Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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IL MAESTRO DI SETTICLAVIO

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Boito, Camillo 1 occorrenze

Io rinnegare una verità matematica per abbracciare l'errore; io abbandonare un metodo, che insegna a leggere in pochi mesi, per un inganno, che lascia lo scolaro orec- chiante tutta la vita! Piuttosto morire di fame cento volte che commettere una simile ribalderia, una così vile bassezza. Ho ri- sposto per le rime a quello sfacciato di direttore". Il Chisiola guardò con ammirazione e con pietà quel martire della propria convinzione, il quale dalla faccia e dagli abiti rivelava la sua triste miseria. Gli pose la mano sulla spalla in atto affettuoso, mentre usciva per vedere di Nene. Nene aveva un momento di quiete. Il vecchio tornò a sedere nella poltrona e, con la fronte un poco rasserenata, disse: "Perché non sei venuto a parlarmi di tutto ciò prima di rispondere al direttore? Forse avrei potuto persuaderti. Chi sa? C'è ancora tempo". "Tempo a che cosa? A diventare un rinnegato?". "Adagio, adagio. Non esageriamo. Te lo insegnai io il setticlavio più di quarant'anni or sono, ed ho continuato a insegnarlo ai miei orfani sino a pochi giorni fa; ma non ignori che avevo diviso i fan- ciulli in due schiere per ammaestrare l'una col setticlavio, l'altra, più numerosa, col metodo comune. Non bisogna volere essere cie- chi. Noi siamo oggi i due ultimi rappresentanti di una scuola di lettura, che non uscì mai da Venezia, nemmeno ai tempi del Fur- lanetto, e che è stata abbandonata anche qui da vent'anni, a dir po- co. Perché si deve credere che nella musica il mondo sia imbecil- lito, che nessuno capisca più nulla?". "Non è vero, maestro, che oggi il setticlavio sia disconosciuto" e perché lo Zen alzava la voce, il vecchio gli accennò di moderarsi, dando un'occhiata all'uscio che menava verso la stanza di Nene. "Il setticlavio anzi è in onore. Ella sa, per esempio, che la città di Arezzo deliberò di alzare, col mezzo di una colletta europea, un monumento a Guido Monaco. Quale fu la gloriosa invenzione del- l'aretino? Il solfeggio o, per dirlo con un'altra parola, il setticlavio. È vero o non è vero?". "Si può solfeggiare senza setticlavio, mio caro". "Senza setticlavio si suonerà il pianoforte, perché le note vi stan- no belle e preparate, e basta pestare sui tasti. I suonatori di piano- forte sono appunto quelli che hanno barbaramente manomesso le ragioni del canto; ma l'ugola è il solo strumento creato diretta- mente da Dio, quindi il solo davvero divino, quello che deve im- porre la regola a tutti gli altri inventati dall'uomo. Legga, maestro, questo avviso pubblicato l'altra settimana a Napoli" e di nuovo ti- rava fuori dal pingue portafogli un'ampia carta stampata. "E l'invito al congresso italiano. Veda, al proposito dei quesiti sulla musica, è proposta la riforma della scuola di canto, poiché più d'ogni altro ramo dell'arte il canto giace in umili ed abiette condizioni È scritto proprio così. Ora, come si possono mai rial- zare le sorti del canto se non si principia dalla lettura?". "Non nego che la lettura abbia la sua importanza; ma qui s'inten- de altra cosa: s'intende la purezza dell'intonazione, il modo di emettere la voce, la delicatezza del fraseggiare, l'agilità, la grazia". Maria, socchiudendo l'uscio, mostrò il suo viso stravolto. Voleva chiamare il padrone, che non la vide; e non ebbe l'animo di scuo- terlo in quel momento di distrazione e di calma. "È l'ultimo forse!" pensò la serva, tornando a chiudere l'uscio. "Ma l'avviso di Napoli ha torto" continuava il vecchio. "Il canto è quale la musica lo vuole e lo fa. Passa il tempo dei gorgheggi; entriamo nell'età della passione e del dramma. Quel giovine, che tu detesti, autore dell'Ernani e del Rigo- letto.". "Ha corrotto il canto". "Come vuoi che abbia corrotto il canto se ha dato un nuovo im- pulso alla musica? Tutto muta quaggiù. Tu sei vecchio e caparbio; ma quando diventerai ancora più vecchio, quando giungerai alla mia età, in cui ci si distacca dal mondo, allora l'animo imparziale ti lascerà vedere le virtù del presente come gli errori del passato. Io temo, a dirtela schietta" proseguiva il maestro con accento dol- ce e insinuante "temo che uno dei miei peccati sia stato il setticla- vio. La logica è talvolta un inganno; e per amore della semplicità teorica si casca nella pratica in tali complicazioni da rendere vano ogni ragionamento e ogni sforzo. Non ostinarti; accetta il posto di Milano; continua ad essere utile alla gioventù, sacrificandole un vecchiume, forse un pregiudizio". Mentre il Chisiola parlava, l'al- tro mutava aspetto. Un grande scoramento s'impadroniva di lui; era come se la molla, che lo reggeva in piedi, si fosse spezzata d'un tratto. Gli caddero le braccia, ed il volto andava perdendo la sua vivace espressione. "Anche lei, maestro, è contro di me" mormorava "anche lei mi abbandona. Non mi resta più nulla, nulla, nemmeno la mia cara idea, per la quale avrei saputo morire!". Si udì un grido acuto, straziante. Il vecchio aprì l'uscio, precipitò nella stanza vicina, traversò l'altra correndo, entrò nella camera di Nene, che era morta, guardò il viso bianco e cadde a terra privo di sensi. Era il tocco dopo la mezzanotte quando lo Zen, che aveva vagato per le vie senza saper dove andasse, giunse, guidato dall'abitudine, al Caffè della Gloria A un tavolino quattro sensali giuoca- vano alle carte. Uno di essi, appena vide lo Zen, gli gridò: "Ehi, maestro, l'abbiamo fatta grossa questa volta. È stato qui dal padrone" e il padrone russava dietro il banco "l'usciere del tribu- nale, l'amico Toni, per intimarle di comparire domattina innanzi al giudice. Due truffe alla volta, niente di meno, maestro". Lo Zen sbarrò gli occhi; avrebbe voluto capire. Il sensale conti- nuò: "Non mi faccia lo scemo adesso. C'è di mezzo un pianoforte non suo, venduto ad un Tizio. E l'altra truffa che cosa è? Non me ne rammento". Il caffettiere, svegliatosi allora allora, intervenne, sbadigliando: "Si tratta di un libro, una strenna, credo, che questo buon galan- tuomo doveva far stampare; e si mangiò il danaro. Ma dove dia- volo li caccia i quattrini, che non ha mai un soldo per isfamarsi?". "Le donnette, le donnette" vociavano i sensali, sganasciandosi dalle risa. "E noi, che davamo da mangiare a questo bel mobile!". Lo Zen era già scappato lontano. Aveva un incendio nella testa: sentiva dentro nel cervello le fiamme che guizzavano, le case che rovinavano, i pompieri che distruggevano ogni cosa con i loro enormi picconi. Acqua ci voleva, acqua. Si gettò a capo fitto in un canale. Non poté annegare; aveva fatto una giravolta, e s'era tro- vato in piedi sul fondo, col capo fuori. Non gridava, non si curava di accostarsi alla riva; anzi il fresco dell'acqua doveva essergli gradito. All'alba due muratori, che passavano in un battello, l'alza- rono su e lo condussero all'ospedale, ove fu posto nella sale d'os- servazione. Due giorni appresso, chiuso nella camicia di forza, fu condotto al manicomio nell'isola di San Servilio. Lì a poco a poco riacquistò le maniere schiette di prima, il suo buon umore e la vecchia pas- sione del setticlavio. Era incanutito, ma ingrassava. I medici e gli infermieri gli volevano bene; le suore ne' giorni di magro gli face- vano preparare, arrostita sulla gratella, un'aringa salata, e gli dava- no un bicchiere di vin buono. Aveva scelto fra i suoi compagni, tutti tranquilli, i meno malinconici, e s'affaccendava nell'insegnar loro a solfeggiare e a cantare. Le sale, i corridoi e il giardino echeggiavano spesso di voci, che ripetevano per ore ed ore: Do Re, Do Mi, Do Fa, Do Sol, Do La, Do Si Il maestro con lo scartafaccio del suo Trattato sul setticlavio batteva il tempo; e ne- gli urli dei nuovi scolari udiva le più soavi armonie, i più stupendi cori, le più perfette fughe, una musica da paradiso. Non c'era uo- mo più felice di lui.

LE ULTIME FIABE

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

Dovevano abbandonare quel vecchio che aveva scontato amaramente la sua superbia e la sua vanità? E rimasero. Larga la foglia, stretta la via, Dite la vostra che ho detto la mia!

Il Marchese di Roccaverdina

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

Dobbiamo abbandonare il Comune in mano a certa gentaccia? Che penseranno? Che il marchese di Roccaverdina ha avuto paura! Non è vero; ma così penseranno e lo diranno! ... Mi mordo le mani! ... Bella figura facciamo col Sottoprefetto! Egli lo ha proposto, sicuro che il marchese avrebbe accettato la nomina. Abbiamo lavorato tanto! Fate il miracolo! ... » Ah, ella avrebbe voluto fare ben altro miracolo! Ma si sentiva impotente. E lo diceva quello stesso giorno alla sua mamma che insisteva presso di lei: «Che hai dunque? Che ti accade?». «Forse ho sbagliato, mamma!» «Perché?» «Mi sento sola sola, mamma!» «Che intendi dire?» «Ci siamo illusi, egli ed io. Il suo cuore è chiuso per me. Ha preso me come avrebbe preso qualunque altra ... Può darsi che il torto sia mio ... Non avrei dovuto entrare in questa casa ... C'è ancora il fantasma dell' altra. Lo sento, lo veggo ... » «Ma che cosa senti? Che cosa vedi?» «Niente! Non so ... Eppure sono certa di non ingannarmi.» «Vergine benedetta! Che gusto tormentarsi così!» «Ah, mamma! Non avrei voluto parlartene per non angustiarti. Ma il cuore mi si schianterebbe se non potessi sfogarmi. Lasciami sfogare ... Mi ero rassegnata, da anni. Tu non hai saputo mai nulla fino a pochi mesi fa. Avevi dolori assai più grandi del mio; perché avrei dovuto confidartelo? E quando, tutt'a un tratto, quel che sembrava stoltezza sperare mi si presentò dinanzi come possibile, te ne rammenti? io esitai, a lungo esitai, temendo quel che, pur troppo, è avvenuto! Sì, mamma. Tra me e lui sta sempre quell' altra - ricordo vivo ... ! Non m'inganno. Sono forse una persona, sono un cuore qui? ... Sono un mobile.» «Che aberrazione, figlia mia! C'è un malinteso tra voi; dovreste spiegarvi. Marito e moglie debbono fare così, altrimenti le cose s'ingrandiscono. Ognuno immagina che sotto ci sia qualche cosa di grave ... E non c'è nulla!» «E se c'è peggio di quel che uno sospetta?» «Non può essere. Dopo sei soli mesi! Il marchese ha cento cose per la testa. Gli affari assorbono, danno tanti pensieri. Tu rimani a fantasticare, a roderti il fegato ... Che vuoi che ne sappia lui? Come pretendi che indovini?» «Gliel'ho detto: "Antonio, non mi sento amata da voi!". Gliel'ho detto singhiozzando ... » «Ebbene?» «Si è messo a ridere, mi ha risposto scherzando, ma rideva male, scherzava a stento.» «Ti è sembrato. Ha ragione. Gli uomini non possono intendere certe cose di noi donne, che non hanno importanza per loro. E intanto tu ti logori la salute; tu non ti accorgi che deperisci di giorno in giorno. Sei pallida ... Non sei mai stata così. Che credevi, sposando? Di non dover avere nessuna croce? È un carattere strano; sopportalo come è. Ho sopportato peggio io! Ho fatto la volontà del Signore, mi sono rassegnata sempre; lo hai visto! Di che sei gelosa?» «Del suo silenzio, mamma!» «Il marchese non è espansivo; è fatto così. Vorresti rifarlo?» «Che so? Certe volte rimane assorto, col viso scuro scuro; e allora, quando si riscote, mi guarda con occhi smarriti, quasi avesse paura che io indovinassi. E se gli domando: "Che pensate?", risponde, sfuggendomi: "Niente! Niente!".» «E sarà niente davvero. Vuoi che gliene parli io? Che gliene faccia parlare dalla baronessa?» «No. Può darsi che io abbia torto.» «Hai torto certamente.» «Sì, sì, mamma, ho torto; lo comprendo. Non affliggerti per me!» Andando via, il marchese le aveva detto: «Tornerò presto questa sera». Ma era già un'ora di notte, e la marchesa, affacciata al terrazzino a pian terreno allato al portoncino d'entrata, cominciava a impensierirsi del ritardo. Si atterrì vedendo arrivare soltanto Titta a cavallo d'una mula. «Il marchese?» «Non è niente, eccellenza.» Titta, saltato giù da cavallo, legata la mula a uno degli anelli di ferro confitti a posta nel muro ai due lati del portoncino, si affrettava ad entrare. Ella gli corse incontro nell'anticamera. «Stia tranquilla, voscenza . È accaduto ... » «Il marchese sta male?» «No, eccellenza. Devo andare dal pretore e dai carabinieri ... Si è impiccato uno a Margitello: compare Santi Dimauro.» «Oh, Dio! ... Perché? Come?» «È venuto a impiccarsi nel suo fondo venduto al marchese due anni fa. L'aveva detto tante volte: "Verrò a morirvi un giorno o l'altro!". E finalmente il disgraziato ha mantenuto la parola. Si era pentito di aver venduto quel fondo ... Di tanto in tanto lo trovavano là, nella carraia, coi gomiti su le ginocchia e la testa tra le mani. "Che fate qui, compare Santi?" "Guardo la mia terra, che non è più mia!" "Avete preso un sacco di quattrini!" "Sì, ma io vorrei la mia terra!"» «Perché l'ha venduta?» «Oh! Egli soleva raccontare una storia lunga. Pel processo di Rocco Criscione ... L'aveva col marchese, che non c'entrava ... Il giudice istruttore ... sa, voscenza ; quando si fa un processo si raccolgono tutte le voci ... E siccome il giudice istruttore ... Una storia lunga! ... Ma era venuto lui stesso a dire al marchese: " Voscenza vuole quel pezzo di terra? Se lo prenda". Era proprio nel cuore di Margitello, e di tratto in tratto il vecchio alterava il limite ... I contadini quando possono rubare un palmo di terreno, non hanno scrupoli. Compare Rocco, buon'anima, non era omo da lasciarlo fare, nell'interesse del padrone. "E il marchese non ne troverà un altro eguale, eccellenza!" Il vecchio si era dunque presentato dal marchese: " Voscenza vuole quel pezzo di terra? E se lo prenda!". Poi il vecchio si era pentito. Veniva a piangere là, quasi ci avesse un morto ... Che colpa n'aveva il padrone? E ora, per fargli dispetto, si è impiccato a un albero ... Chi se n'era accorto? Spenzolava davanti la casetta ... Le mule della carrozza - gli animali hanno il fiuto meglio di noi cristiani - non volevano andare né avanti né indietro. Io guardo attorno per veder di che cosa s'impaurissero le povere bestie ... Ah, Madonna santa! Salto giù di cassetta, scende di carrozza anche il marchese, tutti e due più pallidi del morto. Non lo dimenticherò finché campo! ... Pavonazzo, con gli occhi e la lingua di fuori ... Lo tocco; era freddo! ... Allora siamo tornati a Margitello ... Il marchese, sturbato, non poteva parlare ... Ha dovuto buttarsi sul letto. Ora sta meglio ... E mi ha mandato per avvertire voscenza . Devo andare dal pretore e dai carabinieri ... Il morto è là, che spenzola ancora ... Ha voluto dannarsi!» La marchesa era stata ad ascoltare senza interromperlo, corsa da brividi per tutta la persona, quasi avesse davanti il corpo del vecchio contadino col viso pavonazzo, con gli occhi e la lingua di fuori, che dondolava dal ramo dell'albero a cui disperatamente era andato a impiccarsi. «Il Signore lo avrà perdonato!», ella disse commossa. «Ma il marchese però non è tornato? Ditemi la verità, Titta: sta male?» «Eccellenza, no! Aspetta la giustizia coi carabinieri e i manovali che dovranno portar via il morto ... Mi ha mandato a posta ... E se voscenza permette ... » La marchesa quella notte ebbe paura di dormire sola in camera sua. Disse a mamma Grazia: «Recitiamo un rosario in suffragio del disgraziato». A metà del rosario, mamma Grazia era già addormentata su la poltrona dove la marchesa l'aveva fatta sedere; ed ella si buttò sul letto vestita, certa di non chiudere occhio, con nel cuore un'inesplicabile angoscia, un invincibile presentimento di tristissimi casi che sarebbero sopravvenuti, presto o tardi, per cattiva influenza di quel morto.

Racconti 1

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Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1877
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
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Ma da che Eugenio rimaneva giorno e notte in came ra, presso il letto, dormicchiando spesso sopra il canapè, per esser piú pronto a somministrarle la medicina e a cambiarle le pezze ghiacciate alla testa; da che gli sentí ripetere, con lo stesso accento d'una volta, le dolci parole d'amore che l'avevano inebriata fino ad offuscarle la ragione, fino a spingerla ad abbandonare un marito cosí buono da perdonarla s'ella avesse accettato il perdono - quelle parole piene d'incanto che Eugenio non le aveva mai ripetute da un pezzo - ella pensava: - Oh Dio! ... Mi sono forse ingannata? ... - Eugenio medesimo in certi momenti non avrebbe saputo distinguere s'egli continuava a rappresentare una pietosa commedia o se diceva davvero. Il rimorso d'aver contribuito, quantunque involontariamente, alla distruzione di quell'innamorata creatura lo spingeva a esagerare: - Poverina! Muoia almeno contenta. - Senti - gli disse un giorno l'ammalata. - Debbo confessarti una cosa ... - Con le mani dimagrite, tremule per debolezza e che scottavano, gli aveva preso le sue e gliele stringeva forte: - Fatti piú accosto; posa la testa sul guanciale ... Ascolta. Prima di morire, voglio confessarti ... - Eh! ... Non siamo a questo punto. - Forse -. S'era arrestata per guardarlo da vicino nelle pupille; e gli passava una mano sulla guancia, con l'incerta carezza di persona rifinita dalla malattia. - Ti vedevo cambiato. Credevo che tu non mi volessi piú bene e che ti fossi diventata peso insopportabile, dura catena ... - Ma ... - Lasciami dire. Non ti accusavo, non ti maledicevo. Vedi? Muoio per questo, e sarei morta disperata, se non te lo avessi fatto comprendere. Perdonami! ... Ingannata dalle apparenze, ti calunniavo indegnamente ... Perdonami! - Su quel volto pallido e scarno, le lagrime scorrevano, sgorgando piú abbondanti dalle ciglia a ogni parola, a ogni frase, le scendevano fino alle labbra, ed ella se le beveva con voluttà, impedendo che Eugenio gliele asciugasse: - No, lasciami piangere ... È cosí dolce! ... Lasciami morire cosí -. Interrogando il dottore, egli era tormentato dall'ansia di vedere indovinato il proprio egoismo, la freddezza di cuore sopravvenuta. In alcuni momenti cercava di mentire fin con se medesimo, se l'intima voce della coscienza lo rimproverava, inesorabile, a ogni domanda con cui egli sperava di accertarsi che, presto o tardi, quella tortura sarebbe finita. E dopo tre eterne settimane passate presso la malata, giorno e notte, senza andare a respirare un soffio d'aria libera, si sfogava in soliloqui brutali: - Farà morir di sfinimento anche me! - E subito, quasi per ammenda, la povera ingannata che smaniava dalla febbre si vedeva sopraffatta da effusioni di carezze e di parole affettuosissime, che parevano scaturire dal piú profondo del cuore. Ed erano invece mera finzione, artifizio, per attutire la voce interna che insorgeva contro di lui. Aveva forse due anime? Vivevano insomma due diverse persone nel suo corpo, una buona e una cattiva? Egli non sapeva spiegarselo. Il dottore intanto non si lasciava scappare affermazioni recise: - La malattia, gravissima perché non curata in tempo, segue il suo corso; la signora può guarire, lentamente; ma ... - A quel ma lasciato cosí sospeso, Eugenio sentiva, suo malgrado, un po' di sollievo. - Per certe anomale situazioni della vita, non c'è altra soluzione! - rifletteva freddamente. - Non l'ho provocata, né agevolata - aggiungeva subito per scusarsi con se stesso. E spiava ogni sintomo, e notava ogni minimo cambiamento, aggirandosi smanioso attorno a quel letto dove la povera signora, riarsa dalla febbre, soffocava gli atroci dolori per non gridare, per risparmiargli l'angoscia di vederla soffrire, ora che si credeva ancora amata! - Mi sento assai meglio, sai? - E le visceri le si torcevano sotto la coperta, intanto ch'ella gli sorrideva e gli chiedeva baci. La mattina che la signora Viotti, già convalescente, si affacciò allegra su l'uscio del salotto, augurando all'amante il buon giorno, Eugenio, di cattivo umore, non seppe neppure usarle la cortesia di alzarsi subito da sedere e andarle incontro. - Sono felice; non voglio piú morire! - ella mormorava abbandonata deliziosamente su la poltrona. Eugenio, in piedi, la guardava; e aveva su le labbra l'equivoco sorriso - quasi contrazione - di chi, non piú amante, vede ribadirsi la catena creduta già vicina a spezzarsi. Mineo, 25@ 25 marzo 1885@. 1885.

