Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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I PESCATORI DI BALENE

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Salgari, Emilio 7 occorrenze

. - Lo spero, poichè il capitano Weimar non è un uomo da abbandonare questi paraggi, sapendo che due dei suoi uomini sono qui. - Ma può crederci morti, tenente. - Non lo credo, Koninson. La costa era vicina e il capitano sa che noi siamo forti nuotatori. - E cosa faremo intanto? - Raggiungeremo quelle alture e là aspetteremo che la tempesta sia cessata. - E poi? - Poi seguiremo la costa verso est. In cammino, Koninson. Si posero in marcia con passo rapido per non gelare vivi, poichè il freddo era veramente feroce, accresciuto anche dal vento il quale sollevava attorno ai due poveri marinai delle vere nubi di minutissimi ghiacciuoli e di nevischio. La via era aspra, ineguale e spesso intersecata da profondi crepacci pieni di neve, entro i quali molto spesso Koninson e il tenente cadevano, penando poi assai nell'uscirne. Tuttavia camminarono così bene, che dopo mezz'ora giunsero ai piedi di una collina assai dirupata e sulla cui cima ondeggiavano fortemente alcuni pini. La girarono e guadagnarono un luogo ove la collina scendeva dolcemente verso il mare. Quasi subito gli occhi del tenente scorsero una nera apertura presso la quale giungevano talora gli sprazzi delle onde. - Là dentro staremo bene! - disse a Koninson. - Potremo riposarci, scaldarci, e nel medesimo tempo guardare l'oceano. - Avanti allora, signor Hostrup. Io non ne posso più! Si avvicinarono all'apertura che era larga assai, ma poco alta e per di più in parte ostruita da certe colonne di ghiaccio, scese forse dalla volta, ed entrarono. Ad un tratto Koninson, che camminava innanzi al tenente, si arrestò bruscamente facendo un gesto di sorpresa e di terrore. - Che hai? - chiese Hostrup. - C'è qualcuno dentro - rispose il fiociniere. - È impossibile! Non vedo che tenebre. - Ho udito un ruggito, signore. - Un ruggito! ... Oh! ... Oh! ... Che ci sia un orso? - Lo temo. - Io ho un coltello alla cintura. - E anch'io, ma poco varranno tali armi contro una bestia così grossa e così feroce. Zitto! ... In fondo alla caverna si udì un profondo ruggito, poi si videro brillare due occhi grandi, rotondi, dai riflessi verdastri. - Non è un orso - disse il tenente, che aveva subito impugnato il coltello. - O m'inganno di molto, o abbiamo da fare con una foca o con un tricheco. - Una foca qui dentro? - E perchè no? Non siamo forse a due passi dal mare? Sarà venuta qui a riposare o a mettersi al riparo dalla tempesta. Va a prendere un ramo di pino. Koninson si affrettò a obbedire e poco dopo ritornò con una bracciata di rami resinosi. Il tenente estrasse da una scatoletta di metallo ermeticamente chiusa l'acciarino e un pezzo d'esca e accese una di quelle torcie. - Avanti! - disse poi. - E i coltelli in pugno! Entrarono nella caverna che pareva assai profonda, e fatti dieci o dodici passi, si trovarono dinanzi ad una foca gigantesca, la quale si era appoggiata ad una parete mostrando i denti ed emettendo rauchi ruggiti. - Addosso, Koninson! - gridò il tenente.- Abbiamo la cena! Il fiociniere balzò addosso alla foca; con un formidabile pugno applicatele sul naso la stordì, poi con un rapido colpo di coltello la scannò. La morte fu quasi istantanea. Il tenente si avvicinò col ramo acceso e la osservò con curiosità. Era una otaria, anfibio appartenente alla famiglia delle foche, dalle quali si distingue per avere un poco d'orecchio esterno. - Quest'animale ci voleva - disse Koninson. - Ho una fame proprio feroce. - Metteremo ad arrostire il fegato, che passa per un boccone delicatissimo- disse il tenente. - Ma affrettati ad accendere il fuoco, Koninson, poichè stiamo per gelare. Tò! Cosa c'è laggiù? Una provvista di legna! Riprese il ramo di pino che aveva piantato accanto la foca e si recò in fondo alla caverna. Con sua grande sorpresa trovò una considerevole provvista di legna, un alto strato di licheni e due lance colla punta di ossidiana. - Ma questa caverna ha servito di ricovero a qualche indigeno - diss'egli. - Forse a qualche cacciatore! - aggiunse Koninson. - Ah! Il bel fuoco che accenderemo! Con due pezzi di roccia improvvisò un camino e vi gettò sopra un ammasso di legna. Il ramo, che continuava ad ardere, fu messo sotto e pochi istanti dopo una superba fiamma illuminava l'antro, spandendo all'intorno un dolce calore. Il tenente e Koninson si spogliarono rapidamente delle vesti che cominciavano a indurirsi, le stesero dinanzi alla fiamma e, impugnati i coltelli, sventrarono destramente l'otaria strappandole il fegato che fu tosto infilzato in una lancia e avvicinato ai tizzoni. - Che colazione! - esclamò Koninson, tornato di buon umore.- Ventre di balena! Il mio naso non ha mai sentito un profumo più appetitoso di questo. Non mancherebbe che una bottiglia di "gin" o di "wisky". - Ne faremo senza! - rispose il tenente, che si era accoccolato accanto alla fiamma e che si stropicciava energicamente le membra per riattivare completamente la circolazione del sangue. - Ditemi, signor Hostrup, - ripigliò il fiociniere. - è buona la carne delle otarie? Confesso di non averne mai mangiato. - Per gli Eschimesi, che vanno pazzi per l'olio e pel grasso, sì, ma per noi bianchi è detestabile. - Ma avendo fame la si può inghiottire. - Anche i tuoi stivali, non avendo altro da porre sotto i denti, si possono rosicchiare. Ma come mai questa otaria si trova qui sola? ... - Vi sorprende forse? - Sì, Koninson, poichè ordinariamente vanno a branchi numerosissimi, specialmente in questa stagione. Su certi punti della costa americana, se ne vedono anche oggidì delle migliaia, malgrado la caccia spietata che loro fanno i balenieri e gli indigeni. - È vero, tenente, che queste otarie non appariscono sulle coste americane che il primo di maggio? - Sì, Koninson, e posso aggiungere anche che tutti gli anni giungono anche alla stessa ora.. - E quanto vi rimangono? - Fino alla metà di dicembre. Oltre quest'epoca non si trova un'otaria a volerla pagare a peso d'oro. È un magnifico spettacolo, Koninson, che merita di essere veduto, l'approdo di questi anfibi. - Ma cosa vengono a fare sulle coste? - Vengono ad attendere le femmine, le quali giungono infallibilmente tutti gli anni il 15 di giugno. - Avete mai veduto uno di questi arrivi? - Sì, Koninson, e parecchie volte.. Sei anni or sono io mi trovavo nella baia Smith quando fu segnalato l'arrivo di parecchie migliaia di otarie. Erano tutti maschi. In men che lo si dica occuparono un punto della costa disponendosi su tre file: dinanzi i "beach-master", o padroni del posto, in mezzo i "bachelors" o celibatari, quasi tutti giovani, ultime le "riserve". Il 15 giugno fu segnalato l'arrivo delle femmine. Venivano innanzi in ranghi compatti e lunghissimi; anche qui le otarie si contavano a migliaia. Allora si vide uno spettacolo curioso. I "beach-master" si gettarono in mare, nuotarono incontro alle femmine e prendendole gentilmente per la pelle della nuca, ne portarono un gran numero a terra. Quando ognuno ne ebbe sette od otto, lasciarono allora il posto ai celibi i quali a loro volta balzarono in mare disputandosi con ferocissime zuffe le femmine rimaste. - I ranghi dei celibi di cosa sono composti? - Di otarie giovani. - E i "beach-master" sono invece? ... - Gli adulti, e, come ti dissi, ognuno prende sette od otto femmine. - Corpo d'una balena! Sono veri sultanelli questi signori "beach-master". - E ve ne sono taluni forti e prepotenti che si prendono persino venti femmine. - E, giunta l'epoca della partenza, se ne vanno tutte assieme le otarie? - No, prima partono i vecchi, e ciò avviene in ottobre, poi i nati, quindi le femmine. - E mentre sono uniti non vengono disturbati? - I balenieri e gli Eschimesi piombano sovente in mezzo a questi grandi campi e fanno degli orribili macelli. - Per averne le pelli? - Sì, Koninson. - E si pagano bene? - Sei, otto e qualche volta dieci dollari ciascuna. - Fanno adunque dei lauti guadagni i cacciatori. - Sempre, poichè uccidono in quei massacri delle migliaia di otarie. Leva dal fuoco il fegato, che mi pare sia cotto a puntino. Il fiociniere obbedì e lo depose su di un sasso ben levigato. II tenente lo divise per metà e tutti e due cominciarono a lavorare di denti e così bene, che in cinque minuti più nulla restava. - Ora, - disse il tenente - facciamo una pipata e poi una dormita. - E non pensate al "Danebrog"? - chiese Koninson. - La tempesta continua, Koninson, e il "Danebrog" non tornerà finchè non sarà finita. - Ma sperate che ritorni? - Ne sono certo; ti ho detto che il capitano Weimar non è uomo da abbandonare i suoi marinai, II tenente accese la pipa che aveva ritrovata in una tasca della sua giacca assieme alla scatola del tabacco che era rimasto perfettamente asciutto, si sdraiò