saputo procurargli i mezzi di spegnere il fuoco, prima che appiccasse l'incendio alla casa. Le buone risposte si facevano invece molto aspettare. La contessa esitava a mettere altre persone a parte di un segreto, che già si conosceva da troppi. Oltre a miss Haynes e a Fabrizio, dei quali non avrebbe potuto far senza, essa aveva già dovuto parlarne a Fulvia di Breno e lasciare che questa ne parlasse a suo marito. Per un segreto, che essa avrebbe voluto seppellire cento braccia sotto la terra, eran già troppo quattro persone condannate a tacere. Dal parlarne alle pie cognate di Buttinigo la tratteneva, oltre al naturale sentimento di confusione e di rispetto, un piú amaro risentimento verso sé stessa, sto per dire, un senso di orgoglio e di dispetto, quasi sdegnasse della sua sventura, non solo il rimprovero, ma la stessa compassione di quelle illustri ragazzone. Donna Adelasia e donna Gesumina, che avevano sempre biasimato il sistema rigido e autoritario con cui la loro nobile cognata credeva di ben educare un discendente di casa Magnenzio, non avrebbero saputo, non dico rallegrarsi, che proprio non era del caso, ma trattenersi dal vantarsi d'aver avuto ragione. Il risultato parlava chiaro. Il latino, il greco, il tedesco, l'inglese, la storia e la geografia e tutta la quintessenza del sapere voluta introdurre per forza in un corpo vivo, come si schiacciano i volumi in uno scaffale stretto, non avevano impedito che Giacinto scivolasse sulla prima buccia di cocomero. Per una madre, che si teneva in continue corrispondenze pedagogiche col canonico Ostinelli, da una parte, e col signor Lanzavecchia, dall'altra, e che consultava perfin dei libri inglesi, via, il risultato non poteva essere piú desolante. Donna Cristina, piú di ogni cosa al mondo, temeva le grandi ragioni delle anime piccine; e nella sua superiorità morale le temeva senza aver la forza di disprezzarle. Avrebbe potuto alla sua volta rimproverare le pie dame di aver voluto con arti e seduzioni segrete togliere autorità e rispetto all'opera educativa della madre; ma che le giovava ormai il discutere sopra le ragioni e sopra le responsabilità? il castigo c'era, e grande e terribile per tutti. Quando Giacinto seppe che donna Fulvia di Breno era interessata a fargli del bene, le scrisse una lunga lettera piena di suppliche e di tenerezze. L'antica amicizia, che legava donna Fulvia a mammà, aveva abituato il giovine conte a considerare la di Breno come una persona della famiglia, alla quale si possono fare le confidenze, che a una madre e a una sorella non si fanno: la chiamava, per vezzo, la zietta, e si voleva che avesse avuto per lei una poetica scalmana negli anni della prima fioritura giovanile, quando gli occhi del ragazzo cercano nella donna un'esperienza matura e non barcollante. "Dica a mammà" le scriveva "che è interesse suo e interesse di tutto il casato di nondare a questo fatto, fin troppo naturale, un'importanza maggiore di quella che ha. Dal momento che non posso sposarla, una cameriera, tanto fa che mi risparmi le noie d'un processo e dei possibili ricatti. Se non bastano quattro, dia otto, dia dieci, paghi fin dove è necessario, e mi salvi dalle scomuniche dello zio monsignore, pel quale io non sono già in troppo odore di santità. Se tarda troppo, ci sarà chi avrà tutto l'interesse a speculare su questo momento d'oblio, e ne uscirà uno chiarivari da teatro diurno. C'è a Bergamo un giornalucolo radico- massonico tre volte fallito, che mi darebbe volentieri in pasto alle belve per rifarsi d'una certa disdetta, che gli ho inflitta l'anno scorso, quando ci fui di guarnigione un mese. Si figuri con che gusto questi va- nu- pieds piglian le occasioni per far guerra al nobilume e al clericalume! Quindi piú presto si taglia, piú presto si provvede anche alla gloria di Dio. Dica e ripeta a mammà che, se mi tirano in una seccatura, se mi obbligano, puta caso, come dice il canonico Ostinelli, a lasciare il servizio, vado in Africa e non mi lascio piú vedere, come un esploratore qualunque". Donna Fulvia rispondeva, sempre in nome di mammà, che lo scoglio pericoloso era la paura di un certo cugino, che vantava dei diritti sulla ragazza. E Giacinto, di rimando: "Credo di ricordarmi questo cugino, e, se la memoria non m'inganna, non mi pare uomo da amare gli scandali. Non so fin dove si possa arrivare con lui, perché da un pezzo l'ho perduto di vista; ma, se il signor Lanzavecchia è ancora quel buon figliuolo che mangiava i miei pasticci ai tempi della nonna, non può essere né un mangiapreti, né un fanatico divoratore di aristocratici. Non ha egli studiato coi frutti d'un nostro beneficio ecclesiastico? non ha rosicchiato per molti anni il nostro pane? Se è vero che vuol bene alla ragazza che gusto deve avere di metterla in piazza? dica di me quel che mi merito; non sarei lontano dall'offrirgli delle scuse e anche delle soddisfazioni; si badi soltanto a non fare di lui un terribile alleato dei nostri nemici. Insomma, levatemi da queste angustie, che mi fanno patire le pene dell'inferno. In certi momenti mi prende una tale disperazione e un tale orrore di me che, se non fosse la fede del soprannaturale, mi farei saltare le cervella con un colpo di pistola". Eran queste frasaccie, che non lasciavano dormire mammà. Nei San Zeno non era sconosciuta questa tendenza a esaltarsi e a ricorrere a rimedi disperati. Essa per la prima si risentiva di questa disposizionedi razza in certi momenti, in cui le pareva che il sangue le facesse scoppiare la testa, che il cuore le saltasse fuori dal petto, che la terra le mancasse sotto ai piedi, che cento fantasmi la inseguissero. La sua stessa incapacità a scegliere un piano di battaglia era forse un'altra prova di un temperamento che si lasciava eccitare troppo presto e si logorava in dolorose incertezze. Ogni rumore era diventato per lei una cagione di sgomento, talché bastava che vedesse spuntare dal viale il Camillo della posta colla sacca delle lettere, per provare un tuffo del sangue, un angustioso rammollimento del suo povero cuore. Finalmente una mattina (verso la metà di ottobre), parendole che ogni risoluzione fosse migliore di quell'atroce agonia, ordinò la carrozza e andò a trovare le due sante di Buttinigo. Era una giornata piovigginosa con sparso nell'aria un primo brivido invernale. Infossata nell'angolo della carrozza, cogli occhi fissi al finestrino, passò in mezzo alle case, davanti alle siepi, lungo i filari dei gelsi, all'orlo delle vaste e brune campagne già umide di guazza, senza veder nulla, tranne il suo dolore, che, come spina velenosa, trafiggeva la sua vita. Dopo quasi un'ora e mezzo di viaggio per le strade malinconiche e fangose, che correvano verso la pianura, la carrozza voltò nel lungo viale di robinie, che mena alla villa delle due contesse. Queste abitavano nell'antichissima casa, che