SCURPIDDU

662770
Capuana, Luigi 1 occorrenze

Gli era parso che Don Pietro pensasse di condurlo via con sè; e all'idea di dover abbandonare i tacchini e la masseria si era scurito in viso. I contadini, che ormai lo conoscevano, al vederlo vestito da festa, cominciarono a canzonarlo e a dargli scappellotti. - Buon pro, il vestito nuovo! Sembri uno zitu . Sposi la z'a Tegònia? La z'a Tegònia era la serva, vecchia e sdentata, della massaia. - O badate ai fatti vostri! - egli rispondeva stizzito, scansandosi dagli scappellotti. - Vieni, inginocchiati accanto a me, - gli disse la massaia prendendolo per una mano e facendolo entrare nella chiesuola. Gli volevano tutti bene. Attento, servizievole, allegro, con certe sue buffonate divertiva gli uomini la sera, dopo mangiata la minestra e prima che il massaio intonasse il rosario. Il Soldato come lo chiamavano senz'altro, gli aveva già appiccicato il soprannome di Scurpiddu , perchè era magro e sfilato come uno steccolino. Mommo, le prime volte aveva protestato: - Mi chiamo Mommo io! E non voleva rispondere a chi gli diceva Scurpiddu . Poi si era rassegnato. - Tanto, non ti dicono ladro. Non è forse vero che sei uno steccolo? Ingrassa e non te lo potranno dire più. Il massaio lo aveva persuaso così. E parecchi mesi dopo, quando si udiva da lontano il suono dello zùfolo di lui, mentre guardava sull'altura i tacchini pascolanti, anche la massaia esclamava: - Senti come suona bene Scurpiddu ! Ora egli conosceva tutti i fondi della masseria palmo per palmo, e menava i tacchini fin sul ciglione dell'Arcura, d'onde si godeva la vista della Piana di Catania e dell'Etna da un lato, delle colline di Catalfaro e della Nicchiara dall'altro; e si vedeva Mineo arrampicato sul monte, con le torri del vecchio castello e i campanili delle chiese ritagliati sul cielo; e dall'altra parte, laggiù, quasi rannicchiato sotto la roccia rossastra, Palagonía, dov'egli distingueva la casa del notaio; e, lontano, come un sassolino bianco buttato tra l'erba verde, la casa di campagna dov'egli era stato a guardare i tacchini e dove avea patito tante volte la fame e il freddo, perchè spesso si scordavano di lui e non gli mandavano il pane dal paese; e doveva dormire su la nuda paglia, con uno straccio di vecchia bisaccia per coperta, allo scuro. Quanto aveva pianto colà, solo solo, quando il mezzadro del notaio lo picchiava senza ragione, o per cosine da nulla! E tra i singhiozzi chiamava: "Mamma mia! Mammuccia dell'anima mia!". Ora non la chiamava più; avrebbe però voluto sapere dov'era, se mai era ancora viva! se n'era dunque scordata di lui? Chi sa dove le lucevano gli occhi! E vedeva quegli occhi azzurri e il viso pallido e scarno di lei, com'erano l'anno della mal'annata, quando era andata via con tanti altri che non trovavano più di che vivere. Il povero suo padre, tornato a casa, gli aveva domandato: "Dov'è tua mamma?" E lui non sapeva che rispondergli: "Ha presa la mantellina ed è andata via!" E si era messo a piangere, mentre il padre si disperava esclamando: "Scellerata! Scellerata!" quasi sbattendo la testa ai muri: "Doveva morire di fame con noi, scellerata!". Si rammentava benissimo che appunto quell'anno il padre l'aveva allogato per guardare i tacchini del notaio a Palagonía. E così pensando, su quell'altura dell'Arcura, nel silenzio meridiano, mentre i tacchini stavano sdraiati su l'erba digerendo il pasto, si sentiva di nuovo solo solo, quantunque ora avesse il massaio e la massaia che gli facevano da padre e da mamma. E pensava anche che sarebbe cresciuto; che poi non avrebbe più fatto il nuzzaru , ma il garzone, come il Soldato che governava le mule e la giumenta su la quale egli andava a cavallo a capo fila, con le mule legate per le cavezze, una dietro all'altra, la più giovane in coda. Giusto in quel momento lo vedeva scendere per la strada dei Saraceni , con le mule cariche di legna. Cantava. Così avrebbe fatto lui. E siccome il Soldato gli aveva detto: - Quando non hai niente da fare, ripassati la lezione - egli cavò di tasca il sillabario e cominciò a compitare B-a-ba, ad alta voce, C-a-Ca, levando, di tratto in tratto gli occhi dal libercolo per seguire con lo sguardo il Soldato con le mule che, oltrepassato il beveratoio, svoltava a destra, verso la masseria. Poi si distrasse, vedendo arrivare al beveratoio i buoi e le vacche con lo zi' Girolamo che tirava sassi ai vitellini per richiamarli verso le mamme. - Chi sa se è vero che egli va colle Nonne , la notte? Tornava a domandarselo ogni volta che rivedeva il vecchio bovaro. Un sera anzi, portandogli la minestra, perchè il vecchio andava raramente alla masseria, trovatolo già addormentato sul corbello, e non sentendolo rispondere alla chiamata, ebbe paura. - Che sia già andato con le Nonne ? - pensò - e per questo non risponde? E die uno strillo: - Zi' Girolamo! Il vecchio si riscosse. Allora Scurpiddu prese animo, e gli domandò: - È dunque vero che andate con le Nonne ? - Sì, sì; e sta notte verrò a darti dei pizzicotti. - Lo dirò alla massaia! - minacciò Scurpiddu piagnucolando. - Sciocco! Parlo per chiasso. Giusto la sera avanti, nel frantoio mentre gli uomini mangiavano la minestra, parte seduti attorno alla màcina, parte ai lati del torchio, il Soldato aveva spiegato come fanno coloro che vanno attorno con le Nonne . Il massaio diceva ch'era una corbelleria. Ma il Soldato insisteva. Lo zi' Girolamo, ormai lo sapevano tutti, era il capo della congrega. Diventavano sottili sottili come l'aria, entravano nelle case pei buchi della serratura, picchiavano la gente, storcevano le gambe ai bambini per vendicarsi delle mamme, impiastricciavano i capelli a un disgraziato, e quei capelli non potevano venire districati più: chi se li tagliava, moriva sul colpo. - Corbellerie! - ripeteva il massaio. Ma il povero Scurpiddu si sentiva venire la pelle d'oca e stava ad ascoltare il Soldato con tanto di occhi sbalorditi, a bocca aperta. - Una notte, - continuava a raccontare il Soldato , - io tornavo dal paese con le mule. C'era un lume di luna che pareva fosse giorno. Passando davanti al posto dove agghiacciano i buoi, vidi là con quest'occhi - e posso farne giuramento - sul corbello dove dorme lo zi' Girolamo, il suo giubbone di albagio col cappuccio ritto e il bastone tra le maniche incrociate, da parere che lo zi' Girolamo stesse a dormire, al suo sòlito: ma subito mi accorsi che le gambe non c'erano. E mi feci segno della santa croce e passai via. - Corbellerie! - ripetè il massaio. - Diciamo piuttosto il santo rosario. E quella sera il povero Scurpiddu tremava dalla paura nel suo bugigattolo, sotto la coperta di lana, pensando allo zi' Girolamo e a quel giubbone col bastone tra le maniche incrociate, segno che lo zi' Girolamo era andato via con le Nonne , come aveva giurato il Soldato. Per ciò, tornando alla masseria col piatto vuoto, affrettò a dire alla massaia: - Lo zi' Girolamo vuol venire a darmi i pizzicotti con le Nonne ! E allungava le labbra e strizzava gli occhi lacrimosi. - Stupido! E tu credi a queste chiacchiere? Dì un'avemmaria prima di addormentarti, e la Madonna ti farà dormire bene. Infatti quella volta recitò non una ma cinque avemmaria e l'ultima non si accorse di finirla: era profondamente addormentato.

STORIE ALLEGRE

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Collodi, Carlo 1 occorrenze

"E tu, per tener compagnia a un amico, avrai il coraggio di abbandonare la tua povera famiglia? Senza di te, noi moriremo tutti di dolore!" "Oh! non dite così: se no mi metterete al punto di mancare alla promessa ... " "E a che ora dovresti partire?" "Fra pochi minuti." "Vieni almeno a dire addio a' tuoi fratelli, che ti aspettano in fondo al campo." "E se il signor Alfredo in questo frattempo mi chiamasse?" "Chi è il signor Alfredo?" "È l'amico." "Se ti chiama ... e tu lascialo chiamare." "E se il bastimento partisse? ... " "E tu lascialo partire." Lo scimmiottino, tutto contento di aver trovato una buona scusa per non mantenere la sua promessa, rispose scotendo il capo: "Sarà quel che sarà ... A buon conto prima di partire per questo gran viaggio, voglio rivedere la mia mamma e i miei fratellini." Detto fatto, montò sulla finestra, e spiccando un gran salto, si buttò di sotto. Allora si sentì un tonfo, come quello di un grosso pietrone cascato in un fosso pieno d'acqua e di mota. "Babbo mio, aiutatemi, se no son morto!" grido Pipì con urlo disperato. Che cos'era avvenuto? Era avvenuto che la terra di quel campo, a cagione delle grandi piogge dei giorni precedenti, era così rammollita e fangosa, che lo scimmiottino, cadendovi sopra, vi era rimasto affondato fino alla gola. Per buona fortuna suo padre fece in tempo a salvarlo: ma quando Pipì uscì fuori dal pantano, non aveva più in piedi gli stivaletti. Gli stivaletti erano rimasti seppelliti un metro sotto terra. "Pazienza!", disse ridendo. "Me ne ricomprerò un altro paio, prima di montare sul bastimento." E senza stare a perder tempo, babbo e figliolo presero una viottola lungo il campo, e cominciarono a correre. Ma non avevano ancora fatto venti passi, che Pipì sentì volarsi al disopra della testa un uccello notturno, il quale con una beccata gli portò via il berrettino da viaggio. "Uccellaccio del mal'augurio, rendimi subito il mio berretto", urlò lo scimmiottino. "Cucù!", fece l'uccello, e continuò il suo volo. "Pazienza! Mi ricomprerò un altro berrettino prima di montare sul bastimento." E babbo e figliolo ripresero a correre: ma sul più bello, un grosso pruno uscito dalla siepe, afferrò co' suoi spunzoni i calzoncini e il giubbettino di Pipì, e li ridusse in minutissimi stracci. "Ora eccomi qui senza calzoni e senza giubbettino! ... " "Pazienza!", gli disse il suo babbo. "Te li ricomprerai prima di montare sul bastimento." "Oh povero me! povero me!", gridò lo scimmiottino simulando un gran dispiacere. "Di tutto il mio bel vestiario da viaggio, non mi è rimasto altro che la camicia e il fazzoletto da collo." E nel dir così, fece l'atto di cercarsi la camicia, ma invece della camicia si trovò addosso un camiciotto di foglie d'ortica. Tastò con le mani per accertarsi se almeno il fazzoletto da collo c'era sempre, ma invece del fazzoletto sentì sgusciarsi fra le dita una serpe grossa come un'anguilla di mare.

Giacomo l'idealista

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De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Tu non puoi, qualunque sia il tuo modo di vedere, abbandonare Celestina in mano agli altri, non puoi chiuderle l'uscio in faccia, come se fosse una donna perduta, non puoi spingerla sulla brutta strada, come purtroppo capita a queste povere figliuole senza protezione. E se la disperazione le andasse alla testa? e se in un momento di pazzia commettesse uno sproposito? Non v'è bisogno d'avere studiato per capire certe necessità. Non puoi nemmeno far cadere il castigo delle colpe altrui su tua madre, su tua sorella, sulla tua casa, a cui oggi sei piú necessario di prima. L'amore sarà, anzi deve essere una bella cosa, dal momento che Dio lo mette nel cuore degli uomini; ma il mondo non lo si mantiene soltanto coll'amore. Ci deve essere anche il dovere per fodera. E non si abbandona mica una povera madre vecchia a morire di stenti e di dolore colla scusa che un fringuello ci ha rubata l'amorosa. I tuoi crediti non pagano i tuoi debiti. Queste massime le sai meglio di me, perché se non mi sbaglio, devi averle stampate con altre parole in qualche sito: ebbene, ecco arrivato il momento di metterle in pratica. Il miglior modo per fare della filosofia, è quello di viver da uomini onesti e coraggiosi. Ad agitare dell'inchiostro ogni fedel minchione è filosofo: e se la va a parole, non c'è un prete che non meriti d'essere messo sugli altari, caro Giacomo, - soggiunse, stringendo tra le due mani massiccie lo stomaco e la schiena del nipote che, rannicchiato nel seggiolone, pareva diventato ancor piú poco - ma vedi invece quanti pochi sappiano essere quel che si dovrebbe essere. Coraggio e pazienza! Prima di morire ne avrai a vedere molte ancora delle corbellerie, e non c'è nulla di piú inutile quanto il meravigliarsi; l'ha detto anche Salomone qualche buon secolo primache si inventasse d'attaccare il picciuolo alle ciliege. Ci vuol pazienza! Lascia operare il tempo, e vedrai che tutto passa e ripassa. Per una foglia che cade ne spuntano mille. - E siccome Giacomo non sapeva che cosa rispondere, don Angelo si offrí di prender lui l'iniziativa: - Vuoi dare carta bianca a me e a tua madre per accomodare questa faccenda? Tu non ci dovrai entrare. Cosí potrai dire di non essere venuto a patti con nessuno. Lascia fare a quelli che hanno stracciate molte paia di scarpe, e ti troverai contento di non aver impedita la pace. Che cosa poteva opporre Giacomo a queste ignude argomentazioni di un senso comune cosí attaccato alla realtà delle cose? Il nostro idealista non poteva impedire che le ragioni della filosofia pratica e dell'esperienza, contro cui venivano a battere le sue illusioni, non fossero, dure, immutabili, inamovibili. Chinò la testa, chiuse gli occhi, e pregò che lo lasciassero riflettere.

Clelia: il governo dei preti: romanzo storico politico

675979
Garibaldi, Giuseppe 5 occorrenze
  • 1870
  • Fratelli Rechiedei
  • prosa letteraria
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Se vi è una circostanza disgustosa, odiosa, terribile in questi macelli d’uomini che si chiamano battaglie, essa è certamente quella di dover abbandonare i propri feriti al nemico! Poveri feriti! In un istante i volti dei vostri amici, dei vostri fratelli che vi compiangevano e vi assistevano con tanta amorevolezza spariranno! e al lor posto verranno i ributtanti, orridi, millantatori ceffi dei mercenari, che secondo la lor scellerata natura, infrangendo ogni diritto di guerra e delle genti, vorranno bagnare le negromantiche baionette nel sangue vostro prezioso! Codardi! loro che fuggirono davanti a voi; loro, cui concedeste generosamente la vita

Attilio e Muzio, stanchi e piagati, non vollero abbandonare i feriti all’insulto ed al ferro dei soldati pretini. Nel sito più basso del lanificio, all’estremità d’un immenso lavatoio per la lana scorgevasi una porta di quercia massiccia, la quale sembrava a primo aspetto dover dare sul canale delle acque, canale che probabilmente andava a sboccare nel Tevere parte del Tevere egli stesso. E il canale esisteva davvero, ma la porta metteva invece in un sotterraneo, a traverso un ponte costrutto sul canale stesso. Per quel sotterraneo cominciò a difilare la pietosa processione di donne, di feriti e d’assistenti quando ogni speranza, non di vincere, ma anche di resistere, era venuta meno. Ma nella città pretina, colla corrotta miserabile educazione della menzogna e dell’ipocrisia, troppi sono i traditori ed un traditore vi fu che gettando uno scritto da una finestra mentre scendevano i popolani, avvertiva gli sgherri della ritirata dei difensori. L’assalto allora non venne più a lungo differito. Una moltitudine sempre crescente di mercenari e di birri s’avventò sulla barricata del portone e lo invase mentre ben pochi eran rimasti i difensori. Attilio e Muzio, se, più amanti della propria salvezza, dati si fossero alla fuga, forse avrebbero potuto salvare la vita ma!... erano troppo disdegnosi quei due veri romani e non fuggirono! ed arrestarono per un pezzo combattendo disperatamente a corpo a corpo l’irrompente ciurmaglia. Dei nemici ne furono molti abbattuti, e un mucchio di morenti e di cadaveri attestava l’eroismo della disperata difesa. Però gli eroi, come i codardi hanno una vita sola! e troppi eran gli assalitori onde alla fine l’uno accanto all’altro esalarono l’ultimo sospiro anche i due valorosi campioni della libertà Romana! Dentato, il canuto operaio che aveva assistito a quest’ultima pugna, vedendo ogni speranza svanita, pratico come era del sito, col favore delle tenebre guadagnò il lavatoio, poi il sotterraneo e chiuse su quella scena di sangue la porta di dentro e la sbarrò come poteva meglio. Gli assassini stipendiati dal prete altro incentivo non avendo che la depredazione e la strage innondarono colla speranza di bottino ogni parte del lanificio che più oggetti conteneva da rubare non curandosi del sudicio lavatoio donde eran fuggiti i superstiti difensori della libertà italiana. Ma il mattino vedendo che lo stabilimento altro non conteneva che cadaveri venne loro il dubbio della sotterranea fuga. Cercarono, frugarono e trovarono finalmente la porta salvatrice ma il tempo trascorso, quello impiegato nell’abbattere le sbarre e il tempo per organizzare un’entrata regolare e cauta nelle tenebre diedero agio ai fuggitivi di mettersi in salvo dalla persecuzione. Nei primi di Novembre 1867 scendevano alla stazione di Livorno tre donne, un vecchio ed un garzone sul fiore degli anni. Con quella dolente famiglia stava una di quelle figlie di Albione che, quantunque mestissima e vestita a lutto, vi avrebbe fatto sentire la beatitudine della vita con un solo suo sguardo. La sua dama di compagnia, non men bella, non meno mesta, mostrava nei lineamenti del volto quella squisitezza donnesca che Raffaello aveva amato nella Fornarina. La terza pure di quelle donne era bella. Ma!... la sventura le avea troppo palesamente solcata la fronte e cert’arìa quasi di demenza si discerneva sul suo viso. Il canuto, che Giulia non avea voluto abbandonare alla miseria, badava al bagaglio. John, colla disinvoltura dei suoi tredici anni, dava mano alle donne nello scendere dal convoglio; poi, avendo scoperto il capitano Thompson con l’Aurelia che erano là ad aspettarli, d’un salto fu nelle braccia di lei che lo amava come un figlio quantunque lo giudicasse un po’ troppo biricchino. «Li ho baciati cadaveri!» mormorò John alla matrona ed una lagrima rigava la rosea guancia del biondo figlio della Britannia. Egli accennava ad Orazio ed Irene che tanto lo avevano amato ed eran stati i suoi salvatori. L’abbracciarsi delle donne fu scena di pianto che l’una versava sul seno dell’altra senza poter pronunziare una sola parola. Dopo avere assistito a quella muta scena per un pezzo, lui pure intenerito, il buon capitano Thompson, alzò il capo e dirigendosi alla sua signora in inglese le disse: «Lo Yacht è là al molo che aspetta i vostri ordini se mai desiderate andare a bordo». «Sì, Thompson, a bordo, e metteremo alla vela subito per uscire d’Italia. È una terra, come dice Alfieri, ove la pianta uomo nasce più robusta che dovunque e gli stessi atroci delitti che vi si commettono ne sono una prova». Non molto tempo dopo lo Yacht veleggiava superbo verso la merry England

