Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Piccolo mondo antico

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Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

"Farebbe male", diss'egli, "ad abbandonare la partita. La marchesa si capisce che abbia delle difficoltà, ma poi è buona, gli vuole un gran bene. Ha preso una paura, l'altra notte, povera donna!" Guardò il professore che taceva inquieto, accigliato, e pensò: non parli? allora sai. "Capisce!", riprese. "Non dire dove si va! Non Le pare?" "Ma io non so niente, io non capisco niente!", esclamò il Gilardoni, sempre più accigliato, sempre più inquieto. Qui Pasotti sapendo che il professore aveva cessato da lungo tempo di visitare le Rigey e ignorandone la cagione, arrischiò un passo avanti, da bargnìf novizio. "Bisognerebbe domandarne a Castello", diss'egli con un sorriso malignetto. A questo punto il Gilardoni, che già bolliva, traboccò. "Mi faccia il piacere", diss'egli impetuosamente, "lasciamo stare questo discorso, lasciamo stare questo discorso!" Pasotti si rabbuiò. Cerimonioso, adulatore, sdolcinato, non era però mai disposto, nell'orgoglio suo, a prendersi pacificamente in faccia una parola spiacevole, e s'impermaliva d'ogni ombra. Non parlò più, e passato un paio di minuti prese congedo con dignitosa freddezza, si ritirò masticando rabbia attraverso le barbabietole e le rape. Quando si trovò da capo nella contrada dei Mal'ari, il bargnìf stette un pezzetto a pensare col mento in mano, poi si avviò verso la riva di Casarico, a passi lenti, molto curvo, ma con gli occhi brillanti del barbone che ha fiutato in aria l'indirizzo recondito di un tartufo. Le spaventate difese di don Giuseppe, le difese ostinate della Maria, l'imbarazzo e lo scatto del professore gli dicevano che il tartufo c'era e grosso. Gli era venuta l'idea di andare a Loggio dove abitavano il Paolino e il Paolon, gente bene informata; poi aveva pensato ch'era martedì e che probabilmente non li avrebbe trovati. No, era meglio salir direttamente da Casarico a Castello, fiutare e frugare nell'abitazione di certa signora Cecca, ottima donna, tutta cuore, famosa per l'assidua vigilanza che esercitava dalle sue finestre, per mezzo di un formidabile cannocchiale, sulla Valsolda intiera. Ella poteva dire ogni giorno chi fosse andato a Lugano col barcaiuolo Pin o col barcaiuolo Panighèt, notava i colloqui del povero Pinella con una certa Mochèt sul sagrato di Albogasio, lontano un chilometro; sapeva in quanti giorni il signor ingegnere Ribera avesse bevuto il bariletto di vino che la sua barca riportava vuoto dalla casa d'Oria alla cantina di S. Margherita. Se Franco era stato in casa Rigey, la signora Cecca doveva saperlo. Nel sottoportico che da Casarico mette alla stradicciuola di Castello, Pasotti si sentì venir dietro a precipizio qualcuno che gli passò accanto nel buio, e credette di conoscere un tale detto "légora fügada (lepre cacciata)" per la sua andatura sempre furiosa. Era costui un egregio galantuomo ancora più curioso di Pasotti, un'ottima persona che amava di saper le cose semplicemente per saperle, senz'altri fini, e andava sempre solo, si trovava dappertutto, compariva e scompariva in un baleno, quando in un luogo quando nell'altro, come certi insettoni alati che danno un guizzo, un frullo, un colpo e poi, zitti, non si odono, non si vedono più sino a un altro guizzo, a un altro frullo, a un altro colpo. Egli aveva scorti i Pasotti entrare al "Palazz" e si era insospettito di qualche cosa per l'ora insolita. Appiattato in un campicello aveva visto la signora Barborin ritornare e il Controllore avviarsi a Casarico, quindi, seguito costui alla lontana, s'era appostato, durante la sua visita al Gilardoni, dietro un pilastro del portico di Casarico; e ora gli era scivolato accanto approfittando dell'oscurità per correre a Castello e aspettarlo, sorvegliarlo da qualche buon posto di osservazione. Lo vide infatti entrare dalla signora Cecca. La vecchia e gozzuta signora stava nel suo salotto tenendosi in collo un marmocchio col braccio sinistro e reggendo con la mano libera uno sperticato tubo di cartone infilato per isghembo nella finestra, come una spingarda, con la mira giù al lago scintillante, a una vela bianca, gonfia di breva. All'entrar di Pasotti che veniva avanti con la persona inclinata, con il cappello in mano, con un viso ilare ilare, dolce dolce, la buona ospitale donna posò in fretta quel lungo naso mostruoso di cartone che le piaceva metter nelle faccende più lontane degli altri, dove il suo proprio naso di cartapecora, benché smisurato, non arrivava. Ell'accolse il Controllore, come avrebbe accolto un Santo taumaturgo che fosse venuto a portarle via il gozzo. "Oh che brao scior Controlòr! Oh che brao scior Controlòr! Oh che piasè! Oh che piasè!" E lo fece sedere, lo soffocò di offerte. "On poo de torta! On poo de crocant! Car el me scior Controlòr! On poo de vin! On poo de rosoli! - Ch'el me scüsa neh", soggiunse perché il marmocchio s'era messo a miagolare. "L'è el me nevodin. L'è el me biadeghin." Pasotti fece molte cerimonie, avendo già nello stomaco, oltre alle ciliege di don Giuseppe, anche la birra del Gilardoni; ma dovette finire col rassegnarsi a rosicchiare una dannata torta di mandorle, mentre il piccino si attaccava al gozzo della nonna. "Povera signora Cecca! Due volte madre!", disse pateticamente, a quella vista, il sarcastico bargnìf, ridendo nello stomaco. Dopo averle chiesto notizie del marito e dei discendenti fino alla terza generazione, mise in campo la signora Teresa Rigey. Come stava quella povera donna? Male! Proprio tanto male? Ma da quando? E c'era stata qualche cagione? Qualche commozione? Qualche dispiacere? Gli antichi si conoscevano, ma