le aveva viste nascere e che probabilmente, se Dio teneva conto dei loro meriti, le avrebbe viste morire. In quel loro palazzone senza architettura, dai muri lividi, dalle cento persiane chiuse, color brodo, passavano le loro giornate d'estate e d'inverno in una beata agiatezza, rallegrando la vita con modeste opere di beneficenza, coi pettegolezzi del villaggio e delle anticamere, col tarocco e colle tazze di camomilla. Vestivano sempre in modo eguale come due mosche, con antica eleganza e con quel decoro che non escludeva i pizzi, gli anelli, i braccialetti, e, nelle giornate calde, perfino un po' di trasparenza, che lasciava vedere la carnagione bianca e ben conservata delle loro braccia e delle spalle rotondette. Per diritto di patronato esercitavano una tal quale supremazia sulle quattro monache dette della Noce, che un Magnenzio dei secolo XVII aveva dotate coll'obbligo di soccorrere dieci orfanelle. Queste pie religiose, che, dopo il Signore e la Madonna e i Santi, veneravano donna Adelasia e donna Gesumina quasi come il Papa, sentivano l'obbligo di coscienza di tenerle regolarmente informate, non solo di tutte leindulgenze che vanno attaccate alle vigilie, ai tridui e alle novene, ma anche del bene e del male che si diceva di tutti i preti per un circuito di dieci miglia all'intorno. L'arca santa, cioè il carrozzone foderato di stoffa color castagna colle frangie bianche, dondolante sulle ampie molle, coi passamani guarniti di fiocchi, coi terribili draghi azzuffantisi sulle portiere, usciva ab ímmemorabili due volte per settimana, tempo permettendo, ogni martedí e ogni sabato, affidato alla prudenza di Rebecchino, invecchiato anche lui come una castagna secca nella livrea, che gli faceva un guscio troppo largo. Al martedí uscivano dalla parte del bosco, facevano una piccola sosta alla Madonnina, dove scendevano a salutare Maria Santissima, comperavano dodici biscotti freschi alla bottega del Caminada, e col trotto sempre uguale dei due pesanti cavalli ritornavano a casa dalla parte del molino. Al sabato la carrozza usciva dalla parte del molino e allora i biscotti li comperavano prima di salutare Maria Santissima. Donna Gesumina, nella sua vecchia innocenza molto ben conservata, riconosceva volentieri nella sorella maggiore, che era stata fidanzata tre mesi al povero marchese Caccianino, l'autorità d'interloquire in molte cose delicate, che sfuggono all'inesperienza d'una zitella; e per parte sua, donna Adelasia, mentre si sentiva lusingata da questa affezione rispettosa e sottomessa, parlando della vecchia ragazza, usava un tono di dolce compatimento, come si fa coi bimbi che hanno bisogno di protezione. Quantunque facessero la vita in comune, si alzassero alla stessa ora, bevessero e mangiassero insieme nello stesso salotto e discutessero insieme col Rebecchino su quel che si aveva a preparare in occasione degli inviti straordinari, pure era tale la deferenza di donna Gesumina per donna Adelasia che, senza accorgersi, vedeva, pensava e parlava colla volontà della sorella; fin al punto che, se questa sentivasi la bocca amara o una trafitta in una gamba, pareva anche a lei d'aver la bocca amara e la gamba indolenzita. Questa fusione di due anime e di due corpi, consolidata da cinquant'anni di vita comune, era diventata cosí intima e omogenea che le due vite non facevano piú che un metallo solo, il quale, toccato, dava un suono solo, perché le vibrazioni dell'una non potevano essere che le vibrazioni dell'altra. Non era possibile, per esempio, che una cioccolata avesse fatto peso all'una e non all'altra; o che l'una sentisse il bisogno di prendere due dita di magnesia calcinata, senza che questo bisogno non ci fosse anche dall'altra parte. Se non oggi, avrebbe fatto bene domani. Le due signore stavano nel gran salone a pian terreno verso la corte, che serve di galleria ai ritratti degli illustri antenati, dove passavano gran parte delle loro tranquille giornate. Donna Gesumina, per rompere la tetraggine del tempo, ripeteva sul pianoforte le vecchie variazioni sul "Carnevale di Venezia", ch'era stato il suo piccolo trionfo all'Accademia finale nel Collegio delle dame inglesi, la bellezza di quarant'anni fa; quando donna Adelasia che ricamava a un telaio presso la vetriata, sorse improvvisamente a dire: - Guarda un po', Gesumina, chi arriva con questo tempo. La carrozza di donna Cristina entrava in quel momento nel cortile sotto una pioggia fitta. Le due dame, che non aspettavano anima viva in un giorno come quello, quando ebbero riconosciuto nella signora elegante, che discendeva, la bella figura della loro cognata, mandarono una esclamazione sola: - Che cosa può essere accaduto? E ancora piú si sgomentarono quando, dal passo incerto, dal pallore, dall'affanno con cui la contessa entrò in sala, capirono che qualche cosa di grosso era nell'aria. - Donna Cristina, con questo tempo? non è mica successa una disgrazia . Donna Adelasia invitò la parente a prendere posto nell'angolo a destra, dove essa soleva ricevere il lunedí e il mercoledí. Donna Gesumina riceveva ogni giovedí nell'angolo a sinistra. Le piccole differenze d'opinione e di metodo potevano far nascere delle diffidenze, ma scomparivano nel gran rispetto che le due dame avevano per la virtú di donna Cristina di San Zeno, nipote d'un vescovo, una delle piú specchiate signore della buona nobiltà; e quand'anche maggiori e piú crude fossero state le loro diffidenze, sarebbero scomparse allo stesso modo nel cerimoniale largo e ospitale, con cui le vecchie dame continuavano le tradizioni della casa con quel bel decoro che va cedendo il posto, pur troppo, a un borghesismo senza elevatezza e quasi senza dignità. Le tre signore, dopo aver ben osservato che le porte fossero chiuse, rimasero una mezz'ora in vivo e segreto colloquio. Quando la contessa ebbe esposto il caso, che l'aveva condotta a Buttinigo, con quella delicatezza di parole che il rispetto a sé stessa e alla religione delle parenti esigeva, tornò a piangere cosí amaramente da far temere una crisi di nervi. Donna Adelasia afferrò subito la gravità della disgrazia e sospirò una breve orazione; e, dopo aver congiunte le mani due o tre volte in atto di scongiuro, vedendo che la contessa era in procinto di perdere le forze, si mosse, levò colle mani tremanti da uno stipo intarsiato la boccetta dell'acqua di cedro, ne riempí tre bicchierini di cristallo, e insistette perché ne bevesse anche la Gesumina. - O Madonna beata, e ci sarebbe forse già il carro davanti ai buoi? - chiese la maggiore delle due sorelle. Donna Gesumina, che nella sua semplicità di spirito non poteva entrare in tutta la gravità di questi buoi e di questo carro, volendo con una frase interrompere quel pianto nervoso, che le straziava il cuore, provò a dire: - Non si potrebbe intanto far fare una bella novena alla Madonna? - Taci, taci - rimproverò con fare tra il burbero e il compassionevole la sorella maggiore, accompagnando le parole con un gesto che pareva dire: - Ci vuol altro che novene adesso! Gesumina capí che non era il suo posto, e si ritirò in disparte per permettere alle due dame di parlar piú liberamente. - Se Giacinto fosse un servitore - riprese donna Adelasia, interpretando il lungo silenzio della contessa come una confessione - se fosse il figlio d'un fattore, o che so io? un esercente, un professionista, il suo dovere, anche davanti alla nostra santa religione, sarebbe di sposare la ragazza, coûte qui coûte.