Giovane, ricca, nata e cresciuta nella bella e lieta Inghilterra, come poteva Giulia separarsene per sempre e per sempre abbandonare amici e congiunti che tanto l’amavano? Che volete! Essa aveva trovato il suo Eden tra le macerie e sotto la toga cenciosa del nostro mendico aveva scoperto colla sua immaginazione esaltata il tipo della fiera razza degli antichi Quiriti. Nello studio di Manlio ov’ella si recava sovente, s’era incontrata con Muzio, il quale posava davanti alla creta del maestro. Che importava a Giulia la bassa condizione di lui! Non v’era forse su quella fronte l’impronta che cerchereste per eleggervi un capo, un protettore, un amico? In quel portamento v’era tutta la maestà ch’essa tanto ammirava nel suo idolo di marmo. Infine, mendico o non mendico, Giulia amò Muzio dal primo istante in cui lo vide. Era povero? E che importava a Giulia? Se la povertà è un marchio d’infamia per il volgo del tanto per cento, così non è per il genio. Ma infine i ricchi sono essi la miglior pasta dell’umana famiglia? Dalla stessa storia del nostro povero Muzio sembrerebbe di no. E Muzio amava Giulia? Muzio avrebbe dato l’universo per essa, ma giammai egli avrebbe ardito di manifestarle l’affetto suo. Una sera due soldati stranieri avvinazzati assalirono la nostra gentile inglese nella Lungara quando soletta tornavasene dallo studio di Manlio ed a forza volevano trascinarla con loro. Quello fu il più bel momento della vita di Muzio che aveva seguito da lontano la bella straniera; egli ferì ed atterrò l’uno: l’altro si diede alla fuga. Da quella sera il suo pugnale gli era diventato sacro e Giulia da quella sera non fu più insultata per la via. Il giorno stesso nel quale le donne di Manlio avevano stabilito di recarsi al palazzo Corsini, Giulia ascendeva il Gianicolo per fare una visita allo studio di lui. Da un giovine allievo sapeva la dolorosa storia del maestro, seppe della gita delle donne ma non potè sapere quale fosse il vero motivo della disgrazia. Mentre stava meditabonda e perplessa sullo strano caso, capitava Attilio e da lui uditi i particolari della faccenda non dubitò un momento che l’intrigo disonesto non fosse opera del porporato. «Bene!» disse ad Attilio la giovane straniera, «da quanto odo le donne uscirono per chiedere in grazia la liberazione di Manlio. Non c’è un istante da perdere. Io ho accesso al palazzo Corsini, spero prima di notte potervi informare d’ogni cosa». Così parlando, e senza meglio chiarire i suoi disegni, accomiatossi. Il nostro Attilio stanco dai disagi e dalle fatiche della notte, disperato di non trovare in casa la sua Clelia, sedette per interrogare con più agio il giovane Spartaco su cosa per lui di tanto interesse.

Uno degli inconvenienti della guerra per bande e che più preoccupa il capo è il dover spesso abbandonare i feriti, o affidarli agli abitanti per lo più paurosi e che temono di compromettersi. Tale considerazione e l’ineguaglianza delle forze spinsero il prode Orazio a decidersi per la ritirata, non però senza mostrare ai mercenari del prete che i liberi italiani non li temono, anche nelle circostanze più sfavorevoli. Ordinò a Silvio, che comandava la retroguardia, di collocarsi in posizione vantaggiosa per proteggere la ritirata ed il cacciatore, colla sagacia che lo distingueva, collocò i suoi cinquanta uomini con tale maestria come se li avesse destinati alla posta del cervo o del cignale. Avendo comunicate tali disposizioni ad Attilio ed ingiuntogli che non s’impegnasse fortemente ma eseguisse l’ordine di ritirata in scaglioni, Orazio andò verso Muzio già pronto a ricevere il nemico che si avvicinava celeramente. Scambiate alcune parole col comandante della squadra, il capo supremo ascese il punto più alto della posizione donde poteva distinguere ogni cosa accompagnato da soli due aiutanti. Il Generale Haricot, che non mancava di una certa bravura, degna di miglior causa, assaliva francamente le posizioni dei liberali colla sua vanguardia in catena, sostenendola lui stesso con piccole colonne in massa. In un combattimento od in una battaglia, il comandante supremo deve collocarsi in posizione da poter vedere il campo di battaglia più che sia possibile, il che gli verrà sempre fatto più facilmente, ove egli possa tenersi tra le sue prime truppe impegnate. Dovendo avere informazioni di quanto accade nella pugna, se il generale in capo è lontano dall’azione ha il pregiudizio della perdita di tempo, dell’inesattezza dei rapporti e ciò che più importa, non può con un colpo d’occhio discernere le parti del suo esercito che abbisognano di un pronto soccorso o, quando sia vittorioso, lanciare in perseguimento del nemico quei corpi leggeri di cavalleria e fanteria che possono compiere la vittoria. Tale non fu qui il torto dei due capi, che comandavano le forze opposte. Haricot, giustamente baldanzoso per la superiorità delle sue forze, le spingeva all’attacco senza riguardo ed Orazio, deciso a ritirarsi per l’inferiorità del numero, disponevasi a dare al nemico una lezione che lo facesse guardingo e meno furioso nel suo inseguimento. La scabrosità del terreno e le folte piante avevano permesso a Muzio di collocare i suoi al coperto in vantaggiosa posizione. Egli aveva ordinato d’assaltare il nemico a bruciapelo, di scaricare a colpo sicuro e ritirarsi poscia dietro la linea degli altri scaglionati. Così fecero i suoi valorosi. Quella prima scarica seminò il terreno di cadaveri nemici e di feriti. La vanguardia dei mercenari ne fu rovesciata ed i sostegni condotti avanti dall’intrepido loro capo, rallentarono il loro progresso e diedero tempo agli italiani di compiere la loro ritirata in buon ordine. Quando Cortez sbarcato al Messico abbruciò le navi, quando i mille di Marsala sbarcando in Sicilia abbandonarono i loro piroscafi al nemico, si tolsero ogni speranza di ritirata e tale risoluzione fruttò il contegno trepido delle due spedizioni. Ma la vicinanza di frontiere amiche è stata spesso causa di defezione nelle fazioni degli italiani. Io ho veduto tale scandalo in Lombardia nel 1848 per la vicinanze della Svizzera e disgraziatamente nell’agro romano per essere il territorio regio troppo vicino. Così successe al corpo dei trecento, nelle circostanze qui raccontate. Benché composto d’uomini coraggiosi, si sciolse come la nebbia al toccare la frontiera italiana non pontificia e dopo avere ricordato ai militi che schiava ancora rimaneva la loro terra e che era dovere di tutti di prepararsi a muover di nuovo pugna per liberarla, i soli quattro capi, che noi ben conosciamo, con Gasparo e John, presero la via della Toscana per recarsi a Livorno ove dovevano trovare lo Yacht e notizie dei loro cari e dove li lasceremo godere un po’ di riposo per rivederli sovra nuove scene e in mezzo a nuove avventure. FINE DELLA PARTE PRIMA

ABRAKADABRA STORIA DELL'AVVENIRE

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Ghislanzoni, Antonio 3 occorrenze
  • 1884
  • Prima edizione completa di A. BRIGOLA e C. EDITORI
  • prosa letteraria
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Al momento di abbandonare per sempre la sua diletta Milano, quel nobile cuore si è spezzato ... di angoscia». - Povero Berretta! - esclama il Pestalozza; - vero galantuomo! ... vero patriota! ... - E una testa! - soggiunge il Pirotta, - una di quelle teste ... - E galantuomo, perdio! - Uomini che non dovrebbero morir mai! - Ma Milano farà il suo dovere. - Apriamo subito una sottoscrizione per erigergli un monumento ... - Approvato! - gridarono molte voci. - Io proporrei ... - Sentiamo! tu proporresti? ... - Che i Milanesi facessero pubblica e solenne riparazione dei loro torti verso l'illustre estinto, rieleggendolo alla carica di Gran Proposto. - Sarebbe una dimostrazione degna di noi. L'illustre estinto aveva troppo buon senso per opporsi alla adottazione del caffè igienico fico-patata ... Proporrò la nomina al Circolo dei droghieri ... - Frattanto sottoscriviamo! Olà! penna, calamaio! e avanti a chi tocca! I circostanti si affollano intorno al Pirotta, e mentre, inneggiando al defunto, tutti gareggiano nell'offrir denaro pel monumento, i due Primati prendono a parlare fra loro sommessamente. - Ecco un altro cittadino benemerito, a cui verrà resa giustizia quando i suoi compatrioti non vedranno più in lui che un uomo di Pietra! - mormora il giovane Foscolo. - Il volgo fu sempre volgo - risponde il Primate Alfieri, e l'istruzione universale ha cretinizzato le masse completamente. Se il governo non mette un freno alla stampa ... - E tu osi profferire questo voto liberticida? ... - Esso formerà la base del mio programma elettorale. La libertà di stampa fu utile e buona ai tempi in cui l'istruzione era privilegio di pochi. A quell'epoca, l'audacia dello scrivere quasi sempre andava accompagnata alla coscienza del sapere. La falange degli scrittori pessimi non era tanto compatta da chiudere il varco agli intelligenti ed agli onesti, e la voce solitaria del genio poteva ancora soverchiare il raglio collettivo delle plebi. Ma oggi? Tutti leggono, tutti scrivono. La statistica libraria ci afferma che nella Unione Europea vengono in luce da venti a trentamila volumi ogni giorno. Altrettanti, e forse più, ne produce l'America; e non parliamo delle altre province già invase e corrotte dalla nostra civiltà. A leggere tutti i volumi che si pubblicano in un giorno, appena basterebbe la vita di un uomo! Qual criterio può ora guidare le nostre preferenze? E chi ci addita il buon libro? Chi vorrà sommergersi in questo oceano di insensatezze stampate, colla incerta lusinga di scoprire quando che sia, per favore del caso, qualche perla sepolta fra le alghe? Ammesso che alla espansività dell'idiotismo che scrive non si voglia mettere un freno, qual sarà l'avvenire della nostra letteratura? L'asfissia del senso comune, e un contagio di asinità irreparabile. Uomini di genio, appiccatevi! Il mondo non ha più orecchio per voi, dacché la stampa è in balia dell'ebete maggioranza. - I parrucchieri! i parrucchieri!(32)

Compiacetevi di abbandonare le astrazioni, e di scendere con me sul terreno della vita reale, a cui, se non mi inganno, voi altri liberali vi dimenticate troppo spesso di appartenere. «Il primo uomo che, camminando per una foresta di vergini piante, corse dietro ad un candido fiocco staccatosi da un ramo, e strofinandolo leggermente fra le dita, concepì il pensiero di ridurlo a filo per tramarne dei tessuti - il primo uomo che si propose coltivare il cotone per farne dei drappi; quell'uomo, nell'ingenua compiacenza di recare un immenso vantaggio alla umanità, segnò la condanna di milioni e milioni di negri - fu l'innocente iniziatore di una mostruosa barbarie, che anche oggigiorno fa inorridire la terra. «Volgetevi intorno - una occhiata alla vostra mensa - alla vostra guardaroba - ai vostri mobili - ai meccanismi che vi rendono agiata l'esistenza! ... «Dacchè il sale divenne una necessità dei palati istupiditi, parecchi milioni di uomini furono condannati a intisichire onde apprestarvelo. Per variare i vostri foraggi, il riso fu introdotto sulle mense - non importa che migliaia di infelici paghino della loro vita questo capriccio di ghiottoneria. Il paria delle risaie lombarde, dopo aver lottato venticinque anni colle terzane, a trent'anni è vecchio, a quaranta è decrepito, a quarantacinque anni è cadavere. «I cristalli che vi splendono sulla tavola, i colori brillanti delle vostre tappezzerie, i metalli che servono agli usi più comuni, la luce artifiziale della notte; tutto il lusso, tutti gli agi che vi circondano, narrano la istoria dei vostri progressi con gemiti e strida disperate. «La locomotiva che attraversa la terra come un conquistatore inebriato di fumo e di possanza; questo sorprendente meccanismo che accelera il moto dell'uomo e la diffusione delle idee - non ha forse relegati nelle cave di carbon fossile migliaia e migliaia di sciagurati, perchè muoiano nelle impure esalazioni a benefizio del progresso che cammina? Esaminatelo attentamente il grande ordigno civilizzatore - studiatelo in ogni sua parte, in ogni suo accessorio - poi fate bene il vostro computo, e ditemi quanti milioni di schiavi sieno necessariamente aggiogati e stritolati alle ruote di questo carro emancipatore! «Ed ora vediamo un po' come la intendiate! Questi paria, questi schiavi della civiltà, che dovranno necessariamente moltiplicarsi per servire ai nuovi bisogni, ai nuovi comodi del secolo - impareranno anch'essi a leggere, a filosofare con voi? E qual sarà la catena per vincolarli alle cave tenebrose, al maglio rodente delle officine? Forse la coscienza del dovere? - Io credo, signor sindaco, che il vostro cenno affermativo sia un amaro sarcasmo. La coscienza dei propri diritti farà dire a questi paria conculcati: È oramai tempo che i felici del mondo prendano il nostro posto! «Una volta - ai tempi dell'ignoranza e della superstizione - quando il paesano vegetava nella sua atmosfera più omogenea, quando l'operaio non si era ancora associato all'esaltazione ed all'ateismo - bastava un versetto del vangelo o una parola del curato per mantenere in questo povero popolo la fede del lavoro, e la rassegnazione alla miseria. «Noi ripetevamo al villano: i ricchi godono la loro porzione di felicità in questo mondo, ma voi ne avrete a ridoppio nell'altro - beati coloro che soffrono, perocchè saranno consolati! - più soffrirete quaggiù, e più grande sarà la vostra esaltazione in paradiso. «Gli scorati, i dubbiosi avevano fede nella parola del curato; tornavano ai campi, alle officine - lavoravano, soffrivano ... e morivano nella speranza. «Ah! voi credete utile e morale istillare la diffidenza e il sospetto in quei semplici cuori! Che faranno i vostri libri? Distruggeranno la fede e la rassegnazione sotto pretesto di combattere il pregiudizio. La vostra educazione griderà agli schiavi: «tutti gli uomini hanno uguali diritti», non è giusto che i milioni lavorino nel pianto perchè i pochi tripudiino nell'abbondanza e nel potere - animo, dunque! insorgete! domandate la porzione che vi spetta! ... «E sapete voi quale sarà la vostra porzione? (proseguì il prete volgendosi ai contadini delle tribune). Dopo avervi rapito il maggior di ogni bene, la fede: dopo avervi spogliati della vostra semplicità, dopo aver mutato la vostra operosa pazienza in disperata ribellione - il giorno in cui domanderete il compenso di una libertà tante volte promessa, sarete appiccati ai gelsi delle vostre campagne, o ricacciati nelle officine a furore di mitraglia. «No! figliuoli delle officine e dei campi! Non vi lasciate adescare dai falsi apostoli della scienza. La scienza, come il pomo del paradiso terrestre, ci insegna il bene, ma ci riempie di mali. «Ciò che vi si promette è un inganno. Credete al vostro curato. I ministri di una religione, che ha per codice il Vangelo, non potranno mai farsi complici di quest'opera abbominevole. Non possumus! non possumus! sarà la nostra insegna, la nostra invariabile protesta, quando anche tutte le ire e le violenze del secolo si rovesciassero sopra di noi!