sullo strato di licheni e si mise a fumare flemmaticamente, mentre Koninson richiudeva alla meglio, con grossi sassi e rami di pino, l'apertura della caverna, per essere meglio riparato dal vento e dal freddo. Alle 9 mentre l'uragano accennava a decrescere, i due marinai, coricatisi l'uno accanto all'altro, coi piedi rivolti verso il fuoco, si addormentavano profondamente. Il loro sonno però fu di breve durata, poichè il baccano che veniva dal di fuori era veramente spaventevole. Erano continui muggiti prodotti dalle onde che venivano a sfasciarsi ai piedi del colle, lanciando degli sprazzi d'acqua persino dentro la caverna; erano continui scoppi prodotti dai ghiacci che si frantumavano gli uni contro gli altri e continui fischi ed urla indiavolate prodotte dal vento, il quale dopo essersi un pò calmato, aveva ripreso novella foga. Verso le 11, secondo i calcoli del tenente, provarono a mettere la testa fuori. Non nevicava più, ma il cielo era sempre coperto da gigantesche nubi le quali correvano disordinatamente per il cielo, accavallandosi confusamente sotto i furiosi colpi di vento, e il mare era ancora agitatissimo. Sulle onde oscillavano spaventosamente gran numero di "icebergs", di "hummocks" e di "streams". - Che cosa facciamo? - chiese Koninson. - Ti senti forte? - Sì, tenente. - Allora mettiamoci in cammino. Ho fretta di rivedere il "Danebrog". - Seguiremo la costa? - Finchè potremo sì, poi daremo la scalata a quella catena di colline che vedi lassù. Si coprirono alla meglio, si armarono di un grosso ramo di pino per aiutarsi nell'ascensione che stavano per intraprendere attraverso le dirupate colline, e si misero in cammino con passo abbastanza rapido, tastando però prima il terreno onde non cadere in qualche crepaccio che poteva celarsi sotto lo strato di neve. Per un po' di tempo seguirono la costa passando in mezzo a picchi aguzzi, poi deviarono verso sud non essendovi più passaggi e cominciarono a scalare un'altissima collina coperta di neve e sulla quale ruggiva furiosamente il vento, torcendo un gruppetto di intristiti abeti. - Dannata bufera! - esclamò Koninson, piegandosi verso terra per meglio resistere agli urti del vento. - Quando cesserà? - Ne avremo fino a domani di certo. - rispose il tenente, che segnava la via. - Se il "Danebrog" si trova ancora in mare, sarà a quest'ora ben lontano da noi. - Se non lo troveremo oggi, sarà domani. - Ma dove dormiremo stasera? - In qualche altra caverna. - E metteremo sotto i denti? - Ho un bel pezzo di foca in tasca. Animo, Koninson, che la marcia comincia a diventare faticosa. Bada di non perdere l'equilibrio se non vuoi fracassarti le ossa. La marcia infatti diventava allora difficilissima e anche pericolosa. Non c'erano sentieri in nessun luogo e dalle nevi sorgevano punte rocciose così aguzze da lacerare le scarpe. Oltre a ciò il vento non cessava dal soffiare; anzi, la sua violenza, man mano che i due marinai si innalzavano, diventava sempre maggiore, trascinando con sè nembi di neve e ghiacciuoli e strappando, dalla cima del colle, delle pietre di non piccola mole, le quali scendevano rimbalzando violentemente di roccia in roccia. Verso la cima si udivano poi certi fischi e certi muggiti da mettere i brividi. I due poveri cacciatori di balene, acciecati dalla neve, gelati da quel ventaccio, percossi dai sassi, ora spinti da una parte e ora dall'altra, non procedevano che con molto stento. Ad ogni istante erano costretti a curvarsi ed aggrapparsi alle roccie per non essere portati via. Verso il tocco, sfiniti, insanguinati, coperti di neve, colle vesti lacere, le scarpe sfondate, giungevano sulla cima della collina che si stendeva in forma di altipiano. Colà il vento, non più imprigionato fra le rupi, urlava in modo orribile sconvolgendo lo strato di neve e torcendo come pagliuzze i pochi abeti che lassù vegetavano. - Vedete nulla? - chiese Koninson, addossandosi ad una rupe. Il tenente si arrampicò sulla cima della rupe e guardò innanzi a sè. Alla sua sinistra, ad un miglio di distanza, scorse il mare coperto di ghiacci; alla sua destra si elevava un'alta montagna dirupatissima e coperta di neve; dinanzi si estendeva una pianura ondulata, interrotta qua e là da piccoli corsi d'acqua gelata. Ad un tratto fece un gesto di stupore. Seguendo collo sguardo la costa, aveva veduto sorgere nel mezzo di una profonda spaccatura che doveva senza dubbio essere qualche piccolo seno o qualche stretto "fiord", gli alberi di una nave. - Vedete nulla, signor Hostrup? - chiese Koninson per la seconda volta. - Sì, fiociniere, vedo gli alberi di una nave - rispose il tenente. - Ventre di foca! Una nave avete detto? Il "Danebrog" forse! - Sì, è il "Danebrog", ne sono certo, Koninson. - Iddio sia ringraziato! È molto lontano? - Un miglio e mezzo forse. - Partiamo, partiamo, signor Hostrup! Non sono più stanco. Ah! Bravo capitano! Urrah! Urrah! - Calmati, Koninson. - Andiamocene di qui, signor Hostrup. Io ho le vampe sotto i piedi. Il tenente, che malgrado tutta la sua calma era pure impaziente di ritornare a bordo del valoroso "Danebrog", scese dalla rupe e si mise in cammino preceduto da Koninson. Nonostante la furia della burrasca, attraversarono rapidamente l'altipiano e scesero sul versante opposto lambendo un profondo abisso da cui uscivano dei lamentevoli ululati, forse emessi da qualche branco di lupi affamati. Dopo aver arrischiato più di venti volte di fracassarsi in fondo di quell'abisso e di rompersi le gambe giù per il dirupato pendio, giunsero nella pianura. L'attraversarono quasi a passo di corsa e si arrestarono sulle alte sponde di un lungo e stretto "fiord", in fondo al quale stava solidamente ancorato il "Danebrog" fra un gran numero di ghiacciuoli staccatisi da un grande e grosso banco di ghiaccio che si era incastrato dinanzi l'uscita di quel braccio di mare. - Ohe! Del "Danebrog"! - urlò Koninson con voce tonante. Un marinaio, poi due, poi cinque, poi tutti apparvero sulla tolda della nave. Un gran grido echeggiò - Il tenente Hostrup! Viva il tenente! Viva Koninson! Una baleniera fu subito calata in acqua, sette uomini, compreso il capitano Weimar, vi presero posto, e si diresse a tutta forza di remi verso la riva. Pochi minuti dopo il tenente e Koninson si trovavano l'uno fra le braccia del capitano e l'altro fra quelle di due camerati che ormai li avevano creduti per sempre perduti!

Non mancava che di calare le baleniere in mare e di muovere contro il cetaceo che non pareva disposto ad abbandonare quelle acque. Il capitano Weimar e il suo tenente, sempre in piedi sulla murata seguivano attentamente collo sguardo l'enorme pesce che di quando in quando si tuffava o avventava dei formidabili colpi di coda sollevando delle grandi ondate. Il primo si mostrava impazientissimo e imprecava contro l'oscurità; il secondo invece, uomo flemmatico quanto mai, quantunque non meno intrepido marinaio del capitano, appariva tranquillissimo e taceva fumando con tutta flemma in una vecchia pipa che quasi mai abbandonava. Anche Koninson e l'equipaggio erano in preda ad una viva agitazione, e ingiuriavano il cetaceo che non si lasciava accostare dalla nave, quantunque questa filasse con una notevole velocità avvicinandosi alle isole Aleutine, che ormai non dovevano essere molto lontane. Finalmente cominciò a far chiaro. Ad oriente apparve una luce biancastra che fece impallidire la luce degli astri e che gettò sui neri flutti delle tinte madreperlacee di bellissimo effetto. Il capitano attese ancora un po', quindi tornò a puntare il cannocchiale verso il cetaceo che allora si trovava a due miglia dal "Danebrog", ma quasi nel medesimo istante il gigantesco pesce, quasi indovinasse che qualcuno lo spiava, si tuffò. - Ah, brigante! - esclamò Weimar. - Ma non per questo mi sfuggirai. Ehi, mastro Widdeak governa dritto su quel briccone! Il mastro non si fece ripetere il comando e lanciò il "Danebrog" verso il luogo ove il cetaceo si era inabissato; ma passarono dieci, venti, trenta minuti, senza che apparisse a galla. - Non è una balena quella là! - disse il capitano. - Se lo fosse, a quest'ora sarebbe già tornata a galla. - È un capodolio, capitano - disse il tenente. - Non ci sono che questi cetacei che siano capaci di starsene quaranta, cinquanta e anche sessanta minuti senza respirare. - Niente di meglio. Alla balena preferisco il capodolio che dà maggior profitto. Ma come mai si trova qui? - Guarda! Guarda! - gridò in quell'istante Koninson. A cinquecento metri dal "Danebrog" si era visto alla superficie dei mare un largo tremolio, segno evidente che il cetaceo stava per risalire; poi apparve un punto nero, indi una massa enorme che gettò in aria due nuvolette di vapore grigiastro. Koninson gettò un grido: - Un capodolio! Un capodolio! Alle baleniere, ragazzi!

Poco dopo scomparve dietro al nebbione che pareva non volesse più abbandonare il gran banco di ghiaccio.