-. Chi è causa del suo mal pianga sé stesso, ha detto Metastasio; ma nella sua condizione sociale il caso è piú difficile: un conte non può mica sposare una cameriera. - Sicuro, Madonna benedetta! - fece dal suo cantuccio donna Gesumina, che cominciava a capire qualche cosa. - Noi abbiamo dei doveri non solo verso i vivi, ma anche verso i morti e verso quelli che verranno. Per la colpa d'un povero ragazzo, che sarà stato tirato nelle tentazioni, non si possono sacrificare le tradizioni e il decoro di due antichissime famiglie. Non si scherza! Che cosa dirà monsignor vescovo e nostra cugina monaca .? - Che ora voglion nominare superiora! - completò Gesumina, che pareva un'anima smarrita nello spazio vuoto del salone. - Ci sono doveri e doveri, non è vero, donna Cristina? - insinuò donna Adelasia. - Ho io mancato al dovere di madre? - uscí a dire con appassionata tristezza la contessa, a cui la parola dovere risvegliò quasi nell'animo un acerbo risentimento. - Fu appunto per educare mio figlio a sentimenti elevati di virtú e di dignità che ho combattuto tutta la vita. La nobiltà ha i suoi doveri, sí, donna Adelasia; ma nessun dovere si compie bene, se manca la forza morale e l'educazione della mente. Se qualche volta ho potuto sembrare rigorosa verso questo disgraziato, era per tentare di sottrarlo con tutte le mie forze alla decadenza fatale che ci perseguita e al contagio degli oziosi suoi pari. Sono stata troppo superba e Dio mi ha castigata. Il tono doloroso, non privo di dignità, col quale donna Cristina pronunciò queste parole, sgomentò non poco le due vecchie zitelle, che, incapaci dientrare colle loro piccole cuffie in un concetto superiore, si affrettarono a chiedere mille perdoni, dimostrando che ci doveva essere stato qualche malinteso nelle parole. - Io non ho detto, cara contessa, che qualcuno abbia mancato al suo dovere. Parlavo dei doveri del nostro ceto . - Che cosa si può fare per salvare Giacinto? - chiese la madre, stendendo la mano in segno di pace a donna Adelasia. I progetti messi innanzi e discussi furono molti. Prima d'ogni cosa, bisognava fare in modo che il conte non ne sapesse nulla, perché nelle condizioni precarie della sua salute, sarebbe stato come un dargli una pugnalata. Non meno necessario era di tener celato il disonore della casa a monsignor vescovo e a tutti i San Zeno, che avrebbero potuto disinteressarsidel povero ragazzo e danneggiare col suo anche l'avvenire di Enrichetta. Infine la prudenza voleva che la ragazza fosse allontanata subito, con un bel pretesto, dalla casa, dove la sua presenza diventava sempre più pericolosa e occasione di scandalo; e poiché un pretesto lo si trova facilmente, sarebbero venute esse stesse al Ronchetto a chiedere la ragazza in prestito per qualche tempo colla scusa di farsi aiutare a finire un certo padiglione di seta, che avevano promesso all'altare della Madonna per la prossima festa del centenario. Anzi, per semplificare di piú l'impresa e per non suscitare inutili discorsi, al prossimo martedí l'avrebbero aspettata alla Madonnina della Noce, dove sarebbero andate colla carrozza a prenderla. E rimasero in quest'accordo.

Celestina, rimessasi da una lunga febbre, che ne aveva scossa e indebolita la volontà, si lasciò persuadere ad abbandonare la casa della sua disgrazia, senza avvertirne Giacomo. Per rendere questa partenza piú naturale, una mattina la contessa fece attaccare assai di buon'ora, e, scesa con Celestina, lasciò detto al conte che sarebbero tornate per l'ora della colazione, dopo aver fatte certe loro divozioni alla Madonnina della Noce, dove si celebrava la festa centenaria. Partirono loro due sole con un tempo limpido e fresco, che pareva un sorriso della natura. Tutta la strada quanto fu lunga, dal Ronchetto alla Madonnina, non si dissero che poche parole e a lunghi intervalli: il tumulto dei pensieri impediva di parlare. Quando ebbero passato l'Adda sul traghetto d'Imbersago, entrambe mandarono un piccolo sospiro e si strinsero la mano. Quel fiume, che restava indietro, voleva dire per la ragazza tutta la sua bella vita perduta per sempre; per la signora invece una prima battaglia vinta. - Addio, povero Giacomo, - fece la misera, con voce rotta, ma senza piangere. - Procura di essere buona e rispettosa verso queste signore, che hanno promesso di tenerti sotto la loro protezione, e vedrai che il Signore ti ricompenserà. - Cosí cercò di consolarla la contessa con parole, in cui si sarebbe già potuto sentire un tono di minore angustia. Al trotto serrato dei due cavalli, che sentivano l'energia del riposo e la sferza dell'aria mattutina, la carrozza, dopo aver risalita la riva sinistra dell'Adda, prese a correre sulla strada provinciale di Bergamo. Celestina vide diminuire e restar indietro le note montagne, e confondersi sotto il nuovo orizzonte la linea delle sue colline, che andavano rimpicciolendosi in una malinconica distanza, mentre le campagne a destra e a sinistra della strada si facevan piane, uguali, costeggiate da piccole siepi polverose, non interrotte che dalle piante smozzicate dei gelsi. Traversarono borgate ignote, quasi ancora deserte in quell'ora mattutina, dalle quali non usciva che il suono fuggente di qualche incudine, o il rombo d'un filatoio, che si accompagnava a una mesta cantilena di lavoratrici, o l'abbaiare di un cane, che uscito da un cascinale, inseguiva un tratto la carrozza; poi di nuovo ricominciava la strada bianca e si continuava a correre per luoghi sconosciuti, che suscitavano nell'animo superstizioso della giovine il sospetto che la menassero, come si dice, a perdersi. "Addio, povero Giacomo ." ripeteva in cuor suo a lontani intervalli, concentrando in questo pietoso ritornello tuttoquello che sentiva di soffrire e non era in grado di esprimere. E come se al rotolare delle ruote, che la menavan via, si svolgesse il filo delle sue memorie lontane, le passavan negli occhi chiusi le Fornaci, la vignetta, lo zio Mauro, la zia Santina, le stesse scontrosità un po' odiose della Lisa, che non la poteva vedere, ma che avrebbe avuto pietà di lei, se fosse andata a cercarle aiuto contro questi mali, che la perseguitavano; oh, potevano menarla lontano trecento miglia e seppellire il