Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Clelia: il governo dei preti: romanzo storico politico

675979
Garibaldi, Giuseppe 5 occorrenze
  • 1870
  • Fratelli Rechiedei
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Se vi è una circostanza disgustosa, odiosa, terribile in questi macelli d’uomini che si chiamano battaglie, essa è certamente quella di dover abbandonare i propri feriti al nemico! Poveri feriti! In un istante i volti dei vostri amici, dei vostri fratelli che vi compiangevano e vi assistevano con tanta amorevolezza spariranno! e al lor posto verranno i ributtanti, orridi, millantatori ceffi dei mercenari, che secondo la lor scellerata natura, infrangendo ogni diritto di guerra e delle genti, vorranno bagnare le negromantiche baionette nel sangue vostro prezioso! Codardi! loro che fuggirono davanti a voi; loro, cui concedeste generosamente la vita

Attilio e Muzio, stanchi e piagati, non vollero abbandonare i feriti all’insulto ed al ferro dei soldati pretini. Nel sito più basso del lanificio, all’estremità d’un immenso lavatoio per la lana scorgevasi una porta di quercia massiccia, la quale sembrava a primo aspetto dover dare sul canale delle acque, canale che probabilmente andava a sboccare nel Tevere parte del Tevere egli stesso. E il canale esisteva davvero, ma la porta metteva invece in un sotterraneo, a traverso un ponte costrutto sul canale stesso. Per quel sotterraneo cominciò a difilare la pietosa processione di donne, di feriti e d’assistenti quando ogni speranza, non di vincere, ma anche di resistere, era venuta meno. Ma nella città pretina, colla corrotta miserabile educazione della menzogna e dell’ipocrisia, troppi sono i traditori ed un traditore vi fu che gettando uno scritto da una finestra mentre scendevano i popolani, avvertiva gli sgherri della ritirata dei difensori. L’assalto allora non venne più a lungo differito. Una moltitudine sempre crescente di mercenari e di birri s’avventò sulla barricata del portone e lo invase mentre ben pochi eran rimasti i difensori. Attilio e Muzio, se, più amanti della propria salvezza, dati si fossero alla fuga, forse avrebbero potuto salvare la vita ma!... erano troppo disdegnosi quei due veri romani e non fuggirono! ed arrestarono per un pezzo combattendo disperatamente a corpo a corpo l’irrompente ciurmaglia. Dei nemici ne furono molti abbattuti, e un mucchio di morenti e di cadaveri attestava l’eroismo della disperata difesa. Però gli eroi, come i codardi hanno una vita sola! e troppi eran gli assalitori onde alla fine l’uno accanto all’altro esalarono l’ultimo sospiro anche i due valorosi campioni della libertà Romana! Dentato, il canuto operaio che aveva assistito a quest’ultima pugna, vedendo ogni speranza svanita, pratico come era del sito, col favore delle tenebre guadagnò il lavatoio, poi il sotterraneo e chiuse su quella scena di sangue la porta di dentro e la sbarrò come poteva meglio. Gli assassini stipendiati dal prete altro incentivo non avendo che la depredazione e la strage innondarono colla speranza di bottino ogni parte del lanificio che più oggetti conteneva da rubare non curandosi del sudicio lavatoio donde eran fuggiti i superstiti difensori della libertà italiana. Ma il mattino vedendo che lo stabilimento altro non conteneva che cadaveri venne loro il dubbio della sotterranea fuga. Cercarono, frugarono e trovarono finalmente la porta salvatrice ma il tempo trascorso, quello impiegato nell’abbattere le sbarre e il tempo per organizzare un’entrata regolare e cauta nelle tenebre diedero agio ai fuggitivi di mettersi in salvo dalla persecuzione. Nei primi di Novembre 1867 scendevano alla stazione di Livorno tre donne, un vecchio ed un garzone sul fiore degli anni. Con quella dolente famiglia stava una di quelle figlie di Albione che, quantunque mestissima e vestita a lutto, vi avrebbe fatto sentire la beatitudine della vita con un solo suo sguardo. La sua dama di compagnia, non men bella, non meno mesta, mostrava nei lineamenti del volto quella squisitezza donnesca che Raffaello aveva amato nella Fornarina. La terza pure di quelle donne era bella. Ma!... la sventura le avea troppo palesamente solcata la fronte e cert’arìa quasi di demenza si discerneva sul suo viso. Il canuto, che Giulia non avea voluto abbandonare alla miseria, badava al bagaglio. John, colla disinvoltura dei suoi tredici anni, dava mano alle donne nello scendere dal convoglio; poi, avendo scoperto il capitano Thompson con l’Aurelia che erano là ad aspettarli, d’un salto fu nelle braccia di lei che lo amava come un figlio quantunque lo giudicasse un po’ troppo biricchino. «Li ho baciati cadaveri!» mormorò John alla matrona ed una lagrima rigava la rosea guancia del biondo figlio della Britannia. Egli accennava ad Orazio ed Irene che tanto lo avevano amato ed eran stati i suoi salvatori. L’abbracciarsi delle donne fu scena di pianto che l’una versava sul seno dell’altra senza poter pronunziare una sola parola. Dopo avere assistito a quella muta scena per un pezzo, lui pure intenerito, il buon capitano Thompson, alzò il capo e dirigendosi alla sua signora in inglese le disse: «Lo Yacht è là al molo che aspetta i vostri ordini se mai desiderate andare a bordo». «Sì, Thompson, a bordo, e metteremo alla vela subito per uscire d’Italia. È una terra, come dice Alfieri, ove la pianta uomo nasce più robusta che dovunque e gli stessi atroci delitti che vi si commettono ne sono una prova». Non molto tempo dopo lo Yacht veleggiava superbo verso la merry England