La più elementare prudenza consigliava ai due balenieri di andarsene verso sud, di abbandonare quel campo di ghiaccio che non avrebbe resistito per molto tempo al calore solare. Fu il 16 aprile che il tenente, che da qualche giorno visitava attentamente le baleniere riparate nel magazzino e colle quali contava di fabbricare una buona slitta, decise di por mano ai lavori. - Non bisogna perdere tempo, mio caro Koninson - disse egli. - La costa americana non è molto distante e solamente là noi possiamo trovare la nostra salvezza. - Non domando che di andarmene, signor Hostrup! - rispose il fiociniere. - Se rimango un'altra settimana in questa dannata capanna, mi si arrugginiranno le gambe al punto da non poter più servirmene. E sarà lunga la via che dovremo percorrere? - Un centocinquanta o duecento miglia. - Ci impiegheremo del tempo. - Non tanto quanto sembrerebbe, mio bravo fiociniere. - Per caso, avete trovato dei cani da attaccare alla slitta? - No, ma qualche cosa di meglio e di più rapido. Il fiociniere lo guardò con stupore, chiedendosi se il freddo e i patimenti gli avessero sconvolto il cervello. - Non meravigliarti! - disse il tenente sorridendo, e forse comprendendo il pensiero che attraversava la mente del fiociniere. - Guarda verso il sud: cosa vedi? - Una superficie brillante che pare non finisca mai. - Sì, ma una superficie che le grandi nevicate e i grandi freddi hanno sufficientemente levigata. Ebbene, amico mio, noi alzeremo una vela sulla nostra slitta e appena il vento del nord soffierà, partiremo colla velocità di un battello a vapore, anzi d'un treno. - Stupenda idea, signor Hostrup. E dire che non mi era mai passata per la mente! Al lavoro! Al lavoro! Mi sento ora capace di costruire dieci slitte. Si recarono ai magazzini e colla scure fecero a pezzi la grande baleniera del cui legname, abbastanza curvo, contavano di servirsi. L'impresa non fu tanto facile, essendo sprovvisti degli utensili necessari, ma finalmente riuscirono a costruire un solido apparecchio che, se non era precisamente una slitta, di poco le si scostava. Il difficile fu l'adattamento dei pattini di ferro, non possedendo che poche lamine di metallo strappate alle imbarcazioni, poco larghe e per di più un pò avariate. Ma colla pazienza, riscaldandole sulla gran lampada e battendole e ribattendole col rovescio delle scuri, anche i pattini furono ottenuti e collocati a posto. - Speriamo che resistano! - disse Koninson, piantando l'ultimo chiodo. - E perchè si dovrebbero rompere? - Il metallo era molto vecchio e molto arrugginito, signor Hostrup. - E se tu non lo sai, fiociniere, ti dirò che il ferro arrugginito naturalmente, e così pure l'acciaio, è sempre migliore di quello appena fuso. Un celebre coltellinaio di Londra ha fatto degli esperimenti in proposito, che diedero dei risultati sorprendenti. - Io non l'ho mai saputo. - Così è, Koninson. Questo coltellinaio, che si chiamava Weiss, seppellì dei vecchi rasoi e delle vecchie lame di ferro, dopo tre anni le ritirò coperte d'un spesso strato di ruggine che pareva trasudato dall'interno e, lavoratele, ottenne delle lame d'una qualità superiore, e tali da vincere quelle famose di Toledo. - Allora non temo più per i nostri pattini. L'indomani i due balenieri riprendevano il lavoro per ultimare la slitta. Costruirono, servendosi sempre del legname fornito dalle imbarcazioni, delle casse per i viveri e per le munizioni, issarono sul dinanzi del veicolo un pennone che assicurarono saldamente e che fornirono d'una vela quadra, e finalmente fabbricarono una specie di timone munito all'estremità d'un grosso gancio di ferro che doveva servire per la direzione e, in caso di bisogno, per le fermate improvvise. Il 18 l'occuparono nel fabbricarsi degli occhiali, oggetti indispensabili in quelle regioni, quando il sole si riflette sui campi di ghiaccio. Infatti quella luce acciecante è pericolosa e cagiona spesso delle oftalmie che conducono alla cecità e delle quali non vanno esenti neanche gli eschimesi che pure nascono e vivono in quei climi. Quegli occhiali richiesero parecchio tempo e molta pazienza, ma finalmente i due balenieri ne vennero a capo. S'intende che non erano formati con lenti, impossibili ad ottenersi, per quanto desiderio avessero il tenente e il suo compagno, ma poco dissimili da quelli usati dagli indiani delle terre della Baia di Hudson. Sarebbero stati necessari dei rami di cedro rosso che essendo assai pieghevoli vengono adoperati dagli indiani nella fabbricazione di questi oggetti, ma non avendone a loro disposizione, i balenieri si servirono di un grosso filo di ferro rinvenuto in un canotto. Curvatolo in maniera da formare un ovale assai allungato, lo coprirono con una sottile pelle di foca, praticandovi, al posto degli occhi, due sottili tagli orizzontali. Ciò era bastante per vedere senza incorrere nel pericolo di rimanere acciecati o di buscarsi qualche seria malattia. La mattina del 20, tutto era pronto per la partenza. La slitta colla sua vela semi-tesa, col suo albero ben assicurato, il suo timone a posto, i viveri sufficienti per tre settimane e le munizioni rinchiuse nelle casse, non aspettava che di essere manovrata per slanciarsi attraverso il campo di ghiaccio. Uno splendido sole brillava sull'orizzonte inondando quella deserta regione d'una luce abbagliante, e un fresco vento soffiava da nord. I due balenieri, chiusi per bene i magazzini nei quali lasciavano ancora una discreta quantità di provvigioni e dato un addio alla capanna che li aveva ricoverati durante il lungo inverno polare, si affrettarono a dirigersi verso la slitta, ansiosi di toccare la costa americana. Stavano per porvi il piede, quando entrambi si fermarono come se a tutti e due fosse istantaneamente venuto lo stesso pensiero. I loro occhi si portarono sul gran banco di ghiaccio risplendente di luce e si fermarono là dove circa quattro mesi prima, in una notte d'orrore, per effetto delle pressioni, il valoroso "Danebrog" sventrato, stritolato, era colato a fondo; là dove i loro sfortunati camerati erano stati inghiottiti in quella tremenda notte. - Riposate in pace! - disse il tenente con voce solenne e triste, scoprendosi il capo. - Riposate in pace voi infelici che non rivedrete giammai le lontane sponde della vostra patria, nè avrete sulle vostre tombe il conforto di un fiore sparso da mano amica, nè una lagrima versata dai vostri cari. Addio, capitano Weimar, addio, miei poveri camerati: noi non vi dimenticheremo. - Riposate in pace! - ripetè Koninson che era profondamente commosso. - I ghiacci del polo vi siano leggeri. - Ed ora partiamo! - disse il tenente. Balzarono nella slitta che pareva impaziente di allontanarsi da quei funebri luoghi e issarono la vela, che subito si gonfiò sotto i soffi del vento settentrionale. Il veicolo per un istante rimase immobile come fosse inchiodato al banco, poi cominciò a scivolare un pò indecisamente, indi si slanciò attraverso la liscia superficie colla velocità di un treno diretto, sollevando attorno a sè una nube di nevischio e di ghiacciuoli e lasciandosi dietro due striscie fiammeggianti che in pochi istanti si prolungarono indefinitamente. Il tenente e Koninson, quasi soffocati dalla rapida e gelida corrente d'aria, flagellati da una vera grandine di ghiacciuoli sottili come aghi, solidamente aggrappati alle traverse del celere veicolo, si sforzavano di guardare innanzi per tema di trovarsi improvvisamente sull'orlo di qualche spaccatura o di urtare contro qualche sporgenza. - Apri bene gli occhi, - ripeteva Hostrup al fiociniere - e sii pronto a lasciar cadere la vela. - Non temete, - rispondeva con voce soffocata il bravo giovanotto, che non abbandonava la prua del veicolo dove maggiore era la pioggia dei ghiacciuoli, taluno dei quali gli lacerava il viso - guardo sempre. E la slitta scivolava, scivolava sempre più senza scosse, senza sbandamenti, senza deviare d'un solo centimetro sotto la robusta mano del tenente che non abbandonava il timone, lasciandosi a destra e a sinistra "icebergs" e "hummocks" e mettendo in fuga volpi, lupi e uccelli. Ben presto la sua velocità divenne tale che il tenente cominciò ad avere delle inquietudini. Oramai filava come un vero uccello, percorrendo non meno di cinquanta chilometri all'ora. Guai se si fosse trovata dinanzi ad un ostacolo o dinanzi ad una spaccatura del ghiaccio; l'urto l'avrebbe mandata in mille pezzi e i due uomini che la montavano non se la sarebbero cavata senza ossa rotte. A mezzogiorno il tenente stimò la distanza percorsa a centosessanta miglia, ma la costa americana non era ancora in vista, quantunque non dovesse essere molto lontana. - Fermiamoci! - disse al fiociniere. - Ammaina la vela. Koninson obbedì. La slitta, trasportata dallo slancio, percorse un buon miglio ancora, poi si fermò di fianco ad un alto masso di ghiaccio. Accesero la lampada che avevano portato seco loro, si prepararono un modesto desinare che in un baleno divorarono, indi rimontarono nel veicolo che riprese la corsa ma con minor velocità, essendo il vento un po' scemato. Alle 4 pomeridiane, dopo essersi più volte fermati per girare dei crepacci che erano stati scorti a tempo e per trascinare la slitta attraverso a ghiacci sollevati dalle pressioni, Koninson segnalava un'alta costa che, quantunque fosse tutta coperta di neve, non pareva una catena di "icebergs", e un pò più tardi, ad una grande distanza, mezze avvolte fra un fitto nebbione, scopriva delle vette che sembravano montagne. - Signor Hostrup! - esclamò con voce commossa. - È la costa americana! - disse il tenente, non meno commosso. - Così presto? - Abbiamo percorso oltre duecento e cinquanta miglia da stamane. Presto, fiociniere, cala la vela o ci sfracelleremo. Koninson si affrettò ad ubbidire. Dieci minuti dopo la slitta si arrestava a solo mezzo chilometro dalle sponde dell'America settentrionale.

La prima cosa che fecero fu di tentare di guadagnar la riva; ma, almeno per il momento, furono costretti ad abbandonare l'idea, poichè enormi lastroni di ghiaccio, che il fiume trascinava tumultuosamente nella sua rapida corsa, li circondavano da ogni lato minacciando di schiacciarli o di tagliarli a mezzo. - Passiamo a prua - disse il tenente. - Eviteremo almeno gli urti. Tenendosi stretti alle traverse della slitta, si portarono entrambi sul dinanzi, cercando di tenersi più che potevano fuori dell'acqua per non gelare completamente. - Hai nulla di guasto? - chiese poi il tenente. - Non mi pare - rispose Koninson. - Ma, se rimaniamo qui una sola mezz'ora, mi guasterò tutto. Corpo d'una pipa rotta! Sono ben fredde queste acque. - Le tue munizioni? - Le ho bene assicurate e vedete che anche il fucile non l'ho abbandonato. - Ora pensiamo a guadagnare la riva. - Ma questi dannati ghiacci ci stritoleranno se abbandoniamo la slitta, e poi le mie vesti sono diventate così pesanti che non sarò capace di nuotare per dieci metri. - Si tratta di spingere la slitta verso la riva. Attenzione, Koninson! Una gran lastra di ghiaccio, un vero "stream" lungo una cinquantina di metri, muoveva dritto sulla slitta frantumando con mille scricchiolìi tutti i ghiacci minori. - Ci schiaccerà! - disse Koninson, battendo i denti per il freddo. - Prima romperà la slitta! - rispose il tenente. - Non perderti d'animo, amico mio, e tieni fermo finchè raggiungiamo la riva. - Vi confesso che non ne posso più. Queste acque sono diabolicamente fredde e sento che a poco a poco i miei muscoli si irrigidiscono. - Attenzione, Koninson. Il lastrone non era che a pochi passi. Frantumò con un potente urto due piccoli ghiacci, poi si precipitò come un ariete sulla slitta. Si udì un lungo scricchiolìo, le traverse si spezzarono, le