suo corpo trenta braccia sotto la terra; il cuore non si sarebbe mai mosso da quei siti. Povero Giacomo! come avrebbe ricevuto il gran colpo? avrebbe creduto alla sua innocenza? Oh sí, ma non avrebbe voluto piú rivederla. Né lei avrebbe osato piú tornargli davanti, mai, dal momento che non poteva piú essere quella di prima. Oh gli assassini che cosa avevan fatto di lei! Soltanto a ripensare quel che avrebbe potuto essere per il suo Giacomo, il cuore che pareva morto, ridestavasi con impeto doloroso; lei sarebbe morta un'ora o l'altra per uno di questi schianti. E doveva questa vergogna toccare al piú santo degli uomini, al suo Giacomo, al suo angelo . Osservava con occhio inerte le cose che passavano nella via, dicendo di sí con un movimento automatico del capo tutte le volte che la contessa rinnovava una raccomandazione, mentre il pensiero sprofondavasi con un senso quasi di amara voluttà nell'immaginare quel che non poteva piú essere. - Glielo dirà proprio che sono stata sorpresa? che sono innocente? - balzò una volta a dire, afferrando con improvviso ardimento la mano della signora. - Te lo giuro - rispose questa con sincera franchezza. - E gli dica che cerchi di perdonare anche lui, - soggiunse la poverina, umiliandosi di nuovo nell'angolo della carrozza. Un brivido di commozione passò nel cuore di donna Cristina Magnenzio a quelle buone parole, che sollevavano un'anima semplice alle sublimi altezze della bontà e del perdono, mentre un'altra anima vicina era in via di godere, anzi pregustava già gli amari sapori dei male che trionfa. Socchiuse anch'essa gli occhi un istante per non vedere questa abbagliante seduzione di una virtú, che si eleva fino alla divina aristocrazia della bontà e del sacrificio, e ricompensò la carità della giovine collo stringerle a lungo la mano ardente tra le sue mani inguantate, come se volesse con quel lungo contatto comunicarle la sua tenerezza, e farle sentire con quell'atto materno tutta la forza di una promessa che non aveva parole per parlare. Col cuore immiserito, cogli occhi immobili verso le siepi, donna Cristina cercò di asciugare, con un battere frequente delle palpebre nell'aria viva, il velo di lagrime che le coprí le pupille. Un dolore crudele e duro la strozzava alla gola e al petto. Un quarto d'ora dopo, Giosuè arrestò i cavalli sopra un piazzaletto erboso ombreggiato da antichi platani, che stava davanti alla vecchia chiesa della Madonnina. Il Rebecchino venne ad aprire la portiera. - Siete qui? - chiese la contessa - chi c'è? - Donna Adelasia aspetta in chiesa. La contessa andò avanti, e aspettò Celestina sulla porta. Entrarono nella chiesetta tutta parata a festoncini bianchi, azzurri, con frangie d'oro, mentre un prete stava celebrando la messa davanti a molte donnicciole. Donna Adelasia dal suo banco riservato fece un segno, e si ritirò per lasciar loro il posto sulla predella. Celestina si trovò in mezzo alle due signore nel momento che le quattro monache del coro intonavano un'orazione flebile e lamentevole, su cui la voce grossa del prete correva col rumore d'un carro incorsa. Celestina girò gli occhi intorno e si sentí una gran voglia di gridare. Che avevano fatto di lei? che luogo era questo? che cosa dicevano queste voci lamentose? La contessa, che in questo supremo istante non cessava mai dal sorvegliarla, volle che sedesse e le passò con una soave carezza una mano sui capelli. E quando sonò il campanello dell'elevazione la signora e la cameriera, inginocchiate sulla stessa predella, accostarono la testa a pregare insieme fervorosamente. Quindi donna Cristina le disse piano: - Non voglio far pensare male a casa. Ti lascio con donna Adelasia. Verrò a trovarti presto, appena gli avrò parlato. Coraggio e fiducia nel Signore . Celestina strinse con la mano convulsa e irritata un lembo del vestito della contessa, e, fissandola con occhio spaventato, la supplicò di restare ancora. La signora aspettò ancora un istante: e quando donna Adelasia voltò il viso dalla sua parte, le fece capire che il momento doloroso era venuto. La vecchia dama circondò col braccio la vita della giovine, come se l'invitasse a ripetere una preghiera, e lasciò in tal modo alla contessa agio di sciogliere il vestito dalle dita tenaci. Il corpo di Celestina quasi si sfasciò sul banco. Donna Cristina uscí dal tiepore e dalla religiosa penombra della chiesuola nell'aria cruda e viva, fece un segno quasi marziale col guanto a Giosuè, che si accostò alla carrozza. Essa vi entrò, il Rebecchino chiuse la portiera e i cavalli partirono a corsa. L'emozione, acerba come un rimorso, le impediva di piangere, e gli occhi, quanto fu lungo il viaggio, restarono immobili in una stupefazione insensibile, coperti di un velo di lagrime cristallizzate.

Teresa

678713
Neera 3 occorrenze
  • 1897
  • CASA EDITRICE GALLI
  • prosa letteraria
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Che cosa aveva potuto indurre quello studente così poco studioso ad abbandonare una vita che sembrava oramai entrata nelle sue abitudini? Si susurrava misteriosamente, a Parma, di un amore segreto. Al di qua del fiume, il mistero si diradava di giorno in giorno: non era nemmeno piú un mistero. Tutti avevano veduto Orlandi nella via di San Francesco, e ne indovinavano il perché. Le ragazze non potevano darsi pace a pensare come mai il piú bel giovane dei dintorni si perdesse con quella Caccia, la quale non era né bella, né appariscente. E la guardavano con curiosità invidiosa, quando usciva dalla messa, facendola passare dalla testa ai piedi, commentandola sarcasticamente, a parole brevi, acute, saettanti. - È però simpatica - disse una volta Luzzi rispondendo alle sue cognatine. - Simpatica! - esclamò l'ultima delle Portalupi - ecco una parola inventata per contentino delle donne che non hanno nessuna bellezza. In casa non si sapeva ancor nulla, ma la pretora continuava a ricevere le confidenze di Teresina. - Quando fa conto di sposarti? - Appena finita la pratica. - Dove pratica? - Dal primo avvocato di Parma, il Sandri. - Tua madre non s'è accorta di nulla? - Non credo. - Diglielo. Ma questo era uno scoglio. Teresina non sapeva da che parte rifarsi; preferiva aspettare in silenzio la domanda formale. Tutto un anno passò, tranquillo in apparenza, agitato per Teresina che divideva i suoi giorni in due categorie ben distinte; quelli in cui aveva notizie di Orlandi, e quelli che scorrevano senza notizie. Ogni mattina si levava pensando: avrò lettera quest'oggi? E che pene, quanti artifizi, che lungo esercizio di ipocrisia per trovarsi sempre pronta alla finestra, quando passava il procaccio. Erano diventati amici; egli la salutava toccandosi il berretto, con un sorriso indulgente di persona pratica, di buon uomo senza malizia; lei diceva grazie, in fretta, lanciandogli un'occhiata riconoscente. E poi correva