ce n'erano stati dei nuovi? Forse per la Luisina? Per quel matrimonio? E don Franco non veniva mai a Castello? Di giorno, no, va bene; ma ...? Come quando il chirurgo va interrogando e tastando un paziente in cerca dell'occulto posto doloroso, che il paziente risponde tanto più breve e trepido quanto più la mano indagatrice si appressa al punto e, appena essa vi arriva, trasalendo si sottrae; così la signora Cecca andò rispondendo al Pasotti sempre più breve e cauta, e a quel ma, posto delicatamente dove le doleva, scattò: "On poo de torta ancamò! Scior Controlòr! L'è roba d'i tosann!" Pasotti sacramentò in cuor suo contro i "tosann" e la loro torta di miele, creta e olio di mandorle, ma credette utile d'ingoiarne un altro boccone e tornò poi a toccare, anzi a premere, il tasto di prima. "So de nagott, so de nagott, so de nagott!", esclamò la signora Cecca. "Ch'el proeuva a ciamagh al Pütin! Al scior Giacom! E a mi ch'el me ciama pü nient!" Ancora! Pasotti brillò in viso all'idea di avere il malcapitato sior Zacomo nelle granfie. Così brillerebbero gli occhi di un falco allegro all'idea di ghermir un ranocchio e di tenerselo fra gli artigli per giuoco e spasso. Egli se ne andò poco dopo, contento di tutto fuorché della torta di creta che aveva sullo stomaco. Casa Puttini, simile nella sua piccola faccia signorile al piccolo vecchio padrone che la governava in abito nero e cravattone bianco, stava poco più giù della orgogliosa mole di casa Pasotti, sulla via di Albogasio Inferiore. Il falco vi andò dopo pranzo, verso le cinque, con una faccia maligna. Bussò all'uscio e stette in ascolto. C'era, c'era il ranocchio disgraziato, litigava, secondo il solito, con la perfida servente. Pasotti bussò più forte. "Verzì!", disse il signor Giacomo, ma la Marianna non voleva saperne di scendere ad aprire. "Verzì! Verzì! Son paron mi!" Tutto inutile. Pasotti bussò da capo, picchiò come una catapulta. "Chi xelo sto maledeto?", vociferò il Puttini; e venne giù soffiando "apff! apff!" ad aprire. "Oh, Controllore gentilissimo!", diss'egli, battendo le palpebre e alzando pateticamente le sopracciglia. "La perdona! Quela fatal servente! No go più testa! No ghe digo gnente cossa che nasse in sta casa." "L'è minga vera!", gridò Marianna dall'alto. "Tasì!" E qui il signor Giacomo incominciò a raccontare i suoi guai, rimbeccando a ogni tratto le proteste della serva invisibile. "Stamatina, La s'imagina, vado a Lugan. Vegno a casa zirconzirca a le tre. Su la porta, La varda qua, che xe de le giozze. Tasì! - No ghe bado, tiro drito. Son sul pato de la scala per andar in cusina; ghe xe de le giozze. Zito! - Cossa gala spanto? digo. Me sbasso, meto un deo in tera; tasto; xe onto; snaso, el xe ogio. Alora ghe vado drio a le giozze. Tasto, snaso, tasto, snaso. Tutto ogio, Controllore gentilissimo. O 'l xe vegnudo, digo, o 'l xe andà via. Se el xe vegnudo lo gà portà el massaro e alora le giozze co semo fora dela porta le gà d'andar in suso, se el xe andà via vol dir che quela maledetissima ... La tasa! ... Lo gà portà a vender a San Mamette e alora le giozze le gà d'andar in zoso. E mi torna in drio e vaghe drio a ste giozze e drio e drio, e rivo a la porta; Controllore mio gentilissimo, le giozze le va in zoso. Quela b ..." A questo punto la voce della serva scattò come la sveglia d'un orologio e non ci fu più "tasì!" che valesse a fermare quello stridente getto continuo di parole rabbiose. Ci si provò Pasotti e, non riuscendo, uscì dai gangheri anche lui con un "O fiolonona!" e proseguì a tirarle improperi, a ciascuno dei quali il signor Giacomo faceva un sommesso accompagnamento di gratitudine. "Sì, linguazza, bravo, ghe son obligà. Sì, stria, bravo. Impiastro, sì signor. Ghe son obligà, Controllore gentilissimo, ghe son propramente obligà." Quando la Marianna parve sopraffatta e chetata, Pasotti disse al signor Giacomo che aveva bisogno di parlargli. "No go testa", rispose l'ometto. "La me perdona, me sento mal." "Eh no go tescta, no go tescta!", vociò la Marianna rediviva. "Ch'el ghe disa inscì ch'el coo el l'avarà perduu a andà de nott a trovà i tosann a Castell!" "Tasì!", urlò il Puttini; e Pasotti, con un ghigno diabolico: "Come come come?". Visto ch'egli entrava in furore, lo afferrò per un braccio, con parole di pace e d'affetto, lo trascinò via, se lo portò a casa, chiamò sua moglie; e per chetare il povero ranocchio, per pigliarselo comodamente fra gli artigli, intavolò un tarocchino in tre. Se la signora Barborin giuocava male, il signor Giacomo, meditando, ponderando e soffiando, giuocava peggio. Era un giuocatore timidissimo, non si metteva mai solo contro gli altri due. Stavolta si trovò in mano, appena seduto, carte così straordinarie che fu preso da un accesso di coraggio e, come dice il linguaggio del giuoco, entrò. "Chi sa che giuocone ha!", brontolò Pasotti. "No digo ... no digo ... ghe xe dei frati che spasseza in pantofole." Il "no digo" del signor Giacomo significava ch'egli teneva in mano carte miracolose; e i frati in pantofole erano, nel suo gergo, i quattro re del giuoco. Mentre si accingeva a giuocare palpando ciascuna carta e aguzzandovi gli occhi su, Pasotti colse il suo momento, sperando, per giunta, fargli perdere il giuoco. "Dunque", diss'egli, "mi racconti un poco. Quando è andato a Castello di notte?" "Oh Dio, oh Dio, lassemo star", rispose il signor Giacomo, rosso rosso, palpando le carte più che mai. "Sì, sì, adesso giuochi. Parleremo dopo. Tanto, io so tutto." Povero signor Giacomo, sì, giuocare con quello spino in gola! Palpò, soffiò, uscì dove non avrebbe dovuto, sbagliò a contare i tarocchi, perdette un paio di frati con le relative pantofole, e malgrado il giuocone, lasciò alcune marchette negli artigli