corde si ruppero, lasciando cadere i pochi oggetti che i naufraghi avevano salvato dalle rapaci mani dei Tanana, quindi tutto l'apparecchio si disciolse andandosene alla deriva. Il tenente e Koninson furono travolti dalla corrente, ma ben presto, lottando con disperata energia, riuscirono ad aggrapparsi ad un banco di ghiaccio issandovisi sopra. - Ah, mio tenente! - mormorò il povero fiociniere che non si reggeva più. - Mi pare che il mio cuore sia diventato un blocco di ghiaccio. - Coraggio, amico. La corrente ci spinge verso la riva destra e fra pochi istanti toccheremo terra. Koninson non rispose. Quasi completamente assiderato si era raggomitolato su sè stesso, ormai incapace di fare il più piccolo movimento. Fortunatamente il banco urtò contro i ghiacci della riva e si incastrò fortemente dentro un largo crepaccio. Il tenente, a cui quel bagno prolungato in quelle acque così gelate non aveva completamente tolte le forze, si caricò del compagno e raggiunse la sponda arrestandosi a pochi passi da un boschetto di betulle. Senza occuparsi di sè stesso, in pochi istanti spogliò il fiociniere, poi raccolse un pò di neve e si mise a strofinarlo vigorosamente per rimettergli in circolazione il sangue. Dopo alcuni minuti lo vide muoversi e infine riaprire gli occhi. - Vedo che hai la pelle dura e sono contento! - gli disse, sorridendo. - Orsù, ragazzo mio, spicca quattro salti finchè io corro al boschetto a procurare della legna. - Grazie, signor Hostrup, ma se tardate a spogliarvi delle vesti, gelerete. - Bah! La mia pelle sfida quella degli orsi bianchi; d'altronde non impiegherò che pochi minuti ad accendere un buon fuoco. Impugnò la scure che aveva avuto tempo di salvare nel momento che la slitta capitombolava nel fiume, e si allontanò correndo, raccogliendo qua e là i rami morti e quelli che tagliava. Fatta un'ampia provvista ritornò presso Koninson, il quale stava facendo una ginnastica indiavolata per non tornare a gelare. L'esca e l'acciarino, conservati dentro un astuccio impermeabile, procurarono un bel fuoco attorno al quale i due balenieri si assisero, riscaldandosi le membra ed asciugandosi le vesti. - Ditemi, signor Hostrup, - disse il fiociniere che aveva ricuperato le forze e la favella - dove supponete che noi siamo? - Sulle rive del Makenzie, ma in quale punto preciso non te lo saprei dire. - Siamo molto lontani dal forte che cercate? - Te lo dirò quando avremo raggiunto la riviera del Grand'Orso, che si scarica in questo fiume. - A sud o a nord da noi? - A nord no di certo, poichè ci siamo costantemente tenuti a nord del Porcupine e questo fiume sbocca nel Makenzie quasi di fronte alla riviera del Grand'Orso. - Allora marceremo verso sud seguendo il fiume. - È necessario, e quando avremo raggiunto la riviera piegheremo ad est finchè troveremo il forte Speranza, il quale, se la memoria non mi tradisce, deve trovarsi a circa mezza via fra il Makenzie e il lago del Grand'Orso o del Musquàsa-ky-e-gum, come lo chiamano gli indiani. - Auff! Mi ci vorrà una settimana a pronunciare siffatto nome. Questo sforzo di lingua lo lascio a voi ed agli indiani. Ma ditemi, signor Hostrup, a cosa servono i forti piantati fra quelle deserte regioni? - A scopo di commercio. - E con chi commerciano? - Cogli indiani, i quali si recano di quando in quando ai forti a vendere le pelli degli orsi, di foche, di martore, di volpi, di linci, di lupi, di castori, di ratti muschiati e di lontre, contro, armi, liquori, reti, ecc. Anzi, ti dirò che tanto la Compagnia Russa che quella della Baia di Hudson, proprietarie dei forti, fanno ottimi affari. - Ma dove sono questi indiani, che non ne abbiamo veduto che trenta o quaranta? - Sono disseminati qua e là, ma tutti sanno dove si trovano i forti. - Ne troveremo degli altri, dunque? - Sì, poichè il territorio su cui ci troviamo, e che appartiene alla Compagnia della Baia di Hudson, è più popolato di quello appartenente alla Russia. Nei pressi del Makenzie e del lago del Grand'Orso si trovano numerose tribù di Jannoit della famiglia degli Eschimesi, di indiani Loschi, così chiamati perchè sono realmente loschi, di Fianchi di Cane o Liu-tcan che sono tutti balbuzienti, di Denè, di Diendije, di Fine e di Chippewyans, i quali poi per lungo tempo furono creduti forniti di coda a causa delle loro vesti che di dietro terminano in una lunga punta. - Speriamo di trovare anche abbondante selvaggina, poichè non abbiamo un solo pezzetto di carne da porre sotto i denti. - Ne troveremo, Koninson, anzi mi metterò oggi stesso in cerca di qualche capo di selvaggina. Puoi reggerti? - No, tenente, ho le gambe che si rifiutano di star ritte. - Andrò io solo a battere il paese, e se incontro un orso puoi star certo che stasera faremo un lauto pranzo. Indossò le vesti che si erano asciugate dinanzi a quella grande fiammata, rinnovò la carica del fucile con polvere asciutta, poi, dopo aver raccomandato al fiociniere di fare altrettanto col secondo fucile, per tenersi pronto a qualunque evento, s'allontanò lentamente inoltrandosi, nel paese, un pò verso sud. Camminava da due ore costeggiando un bosco di betulle e di pini che pareva seguisse la riva del Makenzie, quando si trovò sul limite di una palude il cui fango era tenacissimo. Dopo aver errato un pò a destra e un pò a sinistra, s'avventurò su una lingua di terra che si addentrava in quella palude, fiancheggiata da altissimi abeti neri e da folti boschetti di salici, nella speranza di incontrare qualcuna di quelle stupende lontre la cui pelliccia si paga quasi a peso d'oro. Ad un tratto i suoi orecchi furono colpiti da una specie di grugnito, che veniva dal mezzo d'un gruppo di piante. - In guardia! - mormorò, armando il fucile. - Qui ci sono delle bistecche. Si gettò a terra per non farsi scoprire e si trascinò carponi e senza produrre rumore, verso il luogo d'onde venivano i grugniti. Quando giunse in mezzo ai salici vide dinanzi a sè, a circa duecento metri, un orso di statura piuttosto piccola, somigliante agli orsi bruni d'Europa, che si avvoltolava nel fango assieme ad un orsacchiotto grosso quanto un cane di statura media. - Oh! - esclamò egli sorpreso. - Che razza di animale è mai questo? Non può essere che un orso detto delle Terre Nude, accennato da John Richardson, il compagno dell'infelice Franklin. Stiamo in guardia, poichè si dice che sia ferocissimo. L'orsa, poichè doveva essere una femmina, d'improvviso si alzò guardando verso il gruppo di piante. Senza dubbio aveva fiutato la presenza del cacciatore e si mostrava inquieta se non per sè stessa, certamente per l'orsacchiotto che non era in grado di difendersi. Il tenente, che non voleva perdere una sì bella occasione, si alzò pure in piedi e puntato rapidamente i fucile fece fuoco attraverso il fogliame. L'orsa mandò un urlo terribile, poi si diede a fuggire attraverso la palude cacciando dinanzi a sè l'orsacchiotto, che mandava lamentevoli grugniti. Il tenente saltò nella palude risoluto a inseguirli, ma fatti pochi passi fu costretto a fermarsi poichè tanta era la tenacità di quel fango da non lasciargli alzare i piedi. Anzi s'accorse che minacciava di sprofondare. Scaricò una seconda volta il fucile, ma con nessun frutto, poichè l'orsa che forse aveva trovato del terreno più solido, continuò a fuggire scomparendo in mezzo alle piante, sempre accompagnata dal piccino. Uscì dalla palude dopo aver ricaricata l'arma e si slanciò sotto il bosco dirigendosi verso sud, colla speranza di raggiungere la belva che forse era stata gravemente colpita. Percorse tre o quattro chilometri quasi sempre correndo, ma quando si fermò s'accorse di essersi allontanato assai dalla palude. Stava per tornare sui propri passi e riguadagnare l'accampamento, quando gli pervenne un lontano muggito che pareva prodotto dal rompersi d'un grosso fiume. - Che sia il Makenzie? - si chiese. - Ciò non può essere, poichè il fragore viene da sud, mentre il fiume deve scorrere alla mia destra. Il sole è ancora alto e Koninson non diventerà inquieto se tardo a ritornare. Proseguì il cammino verso sud, inoltrandosi in un nuovo bosco di salici, di abeti e di betulle, e dopo una mezz'ora di trovava sulla riva di un largo corso d'acqua che veniva da est. - È il Makenzie, o la riviera del Grand'Orso? - si chiese egli, salendo su di un'alta rupe dalla quale poteva dominare un gran tratto di paese. - Sarà senza dubbio il Makenzie; poichè la riviera deve trovarsi molto più a sud. Ad ogni modo mi accerterò seguendone le rive. Stava per mettersi in cammino quando, girando gli occhi ai piedi della rupe, scorse sulla sponda una tenda semi-atterrata e presso questa quattro lunghi oggetti che potevano fino ad un certo punto sembrare uomini giganteschi avvolti in pelliccie. - Cosa saranno quegli oggetti là? - si domandò. - Andiamo un pò a vedere. Scese verso la riva seguendo un sentieruzzo appena praticabile e si avvicinò a quegli strani oggetti che subito riconobbe. Erano quattro canotti eschimesi, di quelli che si chiamavano "kajacks", leggerissimi assai, essendo costruiti con pelli di foca ricucite sopra uno scheletro di ossa di balena o di legno molto sottile, lunghi tre metri, larghi non più di settanta centimetri, un pò rialzati a prua e bassi a poppa e con un'apertura nella quale si caccia il battelliere. Osservandoli attentamente li trovò in ottimo stato e dentro rinvenne alcune pagaie a doppia pala. - Scoperta magnifica! - disse il tenente. - Se gli eschimesi, con questi canotti, ardiscono sfidare le tempeste e i ghiacci dell'Oceano artico o dei grandi laghi, noi potremo senza tema sfidare la corrente del Makenzie. Se Dio continua a proteggerci fra poche settimane potrò riposare le mie stanche membra al forte Speranza. Si avvicinò alla tenda sollevando un lembo, ma tosto si ritrasse facendo un gesto di orrore. Colà uno scheletro, perfettamente denudato dalle sue carni, giaceva in mezzo a pochi pezzi di pelliccia che un tempo dovevano averlo ricoperto. - Il disgraziato sarà morto di fame e i lupi avranno banchettato colle sue carni - disse il tenente. - E quanti ne muoiono in questa regione dei grandi freddi! Orsù, ritorniamo che Koninson sarà inquieto. Risalì la rupe e si rimise in cammino costeggiando il fiume che accennava a volgersi verso nord. Dopo due buone ore si convinse che percorreva la riva sinistra del Makenzie e non già del Grand'Orso, poichè il fiume, dopo un brusco gomito, si dirigeva verso nord. Si riposò pochi minuti su di un rialzo di terreno, indi proseguì la via a lenti passi volgendo sguardi a destra e a sinistra, sperando di scoprire qualche capo di selvaggina. Già cominciava a distinguere il fumo che si alzava dall'accampamento, quando nello sbucare da un gruppo di pini si trovò improvvisamente dinanzi all'orsa e al suo orsacchiotto che stavano uscendo dalla palude. Imbracciò rapidamente il fucile e fece fuoco. L'orsacchiotto, che stava dinanzi di pochi passi, colpito nella testa, rotolò due volte su di sè stesso, poi rimase immobile. Là madre, furente, si alzò sulle zampe posteriori, cacciò un urlo di rabbia e di dolore, e si slanciò verso il cacciatore il quale, non avendo tempo di ricaricare l'arma e non osando venire ad un combattimento a corpo a corpo, si slanciò verso l'accampamento gridando: - A me, Koninson! ... A me! ... Il fiociniere, messo in guardia dalla detonazione, si era già alzato col fucile in mano. Vedendo l'orsa inseguire il tenente, si slanciò innanzi e fece fuoco. La belva, ferita dalla palla, si arrestò di botto, poi tornò sui propri passi zoppicando; si fermò un momento presso il cadavere dell'orsacchiotto come per assicurarsi se era morto, e finalmente si cacciò nella palude scomparendo in mezzo alle macchie di salici.