a nascondersi col suo tesoro. Ma spesse volte il procaccio non aveva nulla per Teresina; passava dall'altra parte della via, ammiccando, con un cenno impercettibile del capo. Era sempre un gran dolore, uno sgomento come se le mancasse la terra sotto i piedi; lo seguiva collo sguardo, allora, sembrandole impossibile che in mezzo a tutte quelle lettere non ve ne fosse una per lei. Di chi erano quelle lettere? Chi scriveva? Chi riceveva? Forse era accaduto uno sbaglio. La lettera di Orlandi giaceva in fondo alla sacchetta, dimenticata; forse peggio, il procaccio l'aveva recapitata per errore a qualcun altro. Quando questo dubbio si impadroniva di Teresina, era come se avesse la febbre. Non vedeva, non capiva piú niente. Passava l'ora della colazione, quella di pettinarsi, di vestirsi, di lavorare; passavano tutte le ore, lente, orribili. Teresina stava male; il cuore le doleva da scoppiare, oppure rallentava le pulsazioni, come se dovesse mancarle la vita ad un tratto. E dissimulava sempre, impassibile, girando per la casa come un automa, finché verso le quattro il procaccio tornava a passare colla seconda distribuzione; Teresina, che lo aveva aspettato tutto il giorno, lo chiamava, ansiosa, volendo assicurarsi che non avesse portata altrove la lettera di Orlandi. No, egli giurava che la lettera non v'era. Il cuore di Teresina sembrava sollevarsi un poco a questa dichiarazione; cessava il timore, ma una malinconia sottile vi subentrava, un senso di isolamento, d'abbandono, come se il mondo si sfasciasse intorno a lei, ed ogni cosa viva allontanandosi, ella rimanesse sola in un gran buio freddo. Due o tre volte, si erano trovati alle undici di sera, al solito convegno; e poiché il loro amore toccava l'apogeo dell'ebbrezza ideale, quegli incontri erano pieni di soavità, pieni d'illusione. Orlandi aveva quella tenerezza delicata dell'uomo sinceramente innamorato, che nasconde gli artigli non per ipocrisia, ma per un trasporto momentaneo dell'anima sul corpo. Teresina aveva l'abbandono fidente della donna che non provò ancora i disinganni. Varcavano entrambi il periodo piú bello della passione, la zona fulgida senza macchie. Lui non aveva detto tutto, lei ignorava molto; e, fra queste due lacune, l'immaginazione si stendeva all'infinito. Attraverso la inferriata che li separava, essi cercavano i maggiori punti di contatto, involontariamente, spinti da una irresistibile attrazione; ed era la fanciulla che, nella sua ignoranza, si offriva; era lei che avvicinava il volto, che tendeva le labbra, senza rossore, senza paura; meravigliata che il giovane si ritraesse in certi momenti, e sembrasse freddo, proprio quand'ella lo stringeva piú ardentemente. La natura, nella sua violenza e nella sua purezza, parlava a Teresina, ed ella accoglieva il piú sacro degli istinti, non deturpato da alcun pensiero cattivo. Era buona, era candida, amava; amava quel giovane che doveva essere suo marito; e, come metteva i suoi trasporti a' piedi di Dio nelle sue fervide preghiere, così non li celava a lui, ignorando le imposture della modestia, le reticenze della civetteria. Da quei colloqui ella usciva con un ricordo di felicità, che bastava a renderla felice per parecchi giorni di seguito. La sua gioia non aveva ombre. Non dubbi sulla fedeltà di Egidio ch'ella sentiva tutto suo, non ansie per l'avvenire. Unica pena, la lontananza. Ma anche questa era temporanea. Otto, dieci mesi ancora, poi Orlandi l'avrebbe chiesta in isposa, e allora tutte le porte si sarebbero aperte al fidanzato. Non poteva soffermarsi a lungo su questo pensiero, tanto la prospettiva era abbagliante. Moglie di Orlandi, col suo nome, col diritto di amarlo, colla sicurezza di essere amata, e per sempre! Ella portava nell'amore l'esaltazione fatidica dei santi per la loro fede; si sentiva chiamata, guidata da una mano invisibile. Accordi celesti risuonavano dietro di lei; sognava la sua unione con Egidio, come le vergini, chiuse nei chiostri, sognano di unirsi al Signore, misticamente, nell'elevamento dell'anima che assorbe la materia, e la trascina; arse dal bisogno di trasfondersi, arse dallo struggimento femminile che le spinge tutte, religiose ed amanti, a donarsi sopra un altare; a farsi schiave dell'uomo o schiave di Dio. Questo profondo desiderio delle catene che tormenta le belle anime di donna, ha in sé una voluttà straordinaria; esse attingono nella debolezza quelle gioie medesime che vengono all'uomo dalla forza, e trovano nel cedere una ebbrezza ancor maggiore che gli altri non trovino nel conquistare. Un altro sentimento, germogliato dall'amore, Teresina lo provava in una specie di rispetto nuovo per la propria persona. Si lavava con saponi odorosi, curava le mani con una attenzione minuta, accorgendosi per la prima volta di avere delle belle manine, volendo renderle ancor piú belle, piú morbide ai baci. - Non capisco, - diceva la signora Soave - spariscono i limoni dalla dispensa come fossero panetti. E le gemelle, ad una voce: - Teresina li adopera tutti per le sue unghie. Nel suo innocente desiderio di piacere, diventava raffinata. Non toccava né aglio, né cipolle, i giorni in cui sapeva di dover parlare con Egidio; oppure, temendo di portar con sé qualche odore di cucina, coglieva delle foglie di geranio, e se le metteva in petto. Non si trovava mai pulita abbastanza; avrebbe voluto olezzare come un fiore, per lui. La maggiore delle Portalupi si faceva sposa, non col sotto-prefetto, con un impiegatuccio di Cremona. Le orfanelle cucivano il corredo, e Teresina, che conosceva la direttrice del pio ospizio, andò un giorno a vederlo insieme alla pretora. La sola parola "nozze" le faceva battere il cuore. Si sentiva trascinata con una curiosità ardente verso quel corredo che le orfane eseguivano sopra modelli fatti venire appositamente da Milano. Le povere ragazze, un po' stupide, molte ignoranti, tutte brutte, spiegavano la biancheria, mostrando i ricami di una pazienza inaudita. La direttrice, vecchia zitella, coi peli sul mento, colla faccia indurita nell'ascetismo, toccava colle sue mani scarne la batista pieghevole, passando il lembo del grembiale sotto i trafori, per dar loro maggior risalto. - Questa ghirlandina di viole - disse la pretora. - E questo punto di Venezia - soggiunse Teresina, indicando una camicia, la cui metà superiore era tutta di trine trasparenti. La direttrice la spiegò interamente, volendo mostrare la diligenza delle sue allieve. In fondo alla camicia, dopo l'orlo, correva una gala di trine arricciate, di una leggerezza ideale. Teresina interrogò cogli occhi la sua amica. - Sono bizzarrie ... sai, in alcune circostanze. La direttrice, rigida, non comprendendo nulla all'infuori del lavoro, teneva la camicia alta, spiegata come una bandiera. Intorno a lei, le orfane cogli occhi imbambolati, le bocche aperte, guardavano in