Io, e i miei coetanei, piuttosto che abbandonare la nostra sedia fissa, il nostro palco di quarta fila ... piuttosto che allontanarci dal nostro vecchio centro, ci siamo accontentati di quel nuovo spettacolo ... e vi assicuro ... Gran Proposto ... che ci si diverte di cuore, e che la vecchia Scala è tuttora il primo teatro del mondo. Il Gran Proposto sbuffava, ma non ardiva interrompere quella foga di parole. Il vecchio Torresani tirava innanzi con una facondia inesorabile. - Or bene - voi conoscete il nuovo sistema dei sipari adottati recentemente nei grandi teatri - voglio parlare del sipario- giornale che suol calarsi dopo il secondo atto della rappresentazione. Su quella vasta tela sono stampati, a grandi caratteri, i dispacci più importanti della giornata e buona parte delle notizie cittadine. Figuratevi dunque la mia sorpresa ... la mia commozione ... la mia gioia ... quando, ieri sera, volgendo il mio binoccolo al sipario-giornale, potei leggere la petizione del cittadino Albani, riprodotta testualmente dal foglio uffiziale dei matrimoni. Oh! vi assicuro io, onorandissimo Gran Proposto, che quelle poche linee produssero una viva sensazione in tutta la sala ... Tutti si compiacevano della vostra buona fortuna ... Tutti dicevano che un partito migliore non poteva presentarsi a quella cara, a quella buona, a quella adorabile figliuola ... - Basta così! basta, Torresani! - proruppe il Berretta balzando dalla sedia liquida - ciò che voi narrate è troppo inverosimile ... ! Io non posso credere che voi, che un uomo qualunque dotato di sana ragione possa congratularsi meco di un tale avvenimento con sincerità di cuore. Il Torresani portò le mani al petto e stravolse gli occhi, come uomo che chiegga perdono di un fallo involontario. Nel fondo dell'anima egli tripudiava di aver prodotta nel suo superiore quella impetuosa irritazione. - Torresani ... mio vecchio collega! - riprese il Gran Proposto con accento più moderato - mettete una mano sul vostro cuore di padre ... e poi rispondetemi ciò che esso vi detta. Dareste voi in moglie la figlia vostra, l'unica vostra figlia, ad uomo come ... lui? ... - In verità.., giudicando dietro i calcoli dell'interesse ... un primate dell'intelligenza ... un uomo che può guadagnarsi dieci o quindici milioni di lussi colla sua invenzione ... - Torresani ... - Sentiamo ... dunque ... - Parliamoci da buoni colleghi ... - Da fratelli ... se vi piace ... - Come si poteva parlare ... ai nostri buoni tempi ... ai tempi dell'Unione latina ... Il Gran Proposto parlava con voce commossa, con accento supplichevole: - Conoscete voi tutta intera la biografia di questo uomo ... che osa chiedere in moglie la mia Fidelia ... ? - Nella mia qualità di Capo di Sorveglianza, io dovrei conoscere tutti i cittadini che entrano nel circuito del mio Dipartimento; ma pure, dopo l'attivazione di quella malaugurata locomotiva dell'aria, vi confesso, onorevole Proposto, che mi riesce oltremodo difficile assumere su tutti delle informazioni complete ... - Non vi ricorda come or fanno cinque anni e pochi mesi, un giovane, che a quell'epoca si chiamava Secondo Albani, fosse implicato in un processo ... in un processo ... che fece inorridire la città tutta intera ... ? io spero che voi m'intendiate ... che non vorrete obbligarmi ad esporre certi fatti ... - Fatti ... orribili ... atroci ... - Voi dunque ... vi sovvenite ... ? - In verità ... nella mia qualità di cittadino ... io dovrei ... - Comprendo i vostri scrupoli, mio eccellentissimo ... - Un capo di Sorveglianza ... - Deve necessariamente tener nota di certe precedenze ... - Le quali, in caso di recidiva, o di sospetto ... - Potrebbero fornire ... argomenti ... - E servire come prove o titoli aggravanti ... - A meraviglia ... ! Io vedo che non occorrono altri discorsi ... Voi siete una perla d'impiegato.! ... - Gran Proposto, voi mi onorate di troppo! I due funzionari si alzarono come due automi, si ricambiarono un profondo inchino, poi ripresero il loro posto. Dopo breve silenzio, il Berretta uscì fuori con una domanda risoluta, colla quale egli sperava abbreviare quel disgustoso colloquio. - Torresani! ... Io farei torto al vostro acume, alla vostra perspicacia, e, aggiungiamolo pure, alla vostra provata amicizia, se mostrassi dubitare che voi non abbiate ancora indovinato ciò che io bramo da voi. Siete voi disposto ad assecondarmi? ... - Quanto all'assecondarvi - rispose il Capo di Sorveglianza con un accento di sommissione che fece rabbrividire il Gran Proposto - voi sapete che un misero impiegato di seconda classe, quale io mi sono, deve necessariamente subordinare la sua volontà a quella degli alti dignitari dello Stato ... Vi ho già detto che, su questo punto, fra noi non può esistere difficoltà di sorta ... Tutto sta che io abbia realmente compresa la situazione vostra, e in conseguenza le vostre intenzioni ... Io non vorrei offendere la vostra delicatezza di cittadino ... parlandovi con soverchia libertà ... Il Gran Proposto arrossì leggermente. L'altro proseguiva: - Basta! Nel caso mi fossi ingannato ... oso sperare che non vorrete prendere in mala parte le mie supposizioni., e vorrete perdonarle come effetto di zelo soverchio. Il Torresani fissava le sue grigie pupille nel volto del Gran Proposto, e tirava innanzi con voce asmatica: - Eccovi dunque come io la intendo, onorandissimo e colendissimo cittadino Proposto. Voi non bramate che vostra figlia, la vostra unica figlia, si unisca in matrimonio a quell'emerito cittadino, oggi Primate d'intelligenza, che porta il nome di Albani Redento, e ciò per la ragione, un po' illegale, se vogliamo, ma pure assai potente sul cuore di un padre, che quel cittadino, quel Primate, l'Albani in una parola, in epoca non remota, pose ... la famiglia tutta intera ... e quindi anche voi ... noi ... tutti quanti ... nella necessità di dover dimenticare certe sue azioni ... Basta! ... Tanto io che voi, onorandissimo e sempre colendissimo Proposto, siamo troppo fedeli osservatori della legge per insistere su quest'ombra di reminiscenza! - Bravo! - L'essenziale è di impedire il matrimonio, opponendo alla petizione del giovane, ed al probabile assenso di vostra figlia, il veto paterno che le leggi rendono inesorabile ogni qualvolta sia appoggiato da gravi ragioni, e convalidato dal voto degli Anziani. - Voi leggete nel mio cuore, o nobile amico. - La lettura è un po' difficile, ma le vostre lodi mi incoraggiano. Non potendo motivare il nostro veto su quelle tali precedenze che tanto io ... come voi ... abbiamo dimenticato ... - E dimentichiamo ... - Sta bene! ... Convien frugare nella vita più recente del nostro uomo, vedere se dopo l'epoca di Redenzione egli non siasi per avventura macchiato ... - Torresani! ... Voi siete un sublime Questore ... ! - Capo di sorveglianza - se vi piace! ... - Perdonate! - la parola mi è sfuggita in un impeto di entusiasmo ... È un lapsus linguæ che vi onora ... Torniamo al nostro ... uomo. - Fra la petizione e il contratto finale di matrimonio, giusta le vigenti leggi (capitolo centosettanta, paragrafo novantotto) deve trascorrere un mese ed un giorno, nel qual tempo i due futuri devono vivere separati da una distanza di sessanta miglia, né avere fra loro comunicazione di sorta. - È una dilazione di prova che impone dei rigorosi doveri ... - Dei doveri che molto spesso vengono obliati dall'una parte o dall'altra, nella quasi certezza che nessuno ne tenga conto ... - Si esigerebbe dunque ... per parte nostra ... un po' di sorveglianza ... - Molta sorveglianza ... - Una sorveglianza perenne, insistente, minuziosa ... - Importuna ... - Irritante ... - Accanita ... - Accanita! ... Ecco la vera parola, onorandissimo signor prefetto ... - Gran Proposto ... se vi piace! ... - I lapsus linguæ son contagiosi ... Vi chieggo mille perdoni! ... - In un mese ... anche l'uomo più onesto può commettere delle azioni ... - Nefande! ... Il giusto pecca sette volte all'ora, dicono i preti riformati, i preti della vecchia portavano la cifra a settanta volte sette! ... - Voi dunque credete? ... - Io credo che in due linee di scritto si trovino sempre dieci capi di accusa per far condannare un imbecille, così l'uomo il più astuto, e diciamolo pure, il più onesto, dopo un mese di sorveglianza fatta a dovere ... - Fatta da voi, mio buon Torresani ... - O da' miei incaricati ... - È un uomo posto fuori dalla legge ... - Un uomo ... impossibile! Il Gran Proposto e il Capo di Sorveglianza si levarono in piedi con moto simultaneo, e si strinsero la mano come due cospiratori. - Io sono orgoglioso di avervi perfettamente indovinato - disse il Torresani con affettata compunzione. - Ormai ogni altra parola sarebbe superflua; convien mettersi in moto e agire prontamente ... Il nostro uomo è partito per Costantinopoli; di là, fra una settimana, dovrà recarsi a Pietroburgo ... Prima ch'egli ci sfugga, bisogna mettergli a fianco due dei nostri ... due buoni bracchi dei meglio addestrati a simili imprese ... Scriverò privatamente a tutti i Capi di Sorveglianza dei principali Dipartimenti della Confederazione ... Insomma, non risparmieremo né cura ... né danaro ... - A proposito ... Io mi scordava dell'essenziale - disse il Gran Proposto, trattenendo Torresani che prendeva le mosse per andarsene. - Per compiere il vostro piano, vi abbisogneranno senza dubbio dei mezzi straordinari ... Via! che serve? ... Facciamo le cose a dovere ... No! io non vi lascio partire ... se prima ... non dichiarate ... - Ma se vi dico che sono inezie! Trattandosi di voi ... della vostra famiglia ... a cui mi legano tante obbligazioni ... - No! ... no! ... I fondi segreti debbono servire a qualche cosa ... Ed è appunto in tali emergenze straordinarie ... - Basta! poichè voi ... lo esigete ... - Duecentomila lussi ... Che vi pare, Torresani?.,. Tanto da cominciare le operazioni ... - Io direi, poichè vi sta tanto a cuore la buona riuscita dell'impresa, io direi che, seguendo l'antico proverbio: omne trinum ... - Trecentomila lussi! ... Ma voi siete troppo discreto, mio vecchio collega! Trattandosi, come dicevate poc'anzi, di rendere un immenso servigio ... - Al Governo ... Il Gran Proposto si sentì trafitto da quest'ultimo sarcasmo. Prese la penna con mano tremante, sottoscrisse un bono di trecentomila lussi, e lo porse al Torresani, senza aggiunger parola. Questi chiuse il viglietto nel portafoglio, e, fatto un inchino grottesco, uscì dal gabinetto. Quella sera, nell'Unità mondiale altro dei fogli dell'opposizione, leggevasi la seguente notizia cittadina: «Stamane, fra il proconsole Terzo Berretta e il famigerato poliziotto Torresani ebbe luogo un lungo conciliabolo a porte chiuse, in seguito a importanti dispacci venuti da Berlino, e da altri capoluoghi della Unione. Noi sappiamo da fonte sicura che il partito governativo (il partito coda) sta tramando un orribile complotto contro la libertà dei popoli. Il colpo di Stato, già tante volte preconizzato da noi, è tanto imminente, che può dirsi un fatto compiuto. All'erta cittadini! ... Popoli dell'Unione preparatevi ad agire! ... »

I sogni dell'anarchico

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Mioni, Ugo 5 occorrenze

Egli guardava, e il suo sdegno diventa sempre più intenso; il maschio petto ansa fortemente sotto l'impulso di quella collera infinita, e gli viene la pazza voglia di correre, di arrampicarsi sul colle, di arringare gli operai, di suggerire loro di abbandonare il lavoro, di sospenderlo, di non permettere che continui; il desiderio, di atterrare, colle proprie mani. quelle mura, quella torre, d'impedire che si continui la fabbrica, del castello. Un rumore di cavalcature. Volge il capo in quella dirczione. Ah! E' lui, l'odiato. Non lo ha veduto ancora mai; ma comprende che è lui, che deve essere lui, che non può essere che lui; un uomo molto grasso, tarchiato, con una faccia, molto ampia, pingue, grandi mustacchi, pizzo, giganteschi stivaloni di cuoio giallo, muniti di enormi speroni di argento, larghe uose di velluto marrone, un enorme mantello di velluto con grandi bottoni di argento; un cappellone enorme, di panno finissimo. con gigantesche piume, una larga fascia attorno ai fianchi, dalla quale pende una grande pistola, ed il cavallo magnificamente bardato. Mani inanellate stringono le briglie ed il frustino; il portamento dell'uomo e altero, è ridicolmente altero; e dietro a lui vengono otto armati, pure a cavallo e con facce patibolari; i, capelli sono lunghi; il ciuffo enorme pende loro di dietro; uno solo lo ha lasciato cadere davanti, ed esso gli maschera il volto. E' impossibile ravvisarlo. Il piumato si arresta e comanda in un.pessimo italiano, irto di vocaboli spagnoli. - Quale è la via che conduce lassù? - ed addita col frustino il castello in costruzione. ? Non lo so! ?risponde con scherno. Sentiva di odiare quell'uomo, il quale veniva ad istallarsi, come dominatore, in mezzo a loro. Non gli avrebbe indicato la via che conduce lassù. Ad un suo nemico: ad uno di quegli spagnoli superbi? Mai! Era troppo italiano per farlo. - Lo costringiamo? - domandò uno dei bravi al suo signore. Questi ebbe un'occhiata di infinito disprezzo per l'agricoltore. - Non vale la pena! - rispose con scherno. Queste parole fecero venire al lavoratore dei campi il sangue alla fronte. Il ricco spagnolo non lo riteneva neppure degno di osservazione. Si riteneva tanto alto, da non degnarsi neppure di far conto delle sue parole e di.punirlo per quel rifiuto. Un urlo di rabbia gli uscì dalle labbra. Il signorotto rise; i bravi risero pure, ed uno di loro, quello del ciuffo, lo minacciò col pugno chiuso. ? Faremo i conti! ? gli disse minaccioso. Si allontanarono. Egli li seguì collo sguardo, in preda ad una rabbia infinita...

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Tutti portano le catene da mane a sera; i più riottosi non possono abbandonare la stiva ne uscire sopra coperta e là, nel corpo della nave, devono respirare l'aria mefitica ed i più ammorbanti fetori. Il cibo è scarso; la frustai fende continuamente l'aria e cade sulle loro povere spalle. Tra i più riottosi Ramsette. Egli si trova ià, incatenato alla parete, nell'angolo più buio della stiva, col corpo coperto di piaghe, sulle quali nidificano le mosche; si contorce dalla rabbia, dallo sdegno, freme, spuma, urla, grida. E' un prigioniero indocile, il quale si è opposto all'imbarco, ha osato aizzare gli altri prigionieri, ha tentato, quando gli hanno permesso di salire sulla tolda, di gettarsi in mare; ha detto ai suoi compagni: « Gettiamoci nelle acque. Meglio morire che condurre vita di schiavitù»; ha resistito ai soldati; si è lanciato contro di loro coi pugni chiusi e ne ha atterrato due; uno anzi lo ha conciato male. I carcerieri lo laceravano allora colle loro verghe e lo avrebbero finito, se il centurione non: si fosse intromesso. «E' un prigioniero prezioso; un antico principe. Che dirà Nerone se glie lo consegneremo con troppe piaghe sul dorso? » Avevano finito di batterlo, ma lo avevano trascinato nell'angolo più buio della stiva; lo avevano assicurato ad un forte anello di ferro, caricato di doppie, di triple catene; non gli portavano più ne da mangiare ne da bere; ed egli sentiva gli orrori della fame e più ancora gli stimoli della sete. Un vento forte flagella il mare; si sollevano altissime onde, dalle creste candide di schiuma, e la nave danza su quelle. Gli schiavi vengono cacciati tutti nella stiva ed accatastati colà; la bodola viene chiusa; essi si trovano al buio; incapaci di reggersi su quel suolo che danza sotto i loro piedi, che si alza, che scende, essi vengono sbattuti di qua e di là, perdono l'equilibrio, rotolano gli uni sugli altri, formando certi acervi, certi agglomeramenti di carne umana; e poi viene il terribile mal di mare, che non conoscono neppur di nome e sembra loro presagio di morte vicina; odono sul loro capo il calpestio dei marinari che corrono, urlano, bestemmiano; dei soldati, che imprecano al servizio di mare, a quel viaggio, ed invocano o maledicono gli immortali, e il rumore delle onde, che flagellano i fianchi della nave, il sibilo del vento, che passa tra i cordami e le sartie. Ramsette urla pur lui, bestemmia, grida, aizza i compagni: Se la nave resiste alla procella, mettete fine alla vostra esistenza. Il mare vi attende; stende a voi ancora le braccia. Gettatevi tra quelle! Nessuno rispondeva alle sue parole. Erano schiavi ma pure amavano la vita e rifuggivano istintivamente dalla morte. La vita rappresentava sempre una grande speranza, la speranza della libertà, la morte invece? No, no! Non morire! Vivere sempre, sempre; anche tra le catene. Vivere, magari sorretti soltanto dalla speranza della vendetta ... Ed egli, al vedere che nessuno lo abbadava, dava in smanie maggiori. Un vecchio schiavo lo avvicinò; un povero vecchio, ricurvo sotto il peso degli anni. Veniva mandato a Roma per morire nel circo, perché egli, un rettore ben noto a Cartagine, per la sua eloquenza e sapienza, era stato scoperto consenziente agli incendiari di Roma. Il vecchio disse allo schiavo. ? Ti calma fratello! Pazienza! ? Mai! Sono principe! La pazienza è la virtù dello schiavo. - Di un animo nobile. Egli abbandonò, per nostro amore, il suo trono, e non solo volle spontaneamente, da nessuno costretto e soltanto per eccesso di amore, diventare schiavo, ma volle morire financo la morte degli schiavi. ? Un pazzo, urlò Ramsette. ? Dio. Il figlio di Dio! - Il mio dio serpente non ha saputo difendere ne la mia tribù ne se stesso e venne perciò giustamente schiacciato da un soldato romano, disse Ramsette con una sghignazzata amara. - Fratello ... incominciò l'altro con dolcezza. - Io, un principe, non sono il fratello di uno schiavo! urlò Ramsette. L'altro non si perdette di pazienza. Gli rimase vicino e cercò di convincerlo della bellezza del cristianesimo e dell'amore di Gesù, ma invano. Ramsette non voleva accettare la lieta novella e si ribellava a quella dottrina, che predicava l'amore ed insegnava il perdono.... Il viaggio fu molto lungo e doloroso; ma egli non mori; arrivò ad Ostia, venne sbarcato e, caricato di ceppi, fu condotto a Roma.

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Fa il viaggio, con mille vetture; giganteschi carri portano le sue corone, che non vuole abbandonare a Roma, che conduce seco, tanto gli sono care. E' un'intiera città che emigra con lui; un esercito di senatori, di patrizi, che lo accompagna; cantanti, numi, gladiatori, liberti, schiavi suoi compagni di ebbrezza; legioni intere di donne, rotte ad ogni vizio. Ecco il bel mare; ecco le cittadine, che sorgono quali gemme alla sua sponda; ecco il bel Vesuvio, il più bello tra i monti, il più delizioso; ecco Partenope, che esce luminosa dall'onda, e che egli vuole deliziare del suo canto, la folla gli si fa incontro festosa; inneggia ad Apollo; i sacerdoti conducono pingui tori dalle corna dorate, per immolarle al sacro nume. Egli osserva dalla lettiga d'oro con scherno quella folla, che si prostra ai suoi piedi, che lo adora; è troppo assuefatto all'adorazione delle masse, è troppo avvezzo a quelle feste. S'aggira ammirato nel grande palazzo, sognando novelle feste, novelle orgie, novelli delitti. I giorni passano lenti, nella nausea suprema di quelle feste, avido cercando sempre novelle emozioni, macchiandosi di colpe sempre più infami, ma che non lo saziano ne gli procurano la soddisfazione che cerca. Sempre lo stesso spettacolo: Dorsi che si curvavano avanti a lui; omaggi che non costano lotta, piaceri che non richiedono sacrifizi. E da Roma giungono notizie di feste date in suo onore e della folla che gli plaude. Dal terrazzino del suo grande palazzo di Baia egli domina l'infinita distesa del mare, così bello, cosi tranquillo, e sogna di solcarlo un'altra volta, per andare a deliziare col suo canto altri mondi: l'Egitto, la costa africana, Cartagine; per conquistare quelle terre colla pastosità della sua voce. Guarda, osserva, contempla, ed un pensiero gli frulla per la mente. Valeva la pena d'essere imperatore? Non era meglio render felici le genti col suo canto? Un cortigiano l'avvicina collo spavento sul volto. Nella Gallia celtica è scoppiata la rivoluzione. Giulio Vindice, rampollo degli antichi re di Aquitania e vicepretore di quella provincia, ha fatto sventolare la bandiera della sommossa, ha dichiarato che l'impero non può sopportare più a lungo un tiranno come Nerone, lo ha dichiarato decaduto dal trono e marcia contro Roma. Egli diventa pallido dallo sdegno e sfoga la propria collera sul malaugurato cortigiano, sugli oggetti che lo circondano, su certi vasi preziosi, d'immenso valore, su certi ninnoli, che si trovano sui tavoli di marmo; getta tutto a terra, spezza, frantuma, rovina. - Egli vuole cingere la corona imperiale? domanda. - No. L'ha offerta al vecchio senatore Sulpicio Galba, governatore della Spagna. - A quel vecchio imbecille? Sotto qual titolo? freme il tiranno. - Perché congiunto dell'imperatrice Livia. - Galba ha accettato? Il cortigiano non lo sa. Novelle collere dell'Augusto. - Va! Domanda; informati. Galba è condannato a morte. Sicari vadano nelle Spagne per eseguire la condanna. Contornila sesterzi a chi mi porta la sua testa o può provarlo di averlo giustiziato, urla. Il cortigiano è lieto di poter allontanarsi dalla presenza dell'infuriato signore col pretesto di eseguire gli ordini. Egli urla, grida, freme. La corona imperiale spetta soltanto a lui, all'erede del divino Augusto, all'immortale Apollo, che si è degnato rivelarsi ai mortali. Guarda sdegnato Napoli ai suoi piedi; freme al pensiero, che forse nella città v'erano alcuni, parecchi, molti, i quali godevano a quella notizia e simpatizzavano con Sulpicio Galba. Tra questi erano certo anche i cristiani. Vuole sfogare la propria collera sopra di loro. ? A Napoli ci sono dei cristiani? Nessuno lo sa. - Vengano ricercati e trascinati alla mia presenza. Cerca altri oggetti, sui quali sfogare la propria collera e li trova. Cortigiani vengono cacciati in esilio; schiavi torturati, crocifissi; i delatori lavorano, denunziano, accusano; vengono imbastiti mille processi di lesa maestà e molti innocenti devono pagare il fio per la collera del tiranno. Alcuni cristiani vengono catturati; pochi, troppo pochi per le sue collere. Egli. è adirato contro la polizia e,contro i delatori; ne vuole altri, altri ancora. Ma la comunità di Napoli è così piccola. Vuole che i prigionieri facciano i nomi dei loro compagni di delitto, ma essi si rifiutano. Non sono delinquenti. - Cesare. Adoriamo Dio e rispettiamo la tua persona. Non hai sudditi più tranquilli e fedeli di noi. Vuoi dormire sicuro, specialmente ora, che alcuni si ribellano a te? Circondati di una guardia di corpo, formata di soli cristiani. Noi ti difenderemo col nostro corpo, col nostro sangue; ci lasceremo ammazzare tutti alla tua difesa. Queste parole ne aumentarono le colllere. Le ritenne sarcasmo. Eppoi, anche se questo fosse vero, avrebbe rinunziato al trono piuttosto di affidare la propria ditesa ai cristiani. Che si curava lui dell'impero: che del trono: che del benessere dei popoli soggetti. Una cosa gli premeva, una sola aveva vero valore: Che lo riconoscessero quale Apollo, quale uno degl'immortali, e i cristiani gli rifiutavano adorazione. - I nomi dei vostri compiici! Vennero messi alla tortura. Non fecero i delatori; non si macchiarono di tanta infamia. Vennero condannati alla più terribile tra le morti. Il comune di Napoli gli aveva decretato molti onori, ed egli volava da festa a festa; nei templi, dove gli si offrivano sacrifici, nei teatri, per assistere a pantomine e recite, nell'anfiteatro, nel circo, dove gladiatori, fatti venire espressamente da Roma, lo salutavano, condannati a morire; dove si faceva grande spreco di vittime umane, dove cristiani venivano dati in preda ai leoni. Egli andava a quelle feste, per soffocare i suoi timori, per dimenticare il pericolo, e, supplicato dalla plebe, cantava, cantava. Lo applaudono, ed egli è lieto di quegli applausi, e di nuovo pensa a rinunziare al trono ed a dedicarsi soltanto al canto. Il ciclo ritorna sereno. Virginio Rufo, semplice cavaliere ma uomo stimato, legato dell'Alta Germania, ha dichiarato guerra a Giulio Vindice e muove contro di lui alla tutela dell'impero. Nerone ne è lieto. Un generate fedele. Ricompenserà la sua fedeltà. Lo farà trionfare a Roma e poi.... Portava sempre con sé una boccetta di cristallo, quasi piena di un liquore incolore, che Lomita gli aveva preparato. Una goccia di quel liquore versato in un calice di vino generoso avrebbe piantato nel cuore di Virginio Rufo il germe della morte. Nessuno gli deve contrastare la gloria; egli solo ha da venir ammirato nell'impero. Guai a chi vuole emergere! Feste si succedono a feste. Virginio Rufo vince Giulio Vindice il quale suicide. Novelle feste per celebrare la morte dell'audace. Ma il cielo si offusca di nuovo. Un cortigiano, il solo che ha coraggio, osa avvicinarlo e comunicargli la triste novella. Virginio Rufo lo ha dichiarato decaduto dall'impero. - Egli aspira al trono? chiese fremendo. - No, gli venne offerta la porpora dall'esercito vittorioso ma egli l'ha rifiutata. ? Galba? - Neppure. Virginio Rufo marcia verso Roma. Vuole che l'impero si conceda soltanto per voto di senato. - Il senato! Il mio senato! Mi è fedele! Mi confermerà. Non sono io forse Apollo? esclama rassicurato. Non è possibile, che i senatori, che lo avevano ricolmato di tanti onori; lo avevano dichiarato il migliore tra i Cesari e l'amore e la delizia, del genere umano; avevano dichiarata Roma felice sotto tanto principe, non lo avessero supplicato di rimanere in carica. Doveva accettare la riconferma o non era forse meglio? ... d'imperatori v'era dovizia, ma di cantanti, di citaredi suoi pari non ve n'era nessuno. E' facile cosa governare un'impero, difficile invece cantare come cantava, lui. Egli era grande, non perché imperatore ma perché citaredo; la sua vera gloria era dovuta a!la sua gola, al suo canto armonioso, che innamorava e rapiva tutti i cuori. Non doveva, forse rinunziare al trono per andar a conquistare il mondo intero, Alessandro novello Orfeo redivivo, colla sua voce, col suo canto? A Roma, a Roma; nella Roma fedele, dal senato, che non poteva vivere senza di lui. Vuole abbandonare Napoli per mettere al sicuro le sue corone, i suoi strumenti musicali, i suoi mimi, le sue danzatrici, le sue cortigiane. Le fa vestire da amazzoni, affida loro se stesso, la sua gloria, la sua voce, il suo canto. Promette all'esercito, al popolo, frumento; ve n'era tanta scarsità. Navi verranno dall'Egitto; ve ne sarà per tutti. Canta l'arrivo delle navi cariche di pane. Il "suo canto è onnipotente! Ecco navi spuntare su' lontano orizzonte; sono desse, sono desse. Il suo canto, i! suo divin canto le ha attirate. Fa annunziare all'esercito, al popolo, che le navi sfanno per entrare nel porto; che si farà una grande distribuzione di frumento; ve ne sarà per tutti. Le navi entrano, ma sono cariche di sabbia d'Egitto, da cospargere il teatro, dove gladiatori e lottatori hanno da presentarsi alla folla.