Allora diede il comando di poggiare verso la costa, risoluto di non abbandonare quei paraggi senza avere ritrovato vivi o morti i due disgraziati. Ed infatti, dopo una ostinata lotta contro l'uragano che la trascinava verso est e contro i ghiacci, la nave era riuscita a rifugiarsi in quel profondo "fiord", il quale era stato subito chiuso da un gran banco di ghiaccio staccatosi da un altro ancora più grande. E lì il capitano aspettava che la tempesta si calmasse un pò per rimettersi in cerca del tenente e del fiociniere, che supponeva rifugiati su qualche punto della costa o sulla scogliera intravveduta attraverso la nebbia. Il signor Hostrup e Koninson a bordo furono accolti con grande festa, poichè tutti li amavano assai per il loro coraggio e per la loro valentìa. Dovettero stringere le mani a tutti quanti e, quando furono ben vestiti ed ebbero calmati gli stiracchiamenti dello stomaco, furono costretti a narrare le loro avventure. - Ed ora, che cosa si fa? - chiese il tenente al capitano Weimar, quand'ebbe finita la narrazione. - Si aspetta che la burrasca finisca per fuggire verso ovest. La stagione della pesca è finita, tenente, e disgraziatamente assai male. - La scommessa è perduta dunque? - Sì, tenente! - rispose Weimar con tristezza. - I Danesi sono stati sconfitti. - Bah! Riprenderemo la rivincita l'anno venturo, capitano. - Sì, se riusciremo a guadagnare il porto che ci ha veduti partire. - Temete i ghiacci, capitano? - Sì, perchè ci siamo spinti troppo innanzi. A quest'ora noi dovremmo essere nel mare di Behring. - La nave è ancora solida, capitano, e può lavorare di sperone. - Non dico di no, ma temo che si avanzino i grandi banchi di ghiaccio. Sento per istinto che l'"icefield" non è lontano. Dannata scommessa che forse pagheremo assai cara! Essa sola ci ha trascinati fin qui. - E anche il destino, capitano. Due urti in una stagione sono stati troppi. E l'uscita dal "fiord" sarà facile? Ho veduto un banco di ghiaccio all'entrata. - Lo spezzeremo, tenente. Il "fiord" è lungo; possiamo quindi prendere un grande slancio. Ora andate a riposarvi, che ne avete bisogno; io ispezionerò il banco e cercherò di indebolirlo. Il tenente, che si sentiva affranto per la lunga marcia fatta attraverso le nevi e le rupi, si ritirò nella sua cabina, mentre il capitano scendeva nella baleniera con una dozzina di marinai muniti di grandi seghe, di picconi e di scuri. Il banco di ghiaccio che chiudeva il "fiord" fu accuratamente visitato. Era lungo duecentosessanta metri, largo centoventi e grosso nove pollici. Per di più, sul dinanzi, spinti dalle onde e dal vento si erano aggruppati parecchi "hummoks", "streams" e "palks" che tendevano a cementarsi rendendo maggiore l'ostacolo. - Il "Danebrog" avrà un osso duro da spezzare! - disse mastro Widdeak al capitano. - E se non facciamo presto diverrà ancora più duro. - La tempesta si calma, vecchio mastro. - disse Weimar. - Stanotte potremo partire. - Dobbiamo assalire il banco? - Assalitelo. - Non si chiuderà il canale che apriremo, col freddo che fa? - Speriamo che ciò non accada. Non abbiamo che due gradi sotto zero. Mano alle seghe e ai picconi. Il mastro tracciò sul banco un canale largo sette o otto metri e i marinai si misero alacremente al lavoro manovrando vigorosamente i loro attrezzi. Prima di sera un terzo del banco era stato spezzato. Non restava che un tratto di sessanta metri e questa rottura poteva benissimo farla, e senza pericolo, lo sperone del "Danebrog". Alle otto il capitano e i marinai tornarono a bordo. L'uragano allora cominciava a diminuire rapidamente. Non soffiava il vento che a colpi irregolarissimi e il mare non si sollevava più così furiosamente come il giorno innanzi. Durante la notte anche il cielo si rischiarò e apparve il sole, illuminando d'una tinta porporina, superba, i ghiacci che galleggiavano sul mare diventato ormai quasi tranquillo. Alle 6 del mattino il capitano Weimar, il tenente e tutti i marinai erano in coperta, decisi di uscire a qualunque costo da quel "fiord". Tutte le baleniere furono ritirate a bordo e ben assicurate onde l'urto, che poteva essere violentissimo, non le danneggiasse, poi furono solidamente assicurati i mobili delle cabine di poppa e i barili della stiva. Alle 7 le vele furono spiegate e i! capitano si mise alla ribolla del timone mentre i marinai si disponevano ai bracci delle manovre. Un vento fresco soffiava da sud-sud-est portando in alto mare i ghiacci che la tempesta aveva spinto verso la costa, e un superbo sole brillava sull'orizzonte spargendo all'intorno un dolce calore. Alle 7 e dieci minuti l'ancora fu strappata dal fondo e ritirata a bordo. Subito il "Danebrog", sotto l'azione del vento che gonfiava le sue vele, si scosse come un cavallo che sente lo sprone e cominciò a filare con notevole velocità verso l'uscita del "fiord", dinanzi al quale scintillava il banco di ghiaccio. C'erano oltre novecento metri da percorrere. Tale distanza era più che sufficiente per imprimere al "Danebrog" lo slancio necessario per frantumare l'ostacolo già stato considerevolmente indebolito il dì innanzi dalle seghe, dai picconi e dalle scuri dei marinai. - Saldi, in gambe! - gridò il capitano che stringeva con ferrea mano la ribolla del timone. Spinto dal vento che tendeva a crescere, il "Danebrog" si avvicinava rapidamente al banco, lasciandosi dietro una scia bianchissima in mezzo alla quale guizzavano non pochi pesci. I marinai, aggrappati al bordo o alle sartie, non respiravano quasi più e guardavano con qualche apprensione il banco che si faceva ad ogni istante più vicino. - Attenzione! - gridò il capitano. Non c'erano che quindici o venti metri. Il "Danebrog", che correva colla velocità di sette nodi all'ora, in brevi istanti superò quello spazio e si scagliò in mezzo al canale scavato il dì innanzi dai marinai. Avvenne un urto formidabile che mandò a gambe levate gran parte dell'equipaggio, seguito subito da uno scricchiolìo sinistro e da una mezza dozzina di sorde detonazioni. Il banco colpito in pieno dall'acuto e solido sperone della nave baleniera si fendette come una lastra di vetro, poi si spezzò in dieci diversi punti con lunghi stridii. Per alcuni momenti il "Danebrog" restò quasi immobile, poi guidato dal suo intrepido capitano, si cacciò in mezzo a quei frantumi e uscì in pieno mare colla prua verso nord. - Urrah! - urlò l'equipaggio che si era subito rimesso in gambe. - Viva il "Danebrog"! Viva il capitano Weimar! Dinanzi al "fiord" il mare era libero, ma a destra e a sinistra, un numero immenso di ghiacci accumulativi dall'uragano, ingombrava le coste. Montagne gigantesche, picchi aguzzi, piramidi tronche, colonne enormi, arcate curiose, cupole ancor più strane, poi grandi banchi si estendevano verso nord formando coi loro riflessi la luce bianca che, come dicemmo, i marinai chiamano "ice- blink". Nessuna nave solcava le onde che erano diventate basse assai e molto lunghe e che, sotto i raggi del sole, splendevano magnificamente come se fossero cosparse di pagliuzze d'oro. Solamente in aria, attraverso l'"ice-blink", volavano silenziosamente alcuni gabbiani. - Bisogna spingersi verso nord per qualche centinaio di miglia - disse il capitano al tenente, dopo aver guardato attentamente, con un forte cannocchiale, l'ampia distesa d'acqua. - Troveremo il mare libero e potremo allora navigare senza lottare contro i ghiacci. - Non allontaniamoci tanto dalle coste, capitano - disse il tenente.- Appena lo possiamo, pieghiamo verso ovest; bisogna affrettarsi a raggiungere lo stretto di Behring. - Lo faremo, signor Hostrup, a meno che non incontriamo sulla nostra via qualche ... - Che cosa, capitano? - Tornare in porto sconfitto, mi punge assai. - Ah! Volete dire che se una balena venisse a nuotare nelle nostre acque ... - Non esiterei a darle la caccia, dovessi spingere la mia nave fino ai grandi campi di ghiaccio. - Sarebbe un'imprudenza imperdonabile, capitano. Abbiamo già tardato troppo a ritornare quest'anno. Due giorni ancora perduti potrebbero esserci fatali. Non vi pare? Il capitano non rispose. Aveva puntato il cannocchiale verso est e guardava con grande attenzione. Il suo viso, di solito tranquillo, si era tutto d'un tratto cambiato e un leggero tremito agitava le sue braccia. - La via è lunga assai! - continuò il tenente che non si era accorto di nulla. - Io sono certo che quando giungeremo nel mare di Behring lo troveremo in gran parte gelato e ... - Tenente! - esclamò in quell'istante il capitano con voce alterata. - Non vedete nulla voi laggiù, verso est? - Sì, degli "icebergs" che danzano allegramente. - No, più lontano, guardate più lontano. A voi, prendete il cannocchiale. Il tenente prese lo strumento e lo puntò nella direzione indicata. Là dove il mare pareva confondersi coll'orizzonte, scorse parecchi punti neri apparire e scomparire e poi riapparire. - Vedete nulla? - chiese Weimar. - Sì! - rispose il tenente con voce tranquilla. - Vedo un branco di balene. - La vittoria è nostra, tenente! Anche quest'anno i Danesi trionferanno. - Cosa intendete dire, capitano? - Che daremo la caccia alle balene. Torneremo a Nuova Arcangelo così carichi da affondare, o poco meno. Il tenente fece un gesto di stupore. - Perderemo un'altra settimana, signore - disse poi con grave accento. - Che importa? - Vi ho detto poco fa che siamo lontani dal mare di Behring, e che dubito assai lo si possa attraversare. - Bah! Lavoreremo di sperone, se i ghiacci l'avranno chiuso. - Capitano, pensateci due volte. Giuocate la sorte non solo del "Danebrog", ma di noi tutti. - Quando si tratta dell'onore dei balenieri danesi non occorre pensarci su due volte. Bisogna cacciare quelle balene, tenente, e a qualunque costo. - E sia, signore. Ma badate a me, facciamo presto, assai presto o saremo costretti a svernare in mezzo ai ghiacci. - Non domando che tre o quattro giorni. Ehi!, mastro Widdeak, governa dritto a quelle balene e voi, ragazzi, preparate le baleniere e i ramponi! - Ma ... capitano ... - arrischiò il vecchio lupo di mare, che come il