silenzio. - E tutte le camicie senza maniche? - esclamò Teresina. - Oh! - fece la direttrice con accento pudibondo - quelle per la notte no. - Quelle non si portano - mormorò la pretora. - Che dici? - sussurrò Teresina a bassa voce, sgranando gli occhi. - Dico che quelle orribili camicie alte fino alle orecchie, colle maniche lunghe, tutte a pieghe sul petto, coi manichini ed il collo rivoltati, grazie a Dio, rimangono sempre come mostra nei corredi. In pratica servono meglio le altre. La direttrice si morse le labbra, dura e corretta, prendendo un pacco di fazzoletti bianchi, e poi un altro a colori assortiti; crema, roseo, azzurrino, lilla pallido. Tutte quelle tinte giovanili, messe insieme, sembravano un mazzo di fiori, e rallegravano la bianchezza uniforme della tela, ricomparendo nei nastri delle cuffiette, negli sbuffi delle camiciuole da mattina. La fanciulla osservava tutto minutamente, colla testa bassa, attenta, volendo ritenere i disegni dei ricami, per copiarli, pensando con un po' di rammarico che ella non avrebbe mai tutte quelle meraviglie. - Abbiamo anche un corredo da bambini già pronto; desiderano vederlo? - Di chi è? - Della signora Luzzi. - Oh! la sorella. - Appunto. - È dunque vero? ... Si è fatta aspettare alquanto, eh? La direttrice non rispose. Ella non aveva l'obbligo di conoscere queste cose. La pretora diede un'occhiata superficiale al corredino. Ne erano già passati tanti per le sue mani! ed alla fanciulla che lo andava esaminando disse: - Per questo hai tempo. Teresina arrossì. - Ne facciamo dei piú semplici all'occorrenza, - soggiunse la direttrice, la quale seguiva il filo delle sue idee, impassibile - e prendiamo tutto dalle nostre clienti, la tela, i merletti ... - Bene, bene. - Si fa per queste povere ragazze che non hanno né padre né madre. Teresina guardò le orfane schierate in fila, e le parvero tutte così brutte che ne provò una compassione grandissima. Certo, nessuna fra esse avrebbe conosciuto l'amore; e, senza amore, a che cosa si riduce la vita di una donna? - Poverine! La direttrice, credendo quella parola pietosa fosse diretta alla povertà delle sue allieve, si affrettò a soggiungere: - Qui però stanno bene; il cibo è sano, il lavoro non eccessivo. Quando escono, se hanno imparata un'arte, è tutto vantaggio loro. La pretora approvò in silenzio, col capo. Teresina non era convinta di quella fortuna. Pensava ad Egidio, a' suoi sguardi di fuoco, alla stretta appassionata delle sue mani. A poco a poco si staccò dall'ambiente in cui si trovava. La sua amica parlava, in piedi, colla direttrice, ed ella, interrogata, diceva: sì, no, bello sorridendo o crollando il capo, come una macchina, senza capire. Dentro a lei, intorno a lei, un'onda di pensieri la cingeva al pari di una nube, isolandola. Erano frasi tronche, un moto delle labbra, un guizzo, un silenzio, un sospiro ... L'ultima volta che si erano trovati insieme, egli aveva detto "le mie manine" baciandole; e, ripensando a quella sera, Teresina ripeteva "le mie manine" cogli occhi socchiusi, le braccia lente, stringendosi da se stessa la mano. Si scosse quando la direttrice la salutò, ed a quel saluto fecero eco le orfanelle, in coro. Ma fuori, nell'ampiezza delle vie deserte, nel verdeggiamento degli alberi, sotto il cielo digradante in pallori da opale, la seguì quell'onda dolcemente incalzante, quell'assorbimento in un pensiero unico che tiranneggiava tutti gli altri. Alla sera, intanto che si stava spogliando, rivide la fantasmagoria delle trine, della batista ricamata, dei nastri cerulei e color di rosa. Sospirò lievemente, con un'ombra di malinconia sulla fronte, e provò ad arrotolare le maniche della sua camicia, in alto sulle spalle, per giudicare l'effetto delle camicie senza manica. Concluse ch'ella non avrebbe mai osato portarle; ma si pose a letto turbata, assalita da tentazioni che la tennero desta per molto tempo. Aveva ventidue anni, si trovava nel pieno rigoglio della giovinezza; pura, non insensibile. Il mistero della vita incominciava a farsi strada nel suo cervello; ma non avendo ancora avuta una rivelazione brutale, il fatto restava sempre soggetto all'idea. Sentiva, non sapeva; e queste sue sensazioni tentava nascondere come una colpa, appunto perché ignorava che fossero le sensazioni di tutto il mondo. Non le passava neppure per la mente che sua madre avesse potuto amare così, neanche la sua amica, né alcuna delle persone di sua conoscenza. A tutti costoro, che amava da anni, cui era legata per vincoli d'abitudine e di confidenza, non avrebbe palesato uno solo de' suoi ardori. Un pensiero che l'assaliva ogni sera, nella solitudine del suo lettuccio, nella infinita dolcezza del buio, era questo: Che cosa avrebbe fatto Egidio appena si fossero sposati? subito, il primo momento? Ella non dubitava punto che l'avrebbe abbracciata. Aveva letto qua e là, di amplessi amorosi, ricordava certe frasi, certi lembi di conversazione e le sembrava che l'abbraccio, senza l'inferriata di mezzo, dovesse essere la maggior delizia dell'amore. Chiudeva gli occhi, e si sentiva scorrere un brivido per tutto il corpo. Però, se il curato di San Francesco tuonava qualche volta contro le passioni peccaminose, se nel suo libro da messa leggeva gli anatemi scagliati contro la carne, era assalita dagli scrupoli. Si credeva allora una grande colpevole, e arrossiva nel suo lettuccio, al buio, raggomitolandosi tutta nella camicia con un pudore bizzarro. Un altro pudore strano, inesplicabile, le era venuto ne' suoi rapporti col fratello. Aspettava le visite di Carlino con ansia grandissima, per avere notizie di Orlandi, per sentirne parlare; ma non correva piú a' suoi baci; non cercava le sue carezze; non gli si metteva vicino vicino, come una volta, per fiutare l'odore del sigaro o per sfiorargli la barba nascente. Se egli la prendeva per la vita, scherzando, si scioglieva come sotto l'impressione di un malessere, quasi di una ripugnanza fisica. Si affrettava poi a correggerla con una parola affettuosa, ma una specie di acredine le restava nel sangue. In una di queste occasioni, Carlino le disse: - Come sei selvaggia! Se fai sempre così non potrai piacere molto agli uomini. Ella rimase un po' mortificata, temendo di non avere grazie sufficienti. Tuttavia sapeva bene che con Egidio non sarebbe stata selvaggia; al contrario, era sempre tormentata dal desiderio di accarezzarlo, ed uno de' suoi piaceri piú intensi, quando sarebbero maritati, doveva essere quello di abbracciarlo e baciarlo come faceva coll'Ida. L'Ida se la prendeva sui ginocchi e, incominciando dai capelli, le baciava ridendo tutto il volto, fino al mento, fino al collo, fin dietro nella nuca dove spuntavano i riccioli ribelli. Egidio però non lo poteva prendere sui ginocchi, e l'idea che si potessero invertire le parti, le procurò una delle veglie piú agitate.