di Pasotti che ghignava e nel piattino della signora Barborin che ripeteva a mani giunte: "Cos'ha mai fatto, signor Giacomo, cos'ha mai fatto?". Pasotti raccolse le carte e si mise a scozzarle guardando con una faccia sardonica il signor Giacomo che non sapeva dove guardare. "Sicuro", diss'egli. "So tutto. La signora Cecca mi ha raccontato tutto. Del resto, caro deputato politico, Lei ne renderà conto all'I. R. Commissario di Porlezza." Così dicendo, Pasotti porse il mazzo al Puttini perché alzasse. Ma il Puttini, udito quel nome minaccioso, si mise a gemere: "Oh Dio, oh Dio, cossa disela, no so gnente ... oh Dio ... l'Imperial Regio Commissario? ... Digo ... no savaria per cossa ... apff!" "Sicuro!", ripeté Pasotti. Aspettava una parola che gli facesse un po' di lume; e significò a sua moglie, additando col pollice prima l'uscio e poi la propria sua bocca, che andasse a pigliar da bere. "Anca quel benedeto ingegner!", esclamò, quasi parlando tra sé, il signor Giacomo. Come un pescatore raccoglie stentatamente a sé la lunga lenza pesante, scossa, egli crede, dal grosso pesce lungamente insidiato, e tira e tira e finalmente scorge venir su dal fondo due grandi ombre di pesci invece d'una sola, palpita, raddoppia di cautela e d'arte; così Pasotti, all'udir nominare l'ingegnere, si meravigliò, palpitò e si dispose a estrarre con la più squisita delicatezza di mano il segreto del signor Giacomo e del Ribera. "Sicuro", diss'egli. "Ha fatto male." Silenzio del signor Giacomo. Pasotti insistette: "Ha fatto malissimo." Ecco la signora Barborin che tutta sorridente porta vassoio, bottiglia e bicchieri. Il vino è rosso cupo, con trasparenze di rubino in corpo e il signor Giacomo gli fa un viso non ancora tenero ma benevolo. Il vino ha un aroma di austera virtù ed il signor Giacomo lo fiuta amorosamente, lo guarda commosso, lo torna a fiutare. Il vino ha una pastosa pienezza ch'empie palato e anima di sapore, il vino è appunto quel giusto, virtuoso amarone che l'aroma annuncia e il signor Giacomo lo sorseggia nel desiderio che non sia liquido e fuggevole, lo mastica, lo pacchia, se lo spalma per la bocca; e quando di tanto in tanto posa il bicchiere sul tavolino, non lo lascia però né con la mano né con gli occhi imbambolati. "Povero ingegnere!", esclamò Pasotti. "Povero Ribera! È un buon galantuomo, ma ..." E tira e tira, il disgraziato signor Giacomo cominciò a venir su, dietro all'amo e al filo. "Mi propramente", diss'egli, "no volea. El me gà fato zo. "Vegnì", el dise, "percossa mo no volìo vegner? Mal no se fa, la cossa xe onesta." Sì, digo, me par anca a mi; ma sto secreto! "Ma! La nona!" el dise. Capisso, digo, ma no me comoda. "Gnanca a mi", el dise. Ma alora, digo, che figura fémoi, Ela e mi? "Quela del m ...", el dise con quel so far de bon omo a la vecia, "che cossa vorla?, el xe propramente per el mio temperamento." Alora vegno, digo." Qui si fermò. Pasotti aspettò un poco e poi, con prudenza, tirò il filo. "Il male si è", diss'egli, "che a Castello se ne sia parlato." "Sì signor; e me lo son imaginà. Tase la famegia, tase l'ingegner, taso mi che s'intende, ma no taserà el piovan, no taserà el nonzolo." Il parroco? Il sacrestano? Adesso Pasotti capì. Trasecolò; non si aspettava un affare così grosso. Versò da bere al malcapitato signor Giacomo, gli cavò facilmente tutti i particolari del matrimonio e cercò di cavargli pure i progetti degli sposi; ma questo non gli riusciva. Si mise a scozzar le carte per continuar il giuoco e il signor Giacomo guardò l'orologio, trovò che mancavano nove minuti alle sette, ora in cui era solito caricare il suo pendolo. Tre minuti di strada, due minuti di scale, non aveva più che quattro minuti per congedarsi. "Controllore gentilissimo, La ghe fazza el conto, la xe cussì, no ghe xe ponto de dubio." La signora Barborin, vedendo un contrasto, ne domandò a suo marito. Pasotti si accostò le mani alla bocca e le gridò sul viso: "El voeur andà a trovà la morosa!". "Cossa mai! Cossa mai!", fece il povero signor Giacomo diventando di tutti i colori; e la Pasotti che per un miracolo aveva udito, aperse una bocca smisurata, non sapeva se dovesse credere o no. "La morosa? Oh! Quanti ciàcer! Minga vera, sür Giacom, che hin ciàcer? El podarìss ben avèghela per quell, disi minga, l'è minga vècc, ma insomma!" Capito che voleva proprio andarsene, cercò trattenerlo, aveva dei marroni di Venegono che stavan cuocendo, li offerse. Ma né i marroni né gl'improperi di Pasotti valsero a vincere il signor Giacomo che partì con lo spettro dell'I. R. Commissario nel cuore e insieme con una sensazione molesta nella coscienza, con un vago malcontento di sé ch'egli non sapeva spiegare a se stesso, col dubbio istintivo che le ingiurie della perfida servente fossero preferibili, in fin de' conti, alle moine di Pasotti. Invece costui aveva gli occhi ancora più brillanti dell'usato. Pensava di andar a Cressogno subito. Camminatore instancabile, contava di potervi arrivare alle otto. L'idea di andare dalla marchesa con la sua grossa scoperta in pectore , di fare il misterioso, di metter fuori un po' alla volta le paroline più suggestive e di farsi strappare il resto, lo divertiva moltissimo. E preparava già per il proprio piacere un discorsetto blando, ammolliente, da posare poi sulla ferita della impassibile dama per modo ch'ella non potesse dissimularla e che nessuno avesse a lagnarsi di lui, neppure Franco. Andò in cucina, si fece accendere la lanterna perché la notte era molto scura, e partì. Incontrò sulla porta il suo mezzadro ch'entrava. Il mezzadro lo salutò, portò in cucina un gran canestro di frutta, aiutò la serva a metterle a posto, sedette al fuoco e disse placidamente: "È mort adess la sciora Teresa de Castell".