Giovane, ricca, nata e cresciuta nella bella e lieta Inghilterra, come poteva Giulia separarsene per sempre e per sempre abbandonare amici e congiunti che tanto l’amavano? Che volete! Essa aveva trovato il suo Eden tra le macerie e sotto la toga cenciosa del nostro mendico aveva scoperto colla sua immaginazione esaltata il tipo della fiera razza degli antichi Quiriti. Nello studio di Manlio ov’ella si recava sovente, s’era incontrata con Muzio, il quale posava davanti alla creta del maestro. Che importava a Giulia la bassa condizione di lui! Non v’era forse su quella fronte l’impronta che cerchereste per eleggervi un capo, un protettore, un amico? In quel portamento v’era tutta la maestà ch’essa tanto ammirava nel suo idolo di marmo. Infine, mendico o non mendico, Giulia amò Muzio dal primo istante in cui lo vide. Era povero? E che importava a Giulia? Se la povertà è un marchio d’infamia per il volgo del tanto per cento, così non è per il genio. Ma infine i ricchi sono essi la miglior pasta dell’umana famiglia? Dalla stessa storia del nostro povero Muzio sembrerebbe di no. E Muzio amava Giulia? Muzio avrebbe dato l’universo per essa, ma giammai egli avrebbe ardito di manifestarle l’affetto suo. Una sera due soldati stranieri avvinazzati assalirono la nostra gentile inglese nella Lungara quando soletta tornavasene dallo studio di Manlio ed a forza volevano trascinarla con loro. Quello fu il più bel momento della vita di Muzio che aveva seguito da lontano la bella straniera; egli ferì ed atterrò l’uno: l’altro si diede alla fuga. Da quella sera il suo pugnale gli era diventato sacro e Giulia da quella sera non fu più insultata per la via. Il giorno stesso nel quale le donne di Manlio avevano stabilito di recarsi al palazzo Corsini, Giulia ascendeva il Gianicolo per fare una visita allo studio di lui. Da un giovine allievo sapeva la dolorosa storia del maestro, seppe della gita delle donne ma non potè sapere quale fosse il vero motivo della disgrazia. Mentre stava meditabonda e perplessa sullo strano caso, capitava Attilio e da lui uditi i particolari della faccenda non dubitò un momento che l’intrigo disonesto non fosse opera del porporato. «Bene!» disse ad Attilio la giovane straniera, «da quanto odo le donne uscirono per chiedere in grazia la liberazione di Manlio. Non c’è un istante da perdere. Io ho accesso al palazzo Corsini, spero prima di notte potervi informare d’ogni cosa». Così parlando, e senza meglio chiarire i suoi disegni, accomiatossi. Il nostro Attilio stanco dai disagi e dalle fatiche della notte, disperato di non trovare in casa la sua Clelia, sedette per interrogare con più agio il giovane Spartaco su cosa per lui di tanto interesse.