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Abbandonare la sua casa, i suoi campi, le sue mandrie? Mai! Doveva dunque rimanere e lottare, alla difesa di quel suolo santo, benedetto? Ma che è quel bagliore lontano, rosso; che è quel fumo che là si alza al cielo? In quella direzione sono i campi di un suo amico, sono le case di lui, le abitazioni dei suoi compagni di lavoro, i suoi granai grandi, ampi, ricchi. Quelle case ardono? Chi ha dato loro fuoco? I barbari! Sente un fremito infinito; un immenso timore per la sua sorte, per le sue campagne, per le sue messi, per le sue mandrie; uno sdegno indicibile che altri, stranieri, abbiamo diritto di profanare, in tal modo, l'Italia, la sua Italia, di calpestarla, di rovinarla, d'impoverirla, di maltrattare gli italiani, di derubarli, di renderli schiavi, di ucciderli. Allo sdegno si sposa la brama della difesa e della vendetta. Vuole difendere le proprie terre dai. barbari, vuote punirli per il male che fanno; vuole vendicare l'onta che hanno recato, che recano all'Italia. Da fiato al corno. Accorrono i suoi dipendenti, i forti lavoratori della terra, i pazienti pastori. Egli parla loro e diventa eloquente. Dice delle stragi, che i goti vanno menando; indica loro quelle fiamme lontane, quel fumo acre, denso, che sale al cielo; li esorta a stare uniti a lui, a lottare; ma non ottiene l'effetto. I Goti! Terribile nome, che evoca antichi, dolorosi ricordi, di una potenza fiera, indomabile, la quale scende come valanga; che tutto travolge, rovina, distrugge e cui nessuno sa resistere. Un terribile flagello di Dio. - A periculo Gothorum libera nos, Domine, - si pregava nelle chiese. I goti! Ogni resistenza era vana. Non restava che la fuga! - Scappiamo, padrone! Rifugiamoci nella foresta, in certe caverne, che essi non conoscono. Colà attenderemo, che il flagello sia passato. E salviamo quanto possiamo! - Vili! Resistiamo; lottiamo! Difendiamo le nostre terre, pronti a morire per l'Italia! ? dice loro. Già appariscono i primi fuggiaschi; gente spaventata, terrorizzata. Raccontano cose terribili dei goti: uomini truci, crudeli, barbari, senza misericordia. Giganti nel corpo, orribili nell'esterno, terribili nelle armi, veri demoni incarnati. E' impossibile resistere loro. Bruciano tutto; scannano gli uomini e le mandrie, per il solo piacere di scannare; rubano e fanno schiavi; non hanno compassione di nessuno. Hanno ucciso il padrone e catturato i suoi figli. Non resta che di scappare, per mettere in salvo la vita. Scappano, scappano. Invano egli dice loro di arrestarsi, di lottare, di difendersi, di resistere. Invano li supplica, per amore di quella terra si buona, che ha diritto alla difesa, perché è stata loro madre amorosa e larga di aiuto. Invano promette loro vittoria. Essi scappano; ed i suoi dipendenti; i suoi schiavi secondo la legge; gli assidui agricoltori, i pastori cosi pazienti, scappano pure; nessuno resta indietro: lo abbandonano tutti. Egli resta solo, là, immobile, nel crepuscolo serotino, nelle tenebre della notte, collo sguardo fisso verso quelle lontane fiamme rosse, le quali annunziano il grande incendio; fremente dallo sdegno; pieno di un livore infinito, contro il nemico che si avanzava borioso, crudele, e contro gl'italiani sì vili; che non vogliono, che non sanno resistere ed opporsi all'impeto nemico, e mentre maledice alla boriosa crudeltà dei primi ed all'ignavia degli altri, il suo ciglio viene inumidito da una lagrima amara sulla sorte d'Italia; del suo amato suolo natio, in balia del primo venuto, dello straniero, sempre.

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Il ricordo delle immagini vedute nel sogno non lo voleva abbandonare. Rivedeva.... E il ricordo gli creava grande disagio; gli ripeteva con insistenza certe verità, alle quali rifiutava fede, che non poteva, non voleva ammettere. Eppure ... eppure ... - No, no! - urlò adirato. - Maledette campane! Il loro suono! Tese il braccio ed interruppe la corrente. Nella stanza si fece di nuovo scuro; tutto ripiombò nelle tenebre. Gli venne un pensiero. Allo stesso modo tu fai volontariamente tenebre al tuo spirito. No, no! Egli non voleva le tenebre, voleva la luce; l'aveva cercata sempre; l'aveva trovata, e quella mattina... la bomba... la bomba! Sogni pazzi di notte di Natale, causati dalle stupide osservazioni dell'amico, dal suono delle campane, e dal microbo della superstizione che ammorba tuttora l'Italia. Dormire, e non sognare, oppure sognare rivoluzioni, bombe, tiranni uccisi, aristocratici e borghesi sfracellati in un mare di sangue; sognare vescovi scannati, papi col ventre squarciato; la rivoluzione, la grande voluzione, operazione terribile ma necessaria, che sola può salvare l'Italia. Maledette campane! Si avvolge ben bene nelle coltri, cela la testa nel lenzuolo e cerca sonno. Morfeo fa scendere lentamente fiori di papavero sul suo capo. Sbadiglia; le idee gli si confondono; dimentica il luogo dove si trova; dimentica che è la notte di Natale. Dorme....

Pagina 96

Teresa

678713
Neera 1 occorrenze
  • 1897
  • CASA EDITRICE GALLI
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Il medico riprese senza lasciarlo finire: - Quando si manifesta un perturbamento dei nervi così vivo, con caratteri francamente isterici, la miglior cura è quella di non abbandonare l'ammalata a se stessa. Io posso ordinare delle medicine, ma se non sono aiutato dal sistema ... - si volse - direttamente a Teresa. - La stagione è favorevole, abbiamo una primavera che è un incanto. Esca spesso. Vada a trovare un'amica, procuri di interessarsi a qualche cosa, di cambiare l'ordine abituale de' suoi pensieri, di non fissarsi in una idea. Faremo una piccola cura arsenicale combinata col ferro, ma il primo rimedio, se ne persuada, lo deve trovare in se stessa. Mi comprende, nevvero? Le strinse la mano, colla sua dolcezza indolente d'operatore, mostrando i denti bianchi nell'arco del sorriso; lasciando sul capezzale come un profumo della sua vigorosa giovinezza. Tornò qualche giorno dopo, per vedere l'esito della cura, ed essendo comparso all'improvviso davanti a Teresina, ella arrossì, tutta confusa, con un sentimento recondito di vergogna. Quella specie di intimità con un uomo giovane, senza il legame dell'amore, la turbava. Era meravigliata di non trovare maggior avversione al contatto, di sorprendere nei suoi sensi una vita autonoma, indipendente dal cuore e dalla volontà. Fino allora aveva amato, in un sol uomo, l'incarnazione dell'amore; ma nella tensione di tutto il suo essere verso quell'ideale, il cuore e la mente resistevano, i nervi no. I nervi, a sua insaputa, con una ribellione mostruosa, vibravano quando il giovane dottore le stringeva la mano, e la guardava colla sua pupilla intenta. E Teresina spasimava, sentendosi prendere alla gola da un rantolo convulso; trovando in se stessa, nella tardiva rivelazione dei propri sensi, l'enigma della vita, che le era sempre apparso a tratti, mascherato, svisato, tenuto nascosto come un'onta. In quei giorni, per una combinazione, avendo suo padre acquistata, senza guardarla, una partita di libri vecchi, ella pose le mani sopra un libriccino gualcito. Il titolo l'invitò a leggere le prime pagine, e poi continuò meravigliata, ansiosa; passando dalla sorpresa alla indignazione, fino a un feroce diletto, fino alla nausea la piú ributtante. Restò immobile, col sangue che le formicolava nelle vene, con una fiamma sulle gote, il palato arido, le fauci ingrossate, gli occhi vitrei. Non aveva mai udito né immaginato niente di simile. Al primo rinvenire, l'indignazione la vinse su ogni altro sentimento; stracciò il libro in mille piccoli frammenti, rendendoli sempre piú piccoli, piú piccoli ancora, ponendoli da ultimo sotto i piedi e gustando, nel calpestarli, una gioia che la purificava. Raccolse poi gli avanzi informi e li gettò nella cassetta delle spazzature; ma si vedevano; la loro bianchezza sudicia risaltava sul fondo nero. Ella non era contenta. Tornò a raccattarli e li volle abbruciare - vivi - ché quei frammenti agitati dalla fiamma, le davano veramente l'impressione di cose vive, di mostri osceni, condannati al rogo. Ristette infine, palpitante, davanti al mucchietto di cenere, persuasa che nulla piú esistesse di quelle sozzure. Ma si ingannava. Il suo pensiero era colpito, macchiato irrimediabilmente. Per quanto facesse non poteva togliersi il ricordo delle pagine lette; ed era un ricordo amaro, come di medicina che torni a gola. E venivano, non cercate, le riflessioni, i confronti, le induzioni. Cento cose rimaste oscure fino allora le si chiarivano spietatamente; non poteva piú dubitare, non poteva piú illudersi. Quelle spiegazioni crudeli erano la sola risposta ch'ella trovava alla sua lunga, insoddisfatta curiosità di fanciulla. Quelle pagine stampate, che non volavano come le parole, che non svanivano come i sorrisi, che ella aveva distrutte in un esemplare ma che esistevano in mille altri, quelle pagine infami erano un documento della miseria umana, della sua propria miseria. Un libro osceno le dava la chiave del mistero ch'ella aveva ricercato invano; ch'ella aveva interrogato nei fremiti paurosi e pudibondi di se stessa, nelle reticenze maligne degli altri. Era dunque quello l'ignobile segreto che teneva uniti gli uomini alle donne? Quello l'amore? Sottile, profondo, un pensiero sopra tutti la martoriava: Egidio. Quando l'immagine di lui venne a mischiarsi alle rimembranze lascive, ella provò la maggior vergogna della sua vita. Le parve di veder trascinare nel fango tutto quanto aveva di sacro al mondo. Era la profanazione dell'affetto piú gentile, era l'altare che si frangeva, l'idolo che diventava creta. Arrossì, sola, di se stessa. E la prese una tristezza, un dolore come avesse perduto per sempre una persona adorata. Per tutto quel giorno non poté incontrare alcuno a viso alzato; aveva orrore dei suoi simili. Alla sera, chiudendosi nella sua camera, si illuse di potersi disfare dall'incubo; ma l'incubo divenne piú violento. Mentre si spogliava, era assalita da curiosità brutali. Sembrava che le pagine infami si fossero incollate alla sua pelle, che le formassero, come la camicia di Nesso, un involucro di fuoco, entro il quale si dibatteva. Cadde in ginocchio disperata, recitando macchinalmente tutte le orazioni che sapeva, unendo il nome di Egidio al nome della Madonna, con un bisogno ardente di dimenticare. Accovacciandosi sotto le coltri, spossata, evocò le pure visioni del suo amore: l'incontro nella cappella, i ritrovi in chiesa, il primo appuntamento alla finestra, sotto l'acqua che veniva a rovesci, che nessuno di loro sentiva, e quei baci di cielo in cui ella credeva di dare l'anima. A poco a poco la pace entrava in lei. Una dolcezza malinconica la cullava, la consolava. Egidio era sempre stato sincero; non l'aveva ingannata, non l'aveva tradita mai, non si era fatto migliore di quel che fosse. Che cosa si può chiedere di piú agli uomini? Sentiva ora una tenerezza straordinaria a compatirlo, a comprenderlo nelle debolezze del suo sesso. Il recente dolore le faceva sanguinare il cuore; ma da quella stessa ferita saliva, alle piú nobili idealità del suo pensiero, una compassione pietosa, una commiserazione di questa umanità sofferente e bestiale, un delicato istinto di perdono. E piú forte, piú puro, emergeva da tanto fango l'affetto ch'ella aveva nel cuore e che sapeva diviso. Chiuse gli occhi rassegnata, sospirando lievemente. A tratti, un fremito l'agitava ancora ma anche quello andò scomparendo sotto il torpore del sonno; finché rimase l'affanno dei sospiri, sempre piú lievi, a indicare che il pensiero si addormentava.

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CAINO E ABELE

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Perodi, Emma 2 occorrenze

E Roberto rimaneva ad ascoltare lo sfogo di quell'anima sensibile, divorata dall'amore, che pareva da un momento all'altro dovesse abbandonare il corpo. Ed era lei che Franco aveva chiamato a sparger di fiori e di lagrime il suo cadavere! La visita era durata due ore e Roberto, nello scender le scale, pensava con raccapriccio al grande, all'immenso egoismo di Franco che voleva morendo uccidere una povera creatura colpevole soltanto di amarlo. E il fratello allora gii apparve vile come quei Werther da strapazzo, che inducono una donna a farsi ammazzare da loro, esaltandola al pensiero di una riunione eterna nella morte, e quasi sempre tremano nello sparare contro se stessi e vi rinunziano o si feriscono leggermente. Povera donna! - esclamò, - se potesse dimenticarlo! ma non lo dimenticherà. Il cuore di Roberto era una di quelle arpe divine che vibrano al soffio di ogni umano dolore, che si commovono non in ragione della sventura maggiore o minore, ma del grado di resistenza dell'infelice che deve sopportarla. E Paola a gli occhi suoi apparve debolissima. Il sentimento era il perno della vita di quella donna, anzi era la vita stessa. Tutte le altre facoltà, lasciate sonnacchiose da una educazione sbagliata, erano subordinate a quello. Non lo sapeva. Paola non gli aveva fatto nessuna confidenza sulla vita anteriore al matrimonio, ma era sicuro che quella pallida creatura era cresciuta fra le mura claustrali di un convento, ove le tendenze appassionate dell' anima si erano manifestate ora nelle estasi della comunione con lo sposo celeste, ora nell'adorazione di San Luigi, ora nella passione per una compagna. La religione, questo balsamo delle anime forti, questo rifugio delle menti torturate dal dubbio, era stata un eccitamento troppo forte per quella sensitiva. Se le persone cui era affidata l'educazione di Paola, avessero capito il frutto che potevano trarre da quella sensibilità, avrebbero dato vigore alla mente della bambina, esercitandola in severi studi, costringendola a pensare più che a sentire, e nello stesso tempo con i! moto razionale, con l'aria, col cibo, avrebbero dato forza ai muscoli. Stabilito l'equilibrio fra quella triade di forze che costituisce la vita dell'individuo, data al sentimento una direzione più ragionevole, Paola sarebbe stata una donna onesta e utile, una di quelle donne che sono una benedizione per la famiglia, sulla quale spargono i tesori della loro tenerezza. Invece era una infelice; e un cenno di Franco sarebbe bastato a farne una colpevole. Ovunque guardava, Roberto non vedeva altro che vittime di una falsa educazione, che forze disperse a danno dell'umanità e del bene, che elementi buoni sviati dal grande scopo e convertiti in cagione di malessere sociale. Come benediva suo padre di averlo diretto, educato; di aver fatto di lui un uomo! E quanto era grande il desiderio di far del bene che lo animava, ma quanto sentivasi impotente dinanzi a tanti dolori, a tanti pervertimenti. Doveva limitare l'opera sua a Franco, pensare a lui solo per non sperdere le forze in altri tentativi che avrebbe dovuto abbandonare subito. Franco bastava per il momento. E tornando in camera scrisse al fratello una breve lettera ringraziondolo di quello che aveva fatto, dimostrandogli una calda gratitudine. Si protestava suo obbligato per togliere all'altro una parte dell'onere della riconoscenza, che spesso è grave a portare e infonde nell'anima del beneficato un sentimento di avversione per il benefattore. Non voleva che Franco provasse rispetto a lui, nessuna avversione; voleva poter spargere nel cuore di quell'indifferente i semi dell'affetto e sperava raccoglierne i frutti, non perché avesse desiderio di farsi voler bene da Franco, ma per nobilitarlo con un sentimento buono. In quella lettera accennò alla visita a donna Paola, gli descrisse lo stato lagrimevole in cui avevala trovata e lo esortò a scriverle una buona lettera, da amico vero, senza sentimentalità e senza lamenti, per calmarla ancora più e trattenerla dal commettere atti inconsulti che potessero comprometterla. Quando ebbe terminata quella lettera, Roberto si sentì preso da un sonno prepotente. Era il fisico che riprendeva i suoi diritti, che reclamava alcune ore di riposo, dopo due giorni di continua angoscia, di continua tensione della mente. Tutto si confuse a un tratto nel pensiero di Roberto e quasi macchinalmente cercò il letto, e si addormentò di un sonno pesante, scevro di sogni, che sono il ricordo confuso di certe impressioni, che il letargo del pensiero e del sentimento non riesce a dileguare.