ATTRAVERSO L'ATLANTICO IN PALLONE

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Salgari, Emilio 5 occorrenze

Il negro invece emise un urlo così acuto, da far temere che stesse per abbandonare la fune. "Ohè, saldo in gambe!" gridò O'Donnell. "Vuoi cadere fra le braccia del polipo? Mille bombe ... ! La faccenda diventa seria!" Guardò giù e mandò un lungo sospiro di sollievo, non scorgendo più l'orribile mostro. Senza dubbio era stato ferito o ucciso dalle sei pallottole e si era inabissato negli immensi baratri dell'oceano. "Era tempo!" mormorò O'Donnell. "Se avesse continuato ancora un po' a scuotere la corda, ci avrebbe fatto fare uri bel capitombolo." "O'Donnell!" gridò l'ingegnere, che dall'alto della navicella aveva seguito con angoscia inesprimibile quella scena. "Presente, Mister Kelly" rispose l'irlandese, che aveva sentito riacquistato il suo solito buon umore. "L'ancora è libera?" "Sì." "Siete feriti?" "No, ringraziando Iddio; ma quel dannato mostro ci ha profumati con una certa materia che si direbbe inchiostro, o qualcosa di simile. I caimani non puzzerebbero più di noi, ve l'assicuro." "Era un cefalopodo?" "Lo credo." "L'avevo sospettato. Fate salire Simone, poi tireremo su voi." "Ma se è mezzo morto di paura! Temo anzi di vederlo svenire da un momento all'altro." Ed era proprio vero. Pareva che il negro fosse diventato ebete per lo spavento provato. La sua pelle era grigia, cioè pallidissimo; dalle sue labbra uscivano parole tronche e senza senso, e i suoi occhi, stravolti, parevano fissi su di un punto immaginario e si illuminavano di quando in quando di certi lampi, simili a quelli che animano gli occhi dei pazzi. "Ehi, Simone!" disse O'Donnell. "Su, per Bacco! Coraggio! Vuoi rimanere qui fino a domani?" Il negro rispose con uno scroscio di risa; ma era uno di quegli scrosci che invece di mettere allegri fanno male. "Che sia diventato pazzo per la paura?" si chiese l'irlandese, impallidendo. "Non ci mancherebbe che questo per peggiorare la nostra situazione." "Ebbene?" chiese l'ingegnere. "Affrettatevi, che l'idrogeno comincia a dilatarsi." "Mister Kelly," disse O'Donnell, "io temo che il vostro servo deliri. Ride come un negro ubriaco o pazzo, e se l'abbandono sono certo che cada in mare." "Provate a scuoterlo." "È inutile: è un uomo mezzo morto. Mandatemi una corda con cui legarlo per bene, e poi cercherò di risalire io." "Ma vi sono trecentocinquanta metri." "Riposando sui nodi, spero di raggiungervi. Affrettatevi, che le mie forze se ne vanno." "Attento alla testa!" L'ingegnere circondò le guide-ropes di una fune e la lasciò scorrere: O'Donnell fu lesto ad afferrarla prima che gli precipitasse sulla testa. "Non muoverti, Simone." disse. Gli passò la corda sotto le ascelle più volte, poi attorno alle gambe, legandolo solidamente alla guide-rope. Quando fu certo di averlo assicurato in modo da impedirgli di cadere, anche se uno svenimento lo avesse colto, stringendo le mani e le ginocchia attorno alla fune, si mise a salire. La via era lunga; ma l'irlandese possedeva dei muscoli di ferro e un'agilità pari a quella del negro. Si riposò alcuni minuti sul primo nodo, poi raggiunse il secondo, che era lontano quindici metri, poi il terzo, quindi gli altri, impiegando quasi un'ora. L'ingegnere, appena lo vide sotto la navicella, lo afferrò tra le braccia e, facendo uno sforzo erculeo, lo trasse a bordo. "Auff!" esclamò O'Donnell. lasciandosi cadere di peso su una cassa. "Non no posso più, Mister Kelly. Se vi fossero stati altri venti metri, sarei caduto in fondo all'oceano." "Un marinaio non avrebbe fatto di più, mio bravo amico," disse l'ingegnere, porgendogli una bottiglia di whisky. "Grazie, Mister Kelly." rispose l'irlandese dopo aver ingollato parecchi sorsi. "E Simone?" "È sempre in fondo alla corda. Non si muoverà: l'ho legato come un salame. Temo che la paura gli abbia sconvolto il cervello." "Lo credete, O'Donnell?" chiose l'ingegnere, con emozione. "Temo: mi guardava in modo da farmi venire i brividi." "Affrettiamoci a issarlo, allora ... Chi avrebbe sospettato che quel negro fosse così pauroso? Eppure mi aveva dato qualche prova di coraggio." "Questo viaggio lo ha scombussolato." "Tuttavia, quando gli feci la proposta di seguirmi, egli accettò con grande gioia. Mi spiacerebbe assai avergli causato una disgrazia simile." "Sarà forse una esaltazione momentanea, causata dalla paura. Vi assicuro però che quel mostro faceva venire la pelle d'oca anche a me, per non dire che mi gelava il sangue. Per Giove e Saturno! Che occhi! Non li dimenticherò mai, dovessi vivere mille anni! Orsù, issiamo quel povero Simone."