Uno degli inconvenienti della guerra per bande e che più preoccupa il capo è il dover spesso abbandonare i feriti, o affidarli agli abitanti per lo più paurosi e che temono di compromettersi. Tale considerazione e l’ineguaglianza delle forze spinsero il prode Orazio a decidersi per la ritirata, non però senza mostrare ai mercenari del prete che i liberi italiani non li temono, anche nelle circostanze più sfavorevoli. Ordinò a Silvio, che comandava la retroguardia, di collocarsi in posizione vantaggiosa per proteggere la ritirata ed il cacciatore, colla sagacia che lo distingueva, collocò i suoi cinquanta uomini con tale maestria come se li avesse destinati alla posta del cervo o del cignale. Avendo comunicate tali disposizioni ad Attilio ed ingiuntogli che non s’impegnasse fortemente ma eseguisse l’ordine di ritirata in scaglioni, Orazio andò verso Muzio già pronto a ricevere il nemico che si avvicinava celeramente. Scambiate alcune parole col comandante della squadra, il capo supremo ascese il punto più alto della posizione donde poteva distinguere ogni cosa accompagnato da soli due aiutanti. Il Generale Haricot, che non mancava di una certa bravura, degna di miglior causa, assaliva francamente le posizioni dei liberali colla sua vanguardia in catena, sostenendola lui stesso con piccole colonne in massa. In un combattimento od in una battaglia, il comandante supremo deve collocarsi in posizione da poter vedere il campo di battaglia più che sia possibile, il che gli verrà sempre fatto più facilmente, ove egli possa tenersi tra le sue prime truppe impegnate. Dovendo avere informazioni di quanto accade nella pugna, se il generale in capo è lontano dall’azione ha il pregiudizio della perdita di tempo, dell’inesattezza dei rapporti e ciò che più importa, non può con un colpo d’occhio discernere le parti del suo esercito che abbisognano di un pronto soccorso o, quando sia vittorioso, lanciare in perseguimento del nemico quei corpi leggeri di cavalleria e fanteria che possono compiere la vittoria. Tale non fu qui il torto dei due capi, che comandavano le forze opposte. Haricot, giustamente baldanzoso per la superiorità delle sue forze, le spingeva all’attacco senza riguardo ed Orazio, deciso a ritirarsi per l’inferiorità del numero, disponevasi a dare al nemico una lezione che lo facesse guardingo e meno furioso nel suo inseguimento. La scabrosità del terreno e le folte piante avevano permesso a Muzio di collocare i suoi al coperto in vantaggiosa posizione. Egli aveva ordinato d’assaltare il nemico a bruciapelo, di scaricare a colpo sicuro e ritirarsi poscia dietro la linea degli altri scaglionati. Così fecero i suoi valorosi. Quella prima scarica seminò il terreno di cadaveri nemici e di feriti. La vanguardia dei mercenari ne fu rovesciata ed i sostegni condotti avanti dall’intrepido loro capo, rallentarono il loro progresso e diedero tempo agli italiani di compiere la loro ritirata in buon ordine. Quando Cortez sbarcato al Messico abbruciò le navi, quando i mille di Marsala sbarcando in Sicilia abbandonarono i loro piroscafi al nemico, si tolsero ogni speranza di ritirata e tale risoluzione fruttò il contegno trepido delle due spedizioni. Ma la vicinanza di frontiere amiche è stata spesso causa di defezione nelle fazioni degli italiani. Io ho veduto tale scandalo in Lombardia nel 1848 per la vicinanze della Svizzera e disgraziatamente nell’agro romano per essere il territorio regio troppo vicino. Così successe al corpo dei trecento, nelle circostanze qui raccontate. Benché composto d’uomini coraggiosi, si sciolse come la nebbia al toccare la frontiera italiana non pontificia e dopo avere ricordato ai militi che schiava ancora rimaneva la loro terra e che era dovere di tutti di prepararsi a muover di nuovo pugna per liberarla, i soli quattro capi, che noi ben conosciamo, con Gasparo e John, presero la via della Toscana per recarsi a Livorno ove dovevano trovare lo Yacht e notizie dei loro cari e dove li lasceremo godere un po’ di riposo per rivederli sovra nuove scene e in mezzo a nuove avventure. FINE DELLA PARTE PRIMA

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