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- disse una delle gemelle, indispettita di aver dovuto abbandonare il ballo così presto. Teresina rallentò il passo, ma non rispose. Era la prima volta che si trovava in istrada a quell'ora; e nella condizione di esaltamento in cui l'aveva posta l'improvviso incontro di Orlandi. avrebbe voluto camminare sola nel buio, nel fresco, nel silenzio. La sua calma fantasia di fanciulla intravedeva con meraviglia i contorni di un mondo fantastico. Le case ben note, le vie tante volte percorse, le apparivano sotto un aspetto nuovo; ma, piú ancora degli oggetti materiali, era il mistero della notte che la colpiva; quel gran silenzio freddo, quella purezza dell'aria e del suolo, che si ritemprava nella assenza degli uomini, quasi la natura volesse riprendere fra le tenebre i suoi diritti violati ogni giorno sotto la luce del sole. Mai ella aveva sentito così vivo l'istinto della libertà. Senza accorgersene riprincipiò a correre, illudendosi di essere padrona di se stessa, provando, in questo inganno, una delle gioie piú inebbrianti della sua vita. Ma la voce dell'esattore chiamò in falsetto: Teresina! - e l'incantesimo cadde. Il padre, la madre, la famiglia, il decoro, le consuetudini, tutte le catene della sua esistenza ripresero il loro posto; ella trasalì proprio come se un anello di ferro le avesse serrato i polsi. Solamente quando fu nella sua camera, prese a considerare con una freddezza, relativa, la proposta di Orlandi. Egli le aveva detto in fondo al giardino e si capiva che, dopo gli scandali occorsi, non volesse esporla alla finestra che dava sulla via. Il giardino confinava con un viottolo disabitato: ma la muraglia era alta; come avrebbero potuto parlarsi? E sopratutto che cosa le avrebbe detto? Da un anno Teresina dormiva sola in camera; le gemelle le avevano collocate, insieme all'Ida, nell'ampia camera di Carlino. Ebbe dunque tutto l'agio di riflettere e di pensare le cose piú stravaganti, così come le piú comuni, appoggiata alla sponda del letto. Quando vide che la candela, quasi interamente consumata, stava per abbruciare la carta, si spogliò rapidamente l'abito di gala, mise il solito di casa, e, soffiando sulla fiamma, si buttò così mezzo vestita sul letto per aspettare l'alba. Verso le cinque la finestra, imbiancandosi, le diede avviso del giorno che spuntava; ed ella fu meravigliata di doversi levare con uno sforzo, meravigliata di sentire il corpo in un momento come quello. Tutte le ossa le dolevano. Si pose sulle spalle uno sciallino nero, e discese le scale rabbrividendo, sbadigliando per convulsione, con un gran vuoto al posto dello stomaco. Attraversò il giardino in mezzo agli alberi secchi, sul viale bianco di brine; dando un'occhiata a destra nel cortile sfiancato della casa del pretore, ed a sinistra alla casina di don Giovanni, che sembrava sprofondarsi sotto un boschetto di magnolie sempre verdi. In fondo, sul muro di cinta, dove il fico stendeva i suoi rami nodosi, Orlandi era alla vedetta, pronto, e appena scorse la fanciulla, discese. Teresina fu sorpresa, non dell'apparizione, ma di non aver pensato prima, che quella era una via praticabilissima per un amante ardito. Si abbracciarono subito, senza parlare, quasi temessero di perder tempo. La fanciulla che aveva preparata una frase dignitosa, si trovò avvinghiata al collo di Egidio, e lo baciava sulle guancie, sulle orecchie, alla radice dei capelli, stringendosi a lui nel caldo delle sue braccia, colla sensazione di un benessere che affogava qualsiasi ragionamento. Non aveva piú freddo, non era piú stanca; tutta la sua persona era appoggiata, abbandonata su quella del giovane, in un oblìo completo di tutto quanto non fosse lui. Lo stringeva gradatamente, sempre piú forte, coll'incoscienza dell'istinto, avendo una sola idea chiara e precisa: Egidio nelle sue braccia. Egli le prese la testa, e rovesciandola indietro con un movimento brusco, la baciò sulle labbra. - Vieni con me, fuggiamo. Il suono della voce riscosse Teresina. Si allontanò dal giovane, tenendogli solo le mani sulle spalle, guardandolo inebbriata. - Vieni con me. Tuo padre non acconsentirà mai alle nozze finché non vi sia costretto. Ti condurrò a Parma, dalle mie sorelle: vuoi? Teresina non poté sapere se egli fosse venuto a trovarla con quel progetto, o se forse gli era sorto improvvisamente nel delirio del primo amplesso. Però sentiva che Egidio era sincero, e non mai come in quel momento comprese di essere amata. Ma intanto che questa certezza le innondava il cuore di una gioia immensa, come bilancia che da una parte ha raggiunto la misura, balzava dall'altra parte il terrore di far cosa sconveniente per una onesta ragazza. - No… no… non posso. Ho promesso a mia madre. - Che hai promesso? - Di non darle dispiaceri… - E di rinunciare a me? - Oh! questo no. Un lieve imbarazzo si dipinse sulla fronte di Orlandi. Circondandole col braccio la vita, se la tirò accanto, e: - Ragioniamo. Posso io presentarmi a tuo padre? - Sì ... quando hai un impiego sicuro e conveniente. - Ecco appunto quello che non ho. - Ma mi avevi scritto… - Il progetto non andò bene. Io vivo ora alla peggio, scrivendo per l'uno o per l'altro giornale. - Ma perché ti sei dato al giornalismo? - Chi lo sa! Una passione come un'altra, e che non esclude le altre ... La strinse dolcemente, cercando di nuovo la sua bocca, con un sorriso d'uomo felice. Per cinque minuti non parlarono. - Ma tu hai freddo ... Orlandi si levò il mantello e ne avviluppò Teresina con una sollecitudine quasi materna, osservandone le guance pallide, che portavano le tracce della notte perduta. - Adesso avrai freddo tu! ... - Io? ... Stava per dire: non posso aver freddo, ho cenato lautamente: ma davanti a quel visino sbattuto, sul quale tutte le astinenze imprimevano un solco, provò un senso di pietà. Sollevò un lembo del mantello, tanto da potersene coprire le spalle, e mutò la frase: - ... se mi permetti di stare qui non avrò piú freddo. Lo strinse a sé, beata, scoprendo una gioia nuova in quella protezione, sembrandole quasi di anticipare l'intimità seria e solenne del matrimonio. Era vero che sentiva il freddo. Non aveva dormito, non aveva mangiato dal desinare del giorno prima; ma anche quei brividi che l'alba le metteva nelle ossa, avevano la loro voluttà; le facevano trovare piú dolce il tepore dell'amplesso. Una parola di Egidio la turbò. - Dunque vieni? - Sai, non posso! - gli rispose colle lagrime agli occhi, serrandogli la mano disperatamente. - E allora che vuoi che facciamo? - Aspetto. Era la sua forza, la sua fede. Non sapeva nemmeno lei che cosa aspettasse; l'incerto, l'ignoto, un miracolo forse. Ma Orlandi non la intendeva così. - Cara, la gioventù passa presto; sono già sei anni che ci amiamo inutilmente. Teresina non comprese l'accento scorato del giovane. Perché diceva che si amavano inutilmente? L'amore è sempre amore, pensava, quando si ama, si spera. Ella viveva pure con quel tenue filo di felicità; perché a lui non bastava? Le venne in mente di domandargli se intendesse di continuare per tutta la vita a scrivere articoli di giornali; ma questo discorso noioso le avrebbe portato via tanti baci; e poi voleva ascoltare da lui altre parole: mio tesoro, mia vita, cara la mia Teresa Tutto ciò era importante; il resto sfumava, si perdeva in una nebbia lontana di fatalismo. Nella monotonia della sua vita, dove il pensiero solo metteva una nota ridente, questi erano i momenti di vera felicità. Si sentiva donna, si sentiva amante e amata; mentre poi, come prima, come sempre, ella non sarebbe altro per mesi che figlia ubbidiente, fanciulla riservata, buona massaia. - Probabilmente - disse Orlandi - mi stabilisco a Milano. Un subitaneo sgomento apparve negli occhi di Teresina. Milano era piú lontano di Parma; e quantunque non conoscesse la grande città, intuiva vagamente ch'egli vi avrebbe incontrato maggiori tentazioni. Il cuore le si strinse di indefinibile malinconia. Vide d'un tratto tutta la sua umiltà, la sua povertà, la sua impotenza. Ebbe voglia di dirgli: Portami via! ma la parola le morì strozzata da un singhiozzo e non poté far altro che nascondere la faccia sul petto di lui. - Vedi, vedi? Te lo dissi che questa vita è impossibile. Ho rimorso di veder sciupare la tua giovinezza; Teresa, mia povera Teresa ... - Oh! sì chiamami tua perché lo sono! Gli si abbandonò sul petto con tale impeto disperato che, per un istante, Orlandi ebbe una fiamma negli occhi, e tremò come preso dalla febbre. Ma quasi subito ella rallentò la stretta, scivolando accasciata quasi fino a terra. dove stette col viso chiuso nelle mani, il corpo piegato in due. Orlandi contemplò quella testolina di vergine prostrata davanti a lui. - Che cosa intendi di fare? - le chiese con accento grave e dolce, rialzandola. - Amarti, sempre, qualunque cosa accada, qualunque sia il mio destino. Egli accostò alle labbra la mano della fanciulla: vi depose un bacio, esitante, turbato, ridivenuto improvvisamente freddo; affettuoso, ma distratto. Ella non se ne accorse; sentiva ancora i suoi baci, lo vedeva, lo toccava. Era impossibile che pensasse ad altro. Quando Orlandi scomparve dietro il muricciolo, Teresina fu presa dalla tentazione di seguirlo, volle gridare, volle chiamarlo, ma volgendosi improvvisamente, come se avesse udito una voce, si trovò davanti alla sua casa, alla casa casta e severa, dove sua madre riposava fidando in lei; e tornò indietro a capo chino, malcontenta di quel colloquio che le lasciava una tristezza insolita, uno scoramento da cui fuggiva la fede.