"Prepariamoci ad abbandonare il Washington" disse l'ingegnere con una certa emozione. "Non lo salveremo dunque?" chiese O'Donnell, con dolore, "Io amo questo bravo pallone, che ci ha portati attraverso l'Atlantico." "È impossibile, O'Donnell. Le onde, che su queste coste sono assai violente, imprimeranno alla nostra scialuppa tali scosse da affondarla, se non la liberiamo dall'aerostato." "S'innalzerà solo, allora?" "Sì. O'Donnell." "E dove cadrà?" "Chi può dirlo? Forse assai lontano da qui, nell'interno della costa della Sierra Leone, o più oltre." "I negri lo crederanno la luna." "È probabile, O'Donnell, e chissà quanti preziosi talismani e feticci faranno con la seta." Il Washington s'abbassava bruscamente con estrema rapidità. Pareva che tutto ad un tratto fosse diventato estremamente pesante. "Ecco quello che temevo" disse l'ingegnere. "Preparatevi a tagliare le funi!" "Siamo pronti!" risposero O'Donnell e il mozzo. "Gettatevi ad armacollo i fucili e mettete delle munizioni nelle tasche. Non si sa mai ciò che può accadere." Il Washington precipitava sempre descrivendo però una traiettoria obliqua anziché verticale, essendo un po' sorretto dal vento. A quattrocento metri cadde dritto, rapidità vertiginosa. "Tenetevi stretti alle funi" ebbe appena il tempo di gridare l'ingegnere. La scialuppa non era che a pochi metri dall'oceano, i cui cavalloni muggivano sinistramente, come se fossero ansiosi d'inghiottire quell'immensa preda che cadeva dalle alte regioni dell'atmosfera. Ad un tratto gli aeronauti si trovarono fra le onde. La scialuppa, lasciata cadere così precipitosamente si era immersa, ed i marosi l'avevano coperta e rovesciata. "Tagliate le corde!" gridò l'ingegnere. "Affondiamo!" gridò O'Donnell. "La scialuppa è persa" "Tagliate ed aggrappatevi alla rete. Forse risaliremo. O'Donnell e il mozzo, che non avevano perso il loro sangue freddo, con pochi colpi di coltello recisero le funi. La scialuppa, piena d'acqua com'era, calò a picco, ma gli aeronauti avevano avuto il tempo di aggrapparsi alla barra di sostegno. Il Washington, alleggerito di quell'ultimo peso ebbe ancora la forza di risollevarsi a cinquecento metri, trasportando con sé l'ingegnere e i suoi compagni, che si erano seduti sull'asta stringendo con disperata energia le corde. "È finita!" disse O'Donnell "Tenetevi stretti, amici" disse l'ingegnere. "Ricadremo in mare?" "Lo temo, ma le isole sono a pochi passi da noi." Infatti, davanti a loro si stendevano le isole Bissagos. La più avanzata non distava che un miglio, e il vento spingeva l'aerostato verso di essa. Guardarono attentamente la spiaggia, ma non videro alcun abitante. Girando però lo sguardo verso l'ovest, scorsero un piccolo bastimento che veleggiava lungo le coste dell'isola, a una distanza di tre o quattro miglia. "Un altro legno da guerra?" disse O'Donnell. "No: è un piccolo veliero, un cutter mercantile." Disse l'ingegnere. "Guardate: l'equipaggio vira di bordo e mette la prua verso le coste settentrionali dell'isola." "Che ci abbiano scorti?" "Sì, O'Donnell, vengono in nostro aiuto." "Giungeranno in tempo?" In lontananza si udirono alcune detonazioni; era l'equipaggio della piccola nave che avvertiva gli aeronauti di averli visti. O'Donnell scaricò la grossa carabina che aveva salvato dal naufragio, mentre l'ingegnere scaricava il suo revolver. "Vengono," disse Kelly, "ma quando giungeranno qui noi saremo già caduti." "Vedete la nave da guerra?" chiese O'Donnell. "No" rispose l'ingegnere, che si trovava più in alto di tutti, essendosi aggrappato alle maglie. "Nemmeno il fumo?" "Mi pare di vedere laggiù come un sottile pennacchio. "Tanto meglio. E quel piccolo legno cosa sarà?" "Senza dubbio uno di quei legnetti che fanno il traffico delle coste per conto delle fattorie." "Speriamo che non sia inglese." "Probabilmente sarà francese o portoghese. "Cadiamo" disse Walter. "Non avrai paura, povero ragazzo?" chiese l'ingegnere. "No, signore" rispose il mozzo con voce ferma. "Procura di tenerti sempre vicino a me" disse O'Donnell. "So nuotare, signore, e le onde non mi fanno paura." "Bravo ragazzo!" "Attenzione!" gridò l'ingegnere. Il pallone cadeva a mille passi dalla spiaggia della prima isola. Si arrestò ancora un momento, poi precipitò fra le onde come una palla di cannone, ma appena gli uomini furono immersi, si sollevò bruscamente, tendendo le funi. "Tenetevi stretti!" gridò l'ingegnere. "Ci sorreggerà fino alla spiaggia." Il mare era agitato, le larghe ondate dell'Atlantico si frangevano contro quell'arcipelago di isole e isolotti e contro la costa africana, producendo quei furiosi flutti. I marosi si scagliavano rabbiosamente addosso agli aeronauti, quasi fossero bramosi di strapparli, li coprivano di spuma, li sbattevano in tutti i sensi assordandoli con lunghi muggiti. I due grandi fusi, che risentivano le scosse subite dai tre uomini, si abbassavano, poi si rialzavano, giravano su se stessi e si piegavano ora da un lato, ora dall'altro. Il vento, che s'ingolfava entro le loro pieghe, li trascinava però verso l'isola. Ad un tratto, fra i muggiti delle onde echeggiò un grido. Quasi contemporaneamente O'Donnell e l'ingegnere si sentirono tratti bruscamente fuori dall'acqua e trascinati rapidamente in alto. "Gran Dio!" esclamò O'Donnell, aggrappandosi prontamente alla rete. "Che cos'è accaduto?" "Walter! Walter!" gridò l'ingegnere, mentre l'aerostato, scaricato di quel peso, s'innalzava ancora in aria. Il mozzo, che le onde avevano strappato dall'asta alla quale era aggrappato, ricomparve fra la spuma nuotando vigorosamente e additò la spiaggia, lontana duecento metri. Il Washington, malgrado fosse quasi mezzo vuoto e inzuppato d'acqua, fu trascinato sopra i grandi boschi che coprivano l'isola. "Si salverà quel povero ragazzo?" "Nuotava vigorosamente" risposero l'ingegnere. "Toccherà la spiaggia senza fatica." "Lo ritroveremo?" "Lo cercheremo, O'Donnell. Cadiamo ancora." "Sui boschi?" "Meglio così: attenueremo l'urto. State attento ad aggrapparvi ai rami." "Vedete il piccolo bastimento?" "Sì, sta doppiando il capo settentrionale dell'isola." In quell'istante il sole scomparve all'orizzonte. Il Washington precipitava sopra i grandi boschi dell'isola.