tenente Hostrup aveva previsto il pericolo. - Che vuoi tu dire? - chiese il capitano. - Siamo innanzi assai colla stagione ... - Sei hai paura, sbarca sulla costa americana. - Mai, signore. Il vecchio Widdeak non abbandona il "Danebrog". - Allora ubbidisci. Alle manovre, ragazzi! Domani avremo tanto grasso da affondare il "Danebrog" fino al bastingaggio. Un istante dopo il "Danebrog" virava di bordo mettendo la prua verso la direzione indicata. I marinai, quantunque avessero pur essi compreso che stavano per giuocare una carta pericolosa, che poteva anche costare loro la vita, si erano subito messi alacremente al lavoro, incoraggiati dai due fiocineri. Tutti ci tenevano assai alla scommessa, gelosi dell'onore dei balenieri danesi; per di più, in quel branco di balene, intravvedevano dei grossi guadagni. Le baleniere furono in brevissimo tempo armate e sospese alle gru pronte ad essere calate in mare al comando del capitano. I remi, le fiocine, le lancie, le lenze, furono ben disposte nelle imbarcazioni. In capo ad un'ora il "Danebrog" era lontano otto miglia dalla costa americana e solamente sette dalle balene che filavano superbamente verso nord fra una doppia fila di banchi di ghiaccio. Quale spettacolo offrivano quei giganti dell'oceano artico! Erano nove, seguiti da due o tre balenottere e anche queste di dimensioni non comuni. Avanzavano lentamente, gettando in aria, dai loro sfiatatoi, colonne di bianco vapore che tosto si scioglievano. Il sole, battendo sulla loro pelle oleosa, li faceva sembrare immensi cilindri d'acciaio. Ogni qual tratto uno di essi si tuffava formando alla superficie del mare un vero vortice e poco dopo riappariva a grande distanza sollevando colla possente coda grandi ondate, che facevano oscillare vivamente i ghiacci galleggianti. I marinai del "Danebrog", entusiasmati a quella vista, non stavano più fermi, quantunque il comandante avesse raccomandato a tutti calma e silenzio. Salivano sulle griselle, sulle coffe e più su, fino alle crocette, per meglio vederli e mandavano grida di gioia. Koninson, col suo terribile rampone in pugno correva da prua a poppa animando tutti, seguito da Harwey che era pure desideroso di venire a una lotta con quei mostri, malgrado il loro numero che poteva riuscire fatale all'equipaggio del "Danebrog". Persino mastro Widdeak aveva dimenticato l'altro pericolo che minacciava la nave baleniera e nei suoi occhi brillava un'ardente bramosia. Il solo tenente, calmo sempre, seguiva con sguardo perfettamente tranquillo lo sfilare di quel branco. Già il "Danebrog", spinto da un freschissimo vento di sud-sud-ovest non distava che cinque o sei nodi dalle balene, quando queste ad un tratto, e tutte insieme, si tuffarono. Quando tornarono a galla diedero segni di una viva inquietudine. Si volgevano spesso verso sud, battevano la coda precipitosamente, si drizzavano slanciandosi più che mezze fuori dell'acqua e gettavano con maggior frequenza colonne di vapore. - Cosa succede laggiù? - si chiese il capitano aggrottando la fronte. - Che abbiano paura di noi? - Non lo credo! - disse il tenente che gli stava appresso. - Scommetterei che sono state assalite. - Assalite! E da chi? - Voi sapete, capitano, che hanno numerosi nemici. Ah! Guardate là, verso est, quei corpi nerastri che si avanzano rapidamente. - Sì, sì, li scorgo. In quell'istante si udì Koninson, che si era arrampicato sulla coffa di trinchetto, gridare: - Abbiamo una truppa di delfini gladiatori! Quasi nello stesso tempo le balene si davano a precipitosa fuga verso nord. Avevano scorto i delfini, che sono loro acerrimi nemici. Il capitano fece un gesto di rabbia. - Dannazione! - gridò. - Chissà quanto dovremo filare! - Ma guadagneremo qualche balena senza adoperare il rampone! - disse Koninson che aveva lasciato la coffa. - I delfini raggiungeranno senza dubbio le balene e qualcuna, nella lotta, ci lascerà la vita. - Ma saremo costretti a salire ancora verso nord, e la stagione invernale si avanza a rapidi passi. - Bah! Poi ci trarremo d'impaccio come potremo. Ah! Se potessi affrontare quel branco! Che colpi di rampone! Le balene intanto, che temono assai i delfini gladiatori per la loro forza, per i loro aguzzi denti e per la loro ferocia, fuggivano sempre più rapidamente dirigendosi verso le rigidissime regioni del polo. Attorno ad esse il mare, percorso da quelle dodici code, pareva in burrasca. A destra e a sinistra correvano grandi ondate le quali facevano capovolgere con grande fracasso i numerosi ghiacci galleggianti. Di tratto in tratto si tuffavano come se temessero di venire assalite per di sotto, indi riapparivano cacciando con grande furia nubi di vapore ed emettendo delle note acute che si udivano distintamente dall'equipaggio del "Danebrog". Ben presto però, grazie alla loro prodigiosa andatura, scomparvero dietro ghiacci che coprivano l'orizzonte. I delfini gladiatori, che dovevano essere almeno due dozzine, le seguirono nuotando pur essi con grande velocità. Il "Danebrog" però non si arrestò. Il capitano Weimar, e come lui quasi tutto l'equipaggio, avevano giurato di raggiungerle e, ancorchè i pericoli diventassero sempre più numerosi essendo il mare coperto ovunque di ghiacci d'ogni dimensione, ordinò al timoniere di seguire le grandi macchie oleose lasciate dalle balene. Favorito dal vento, che tendeva sempre a crescere, il "Danebrog" navigò tutta la notte verso nord, notte per modo di dire, poichè il sole non rimaneva nascosto che poche ore, ed anche in quelle poche ore all'orizzonte rimaneva tanta luce da distinguere le traccie oleose. Il mattino del 25 settembre, la nave si trovava già a un centinaio di miglia dalla costa americana, ma le balene, senza dubbio vigorosamente inseguite dai loro accaniti nemici, non erano state ancora scoperte. La sera dello stesso giorno però, presso uno "stream", fu raccolto un delfino gladiatore colla testa sfracellata, probabilmente da un colpo di coda di qualche balena. Il mostro era lungo sette metri e gli uccelli marini gli avevano già lacerato la pelle del dorso. Fu issato a bordo, fatto a pezzi e il grasso rinchiuso nelle botti. Il 26 l'equipaggio del "Danebrog" notò che i ghiacci diventavano più numerosi e che il termometro scendeva abbastanza rapidamente, quantunque il sole brillasse sempre sull'orizzonte. La nave però continuò a spingersi verso nord. Ormai nessuno, eccettuato il tenente Hostrup che prevedeva il pericolo cui andavano incontro, voleva rinunciare alla caccia delle balene che doveva assicurare ai Danesi la vittoria. Il 27, verso sera, a quattrocento miglia dalla costa americana, fu veduta verso nord una luce bianca, abbagliante. Era il "blink" che segnava la presenza di uno o forse di più banchi di ghiaccio. Ma le macchie oleose si dirigevano pure verso nord e quantunque anche nell'animo del capitano si fosse fatta strada una certa inquietudine, il "Danebrog" non cambiò rotta. All'indomani, verso le 9 antimeridiane, il gran banco fu raggiunto. Presentava una fronte di dodici o tredici miglia, irta qua e là di punte aguzze, di bizzarre colonne, di strane cupole. Nel mezzo di esse si apriva un canale largo un trecento o più metri che si smarriva verso nord. - È un banco solo o sono due divisi dal canale? - si domandò il capitano. - Sono due senza dubbio - disse Koninson che l'aveva udito. - E le macchie oleose continuano nel canale. - E cosa vuoi concludere, fiociniere? - Che le balene si sono cacciate là dentro sperando di uscire dall'altro lato. - Hai ragione, Koninson. Ehi, Widdeak, governa dritto al canale! Il "Danebrog", che avanzava con una velocità di otto nodi all'ora a vento in poppa, dopo aver descritto una curva attorno ad un "iceberg" immenso, alla cui estremità si innalzava una specie di torre di dimensioni pure colossali, entrò nel canale frangendo col suo solido sperone una moltitudine di ghiacciuoli che altro non aspettavano se non un pò più di freddo per unire i due grandi banchi. Le macchie oleose vi erano ancora e in grande numero e spiccavano vivamente su quelle acque che la candidezza dei ghiacci e il "blink" rendevano oscure assai. Numerosi uccelli marini, strolaghe, urie, gazze marine e oche, occupavano le due sponde intenti a pescare ed a spennacchiarsi. Il "Danebrog" guidato dall'esperta mano del vecchio Widdeak si avanzò nel canale evitando i non piccoli "streams" e "hummoks" che, di quando in quando, sotto i tepidi raggi del sole, si staccavano dai campi di ghiaccio. I marinai, certi ormai di tenere le balene, si erano arrampicati sulle griselle, sulle coffe, sui pennoni e sulle crocette, ansiosi tutti di scoprirle. Ma la giornata intera passò senza che apparissero. Verso le 8 di sera, il fiociniere Harwey dalla crocetta del trinchetto, gridò: - Capitano! Il canale è chiuso! Weimar salì sull'alberatura seguito dal tenente e da Koninson. Appena volse gli sguardi verso nord, un'imprecazione uscì dalle sue labbra. Quattro miglia più innanzi il canale era chiuso da un terzo campo di ghiaccio più grande, a quanto pareva, degli altri due. Delle balene nessuna traccia, eccettuate le macchie oleose che pareva si spingessero fino all'estremità di quel braccio di mare. - Bisogna tornare indietro - disse il tenente. - Ma le balene dove sono fuggite? - chiese il capitano con i denti stretti. - Probabilmente sono uscite prima dell'arrivo del banco. - Se pure non sono uscite nuotando sotto i banchi - aggiunse Koninson. - Che fare ora? - chiese il capitano. - Capitano, - disse il tenente - badate a me, lasciate andare le balene e ritorniamo subito. - E la scommessa? - Ci prenderemo la rivincita l'anno venturo. Il capitano, sceso in coperta diede l'ordine di tornare indietro. Il "Danebrog" virò prontamente di bordo e si diresse verso sud correndo bordate, essendo il vento proprio diritto in prua. Ma quando, dopo una lunga notte, giunse all'imboccatura del canale, questa era già stata chiusa. L'"iceberg", visto al mattino, spinto dal vento del sud si era incastrato solidamente fra i due banchi presentando alla nave baleniera la sua imponente torre!