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Il medico riprese senza lasciarlo finire: - Quando si manifesta un perturbamento dei nervi così vivo, con caratteri francamente isterici, la miglior cura è quella di non abbandonare l'ammalata a se stessa. Io posso ordinare delle medicine, ma se non sono aiutato dal sistema ... - si volse - direttamente a Teresa. - La stagione è favorevole, abbiamo una primavera che è un incanto. Esca spesso. Vada a trovare un'amica, procuri di interessarsi a qualche cosa, di cambiare l'ordine abituale de' suoi pensieri, di non fissarsi in una idea. Faremo una piccola cura arsenicale combinata col ferro, ma il primo rimedio, se ne persuada, lo deve trovare in se stessa. Mi comprende, nevvero? Le strinse la mano, colla sua dolcezza indolente d'operatore, mostrando i denti bianchi nell'arco del sorriso; lasciando sul capezzale come un profumo della sua vigorosa giovinezza. Tornò qualche giorno dopo, per vedere l'esito della cura, ed essendo comparso all'improvviso davanti a Teresina, ella arrossì, tutta confusa, con un sentimento recondito di vergogna. Quella specie di intimità con un uomo giovane, senza il legame dell'amore, la turbava. Era meravigliata di non trovare maggior avversione al contatto, di sorprendere nei suoi sensi una vita autonoma, indipendente dal cuore e dalla volontà. Fino allora aveva amato, in un sol uomo, l'incarnazione dell'amore; ma nella tensione di tutto il suo essere verso quell'ideale, il cuore e la mente resistevano, i nervi no. I nervi, a sua insaputa, con una ribellione mostruosa, vibravano quando il giovane dottore le stringeva la mano, e la guardava colla sua pupilla intenta. E Teresina spasimava, sentendosi prendere alla gola da un rantolo convulso; trovando in se stessa, nella tardiva rivelazione dei propri sensi, l'enigma della vita, che le era sempre apparso a tratti, mascherato, svisato, tenuto nascosto come un'onta. In quei giorni, per una combinazione, avendo suo padre acquistata, senza guardarla, una partita di libri vecchi, ella pose le mani sopra un libriccino gualcito. Il titolo l'invitò a leggere le prime pagine, e poi continuò meravigliata, ansiosa; passando dalla sorpresa alla indignazione, fino a un feroce diletto, fino alla nausea la piú ributtante. Restò immobile, col sangue che le formicolava nelle vene, con una fiamma sulle gote, il palato arido, le fauci ingrossate, gli occhi vitrei. Non aveva mai udito né immaginato niente di simile. Al primo rinvenire, l'indignazione la vinse su ogni altro sentimento; stracciò il libro in mille piccoli frammenti, rendendoli sempre piú piccoli, piú piccoli ancora, ponendoli da ultimo sotto i piedi e gustando, nel calpestarli, una gioia che la purificava. Raccolse poi gli avanzi informi e li gettò nella cassetta delle spazzature; ma si vedevano; la loro bianchezza sudicia risaltava sul fondo nero. Ella non era contenta. Tornò a raccattarli e li volle abbruciare - vivi - ché quei frammenti agitati dalla fiamma, le davano veramente l'impressione di cose vive, di mostri osceni, condannati al rogo. Ristette infine, palpitante, davanti al mucchietto di cenere, persuasa che nulla piú esistesse di quelle sozzure. Ma si ingannava. Il suo pensiero era colpito, macchiato irrimediabilmente. Per quanto facesse non poteva togliersi il ricordo delle pagine lette; ed era un ricordo amaro, come di medicina che torni a gola. E venivano, non cercate, le riflessioni, i confronti, le induzioni. Cento cose rimaste oscure fino allora le si chiarivano spietatamente; non poteva piú dubitare, non poteva piú illudersi. Quelle spiegazioni crudeli erano la sola risposta ch'ella trovava alla sua lunga, insoddisfatta curiosità di fanciulla. Quelle pagine stampate, che non volavano come le parole, che non svanivano come i sorrisi, che ella aveva distrutte in un esemplare ma che esistevano in mille altri, quelle pagine infami erano un documento della miseria umana, della sua propria miseria. Un libro osceno le dava la chiave del mistero ch'ella aveva ricercato invano; ch'ella aveva interrogato nei fremiti paurosi e pudibondi di se stessa, nelle reticenze maligne degli altri. Era dunque quello l'ignobile segreto che teneva uniti gli uomini alle donne? Quello l'amore? Sottile, profondo, un pensiero sopra tutti la martoriava: Egidio. Quando l'immagine di lui venne a mischiarsi alle rimembranze lascive, ella provò la maggior vergogna della sua vita. Le parve di veder trascinare nel fango tutto quanto aveva di sacro al mondo. Era la profanazione dell'affetto piú gentile, era l'altare che si frangeva, l'idolo che diventava creta. Arrossì, sola, di se stessa. E la prese una tristezza, un dolore come avesse perduto per sempre una persona adorata. Per tutto quel giorno non poté incontrare alcuno a viso alzato; aveva orrore dei suoi simili. Alla sera, chiudendosi nella sua camera, si illuse di potersi disfare dall'incubo; ma l'incubo divenne piú violento. Mentre si spogliava, era assalita da curiosità brutali. Sembrava che le pagine infami si fossero incollate alla sua pelle, che le formassero, come la camicia di Nesso, un involucro di fuoco, entro il quale si dibatteva. Cadde in ginocchio disperata, recitando macchinalmente tutte le orazioni che sapeva, unendo il nome di Egidio al nome della Madonna, con un bisogno ardente di dimenticare. Accovacciandosi sotto le coltri, spossata, evocò le pure visioni del suo amore: l'incontro nella cappella, i ritrovi in chiesa, il primo appuntamento alla finestra, sotto l'acqua che veniva a rovesci, che nessuno di loro sentiva, e quei baci di cielo in cui ella credeva di dare l'anima. A poco a poco la pace entrava in lei. Una dolcezza malinconica la cullava, la consolava. Egidio era sempre stato sincero; non l'aveva ingannata, non l'aveva tradita mai, non si era fatto migliore di quel che fosse. Che cosa si può chiedere di piú agli uomini? Sentiva ora una tenerezza straordinaria a compatirlo, a comprenderlo nelle debolezze del suo sesso. Il recente dolore le faceva sanguinare il cuore; ma da quella stessa ferita saliva, alle piú nobili idealità del suo pensiero, una compassione pietosa, una commiserazione di questa umanità sofferente e bestiale, un delicato istinto di perdono. E piú forte, piú puro, emergeva da tanto fango l'affetto ch'ella aveva nel cuore e che sapeva diviso. Chiuse gli occhi rassegnata, sospirando lievemente. A tratti, un fremito l'agitava ancora ma anche quello andò scomparendo sotto il torpore del sonno; finché rimase l'affanno dei sospiri, sempre piú lievi, a indicare che il pensiero si addormentava.

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