Se domani, disgustato 0145 dagli ostacoli che incontro, io chiudessi lo stabilimento, voi dovreste andare in altri paesi, in cerca di lavoro, e forse emigrare in America, abbandonare le vostre famiglie. È dunque soprattutto l'interesse vostro che mi spinge a volere che l'attività non cessi a Selinunte. Aiutatemi, lavorate con amore, e invece di guardare quei pochi più fortunati di voi, fermatevi a considerare i più infelici, quelli ai quali il lavoro manca, che a turbe debbono abbandonare tutto ciò che amano, per recarsi a chiedere a una terra lontana quel pane che rifiuta loro la patria. Figliuoli, a quegli infelici pensate e il lavoro vi parrá lieve e forse lo spettacolo di tante miserie profonde vi farà benedire la mia operosità. Gli occhi di molti operai erano umidi di lacrime e il vecchio Federigo, quegli che soleva intonare la preghiera quotidiana, si alzò e fissando Roberto, disse: Non abbiamo bisogno di guardare i più infelici di noi, per benedirvi, padrone. Quanti sciagurati voi avete trattenuti sull'orlo del precipizio, quanti avete salvati! Questi fatti sono scritti nei nostri cuori. Voi siete il nostro padre severo e amoroso e i morenti si confortano pensando che voi non abbandonate le loro famiglie. Le vostre opere danno frutto, padrone; noi vi siamo devoti e l'azione malvagia di un perverso, di un compagno che rinneghiamo, ci ha fatto sentire meglio quanto vi siamo affezionati. Che Iddio vi benedica, o padrone, e benedica l'opera vostra! Un grido uscì da tutte le bocche, un grido lungo che commosse Roberto e riempì di lacrime gli occhi di Velleda. Le labbra di Giovanni rimasero chiuse e Costanza si fece livida. Franco aveva abbassato gli occhi. Una doppia razione di vino fu distribuita agli operai, i quali sotto il cocente sole meridionale uscirono lieti dallo stabilimento a frotte. E mentre in tante parti del mondo un grido di ribellione e d'odio usciva dal petto 0146 dei lavoratori, e tante fabbriche erano in fiamme, e tanti ribelli cadevano colpiti dalle palle dei soldati, su quella spiaggia della lontana Sicilia un nuovo vincolo d'affetto era creato fra il padrone e gli operai. L'opera d'amore li un cuore buono e di una mente illuminata trovava la sua alta ricompensa. Velleda s'era accostata a Roberto e gli parlava sommessamente, fissandolo. Franco li avvolgeva con uno -sguardo invidioso, che non sfuggi a Costanza. Ella fremè li gioia e disse fra se: Ah! so come vendicarmi!

LE NOVELLE DELLA NONNA. Fiabe fantastiche

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Perodi, Emma 2 occorrenze
  • 1992
  • Newton Compton Editori s.r.l.
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Il dolore di dover abbandonare il paese era così grande in loro, che li rendeva ingiusti verso il povero vecchio. - Mostraci dove hai nascosto le gioie, - disse uno degli angeli alzando sul capo del guardiano la grande spada di fuoco. L'infelice rispose con un singhiozzo, e gli angioli, credendo che quello gli fosse strappato dal rimorso della cattiva azione, lo condannarono a esser cacciato dalla caverna ed eseguirono subito la sentenza. Infatti andarono nella stalla a prendere la mula e trascinarono il povero vecchio fino alla porta della casetta; costì ognuno degli angioli cavò la propria chiave, e quando tutti e cento ebbero schiuso detta porta, cacciarono il vecchio nell'aperta campagna, in mezzo alla neve. Egli rimase sbalordito, come fulminato da quel fatto, senza volontà e senza forza. - Dunque anche gli angioli che siedono vicino al trono di Dio possono essere ingiusti! - esclamò. - Chi mi farà giustizia? - Io, - rispose una voce aspra e roca. La notte era sì buia che l'uomo dalla cappamagna e dal turbante non potea scorgere da chi partiva la voce, ma appena quest'"io" fu proferito, la mula bianca, che era accanto al padrone, si diede a correre a precipizio giù per la scesa, e il rumore dei ferri sulla neve gelata si perdé soltanto nella valle. Il vecchio domandò: - Sei amico o nemico? - Amico, s'intende. Non c'è che un amico che possa consolare in un momento di dolore, - rispose l'altro. - Ma allontaniamoci di qui, perché il luogo non è adattato per parlare. - Ahimè! - disse il vecchio, - io sono così affranto che non posso fare un passo. Allora egli si sentì sollevare da due braccia poderose, e trasportare per un buon tratto nella notte buia, in direzione del monte che s'inalza dietro a Montecornioli. Giunti che furono nel fitto del bosco, il vecchio sentì di nuovo il terreno sotto i piedi, e di lì a poco scorse un lumicino a breve distanza, che si vedeva dall'uscio aperto di una capanna di carbonari. Allora solamente si avvide che chi lo aveva sollevato da terra e portato fin lì, era un uomo tutto villoso, con un viso arcigno da metter paura, e due corna che gli uscivano da un berretto di pelo. Il vecchio tremò tutto e disse fra sé: - Son perduto; costui è il Diavolo in persona! Ed era il Diavolo davvero, quello stesso che aveva tentato Turno, che aveva raccolto il guardiano del tesoro del re Salomone e della regina Saba, non certo per compassione del vecchio, ma per rubare un'anima al Paradiso, e che girava e rigirava intorno alla caverna, sapendo che quel tesoro sarebbe caduto nelle sue mani. - Vecchio venerando, - disse il Diavolo quando furono entrati nella capanna, salutando rispettosamente l'uomo dalla cappamagna e dal turbante, - tu mi hai reso un segnalato servigio addormentandoti mentre dovevi vegliare, ed io intendo ricompensarti. Vuoi esser ricco? - Non ho mai ambito alle ricchezze; ne ho vedute tante e tante che non mi tentano più. - Sei un saggio, - rispose il Diavolo, - e mi congratulo teco. - Vuoi vivere lunghissimamente, non anni, ma secoli? - Sono già tanto vecchio, ho veduti tanti paesi e tanti uomini che non desidero di rimanere molto a questo mondo. - Vuoi la gioventù, la bella gioventù, la forza, la letizia dell'animo? - Neppure. - Tu non vuoi nulla dunque? - disse il Diavolo stupito. - Da te non voglio nulla. - Bada, vecchio, ti pentirai di avere ricusato le mie offerte. - Non ti temo, - disse il vecchio in tono di sfida, e fece atto di alzar la mano destra alla fronte, per farsi il segno della croce. Ma per quanto provasse e riprovasse, non riusciva ad alzar la mano, che rimaneva cionca come il braccio e pareva inchiodata alla cappamagna. Il Diavolo fece un ghigno e, sedutosi davanti al fuoco, disse: - Vedi se ora sei in mio potere! Credevi di cacciarmi con quel segno dinanzi al quale io devo fuggire, come i soldati vinti fuggono dinanzi alla insegna spiegata dal vincitore; e io ti ho impedito la mano. Tu non vuoi esser mio alleato, e fra noi sarà guerra. Il vecchio dalla cappamagna e dal turbante non si degnò di pregare il Diavolo, ma rimase muto e accigliato nel mezzo della stanza, pregando il Signore di liberarlo dalle granfie del nemico. La morte non lo spaventava, lo sgomentava bensì l'eterna dannazione, e desiderava di morire santamente com'era vissuto. Il Diavolo pareva che non si curasse più del vecchio. Batté col piede di capro sul pavimento, e comparve una gatta nera, che si diede a preparare da mangiare, trafficando in cucina come avrebbe fatto una massaia. Però quando udì cantare il gallo, mentre incominciava ad albeggiare, la gatta piantò baracca e burattini e sparì, senza metter neppure in tavola le pietanze che aveva cotte. Il Diavolo le prese da sé sul focolare e mangiò con grande appetito; ma quando il cielo si fece biancastro, sparì anche lui. Il vecchio respirò dalla contentezza, e appena vide giorno chiaro, cercò di uscire da quella casa di Satana; ma le gambe non lo reggevano e ricadde a sedere sopra lo sgabello sul quale stava prima. - Ecco un altro tiro di quel grande nemico! - esclamò, - prima mi ha storpiato il braccio destro, e poi la gamba; ma san Luca, mio protettore, e Voi, mio Angelo custode, volete proprio abbandonare la mia anima al Diavolo? Appena ebbe invocato quei due nomi, sentì che il turbante, che gli cingeva il capo ed era formato di finissima tela bianca, si alzava in aria. Dopo averlo veduto volteggiare per la stanza, come farebbe una rondine che sbadatamente penetra in una casa e vola di qua e di là per cercar di uscire, il turbante prese la direzione della cappa del camino, e il vento lo spinse in modo da farlo uscire dal fumaiolo, e quindi lo sollevò a grande altezza, facendolo volare in aria. Era quella una mattinata serena, e la neve, caduta in abbondanza, faceva sperare ai cacciatori buona preda. Per questo il conte Guido, preceduto dai falconieri e seguito dai paggi, era sceso dal suo castello di Poppi, e lo stesso aveva fatto il conte di Lierna. Fra questi due signori, benché fossero della stessa famiglia, era nato da molti anni un odio tremendo per una ingiustizia che il conte Odeporico di Lierna credeva gli fosse stata fatta dal suo potente cugino di Poppi. Le due comitive s'incontrarono sul ponte a Poppi, mentre traversavano l'Arno, e i due nemici, che si avanzavano uno contro all'altro, si riconobbero da lontano, perché il conte Odeporico, dopo l'affronto sofferto, vestiva tutto di nero, e il conte Guido portava il giustacuore celeste, ricamatogli dalla sua donna. Ma né l'uno né l'altro si fissarono per molto tempo, perché nello stesso punto videro volare al disopra del ponte un uccello sconosciuto in quelle parti, un uccello tutto bianco e del quale non si scorgeva né testa né ali. I due conti scappucciarono il falco, che tenevano in pugno, e i due uccelli rapaci si volsero entrambi verso lo strano volatile, che campeggiava nell'aria. Ma appena lo ebbero raggiunto e stavano per ghermirlo, caddero fulminati ai piedi dei loro padroni. Allora, tanto il conte Guido quanto il conte Odeporico armarono l'arco e scoccarono i dardi contro l'uccello bianco. I due strali lo colpirono nel momento istesso, poiché i Conti erano abili tiratori, e il volatile cadde nel mezzo del ponte. Entrambi i feritori si slanciarono per ghermirlo. - Io l'ho ferito il primo! - gridò da lungi il conte di Poppi, - e la preda spetta a me. - Fu il mio strale che lo colpì avanti, - disse il signor di Lierna, - ed io lo esigo. Queste parole erano scambiate dai due contendenti a una certa distanza, e nessuno di loro si era peranco accorto che razza di selvaggina avessero ucciso. - Ti proibisco di toccarlo, - diceva il conte Guido. - Qui sono sulle mie terre ed è predone chiunque osa cacciare senza il mio permesso. Il conte Odeporico, che nutriva già tanto risentimento contro il cugino, offeso maggiormente da queste parole, senza più badare all'oggetto della contesa, spronò il cavallo e giunto in faccia al signore di Poppi, sguainò la spada e gli disse: - Mettiti in guardia e rispondimi ora di tutte le villanie che mi hai fatte, - e appena ebbe pronunziate queste parole si gettò come un fulmine sul signore di Poppi. L'altro pure aveva cavato la spada, e le due armi s'incrociarono e mandarono fiamme; ma per quanto i due Conti menassero colpi da orbi, nessuno riusciva a ferire l'avversario, anzi, ogni volta che si toccavano, rompevasi un pezzetto di spada, così che essi si trovarono alla fine con la sola impugnatura in mano. - Qui c'è un incantesimo! - esclamò il conte Guido, - e io vi propongo di cessare il duello e di vedere prima che razza di preda abbiamo uccisa. Il signor di Lierna a sentir parlar di incantesimo si fece pallido in viso e voltato il cavallo corse a spron battuto a rinchiudersi nel suo forte castello sul monte, e per maggior precauzione ordinò che fosse alzato il ponte levatoio e si armassero le saracinesche. Il signor di Poppi, rimasto padrone del campo, si avanzò, e, sceso da cavallo, raccolse la preda abbandonata dal suo competitore; ma nel vedere che i due strali avevano colpito un fagotto di cenci bianchi, die' in una sonora risata; poi, ripensando che quel fagotto di cenci era stato cagione della morte del suo bel falco, così sapientemente ammaestrato, ordinò a uno de' suoi paggi di raccoglierlo e di bruciarlo nel cortile del castello di Poppi, tanto più che egli pure credeva agli incantesimi e temeva che da quei cenci gli venisse qualche grande malore. Il fiero conte Guido rifece dunque l'erta salita che conduceva alla sua dimora, e, giuntovi, ordinò si preparasse un rogo sul quale fece porre il turbante. Appiccato il fuoco alle legna, queste incominciarono a friggere, si fecero nere come se fossero state verdi, mentre da esse si sprigionava una bava bianca e molto fumo, ma nessuna fiamma viva. Le legna furono cambiate tre volte, ma ogni volta si spensero, senza bruciare il turbante. Il signor di Poppi si faceva sempre più cupo e accigliato. Ormai non dubitava più che quel turbante fosse incantato e possedesse una virtù nascosta. - Gettatelo nei vortici dell'Arno, - ordinò ai suoi uomini. Ma appena ebbe espresso questo comando, il turbante volò in aria e andò a posarsi sopra uno dei merli ghibellini dell'altissima torre che si ergeva nel centro del castello, e vi rimase come inchiodato. Ora torniamo un passo addietro e andiamo a vedere che cosa era successo al vecchio dalla cappamagna, rinchiuso nella capanna del Diavolo. Egli non cessava d'invocare i suoi santi protettori, ma nessuno veniva in suo soccorso, perché la casa apparteneva al Diavolo, e in casa del nemico i santi non potevano operare miracoli. Il povero vecchio vedeva con raccapriccio calare il sole, poiché temeva che allo scoccar della mezzanotte il Diavolo sarebbe tornato a molestarlo. Ma passò la notte senza che nessuno si presentasse, perché Satanasso, nelle poche ore che poteva scender sulla terra, aveva altre faccende da sbrigare e doveva cacciar gli angeli bianchi dalla grotta di Montecornioli, e insediarvi i suoi angeli neri. Ma intanto la fame, e più il freddo, scemavano le forze del vecchio, e il Diavolo, abbandonandolo in quel modo a tutte le intemperie, aveva calcolato che alla fine il vecchio, sentendosi morire, lo avrebbe invocato, e così quell'anima sarebbe stata conquistata all'inferno. Ma il vecchio tenne saldo, e, finché ebbe fiato, invocò tutti i santi del Paradiso e per ultimo san Francesco, che aveva ricevute da Gesù le stimate sul fiero monte della Verna. Il gran Santo, che non aveva temuto il Diavolo sull'orlo del precipizio e si era abbrancato con fede al masso, il quale, fattosi molle come cera, gli aveva permesso di piantarvi le mani, non lo temé neppure in questa occasione, ed impietosito della sorte del vecchio, scese in terra sotto le spoglie di un fraticello cercatore del suo ordine, e salì il monte di Poppi. Giunto colassù, vedendo tutto il popolo radunato in piazza a mirare quel turbante posato sul merlo della torre, e udendo narrare le meraviglie avvenute a Montecornioli in quei due giorni, si diresse verso il castello e chiese del conte Guido. - Signore, - gli disse quando fu ammesso alla sua presenza, - odo che tu sei stato turbato da avventure soprannaturali; vuoi permettere a me, umil fraticello, di usare contro queste maraviglie il segno della salute? - Fa' ciò che ti aggrada, buon frate, - rispose il conte, - e se tu riesci a liberarmi da quel fagotto di cenci che s'è posato sul merlo della mia torre, io farò larghe elemosine alla Verna. San Francesco andò sotto la torre, e alzando le palme, in cui erano i segni gloriosi della passione di Gesù, disse: - San Luca ti ha mandato qual messaggio di dolore; io ti comando d'indicarmi la via che conduce al tuo padrone, per liberarlo dall'eterno nemico. Appena il Santo ebbe pronunziate queste parole, il turbante scese dinanzi a lui e incominciò a volare lentamente nell'aria come un augello. I due dardi conficcati nel turbante dal signor di Poppi e dal signor di Lierna, gli facevano da ali. Il Santo si pose in cammino dietro al turbante e il conte Guido, meravigliato del miracolo, seguì il fraticello e traversò il paese, scese all'Arno e poi andò su per i monti boschivi fino alla capanna del Diavolo. Il conte Guido non era stato solo a tener dietro a san Francesco. I suoi famigli, i suoi vassalli e la gente che incontravano per via, ingrossava il corteo. San Francesco pregava a voce alta, e tutti quelli che lo seguivano rispondevano a quella prece. Le fiere uscivano dai boschi e si prostravano dinanzi al Santo; dalle cime dei monti scendevano gli uccelli a stormi e formavano uno stuolo, che precedeva la processione gorgheggiando come se la terra fosse stata coperta di erbe novelle e di fiori, invece che di neve gelata. Il turbante si fermò a poca distanza dalla capanna, e così fecero gli uccelli, le belve, il conte Guido e tutti i suoi terrazzani. Il fraticello si avanzò solo, e con la sua dolcissima voce, disse: - Che in nome del Signore, morto in croce per il suo popolo, tu sia liberato! Subito dalla capanna uscì il vecchio che aveva miracolosamente riacquistato l'uso delle gambe e del braccio destro, e si prostrò dinanzi al Santo piangendo di gioia. In quel momento la capanna incominciò a crepitare ed arse come un fascio di paglia. Mentre il popolo, che era caduto in ginocchio come il conte Guido, pregava, una nuvoletta bianca scese dal cielo, avvolse il fraticello e lo sollevò nell'aria. Il vecchio dalla cappamagna riprese il suo turbante e se lo mise in testa piangendo di gioia, e alzando le palme verso la nuvola bianca, che si perdeva nel cielo, esclamò: - Gloria a san Francesco! - Gloria! - risposero i terrazzani in coro. Il conte Guido allora si accostò al vecchio e gli rivolse la parola nella lingua d'Oriente, che egli aveva appresa da un monaco di quel paese, e lo invitò ad esser suo ospite, assicurandolo che gli avrebbe fatto un onore abitando il suo castello, poiché un uomo per il quale san Francesco scendeva dal Cielo, era una benedizione per una casa. Il vecchio accettò l'invito, e la lunga processione si rimise in cammino cantando le lodi del poverello d'Assisi, del gran Santo che proteggeva il Casentino. Nel castello di Poppi, il vecchio fu accolto con ogni riguardo dalla contessa, che era figlia di un altro Guido da Romena, signore di un forte castello verso Pratovecchio. La Contessa era giovine e molto bella e di un carattere così compassionevole che non poteva veder uccidere una mosca. Costei viveva in continue angustie a fianco del marito, uomo battagliero, che era sempre in guerra con i signori di Chiusi e Caprese, e con i castellani di altri luoghi forti sul versante dell'Appennino di Romagna. Ella non sapeva farsi intendere dal vecchio, perché non parlava la sua lingua, ma ponendogli sotto gli occhi il libro delle preghiere, che era scritto in latino, e accennandogli alcune parole, gli fece capire che sperava che egli riuscisse a distogliere il Conte dal guerreggiare di continuo ed a volger la mente del Signore, alle opere pacifiche dei campi e alle opere di carità, che meritano il Paradiso. Il vecchio promise il suo aiuto alla nobile dama e incominciò subito ad ammansire il Conte; ma questi, che già aveva dimenticato le sue promesse, noiato dalle prediche del vecchio, gli disse che nessuno aveva mai osato riprenderlo, e che, se continuava, gli avrebbe dato un bordone da pellegrino e lo avrebbe mandato con Dio. Al pio vecchio quelle parole arrivarono prima all'osso che alla pelle, e preso il bastone, come soleva per andare all'abbazia di San Fedele, scese al piano; quindi, mirando sempre il gran sasso della Verna, pian piano come glielo concedevano le sue gambe, alquanto intorpidite dall'età, salì a Bibbiena. Costì, fermatosi a pernottare in un convento, a giorno riprese l'aspra via. Ma il crudo inverno era stato cacciato dalla ridente primavera, e i boschi erano tutti coperti di erba fresca e di fiori odorosi. Il vecchio giunse senza intoppo alla Verna, e siccome fin lassù erasi propagata la fama del miracolo operato da san Francesco in favore del vecchio di Gerusalemme, come lo chiamava il popolo dei dintorni, così i frati lo accolsero festosamente e lo trattarono con ogni specie di riguardi. Ora avvenne che il conte di Lierna, che serbava sempre rancore al conte di Poppi, aveva riunito nel suo forte castello quanti uomini armati aveva potuto, e le sue fucine avean lavorato giorno e notte per preparare aste, lance, dardi ed altre armi. Quando credé di essere abbastanza forte per circondare d'assedio Poppi, fece alzare di nottetempo il ponte levatoio del castello, e, traversato l'Arno, salì quatto quatto con i suoi al forte dominio del conte Guido, e in quella notte stessa si diede a batter le mura e a lanciar dei sassi nell'abitato. I terrazzani si destarono sgomenti e corsero ad avvertire il conte Guido, il quale già era sveglio e armato, e disponeva i suoi uomini alla difesa. La Contessa pure era balzata dal letto, e, circondata dai figli, andava in cerca del marito; raggiuntolo, lo chiamò da parte e gli disse: - Signor mio, prima ancora che io fossi scossa dal sonno da questo trambusto, ho avuto una visione che debbo narrarti. - Non è tempo questo di ascoltare le parole di una femmina, - rispose il Conte con disprezzo, - ritirati nelle tue camere e lasciami fare. - Signor mio ascoltami, - insisté la Contessa. - Io ho veduto in sogno il poverello d'Assisi, il quale, mostrandomi le palme trafitte, mi ha detto: "Che ne ha fatto il tuo Signore del pio vecchio che gli avevo affidato? Sappi che egli era una benedizione per la vostra casa, e se il conte Guido non lo riconduce a Poppi, tutte le sventure si abbatteranno sulla sua famiglia, sulla sua casa, su tutti voi. Il conte Guido aveva promesso larghe elemosine alla Verna, e non ha mantenuto la parola. Io sono impotente a stornar da lui l'ira celeste". - Quando avremo battuto quel ribaldo conte di Lierna, penseremo ai tuoi sogni, - rispose il Conte, e spinse la moglie e i figli dentro una stanza, di cui tolse la chiave. La Contessa piangeva come una vite tagliata, ma nessuno l'udiva, perché ogni persona era intenta alla difesa del castello. L'infelice rimase in quella stanza fino a sera, ma in quel giorno il conte Guido vide cadere il fiore dei suoi soldati, e quando la moglie a notte lo rivide, egli non era più il baldo cavaliere della mattina, tutto infiammato dal desiderio della pugna. - Signor mio, - ella disse, - io non posso esserti di aiuto alcuno nella difesa del nostro castello. Lascia che, passando per il cammino sotterraneo, che è scavato nei fianchi del monte, io esca nell'aperta campagna e mi riduca alla Verna a portar le elemosine da te promesse al convento, e a supplicare il vecchio di Gerusalemme di tornar fra noi. - Va', e che Dio t'accompagni! Quella notte stessa la Contessa spogliò i ricchi guarnelli di seta, trapunti di oro, tolse le gemme che le ornavano il collo e i polsi e, indossata una gonnella di mezza lana e un busto di panno, scese nei sotterranei del castello senza nessuna scorta, varcò l'Arno e s'inerpicò sul monte. Ella aveva le bisacce ben guarnite di gigliati d'oro, ma sotto quelle umili vesti nessuno supponeva si nascondesse la nobile signora, che vedevano di tanto in tanto cavalcare da Romena a Poppi e fino ad Arezzo, sulla giumenta bianca, riccamente bardata, e con numerosa scorta di cavalieri, paggi, valletti ed armigeri. Senza esser molestata da alcuno, giunse la pia donna al convento, e dopo aver deposta sull'altare della Cappella degli Angeli la sua ricca elemosina, fece chiamare il vecchio di Gerusalemme e lo pregò umilmente di seguirla, facendogli capire coi cenni più che con le parole, il pericolo che minacciava la propria casa. Il vecchio accondiscese alle preci di lei e, indossato il saio dei Francescani per non dar nell'occhio alla gente, scese insieme con lei al piano, e per il cammino sotterraneo giunse al castello. Bisogna sapere che il vecchio non aveva lasciato alla Verna la sua cappamagna né il turbante, perché gli rincresceva molto di separarsi da quei ricordi della sua patria. Egli aveva nascosto l'una e l'altro in una bisaccia, come usano portare i frati che vanno alla cerca. Appena che la Contessa e il vecchio giunsero al castello di Poppi, appresero che la giornata era stata ancor più funesta agli assediati che quella precedente, perché molti altri soldati del conte Guido erano caduti, e il signore stesso era stato colpito da un dardo alla spalla sinistra. Pallido e affranto, questi stava nella sala d'armi del castello. Allorché vide la sua donna e il vecchio, li chiamò accanto a sé e li ringraziò con grande effusione. - Che cosa mi consigli di fare, saggio vecchio? - domandò quindi allo straniero. - Eccoti il mio turbante, - rispose questi. - Sai come il conte di Lierna fuggisse quando lo vide sul ponte che è a valico dell'Arno. Ordina che questo turbante sia posto a una delle finestre del castello. Quando il conte Odeporico lo vedrà, toglierà l'assedio. - Che tu possa dire il vero! - esclamò il conte Guido. E quella notte stessa fece issare un'asta alla finestra centrale del castello, e in cima a quella ordinò fosse infilato il turbante. Allorché le tenebre furono diradate dal sole nascente e il conte di Lierna vide quel turbante in cima all'asta, disse: "Povero me; qui si combatte con armi disuguali; io col ferro, e il mio nemico con gl'incantesimi!", e come aveva predetto il vecchio di Gerusalemme, Odeporico riunì le sue genti, e tolse l'assedio in un battibaleno. Da quel giorno nessuno osò più molestare il conte di Poppi, che si diceva in possesso di un talismano, e la Contessa visse tranquilla finché la morte non la colse. Il vecchio di Gerusalemme l'aveva preceduta nella tomba, e il conte Guido gli aveva fatto erigere un mausoleo nella cappella del castello. Il turbante poi era stato rinchiuso in una cassa d'argento di lavoro pregevolissimo, e i conti Guidi lo conservarono nel tesoro di famiglia finché il conte Francesco fu battuto da Neri Capponi, capitano de' fiorentini, il quale lo portò a Firenze con le altre robe. - E qui la storia del turbante è finita, - disse la Regina, e se mi sono scordata di qualche cosa, Cecco ve l'aggiunga. - Di nulla, mamma; voi la raccontate ora come vent'anni fa. - Come trentacinque! - ribatté Maso, - e io provo piacere a sentirvi ora, come quando ero alto quanto un soldo di cacio. - Anche noi ce l'abbiamo il nostro turbante, il nostro talismano, - disse Cecco battendo una palma sull'altra, - e non saranno di certo i fiorentini che ce lo porteranno via! - E qual è? - domandò la vispa Annina. - È la nostra vecchietta, la nostra mamma, che Iddio ce la conservi! Ora bevete un buon bicchieretto di vino, perché dovete aver la gola secca. - E preso il fiasco ne mescé prima alla Regina e poi agli altri. Quando tutti i bicchieri furono colmi, Maso per il primo alzò il suo e disse: - Alla salute del nostro talismano! I fratelli, i bimbi e le nuore fecero coro al capoccia, e dopo essersi trattenuti un altro po' a ragionare del più e del meno, i Marcucci se ne andarono a letto e tutti i lumi si spensero al podere di Farneta, sul quale vegliava la concordia e la pace, meglio che il turbante del vecchio di Gerusalemme sul castello del conte Guido di Poppi.