e i suoi trenta aiutanti stanno per abbandonare le funi, si odono delle grida di rabbia: "È lui!", "Addosso, policemen," "Prendiamolo!", "Fermate! ... Fermate!" Quindici o venti policemen, guidati da alcuni capi, si precipitano nel recinto, correndo verso il pallone, ma ormai è troppo tardi. Il vascello aereo, libero, s'innalza maestosamente, trasportando con sé l'ingegnere, il suo negro e quello sconosciuto, giunto all'ultimo momento. "Scendete!" gridano i policemen, che sembrano furiosi. Uno di loro con un salto si aggrappa a una fune pendente dalla navicella; ma il vascello aereo, che deve avere una potenza ascensionale immensa, lo trascina con sé. Il pubblico scoppia in una clamorosa risata. Lo sconosciuto però, che pare si aspettasse un simile colpo di scena, si curva sul bordo della navicella e taglia la fune con un rapido colpo di coltello, facendo capitombolare sconciamente l'agente di polizia, e rovescia sul capo degli altri un sacco di zavorra, accecandoli. Una guardia estrae il revolver e lo punta in alto; ma il pubblico, che s'è riversato nel recinto come una fiumana, glielo strappa di mano, per tema che guasti quella meravigliosa nave aerea. Un ultimo immenso grido riecheggia: "Hurrah! Hurrah per Kelly! Viva il Washington!" I due palloni erano allora tanto alti che già parevano due sigari: si videro per alcuni istanti rasentare un grande nuvolone che si estendeva sopra l'oceano, poi sparire verso il nord, in direzione di Terranova. Quasi contemporaneamente una rapida nave a vapore, un incrociatore della Real Marina, usciva precipitosamente da Sidney e si slanciava sulle tracce degli aeronauti.

Tagliare la corda e abbandonare l'ancora?" "Sarebbe una grande imprudenza perdere uno dei nostri coni. Manderò Simone a vedere." "Lui! ... quel pauroso! ... Con il vostro permesso, andrò a vedere io, Mister Kelly." "Ci sono trecentocinquanta metri da discendere, e voi non potete tentare una così pericolosa impresa, O'Donnell. Simone è agile come una scimmia delle foreste africane e può toccare il cono senza stancarsi." "Ma come salirà poi?" "Lo solleveremo noi fino alla navicella, ritirando la fune. Orsù, Simone, prendi una rivoltella e và a vedere che cosa accade laggiù."

Voi siete il capitano qui e non dovete abbandonare l'aerostato ed esporvi a dei pericoli." Poi, prima che l'ingegnere pensasse a opporsi, il bravo irlandese superò il bordo della scialuppa, s'aggrappò alla fune e si lasciò scivolare. "Badate al cane" gridò l'ingegnere. "Ho la rivoltella" rispose O'Donnell. Di mano in mano che scendeva, il puzzo diventava così orribile che si sentiva asfissiare. Gli pareva di scendere in una immensa fossa di cadaveri putrefatti. Giunto all'ultimo nodo, si fermò e guardò sotto di sé. L'enorme molosso stava presso all'ancora e lo guardava con due occhi che mettevano paura, mandando dei sordi brontolii. Aveva il pelo arruffato, la coda penzoloni e delle lunghe bave alla bocca. "È idrofobo!" esclamò O'Donnell che si sentì correre un brivido per le ossa. "Bel guardiano a questa nave dei morti!" Impugnò la rivoltella con la mano destra, mentre con la sinistra si teneva aggrappato alla fune, e scaricò quattro colpi contro quel cagnaccio, il quale stramazzò sul ponte della nave. "È morto?" gli chiese l'ingegnere, dall'alto. "Lo credo" rispose O'Donnell. "Se si rialza ho altri due colpi." Si lasciò andare e cadde sulla tolda. "Corna di cervo!" esclamò. "Che profumi! Ma che cos'è accaduto qui? Che l'equipaggio si sia scannato?" S'avvicinò al cane e vedendolo ancora agitarsi lo fulminò con una quinta palla in un orecchio; vincendo la ripugnanza che lo invadeva e coprendosi il naso con una pezzuola, avanzò verso il boccaporto maestro, che era, come si disse, aperto. Guardò in quella voragine e vide che era semipiena di botti accatastate confusamente le une sulle altre e addossate alle pareti di bordo. In mezzo ad esse, scorse il cadavere di un marinaio in piena putrefazione. "Non può essere quello solo che manda queste pestifere esalazioni" mormorò. Si diresse verso il quadro di poppa, e sulla ruota del timone lesse queste parole: Benito Juarez. Vera Cruz. "È una nave messicana" gridò, volgendosi verso l'ingegnere, che lo guardava con ansietà. "Vi sono dei morti?" chiese l'ingegnere. "Ho veduto un solo marinaio; ma temo che nel quadro e nella camera di prua ve ne siano ben altri, dalla puzza orribile che qui si sente." "Udite nessun rumore, nessun gemito?" "Regna un silenzio di tomba. Mister Kelly. Qui devono essere tutti morti, e forse da qualche settimana." "Temo un grave pericolo, O'Donnell." "Bah! I morti non si muovono." "Ma avvelenano, uccidono." "Ho la pelle dura" rispose l'irlandese, che forse non aveva compreso l'allusione dell'ingegnere. Senza aggiungere parola, scese coraggiosamente la scaletta che metteva nel quadro, malgrado la puzza orrenda che ne usciva. La sua assenza fu breve. L'ingegnere lo vide risalire rapidamente, coi capelli irti, il viso sconvolto, pallido come un cadavere, e precipitarsi verso l'ancora, che con un colpo di mano staccò dai paterazzi e dalle griselle. "Fuggiamo, Mister Kelly, fuggiamo!" gridò con accento di terrore. S'aggrappò alla guide-rope e, senza rispondere all'ingegnere per non perdere tempo, si mise a salire facendo sforzi sovrumani per far più presto che poteva. In un minuto superò la distanza e si issò sulla scialuppa, ripetendo con voce atterrita: "Fuggiamo, Mister Kelly, fuggiamo!" "Ma che cosa avete veduto, O'Donnell?" chiese l'ingegnere. "Siete pallido e sconvolto." "Ho ... che forse noi, che abbiamo respirato ... quei miasmi, ... siamo perduti." "È scoppiata una epidemia su quella nave?" "Sì, e forse la più tremenda: la febbre gialla!" "Fuggiamo" ripeté l'ingegnere, il quale, nonostante il suo coraggio, aveva provato un brivido. Rovesciarono i coni, che mantenevano il pallone prigioniero, e gettarono un sacco di zavorra. L'aerostato, scaricato di quel peso, s'innalzò rapidamente, fuggendo dalle mortali esalazioni che irrompevano da quel cimitero galleggiante.