Le cacce sono finite perchè nessun cacciatore osa abbandonare la stufa; le danze ed i concerti sui quali tanto avevano contato, sono pure cessati, perchè nessuno ha più buon umore; i lavori più o meno faticosi che mantenevano vive le forze sono pure finiti, poichè nessuno più obbedisce nè si sente in grado di intraprendere il minimo sforzo. Più nulla vale a strapparli da quell'abbattimento, da quello snervamento, da quello scoraggiamento che ogni giorno guadagnano maggior campo, minacciando di produrre effetti disastrosi, incalcolabili. Eccoli tutti là, stretti accanto alla stufa che funziona senza posa e che non abbandonano se non spinti da un motivo imperioso e dopo molte preghiere e anche minaccie dei loro superiori. Hanno i visi pallidi, gli occhi infossati, le barbe ispide e coperte sempre di ghiacciuli; i loro movimenti sono incerti, le loro parole sono mozzate da un incessante tremolio delle labbra, la loro volontà è paralizzata, i loro pensieri sono tardi. Il freddo li ha piombati tutti in una specie di torpore che invano cercano di vincere. L'acquavite che bevono già è gelata formando un blocco color del topazio, la carne e il pane che mangiano più non si spezzano che a colpi di accetta, poichè hanno acquistato la durezza del ferro; la legna che bruciano è diventata così resistente dal non potersi quasi rompere, le ferramenta, le armi, gli attrezzi di metallo di cui si servono sono diventati, per l'eccessivo freddo, così roventi che posandovi sopra la mano nuda la pelle vi rimane aderente e la carne riporta dolorosissime bruciature; i bicchieri sono diventati pure tali, e a segno che per servirsene bisogna vuotare il liquido in gola onde le labbra non li tocchino; persino le pipe non funzionavano più, poichè a poco a poco la bocca di chi le fuma si riempie di ghiaccio; persino l'aria che respirano cagiona dolorose sensazioni alla gola e ai polmoni e, strano fenomeno, l'alito si trasforma in piccoli aghi di ghiaccio che cadendo ricordano il rumore che produce un pezzo di velluto che si laceri! Ma è giunto Natale. Dopo una notte burrascosa il gelido vento del nord ha cessato di soffiare e il nebbione si è alzato lasciando liberi i campi di ghiaccio. Una luce biancastra prodotta dall'"ice-blink" e dal luccichio degli astri che ormai sono visibili anche a mezzodì essendo il sole scomparso per parecchi mesi, si è diffusa ovunque e permette di vedere ad una non piccola distanza. Per di più il termometro da 40o sotto lo zero è disceso con un brusco salto a soli 14o. L'equipaggio, strappato al suo torpore da quel raddolcimento di temperatura, si è scosso e ha cominciato a lasciare la camera comune ove la stufa divora continuamente carbone e legna e interi barili di grasso e d'olio di balena. Il tenente ha ripreso il suo buon umore e fa tuonare ovunque la sua voce. - Animo, scuotetevi, poltroni; svegliatevi, dormiglioni. Natale ci porta una buona giornata e vi prometto di farvi passare la malinconia con un lauto banchetto. Non è vero, capitano? - Sì, sì! - risponde Weimar, che ha ripreso la sua fiducia. - Solennizzeremo il Natale con un banchetto. - E pianteremo anche l'albero. - Con dei regali per tutti. - Sì, con dei regali. In breve tempo la camera comune è diventata vuota. Tutti sono saliti in coperta per vedere come stanno le cose al di fuori, sperando forse che quel cambiamento di tempo abbia portato anche una variazione alla situazione pericolosa in cui si trova il "Danebrog". Il campo di ghiaccio, durante quegli interminabili giorni di intensissimo freddo, ha subito delle modificazioni, ma non in meglio per i disgraziati prigionieri. La sua estensione, già prima considerevolissima, si è reduplicata per il continuo avanzarsi dei ghiacci trascinati dalla corrente polare verso la costa americana. Fin dove giunge lo sguardo non si vedono altro che altissimi "iceberg" di tutte le forme possibili ed immaginabili: alcuni ritti, tutti d'un pezzo e terminanti in una punta aguzza che scintilla stranamente fra quella semi-oscurità; altri pericolosamente inclinati e che parevano lì lì per piombare sul campo di ghiaccio, qua e là fessi o traforati come se vi fosse penetrato un immenso cuneo; poi più oltre strane cupole, alcune intere ed altre in parte diroccate dalla potente pressione dei ghiacci, e poi svelte colonne mantenentisi ritte per un prodigio di equilibrio; coni strani e piramidi elevate quanto quelle d'Egitto e poi archi, e finalmente massi enormi accatastati confusamente che parevano le rovine di grandiosi edifici diroccati da un tremendo cataclisma. Del mare nessuna traccia. Forse al di là di quella grande barriera di ghiacci ancora si frangeva sollevato dagli ultimi uragani, ma la distanza era tale che sarebbe stata una vera follia il volersi spingere fino laggiù attraverso a tutte quelle pericolanti guglie. - Siamo proprio accerchiati, e come! - esclamò il tenente. - Ci vorrebbero cento tonnellate di dinamite per aprirci una via. - Fortunatamente la nave resiste sempre! - disse il capitano. - Infatti non mi sembra che abbia sofferto; non ha fatto altro che sollevarsi un pò. - Speriamo che continui, se i ghiacci tornano a restringersi attorno a noi. - E i nostri magazzini avranno sofferto? - interrogò Koninson, guardando a babordo. - Non mi sembra - disse il capitano. - La neve li ha coperti ma non vedo alcuna fessura attorno ad essi. Domani, se il tempo ci permetterà, li visiteremo. - Sì, domani! - affermò il tenente. - Oggi non ci occuperemo che di festeggiare Natale. - E voi vi incaricherete del pranzo, signor Hostrup. - Grazie, capitano, cercherò di farmi onore. Ohè, ragazzi, mandate al diavolo i ghiacci e occupatevi di allestire in coperta una tavola che possa servire a tutti. - Mi metterò io alla loro testa! - disse il fiociniere. - Ehi, mastro Widdeak, al lavoro! I marinai, che altro non desideravano se non di dimenticare i loro lunghi patimenti, non si fecero pregare dai loro capi e tutti di buona voglia si misero alacremente al lavoro, mentre il tenente assumeva l'alta direzione della cucina. Alle 4 pomeridiane il ponte del "Danebrog" offriva uno spettacolo senza dubbio mai più visto in quell'alta latitudine. Koninson e Widdeak, aiutati dai marinai, avevano preparato una lunga tavola che si piegava sotto il peso dei tondi e delle bottiglie di rhum, che il degno tenente conservava da anni per qualche grande occasione. Tutto all'intorno, bandiere di segnali e bandiere di parecchie nazioni s'intrecciavano artisticamente, mentre verso poppa un piccolo pennone, che voleva essere l'albero di Natale, adorno di variopinte fasce, reggeva a grande stento bottiglie, pipe, pacchi di tabacco, coltelli e focaccie. - A tavola! - s'udì tuonare sotto coperta l'allegra voce del tenente. Il capitano, i fiocinieri, i timonieri, i gabbieri, che non aspettavano che quel segnale, si assisero ai loro posti e poco dopo appariva il tenente seguito da alcuni marinai che portavano fumanti pentoloni e casseruole da cui uscivano appetitosi profumi. - Evviva al sig. Hostrup! - urlò l'equipaggio. - Ragazzi miei, lasciate gli evviva in fondo alle vostre gole, - disse il tenente - e invece preparate i vostri denti e il vostro stomaco. I marinai, ai quali era tornato l'appetito, fecero grandissimo onore al pasto e soprattutto alle bottiglie che sparivano rapidamente. Una pazza allegria regnava fra tutti quei lupi di mare che in quel momento dimenticavano di trovarsi imprigionati quasi all'estremità del mondo abitabile e forse alla vigilia di qualche spaventevole catastrofe. Verso le 9 di sera, il tenente, che sembrava il più allegro di tutti, diede la stura alle sue due famose bottiglie ed empiendo fino all'orlo il suo bicchiere si alzò. - Capitano, un brindisi - gridò. - A chi? - domandarono i marinai. - Al nostro valoroso "Danebrog"! Amici, capitano, evviva al "Danebrog"! Il tenente vuotò tutto d'uno colpo la sua tazza, ma nè il capitano, nè i marinai lo imitarono. Si erano tutti, come un solo uomo, alzati guardandosi in viso con una viva ansietà e più di uno era impallidito. - Cosa succede? - chiese il tenente che nulla aveva avvertito. - La nave si è mossa! - disse il capitano, che curvo verso il tribordo, pareva ascoltare i rumori esterni. - Ed io ho udito un sordo boato - aggiunse Koninson. - Forse le pressioni? - chiesero i marinai. Uno scricchiolìo forte, seguito da una scossa che fece oscillare il liquido contenuto nei bicchieri e le lampade sospese al tetto della sala, li rese avvertiti che qualcosa di straordinario accadeva sul grande campo di ghiaccio. - Sono le pressioni! - esclamò il tenente vibrando un formidabile pugno sulla tavola. - E proprio oggi vengono a disturbarci, sul più bello del banchetto. Al diavolo i ghiacci! - Zitti tutti! - comandò il capitano. - Udite! Udite! Ognuno prestò orecchio. In lontananza si udivano strani muggiti che pareva provenissero da un immenso esercito di buoi, e sordi boati che parevano prodotti da esplosioni sotterranee. D'un tratto la nave si alzò bruscamente verso poppa e si udirono i corbetti gemere come se fossero stati potentemente stretti da un'immane tenaglia. - Fuori, fuori tutti! - disse il capitano. I marinai si slanciarono confusamente all'aperto senza badare al freddo che era bruscamente aumentato d'una buona diecina di gradi e si curvarono sulla murata di poppa spingendo ansiosamente i loro sguardi sul campo di ghiaccio. Nulla pareva che fosse accaduto attorno alla nave. Gli "iceberg", le piramidi, i coni e gli obelischi, occupavano le stesse posizioni e conservavano le loro inclinazioni; però al di là di quell'accatastamento di ghiacci si udivano delle sorde esplosioni e degli strani muggiti accompagnati da lunghi scricchiolii i quali, attraversando il campo, venivano a morire sotto la chiglia della nave che subiva delle forti vibrazioni. Senza dubbio all'estremità del banco succedeva una battaglia tremenda fra i ghiacci che la corrente polare trascinava verso sud e che cercavano di aprirsi la via furiosamente sospinti dagli "iceberg" che venivano dietro di loro. - Corriamo qualche pericolo? - chiesero i marinai al capitano la cui fronte si era rabbuiata. - Chi può dirlo? - rispose Weimar. - Temo però che passeremo una brutta notte. - Cosa dobbiamo fare? - chiese Koninson. - Nulla per ora; ognuno però porti il proprio sacco in coperta. - Perchè mai? - chiesero alcuni. - Perchè potrebbe darsi che la nave ... . Non finì. Un'esplosione formidabile che poteva paragonarsi allo scoppio simultaneo di mille pezzi d'artiglieria era avvenuta al di là della linea dei ghiacci, e il banco, malgrado la sua immensa estensione e il suo enorme spessore, erasi spaccato a metà lanciando in aria giganteschi spruzzi d'acqua ed ingoiando alcuni "icebergs". L'equipaggio, atterrito, diede indietro mandando un grido di terrore, - Presto, presto, - gridò il capitano - portate i vostri sacchi in coperta e tenetevi pronti a guadagnare i magazzini e le scialuppe. I marinai si precipitarono nella sala comune, raccolsero alla oscillante luce delle lampade i loro effetti e le loro armi e riguadagnarono