"Se si riavrà, - pensava, - gli darò di che proseguire il viaggio; se morirà, gli scaverò una fossa; ma abbandonare così quest'infelice, non posso." Intanto lo sconosciuto non riprendeva conoscenza, per quanto Teresona gli stropicciasse le tempie e il naso con l'aceto, e cercasse di fargli trangugiare certo vino, che avrebbe rianimato un morto. L'ora del ritorno del padre si avvicinava, perciò Teresona chiuse a chiave la soffitta e, nonostante le rincrescesse di abbandonare l'infelice, scese in cucina a preparare la cena. Il sensale tornò a casa di cattivo umore; in quel giorno non aveva guadagnato un picciolo e, quando gli accadeva un fatto simile, se la prendeva per solito con la figliuola, che accusava di essere sprecona e di non sapere che cosa gli costasse a guadagnare tanto da tirare avanti la vita. Teresona non rispose, perché era una buona figliuola e lo lasciò sfogare quanto volle. Quando lo vide andare a letto e sentì che russava, si levò le scarpe, per non far rumore, e corse in soffitta a veder come stava lo sconosciuto; ma appena ebbe aperta la porta e, al lume della lucerna, ebbe veduto lo sconosciuto in piedi, mandò un grido e tremò da capo a piedi. - Chi m'ha portato qui? - domandò egli. - Io; - rispose umilmente la ragazza, - vi ho trovato svenuto nella selva e non ho voluto abbandonarvi. L'uomo, che aveva gettato uno sguardo di repulsione su quel mostro femmina, sentendo che ella lo aveva soccorso, vinse la ripugnanza che gl'ispirava e, avvicinandosi a lei, disse con voce dolcissima: - Vi sono grato di ciò che avete fatto per me; ma, per carità, non mi abbandonate. In seguito a gravi dolori ho dovuto fuggir da Firenze, e da molti giorni mi aggiro come una belva nei boschi. Sono stato còlto anche da questi lunghi, lunghissimi svenimenti; sono un infelice, soccorretemi! Teresona si sentì intenerire a quelle suppliche e, nonostante temesse l'ira del padre, pure promise allo sconosciuto che, se si contentava di stare in quella soffitta, lo avrebbe ricoverato e nutrito per alcuni giorni; e dopo esser riscesa a prendergli un po' di minestra avanzata dalla cena e un tozzo di pane, lo rinchiuse di nuovo e se ne andò a letto. La mattina dopo il padre uscì al solito per i suoi traffichi, e Teresona, rimasta sola e sicura ormai che per tutto il giorno il padre non sarebbe tornato, invitò lo sconosciuto a scendere per respirare una boccata d'aria. Ma egli ricusò dicendo che si sentiva tanto spossato che non aveva neppure la forza di alzarsi dal giaciglio di foglie e di fieno. Allora Teresona, che era assuefatta a vedersi respinta da ognuno per la sua bruttezza, gli domandò molto umilmente se gli faceva dispiacere che rimanesse a fargli compagnia. - Mi fate un piacere, anzi, - le rispose lo sconosciuto. - Non potete credere come la simpatia di una creatura buona scenda dolce nel cuore dell'esule. Era la prima volta che qualcuno le parlava così affettuosamente, e Teresona fu tutta commossa. Ella prese la rôcca e si mise a filare in un cantuccio della soffitta, senza parlare, accostandosi soltanto allo sconosciuto per domandargli se voleva prendere ristoro. Per quel giorno il forestiero parlò poco, ma il giorno seguente incominciò a narrare a Teresona la sua triste storia e le disse che era un signore fiorentino della famiglia Spini, preso di mira dal partito che governava la città, per la opposizione fatta a certe leggi ingiuste che quel partito voleva imporre. Avvertito in tempo da un contadino che lo cercavano per arrestarlo, era fuggito a cavallo, ma senza nulla. Vagando però nel contado aveva saputo che avevano messo una taglia sulla sua persona, e che i suoi beni erano stati confiscati. Mentre parlava, il ricordo forse delle angustie patite lo fece cadere in un nuovo svenimento. Teresona, vedendo che il giorno incominciava a declinare e temendo che il padre tornasse, dovette lasciare messer Spini svenuto e correr giù a preparare la cena. La povera ragazza era più morta che viva, e mentre attizzava il fuoco, pregava la Madonna che rendesse almeno la salute a quell'infelice, così misero, così solo! Quella sera ella mise una quantità d'olio nella minestra di fagioli, si scordò di salare il castrato, e quando suo padre giunse, nulla era ancor pronto. Il sensale la rimproverò acerbamente e non volle mangiare altro che un pezzo di pecorino dicendo che da allora in poi voleva cenare all'osteria, e a lei non avrebbe lasciato altro che pane e pattona, perché non voleva andare in rovina per quella sprecona di figliuola. Difatti mise ad effetto la minaccia, e fattosi dar la chiave della dispensa, dove teneva la carne salata, il vino e l'olio, la ripose in un canterano dove teneva i quattrini. Teresona andò a letto piangendo. - Madonna Santa, - diceva la ragazza, - come farò a sostenere quell'infelice che è più morto che vivo? E con la testa sul guanciale pensava e ripensava, senza trovare un mezzo per uscire da quel bertabello. Intanto si struggeva di non potere andare in soffitta dal fiorentino a vedere se si era riavuto, perché suo padre, che era rimasto in cucina col fiasco davanti, continuava a brontolare e pareva non avesse nessuna voglia di andare a letto. Teresona era al buio, in preda alla desolazione, quando a un tratto vide dinanzi agli occhi un gran chiarore come se il sole penetrasse sfolgorante dalla finestra, e, in mezzo a quella luce vivissima, scòrse una vecchia dall'aspetto venerando, che si avvicinava a lei, senza che i piedi toccassero il pavimento. - Ragazza mia, - disse la vecchia con voce dolcissima, - la diletta Figlia mia, la Santissima Vergine, che ha pietà degli afflitti e ne raccoglie le preghiere, mi manda a te. Se tu vuoi salvare messer Spini, questa notte stessa devi portarlo via da questa casa. Domani tuo padre andrà a rovistare in soffitta, e se lo trova lo consegnerà alla giustizia come ladro. Rammentati che io sono sant'Anna ... rammentalo! Dopo che la vecchia ebbe detto queste parole, la camera ritornò nelle tenebre e l'apparizione scomparve. Teresona lì per lì fu consolata, ma quando udì che il padre si mise a cantare in cucina con voce avvinazzata, disse fra sé: - Come farò a portare messer Spini fuori di casa, se il babbo non va a letto? Vergine Santa, aiutatemi voi! L'aiuto non le mancò, poiché poco dopo sentì un gran tonfo per terra e udì russare forte il vecchio sensale. Allora si vestì in fretta, senza mettersi le scarpe, e salita nella soffitta l'aprì. Messer Spini era sempre svenuto sul giaciglio. Ella cercò di destarlo, ma era fatica sprecata. Allora se lo caricò sulle spalle, e via, via, finché non lo ebbe deposto sopra un letto di musco a qualche distanza da casa. Però Teresona capì che, vestita da donna, sarebbe stata subito riconosciuta dalla gente, beffeggiata e vilipesa; perciò ella tornò a casa, si tagliò i capelli, si tolse le sue vesti, indossò i panni del babbo e via. Quando fu sulla soglia di casa ebbe un momento d'esitazione. Le dispiaceva di lasciar quell'uomo che, in fin de' conti, era suo padre; quella casa dove aveva vissuto ... e le pareva di far male ad andarsene; ma mentre stava così esitante, credé di udire una voce che le dicesse: - Tuo padre sarà contento di essersi liberato di te; non ti accorgi che non ti può soffrire? mentre l'altro ti vuol bene e ha bisogno del tuo aiuto. La voce era quella di sant'Anna, apparsale poco prima. Teresona non esitò più, e corse in cerca di messer Spini. Questi non era più immobile come Teresona lo aveva lasciato. Ma si dibatteva per terra e mandava gridi che somigliavano a urli di lupo affamato. - Madonna santa, ha il lupo mannaro! - esclamò la ragazza. E fece atto di fuggire; ma, vinta dalla compassione, si fermò, e, curvatasi sull'infelice, gli cinse la testa con le braccia poderose per impedirgli di ferirsi. Così rimase lungamente nel folto del bosco, sgomenta da quegli urli che potevano richiamar gente, sgomenta di non aver nessun mezzo per far cessare il male. A giorno, il malato si calmò; non urlava più, non si batteva più, e finalmente aprì gli occhi inebetiti. - Bisogna fuggire, - disse Teresona, - mio padre si desterà e si metterà a cercarmi; non bisogna che ci trovi qui. Messer Spini capiva poco quello che ella gli diceva, ma Teresona lo alzò da terra e, sorreggendolo, lo fece camminare in direzione del Pian di Campaldino. In mezzo alla vasta pianura sorgeva una casetta disabitata, dove la ragazza fece entrare l'infelice, e anche li trovò il modo di preparargli un letto di foglie e di fieno; ma come avrebbe fatto mai a nutrirlo? Peraltro Teresona era una ragazza coraggiosa, e le pareva che quegli abiti maschili che aveva indossati dovessero renderla irriconoscibile. Così, dopo aver raccomandato all'esule di non muoversi, andò fuori, sperando che le capitasse di guadagnar qualche cosa. Ma prima di uscire passò alcuni minuti in orazione e supplicò la Vergine Maria e sant'Anna di vegliare sul disgraziato fiorentino. La ragazza camminava alla ventura sulla via maestra in direzione di Poppi, quando le accadde di imbattersi in un grosso frate camaldolese, montato sopra un somaro. L'animale s'era impuntato e non voleva andare né avanti né addietro, e il monaco tirava la briglia, menava frustate; ma sì! era come dire al muro. Teresona, che era forte quanto un toro, prese il ciuco per la briglia e lo costrinse a camminare; ma appena lo lasciava, il ciuco impuntavasi di nuovo. - Giovinotto, - disse il monaco, - come vedi io son troppo pingue per far la strada a piedi e debbo trovarmi a Bibbiena prima di mezzogiorno: accompagnami fin là e ne avrai da me larga ricompensa. Teresona non se lo fece dir due volte, e seppe così bene costringer l'asino a camminare, che il monaco alle undici era già sulla piazza della Pieve. Egli scese di sella, e dopo aver messa una moneta d'argento in mano al suo accompagnatore, lo pregò di andarlo a riprendere il giorno dopo per accompagnarlo a Camaldoli, e gli avrebbe dato il triplo. La ragazza si sentì allargare il cuore, e dopo aver comprato a Bibbiena quello che occorreva per nutrire il malato e un pan tondo per sé, mangiando con grande appetito, tornò alla casetta del Pian di Campaldino. Il forestiero non era più così abbattuto come ella lo aveva lasciato, e le domandò come mai non si trovava più nella soffitta ed ella aveva preso abiti maschili. Teresona gli raccontò le sue angustie della notte, e il giovane s'intenerì sapendo di quale abnegazione essa era stata capace pur di non abbandonarlo. - Se un giorno io riacquisterò i miei beni, - le disse, - tu, eccellente ragazza, sarai signora e padrona in casa mia; te lo giuro da cavaliere. Teresona s'intenerì e sempre più prese affetto per quell'infelice. Il giorno passò senza che messer Spini ricadesse nel letargo; ma appena la luna inondò con la sua luce argentea la vasta pianura, egli si addormentò, e dal sonno passò alle convulsioni; si dibatteva, mandava bava dalla bocca, e urlava come un lupo affamato. Ora bisogna sapere che la casetta, nella quale Teresona si era rifugiata insieme con l'ammalato, apparteneva a certi contadini i quali non l'abitavano altro che nei due mesi che precedevano la vendemmia. Essi solevano passarvi la notte per abbadare che non rubassero loro l'uva; il resto dell'anno non ci capitavano mai. Ma quella era appunto la stagione in cui l'uva aveva bisogno della sorveglianza notturna dei contadini, e due di essi si avviarono alla casupola, quando sentirono uscirne urli di lupo. I contadini stettero in ascolto un momento; poi, udendo che gli urli continuavano, non pensarono più all'uva e via di corsa. Quegli urli erano stati uditi anche da altri contadini, così che la mattina nel vicinato non si parlava d'altro che della presenza del lupo mannaro nel Pian di Campaldino. Come avviene sempre in certe circostanze, vi era pure chi asseriva di aver visto la bestia spaventosa correre di notte, mentre la luna era alta, per i campi e per i boschi, così nessuno si attentava più a uscir di casa la notte, e i contadini avrebbero lasciato piuttosto marcir l'uva sulle viti, che attentarsi a incontrare il lupo mannaro. Intanto Teresona, sostenuta dal desiderio di rendersi utile all'infelice cui affezionavasi ogni giorno più, non rifuggiva da nessun lavoro, per faticoso che fosse, pur di guadagnare qualche cosa. Aveva riaccompagnato il monaco a Camaldoli e da lui aveva ottenuto una larga ricompensa; poi s'ingegnava a far legna, che andava a vendere a Poppi e a Bibbiena, e se incontrava nei boschi qualche squadra di taglialegna, offriva l'opera sua per ottenerne qualche soldo. Una notte, vedendo messer Spini dibattersi furiosamente in preda alle convulsioni, Teresona aveva detto: - Sant'Anna benedetta, non vi pare che quest'infelice abbia patito assai? guaritelo, per carità di lui e di me! La luminosa visione le era di nuovo comparsa, e sant'Anna le aveva risposto: - Se la diletta Figlia mia non avesse esaudito le tue preghiere, tu e l'esule non avreste più neppure questo ricovero. Non capisci che sono gli urli di lui che tengono lontana la gente da questo luogo? - Chino il capo alle savie disposizioni della Provvidenza, - rispose Teresona umilmente. - Così va bene; - disse sant'Anna, - quando la persecuzione contro messer Spini cesserà, egli sarà guarito. La visione scomparve, ma gli urli continuarono e il terrore era sparso nei dintorni. Intanto i contadini, che vedevano marcire la loro uva sulle viti nel Pian di Campaldino, erano andati dall'abate di Strumi, che aveva nomea di santo, e gli avevan detto, con voce tremante e spaventata: - Abate maggiore, il lupo mannaro è in paese, e noi si perde la raccolta dell'uva. L'abate si era fatto spiegare il come e il perché di quella perdita, e dopo aveva detto: - Domani farò una processione fino alla casetta nel Pian di Campaldino e con l'acqua santa caccerò il lupo mannaro. Infatti il giorno dopo aveva adunato i suoi monaci, e, preceduto dalla croce, si era diretto al luogo dove tenevasi nascosto messer Spini. Egli era in un momento di calma e, seduto per terra col dorso appoggiato alla rozza parete, esprimeva a Teresona, che lo ascoltava con le lacrime agli occhi, l'ammirazione che ella gl'ispirava per la sua illimitata bontà. - Ti voglio bene, Teresa, - le diceva, - più che alla madre mia, più che alle sorelle, agli amici, alla patria stessa, e non saprei vivere senza di te. La donna, che stava sempre in ascolto temendo una sorpresa, udì salmodiare e, guardando da uno spiraglio della porta, vide la processione di monaci dirigersi alla volta della casupola. - Siamo perduti! - esclamò. E, senza cercar di fuggire, perché lo reputava inutile, s'inginocchiò e pregò fervidamente sant'Anna e la Vergine. In quel momento messer Spini fu assalito dalle convulsioni; egli incominciò ad urlare, e il suo corpo prese a un tratto l'aspetto orribile di una bestia villosa, con una testa enorme e una bocca fornita di zanne minacciose. L'animale, sempre urlando, si fece sulla porta, e pareva pronto a gettarsi addosso al primo che si accostasse. Il giovane monaco che recava la croce ed era in testa alla processione, appena vide il mostro, fuggì; l'abate che sperava tanto nell'acqua santa, se la diede a gambe, e in breve Teresona vide le tonache bianche dei monaci sparire dalla pianura di Campaldino. Quando nessuno più rimase in quei dintorni, messer Spini riprese sembianze umane e Teresona respirò. Tutti e due capirono che quella trasformazione era avvenuta per intervento celeste, e ringraziarono le loro Protettrici. Dopo qualche giorno messer Spini non fu più assalito dalle convulsioni. Soltanto quando qualcuno voleva avventurarsi vicino alla casa, mandava urli da lupo, e se v'era qualche spirito forte che si accostava con l'intendimento di uccidere il lupo mannaro nella sua tana, il fiorentino prendeva subito le sembianze del mostro e faceva fuggire il mal capitato. Così Teresona e l'esule rimasero padroni di una zona di terreno, dalla quale essi ricavavano in parte il nutrimento. La ragazza però non cessava d'industriarsi andando a vendere erbaggi a Bibbiena, e laggiù apprese che a Firenze non governava più il partito avverso a messer Spini, e che a questi era stato revocato il bando e la confisca dei beni. Tutta lieta ella andò a comunicare la notizia all'esule, il quale pianse di gioia e, approfittando della notte, volle subito partire per Firenze. Teresona fu molto afflitta da quella risoluzione del fiorentino e gli disse: - Signor mio, quando sarete in patria, ricordatevi qualche volta di me. - Ma tu mi accompagni! - rispose messer Spini, - mi sei stata compagna, sostegno, appoggio nella brutta sorte, sarai dunque la compagna dei giorni lieti. Così partirono, e dopo molti giorni di viaggio faticoso, messer Spini bussava alla porta del suo palazzo e, riconosciuto dai suoi concittadini, tornava al possesso del patrimonio e delle cariche del governo della Repubblica. Teresona aveva ripreso gli abiti femminili, ma non appariva più a nessuno così brutta come per il passato, forse perché messer Spini narrava a tutti la devozione di cui era stata capace quella creatura così buona e coraggiosa. Nonostante Teresona si sentiva a disagio nel bel palazzo, e ormai che messer Spini era guarito e ritornato in patria, ella voleva riandarsene in Casentino, per aver notizie del padre suo e ottenerne il perdono. Ma messer Spini non glielo concesse e, anzi, per dimostrarle la sua gratitudine, volle farla sua moglie. Teresona credé d'impazzire dalla gioia allorché il suo signore le comunicò questa risoluzione. Le nozze furono celebrate senza pompa nella cappella del palazzo Spini, dove la sposa visse lunghissimi anni venerata e stimata dal marito e dagli amici di lui, e dove morì in tarda età. Appena messer Spini e la Teresona furono partiti dal Casentino, certi contadini che passavano una mattina sul limitare della pianura di Campaldino videro il cadavere di un mostro, simile in tutto e per tutto a quello che aveva tanto spaventato l'abate maggiore di Strumi e tutta la processione. Essi andarono a raccontare a Poppi che il lupo mannaro era crepato, e allora il popolo dei dintorni, guidato dai proprietari della pianura, andò a vedere la bestiaccia che era stata per tanto tempo il terrore di tutto il paese. - Bruciamola! - disse uno. - Bruciamola! - risposero tutti. Allora lì per lì fu messa insieme una catasta di legne secche; la bestiaccia pelosa vi fu posta sopra a forza di stanghe, perché nessuno voleva toccarla, e in breve fu avvolta dalle fiamme e incenerita. Da quel giorno nessuno ha più udito né veduto il lupo mannaro in quei luoghi, e i contadini sono ritornati ogni anno a badare all'uva matura, senza essere turbati nelle loro veglie dagli urli del lupo. - E ora la novella è finita, - disse la Regina. In quel momento tornavano da Camaldoli il professor Luigi e la moglie, e con loro c'era anche l'Annina. - Come mai sei venuta? - le domandò la nonna. - Non so, - rispose la ragazza, - la signora mi ha detto che era meglio che passassi qualche giorno a casa, ed ho ubbidito. La signora Maria prese da parte la Carola e le disse che la signora Durini, sapendo che Carlo Buoni doveva tornare mercoledì o giovedì della settimana seguente, aveva creduto più conveniente che si abboccasse con l'Annina e le aprisse l'animo suo in casa dei genitori, piuttosto che alla villa dell'ispettore. Dopo quell'abboccamento le avrebbero rimandato la ragazza, dalla quale non intendeva separarsi fino al giorno del matrimonio. L'Annina doveva sospettar qualche cosa, perché era turbata e guardava tutti come se volesse leggere nell'animo dei suoi il segreto che era sicura le celavano; ma non domandò nulla, per il momento, ai grandi. Però, imbrancatasi con i piccini, che le avevano fatto una gran festa vedendola giungere, li aveva condotti nell'orto, e abilmente, senza dimostrare curiosità, li aveva interrogati. Essi erano stati tutti contenti di raccontarle che in settimana avevan avuto visite, che c'erano stati i Buoni, padre e figlio, e che durante la loro visita essi erano stati mandati via di cucina. - E dopo che hanno fatto? - domandò l'Annina. - Dopo aver molto parlato, il capoccia ci ha mandati a prendere l'aleatico; essi hanno bevuto, e son partiti per Poppi. Però il Vecchio, al ritorno, s'è fermato qui di nuovo. - E com'era il babbo? - Tutto felice, come quando torna dal mercato e ha venduto bene un paio di manzi. - E voi, che cosa avete supposto? - chiese di nuovo l'Annina. - Che il capoccia, la nonna, le nostre mamme e la Vezzosa hanno paglia in becco. L'Annina era troppo furba per non aver capito tutto. Il cuore le batteva forte forte, e quel certo mistero che ancora avvolgeva un fatto di cui non poteva aver più dubbio, le faceva provare una grande, una immensa felicità. Non sapeva spiegarsi come il sor Carlo avesse proprio scelto lei, e quando fu a letto, sicura che nessuno la vedeva, pianse e rise dalla grande felicità.