I MISTERI DELLA GIUNGLA NERA

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

Non ti sembra atroce abbandonare questa terra indorata dal sole e profumata dall'olezzo di mille fiori, per scendere nella tomba, nell'oscurità, nel mistero? - Sei pazzo? - domandò Aghur. - No, Aghur, non sono pazzo, - disse l'assassino avvicinandoglisi fino a toccarlo. - Guarda! - Aprì la tunica che coprivalo e mise allo scoperto il suo petto tatuato del serpente colla testa di donna. - Cos'è? - chiese Aghur. - L'emblema della morte. - Non capisco. - Tanto peggio per te. Il bengalese sciolse il laccio che teneva nascosto sotto la tunica e lo fece fischiare attorno alla sua testa. - Aghur! - gridò, - Suyodhana ti ha condannato e devi morire! L'indiano comprese allora tutto. Balzò in piedi colla carabina in mano, ma gli mancò il tempo di puntarla sul traditore. Un fischio tagliò l'aria e il poveretto, stretto alla gola dal laccio, la cui palla di piombo lo percosse fortemente alla nuca, stramazzò a terra. - Assassino! ... - urlò egli con voce strozzata. - Aghur! - disse lo strangolatore con accento funebre. - Saluta un'ultima volta il sole che ti accarezza, respira un'ultima volta quest'aria che corre sulle Sunderbunds, invia l'estremo saluto ai tuoi compagni e scendi nella tomba. - Kammamuri! ... Padrone! ... - balbettò Aghur, dibattendosi. Il fanatico afferrò solidamente il laccio e soffocò la voce della vittima con una violenta strappata, poi gli si gettò sopra e col pugnale lo trafisse. - Muori, ché la dea lo vuole! - gli gridò un'ultima volta Manciadi. Aghur, col volto cinereo, gli occhi schizzanti dalle orbite cacciò fuori un rauco gemito e cercò di risollevarsi, ma ricadde. - E uno, - disse il fanatico, lanciando un guardo feroce sull'assassinato. - Ora, pensiamo all'altro. E s'allontanò a rapidi passi, mentre uno stormo di marabù calava sul cadavere ancor caldo dell'infelice Aghur.

Percorse, così correndo, più d'un miglio inoltrandosi sempre più nella jungla, procurando di mantenere una via retta per giungere alla riva del fiume e di là aspettare il ritorno del padrone che non voleva abbandonare. Era la mezzanotte, quando si trovò sul limitare di una foresta di palme da cocco, superbe piante che superano in bellezza le palme da datteri, e che una sola basta per fornire ad una intera famiglia il cibo, la bevanda e persino le vestimenta. Il maharatto non ardì andare più innanzi; s'arrampicò su una di quelle piante e stabilì lassù il suo domicilio, sicuro di non venire assalito dagl'indiani e meno ancora dalle tigri, che dovevano trovarsi in buon numero in quell'isola. Si accomodò sul tronco, si legò colla corda presa allo strangolatore e rassicurato dal profondo silenzio che regnava, chiuse gli occhi. Non dormì che pochissime ore, poiché un baccano infernale lo svegliò. Una grossa banda di sciacalli, sbucata chi sa mai da dove, aveva attorniato l'albero e gli faceva l'onore di una spaventevole serenata. Quegli animali, poco dissimili dai lupi, che pullulano come le formiche in tutta o quasi tutta l'India, ed i cui morsi sono ritenuti velenosi, erano più di cento e facevano salti disperati, sfogando la loro rabbia con urli lamentevoli, quasi strazianti, da incutere terrore anche a chi è abituato a udirli da lunga pezza. Kammamuri avrebbe ben voluto allontanarli con qualche schioppettata, ma la tema di attirare gl'indiani, assai più terribili di quelle bestie, lo trattenne e si rassegnò ad ascoltare il loro concerto che durò fino all'alba. Allora poté gustare il sonno che si prolungò più di quanto avrebbe voluto, poiché quando riaprì gli occhi, il sole aveva quasi compito l'intero suo giro e declinava rapidamente all'occidente. Spaccò una noce di cocco giunta a completa maturanza, grossa quanto la testa di un uomo, la cui polpa indurita rammenta il sapore delle mandorle, ne inghiottì una buona parte e si rimise bravamente in marcia, non già questa volta coll'intenzione di recarsi alla riva, ma di trovare Tremal-Naik. Attraversò il bosco di cocchi perdendo parecchie ore e quantunque la notte fosse abbastanza inoltrata, rientrò nella jungla piegando verso il sud e continuò a marciare così fino a mezzanotte, fermandosi di quando in quando ad esaminare il terreno colla speranza di trovare qualche traccia del padrone. Disperando ormai di scoprire qualche indizio, stava per cercare un albero su cui passare il restante della notte, quando due sordi spari, tirati a poca distanza l'un dall'altro, lo colpirono. - To' - esclamò sorpreso. Un terzo sparo, più forte degli altri due, s'udì. - Il padrone! - gridò. - Questa volta non mi sfugge più! Sospese le sue ricerche e corse verso il sud colla celerità d'un cavallo, e mezz'ora dopo giungeva in un'ampia radura, in mezzo alla quale illuminata da uno splendido chiaro di luna, ergevasi una grandiosa pagoda. Fece alcuni passi innanzi, poi ritornò rapidamente indietro riguadagnando i bambù. Due uomini si erano mostrati all'aperto e muovevano verso la jungla, portando una terza persona che sembrava morta. - Cosa vuol dire ciò? - borbottò il maharatto, che cadeva di sorpresa in sorpresa. - Che vengano a seppellire quel cadavere nella jungla? S'allontanò ancor più, cacciandosi nel fitto d'un cespuglio, ma in un luogo da cui poteva vedere senza essere scoperto. I due portatori, che riconobbe per due indiani, attraversarono rapidamente la radura, arrestandosi presso i bambù. - Animo, Sonephur, - disse uno dei due. Facciamolo dondolare e scagliamolo là in mezzo. Sono certo che domani mattina non troveremo che le ossa, se le tigri saranno d'umore di lasciarle. - Lo credi? - chiese l'altro. - Sì, la nostra amata dea s'incaricherà d'inviargli una mezza dozzina di quelle bestie. Quest'indiano è un bel pezzo di carne e abbastanza giovane. I due miserabili scoppiarono in una sonora risata, a quell'atroce scherzo. - Prendilo bene, Sonephur. - Andiamo, uno, due ... I due indiani fecero oscillare il cadavere e lo scagliarono in mezzo alla jungla. - Buona fortuna! - gridò uno. - Buona notte, - disse l'altro. - Domani mattina verremo a farti una visita. Ed i due indiani s'allontanarono sghignazzando. Kammamuri aveva assistito a quella scena. Aspettò che i due indiani fossero molto lontani, poi uscì dal nascondiglio e spinto da una forte curiosità, s'avvicinò al cadavere. Un urlo strozzato gli uscì dalle labbra.