la coperta. Una scena spaventevole accadeva allora sul campo di ghiaccio. Fra mille detonazioni, fra mille muggiti, fra mille fischi e mille crepitii, "icebergs", "hummocks", piramidi, cupole, coni e colonne s'inclinavano, si rialzavano, si cozzavano e si frantumavano lanciando ovunque i loro pezzi. Il campo, scosso in tutti i sensi, stretto da ogni parte dalla potente pressione dei ghiacci alla quale nessun corpo resiste, si sollevava or qua e or là fendendosi e vomitando l'acqua del mare. Si sarebbe detto che quella massa enorme, poco prima solida tanto da sostenere una intera città, si fosse tutta d'un tratto convertita in una massa d'acqua agitata da un furioso uragano. La nave, ora rialzata a poppa ed ora rialzata a prua, oscillava spaventosamente, come si fosse trovata in piena tempesta. I suoi fianchi scricchiolavano e minacciavano di cedere, i puntelli s'incurvavano, il ponte si piegava, la chiglia si spezzava urtata e stretta dall'avanzarsi dei ghiacci. L'equipaggio, spaventato, coll'angoscia al cuore, impotente a far fronte a quel nuovo genere di assalto, che nessuna forza umana poteva respingere, si teneva aggruppato a poppa, mentre i suoi capi, che anche in quel terribile frangente si studiavano di apparire calmi, curvi sulle murate seguivano ansiosamente l'alzarsi e lo spezzarsi dei ghiacci sotto i fianchi del legno. Per una mezz'ora, che parve lunga quanto mezzo secolo, il campo fu in piena confusione, poi successe una breve calma interrotta solo dai muggiti che acquistavano maggiore intensità; quindi, quando l'equipaggio cominciava già a sperare, si udì un altro spaventevole rombo seguito da mille scricchiolii, dal rovinare di "icebergs" e di "hummocks" e da una nuova e più formidabile convulsione del campo che parve si piegasse sotto il poderoso sforzo che veniva esercitato sui suoi confini. Il "Danebrog", che a poco a poco aveva ripresa la sua primiera posizione, si risollevò a poppa, indi cadde pesantemente nel suo cavo la cui crosta, sotto l'urto, s'infranse. S'udì tosto un crepitìo di legnami infranti e pochi istanti dopo, in mezzo al crollare dei ghiacci, ai rombi, ai muggiti e ai fischi, una voce gridare: - Si salvi chi può! I ghiacci hanno sfondato il "Danebrog"! Nell'udire quelle grida che annunciavano l'irreparabile perdita della valorosa nave, fiocinieri, timonieri e gabbieri, perduta completamente la testa, si gettarono confusamente verso le murate onde guadagnare i magazzini sotto i quali stavano le scialuppe. Il capitano e il tenente fortunatamente non avevano perduto il loro sangue freddo. Prevedendo a quale pericolo si esponevano i loro compagni su quel banco ancora in piena convulsione, che qua e là si apriva minacciando d'ingoiare chi si fosse arrischiato di attraversarlo, si slanciarono verso le murate gridando: - Indietro, fermi tutti! Il banco si apre! Infatti, a tribordo della nave, dal lato dei magazzini, proprio nel momento in cui i marinai stavano per slanciarsi giù, si era aperta una larga fenditura in fondo alla quale si vedeva spumeggiare furiosamente il mare. - Indietro - ripetè il capitano, respingendo violentemente i più vicini. - Volete farvi stritolare dai ghiacci? - Ma la nave affonda! - disse un gabbiere. - Non ancora! - gridò il tenente. - Tutti a poppa! Mastro Widdeak e Koninson spinsero i loro camerati verso poppa. - Signor Hostrup, - gridò il capitano, cercando di dominare colla voce lo sfracellarsi dei ghiacci - scendete nella stiva. Forse, coll'aiuto di Dio, potremo resistere fino a domani. Il tenente sparve nel ventre del legno seguito dall'inseparabile Koninson e poco dopo riappariva sul ponte. - Ebbene? - chiesero i marinai correndo verso di lui. - È finita per il "Danebrog"? - Non ancora! - rispose egli. - Non affondiamo? - No, almeno per ora. - Cos'è che ha ceduto? - chiese il capitano. - I fianchi del nostro povero legno sono stati sfondati dai ghiacci che ora si riuniscono attraverso la stiva. Il capitano lanciò un'imprecazione, ma riacquistando tosto la sua calma disse, volgendosi verso l'equipaggio che lo circondava. - Non scoraggiamoci, amici. La costa americana non è lontana e noi sapremo guadagnarla a dispetto dei ghiacci. Che ognuno rechi in coperta più viveri e più coperte che può, e si tenga pronto a lasciare la nave. Tenente, credete che potremo resistere sino a domani? - Si, se i ghiacci non cedono sotto il peso della nave. - L'acqua entra? - L'ho udita precipitare nella sentina. - Speriamo in Dio. Ditemi, tenente, vi sentireste capace di guadagnare i magazzini? - Lo tenterò, capitano, se è necessario. - È indispensabile, tenente. Là abbiamo le nostre scialuppe, le quali possono venire ingoiate da un momento all'altro. - Allora andrò ai magazzini, dovessi perdere ambo le gambe. Tu, Koninson, mi accompagnerai, se non hai paura. - Sono ai vostri ordini, sig. Hostrup! - rispose il coraggioso fiociniere. - Ma vi faccio osservare che fra la nave e i magazzini si è aperta una larga fenditura. - La attraverseremo, Koninson. - Affrettatevi dunque, signor Hostrup! - disse il capitano. - Un ritardo di pochi minuti potrebbe esserci fatale. - Vieni, Koninson - disse il tenente. Si diresse verso l'albero di maestra armato di una scure e con ma vigorosi colpi staccò la boma che poi, aiutato dal fiociniere, gettò sul campo di ghiaccio. - Ci servirà per passare il crepaccio! - disse al capitano che lo guardava senza comprendere. - Arrivederci ai magazzini, signor Weimar. - Dio vi guardi, signor Hostrup! - rispose il capitano con voce commossa. Poi gli si slanciò contro e gli strinse energicamente la destra. - Non so, - disse con un tono di voce in cui risuonava un triste accento - io mi sento in questo momento profondamente commosso. Che vi succeda qualche disgrazia? - Non lo credo - rispose il tenente sforzandosi, ma senza riuscirvi, di sorridere. - Addio, capitano, addio! Anche lui, senza sapere il perchè, era profondamente commosso. - Si direbbe che una disgrazia mi minaccia - mormorò, guardando con inquietudine i ghiacci che continuavano a oscillare e a rovesciarsi fra mille fragori. Si gettò ad armacollo il fucile, raccolse il sacco contenente le sue vesti e scavalcata la murata discese sul banco dove già lo attendeva Koninson, completamente equipaggiato. - Affrettiamoci tenente! - disse il fiociniere. - Qui corriamo il pericolo di essere ingoiati. Sento che il ghiaccio si spezza attorno alla nave. Si caricarono della boma e, camminando con precauzione e guardandosi ben bene d'attorno, si diressero verso la fenditura che non distava più di venti metri. Il gran banco sotto i loro piedi vibrava fortemente e si alzava e si abbassava come se sotto di esso il mare fosse diventato tempestoso. Di quando in quando dei lunghi segni bianchi, che annunciavano prossime spaccature, correvano da una estremità all'altra del banco con sinistri crepitii seguiti da sordi boati e tutto d'un tratto s'innalzavano delle colonne di ghiaccio in cerchi concentrici che tosto strapiombavano con indescrivibile fracasso. Dopo aver corso dieci volte il pericolo di venire sfracellati o ingoiati, i due intrepidi balenieri giunsero sull'orlo della frana attraverso alla quale gettarono l'albero. Il tenente vi si avventurò sopra, tenendosi solidamente aggrappato e raggiunse in breve l'opposta riva. Il fiociniere lo seguì e ben presto si trovarono dinanzi ai magazzini che erano coperti da un ammasso di neve indurita. - Mi sembra che non abbiano sofferto - disse il tenente dopo una rapida occhiata. - È vero - confermò il fiociniere. - Mano alla scure e non perdiamo tempo, amico Koninson. Sento dei fremiti correre sotto il ghiaccio, e ciò indica che può aprirsi un abisso sotto i nostri piedi. Dotati entrambi di una forza poco comune, in breve aprirono nella massa nevosa una specie di galleria, entro la quale arditamente si cacciarono finchè giunsero alla parete del magazzino che con due o tre colpi di scure sfondarono. - Le scialuppe? - chiese il fiociniere al tenente che lo aveva preceduto. - Eccole lì! - rispose l'interpellato, che si era cacciato in mezzo alle casse e ai barili che ingombravano il magazzino. - Saremo capaci di spingerle fuori? - Lo spero, Koninson, poichè poggiano sopra i curli. In quell'istante udirono sotto i piedi crepitare fortemente il ghiaccio e al di fuori raddoppiare le urla e le detonazioni. Alcune grida umane, che partivano senza dubbio dal "Danebrog", giunsero pure ai loro orecchi. - Presto, presto, Koninson! - gridò il tenente. - Forse la nave sta per affondare. - Eccomi, signore! - rispose il fiociniere, che era diventato pallido, pensando al grave pericolo che correvano il capitano Weimar e tutti gli altri. Afferrarono i bordi della grande baleniera e si misero a spingerla con disperata energia, mentre le detonazioni si succedevano con spaventevole frequenza facendo oscillare le pareti del magazzino. Dapprima non riuscirono a muoverla essendosi i curli saldati al ghiaccio, ma poi, dopo alcune vigorose scosse, la spinsero attraverso il magazzino cercando di dirigerla all'imboccatura della galleria. Il tenente, in preda ad una forte inquietudine che non riusciva a vincere, faceva sforzi sovrumani ed eccitava il suo compagno che non ne aveva proprio bisogno, poichè anche lui spingeva con una specie di rabbia, invaso da una vaga paura che ad ogni istante cresceva. Avevano già spinto la grande baleniera nella galleria, quando in mezzo all'orribile baccano prodotto dai ghiacci che le pressioni spaccavano e rovesciavano, s'udirono delle urla disperate venire dal luogo ove si trovava la nave. - Koninson! - esclamò il tenente con voce soffocata dall'emozione. - Tenente! - rispose il fiociniere che era diventato pallido come un cadavere. - Aiuto! Si salvi chi può! - s'udì urlare al di fuori. Il tenente e il fiociniere, atterriti, cogli occhi stravolti, si precipitarono fuori della galleria le cui pareti cadevano a larghi pezzi. Un grido sfuggì dai loro petti. Il "Danebrog", schiacciato dalle pressioni, andava rapidamente a picco. Già la sua prua era scomparsa e l'acqua del mare, alzatasi sopra il banco, saliva spumeggiando l'inclinato ponte del vascello, strappando tutto ciò che incontrava sul suo passaggio. I marinai, pazzi di terrore, dopo essersi rifugiati a poppa stavano saltando sul campo di ghiaccio dirigendosi a tutte gambe verso il crepaccio. - Capitano! Capitano! - gridò il tenente. - Accorriamo! Accorriamo! - esclamò Koninson, Stavano per slanciarsi verso il crepaccio, quando una scossa formidabile seguita da uno scoppio inaudito, paragonabile solo all'esplosione di una immensa polveriera, fece traballare il gran campo di ghiaccio che dapprima si curvò in alto e che poi si spaccò aprendo qua e là dei profondi baratri dai quali irruppe furioso il mare. Il tenente e il fiociniere, violentemente scossi, stramazzarono in mezzo alla neve. Quando si alzarono, il "Danebrog" e il suo valoroso equipaggio erano scomparsi! Il banco di ghiaccio, prima apertosi e poi richiusosi, li aveva per sempre inghiottiti!

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