- Il padrone! esclamò con voce straziante. - Oh! i maledetti! Infatti quel cadavere era Tremal-Naik. Aveva gli occhi chiusi, la faccia orribilmente alterata e in mezzo al petto, confitto sino al manico, un pugnale. Le vesti erano tutte lorde del sangue che usciva ancora dalla profonda ferita. - Padrone! mio povero padrone! - singhiozzò il maharatto. Appoggiò ambe le mani sul corpo di lui e trasalì come se fosse stato toccato da una pila elettrica. Gli pareva d'aver sentito il cuore a battere. Avvicinò l'orecchio e ascoltò rattenendo il respiro. Non vi era da ingannarsi: Tremal-Naik non era ancor morto poiché il cuore debolmente batteva. - Forse non è colpito a morte, - mormorò, tremando per l'emozione. - Calma, Kammamuri, e agiamo senza perdere tempo. Con precauzione tolse a Tremal-Naik il kurty mettendo a nudo l'ampio petto. Il pugnale gli era stato immerso fra la sesta e la settima costola, in direzione del cuore, ma senza averlo toccato. La ferita era terribile, ma forse non era mortale; Kammamuri che se ne intendeva più d'un medico, sperò di salvare l'infelice. Prese delicatamente l'arma e lentamente, senza scosse, la estrasse dalla ferita: un getto di sangue caldo e rosso uscì dalle labbra. Era buon segno. - Guarirà, - disse il maharatto. Stracciò un pezzo del kurty ed arrestò l'emorragia che poteva essere fatale pel ferito. Ora si trattava di avere un po' d'acqua e alcune foglie di youma da spremere sulla piaga, per affrettare la cicatrizzazione. - Bisogna a qualsiasi costo allontanarsi da qui per trovare qualche stagno, - mormorò poi. - Tremal-Naik è forte, un uomo d'acciaio e sopporterà il trasporto senza aggravare la ferita. Animo, Kammamuri. Raccolse tutte le sue forze, lo afferrò fra le braccia più delicatamente che poté, e s'allontano barcollando, dirigendosi verso l'est, ossia verso il fiume. Riposando ogni cento passi per tirare il fiato e per vedere se il padrone dava sempre segno di vita, grondante di sudore, reggendosi a mala pena sulle gambe, percorse più d'un miglio e si fermò sulle rive d'uno stagno d'acqua limpidissima, circondato da una triplice fila di piccoli banani e di cocchi. Depose il ferito su di un denso strato d'erbe, ed applicò sulla sanguinosa piaga delle pezzuole bagnate. A quel contatto un debole sospiro, che parve un gemito represso, uscì dalle labbra di Tremal-Naik. - Padrone! padrone! - chiamo il maharatto. Il ferito agitò le mani ed aprì gli occhi che roteavano in un cerchio sanguigno, fissandoli su Kammamuri. Un raggio di gioia illuminò il suo bronzeo volto. - Mi riconosci, padrone? - chiese il maharatto. Il ferito fece un cenno affermativo col capo e mosse le labbra come per parlare, ma non articolò che un suono confuso, incomprensibile. - Non puoi ancora parlare, - disse Kammamuri, - ma mi narrerai ogni cosa poi. Sta' certo, padrone, che ci vendicheremo dei miserabili che t'hanno conciato così malamente. Lo sguardo di Tremal-Naik brillò di un cupo fuoco e strinse le dita strappando le erbe. Egli lo aveva senza dubbio compreso. - Calma, calma, padrone. Ora troverò io alcune erbe che ti faranno molto bene, e fra quattro o cinque giorni abbandoneremo questi luoghi e ti condurrò alla capanna a terminare la tua guarigione. Gli raccomandò un'ultima volta silenzio e immobilità completa, batté le erbe per un raggio di trenta o quaranta passi per assicurarsi che non nascondevano alcuno di quei terribili serpenti detti rubdira mandali il cui morso fa, come si dice, sudar sangue, e si allontanò strisciando. Non corse molto, che trovò alcune pianticelle di youma, volgarmente chiamate lingua di serpente il cui succo è un balsamo prezioso per le ferite. Ne fece una buona raccolta e si disponeva a ritornare, ma fatti appena pochi passi s'arrestò colle mani sui calci delle pistole. Gli era sembrato di aver veduto una massa nera cacciarsi silenziosamente fra i bambù; aveva più la forma d'un animale, che d'un essere umano. Fiutò a più riprese l'aria e sentì un odore marcatissimo di selvatico. - Attento Kammamuri, - mormorò. Abbiamo una tigre vicina. Si mise fra i denti il coltellaccio e s'avanzò intrepidamente verso lo stagno guardando attentamente attorno. S'aspettava di trovarsi da un momento all'altro di fronte al feroce carnivoro, ma così non fu e giunse in mezzo agli alberi senza averlo nemmeno veduto. Tremal-Naik era nel medesimo luogo di prima e pareva assopito, di che si rallegrò il bravo maharatto. Si mise vicino la carabina e le pistole per esser pronto a servirsene, masticò le erbe, malgrado la loro insopportabile amarezza e le applicò sulla piaga. - Là, così va bene, - diss'egli stropicciandosi allegramente le mani. - Domani il padrone starà meglio e potremo sloggiare da questo luogo che non mi sembra molto sicuro. Gl'indiani fra poche ore si recheranno nella jungla e non trovando il cadavere, si metteranno senza dubbio in campagna. Non lasciamoci dunque prendere così ... Un miagolìo formidabile, famigliare alle tigri, simile ad un ruggito, gli troncò la frase. Volse rapidamente la testa, allungando istintivamente le mani verso le armi. Là, a quindici passi di distanza, raccolta su se stessa, come in atto di slanciarsi stava un'enorme tigre reale, che lo fissava con due occhi brillanti che avevano i riflessi azzurrini dell'acciaio.

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