L'altrui mestiere

680036
Levi, Primo 3 occorrenze

Questa azione, di abbandonare un libro non finito per aprirne un altro, è riprovevole, e ne ho piena coscienza. È una scorrettezza, un piccolo tradimento: tu non sai che cosa l' autore ti riserba nella prossima pagina non letta, rifiuti di seguirlo e di ascoltarlo, sei un cattivo giudice, che fa tacere un teste prima che la sua deposizione sia conclusa; ma la tentazione è forte, e incoraggiata dall' esempio di Huxley stesso, che confessava essere il "desultory reading", la lettura senz' ordine, il suo vizio prediletto. Cedo sovente a questa tentazione, e sempre a favore delle sue prime opere, quelle del periodo 1920-40. I libri posteriori, di Huxley non più romanziere ma pacifista, mistico, sociologo, studioso delle religioni, di metapsichica e dei farmaci psicotropi, mi attirano meno e mi incutono soggezione: oso affermare che l' Huxley di questo dopoguerra, ferito a morte dalla guerra, sinceramente preoccupato dei destini dell' umanità, non raggiunge l' umanità stessa. Per contro, e contro l' opinione di molti suoi lettori d' oggi, i libri della sua prima maniera mi appaiono tuttora ricchi di nutrimento vitale. Chi apra, ad esempio, "Punto contro punto" vi trova ancor oggi, e forse oggi più distintamente di allora, l' Europa di cui siamo figli, per il bene e per il male: l' Europa che allora era il mondo, inventrice e tutrice di tutte le idee e di tutte le esperienze, e insieme cinica, stanca, debole davanti alle nuove suggestioni dell' irrazionale e dell' inconscio. Si intende oggi in luce nuova, quasi simbolica del tempo fra le due guerre, la tessitura dei romanzi di Huxley. Non vi avviene mai nulla, o quasi nulla: sono gremiti di conversazioni e discussioni intelligenti, tutte a fuoco, tutte nitide e distinte; "romanzi di idee", come appunto li definisce Philip Quarles, autoritratto di Huxley medesimo. Ma quando dalle idee si passa agli atti, il logos si offusca, prevalgono la violenza e il sesso, e simultaneamente la vicenda e i personaggi si tumefanno, si svuotano, diventano meno credibili: si veda ad esempio, in "Punto contro punto", l' uccisione gratuita di Webley da parte di Spandrell, e il suicidio teatrale di quest' ultimo. Ma quanto veri, quanto solidi sono questi stessi personaggi finché Huxley si limita a farli parlare, a disegnarne e confrontarne le origini, ad analizzarne i rapporti, i giudizi dell' uno sull' altro! Qui la sua mano è sicura, l' abilità e l' eleganza magistrali: ci dona una galleria di ritratti convincenti, fra i più vivi di tutte le letterature. Mentre la sua acutezza sembra non avere limiti, limitato appare invece il campo del suo interesse e della sua simpatia: incontriamo fra le sue pagine dei semplici o degli sciocchi, vivono anch' essi, ma sullo sfondo; esistono in funzione di "spalla", e Huxley non prova indulgenza per loro. Il suo assortimento è limitato verso il basso (anche Quarles è "intelligente al punto da essere quasi umano"): non ci saprebbe dare un Babbitt né un Leopold Bloom. Nella rappresentazione dei suoi pari, cioè dei superdotati, Huxley è invece maestro. I suoi personaggi sono tutti e sempre spiritosi, colti ed eloquenti, sono dei notabili, anche se falliscono: senti dietro le loro spalle l' opulenza e la solidità di un' Inghilterra più evoluta, meno ingenua ed anche meno poetica di quella kiplinghiana. Non hanno preoccupazioni materiali, non soffrono se non pene d' amore o dolori filosofici; non vivono che per comunicare, per dibattere acute idee, ignorano il silenzio e il raccoglimento. Spesso tengono un diario, che è esercizio di solitari: ma allora, tipicamente, sottolineano con cura ogni "trouvaille" per utilizzarla poi in società. Huxley stesso fa altrettanto: è frequente, e un po' irritante, coglierlo sul fatto, notare in un racconto uno spunto, una immagine, e ritrovarla poi in un romanzo, sfruttata a sazietà e per così dire di seconda mano. Questo creatore prodigo e fecondo appare allora un avaro, attento a non sprecare un soldino della sua enorme ricchezza. Temperamento razionale, Huxley pretende e spera di ricostruire attraverso la ragione tutto quanto nell' uomo ragione non è, e sovente ci riesce. Per questo la sua prima lettura aveva avuto effetto d' urto, nell' Italia fascista e idealista, in cui l' esercizio della ragione veniva apertamente scoraggiato, in cui davanti al fisico e all' anatomista il filosofo aggrottava la fronte con fastidio. Diverso è il giudizio che merita "Il mondo nuovo". È un romanzo utopistico, uno dei più coerenti che siano mai stati scritti. Non contiene divagazioni eleganti né ricerca poetica, e neppure personaggi di carne e di sangue: è arido, teso e amaro, ma merita abbondantemente una rilettura. Descrive con precisione implacabile un mondo che allora poteva apparire fantasia delirante ed arbitraria, ma verso il quale oggi ci stiamo avviando. È il migliore dei mondi possibili, quale sarà se i tecnici avranno mano libera: un mondo pianificato in tutte le sue pieghe (anche i bambini vi nascono su piano, non più partoriti ma da une linea di montaggio: singoli o a lotti di gemelli identici, a seconda delle esigenze di mercato), in cui convergono la superorganizzazione totalitaria e il produttivismo capitalista, Marx, Pavlov, Freud e Ford: questi due ultimi, anzi, confusi in un' unica divinità, "il nostro Ford, o Freud, come amava farsi chiamare quando meditava". Il mondo è unito in una sola supernazione: non esistono più razze umane, ma l' umanità è divisa in caste rigidamente separate, e condizionate in modo da essere adatte per le specifiche mansioni loro devolute: dagli "alfa", destinati fin dal "travasamento" dei rispettivi embrioni alle cariche di maggior responsabilità, agli "epsilon" semideficienti (i loro embrioni vengono trattati con alcool), che saranno felici e paghi di lavorare come manovali per tutta la loro esistenza. Arte e scienza, sentimento e passione, non esistono più: sarebbero una minaccia per la stabilità, valore supremo, anzi unico, del Nuovo Mondo. L' educazione (anzi, il "condizionamento") dei giovani è monopolio dello Stato: tutte le conoscenze e i principi4 morali vengono irresistibilmente intrusi nei cervelli durante il sonno. Anche il dolore è scomparso: ogni dolore fisico, grazie al progresso della medicina, ogni dolore spirituale, grazie agli "ingegneri emotivi". Perciò ognuno è felice, è obbligato alla felicità, in questo ordine nuovo che a noi, non "condizionati", non può che apparire detestabile. Come si vede, si tratta di un brutto sogno, ma più realistico, e più intelligente, di tutte le utopie positive (la "Repubblica" di Platone) e negative ("19.4" di Orwell); il libro è profondamente ironico e pessimista: se volete il benessere, la libertà e la pace, la soluzione è questa, anche per l' uomo razionale, sede della sapienza, immagine di Dio. Questa: la costituzione scelta milioni di anni fa dalle formiche e dalle termiti, e da allora mai più emendata. Nel 1959, in "Brave New World Revisited", Huxley può scrivere: "Nel 1931, quando stavo scrivendo "Il mondo nuovo", ero sicuro che ci fosse ancora tempo in abbondanza ... Ventisette anni dopo ... mi sento assai meno ottimista ... le mie profezie si stanno avverando ben prima di quando io pensassi". A quanti altri profeti è stato concesso il tristo privilegio di veder nascere intorno a sé il "Nuovo Mondo" che avevano previsto?

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Nessuno di questi ha però perduto la facoltà di volare, perché spesso la necessità li spinge ad abbandonare uno stagno che si è disseccato per trovare un altro specchio d' acqua, magari molto lontano. Una volta, viaggiando a notte su un' autostrada illuminata dalla luna, ho sentito i vetri e il tetto dell' auto bombardati come dalla grandine: era uno sciame di ditischi, lucidi, bruni ed orlati di arancio, grossi come una mezza noce, che avevano scambiato l' asfalto della strada per un fiume, e tentavano invano di ammararvi. Questi scarabei, per ragioni idrodinamiche, hanno raggiunto una compattezza e semplicità di forme che credo unica nel regno animale: visti dal dorso, sono ellissi perfette, da cui sporgono solo le zampe mutate in remi. Anche nell' eludere i pericoli e le aggressioni questi insetti "le trovano tutte". Alcune specie esotiche, grandi quanto una fava, sono dotate di una forza muscolare incredibile. Se racchiusi nella mano, si forzano la via d' uscita tra le dita; se ingoiati da un rospo (per errore! ma i rospi inghiottono ogni piccolo oggetto che vedano muoversi in linea orizzontale), non seguono la strategia di Giona ingoiato dalla balena né quella di Pinocchio e Geppetto nel ventre del Pescecane, ma semplicemente, forti delle zampe anteriori adattate a smuovere il terreno, si scavano la via di uscita attraverso il corpo dell' aggressore. Altre fughe singolari sono quelle degli elateridi, eleganti scarabei nostrani dal corpo allungato. Se presi in mano, o comunque disturbati, ripiegano zampe ed antenne e si fingono morti; ma dopo un minuto o due si sente un clic improvviso, e l' insetto scatta in aria. Per questo breve balzo, fatto per sconcertare gli aggressori, non usa le zampe: ha elaborato un curioso sistema di tensione e scatto. Nella posizione di finta morte, torace e addome non sono allineati, ma formano un piccolo angolo: si raddrizzano di colpo quando si allenta una sorta di nottolino, e l' elateride non c' è più. La luce fredda delle lucciole (sono coleotteri anche loro) non mira alla difesa, serve bensì a facilitare l' accoppiamento. È anche questa una invenzione unica fra gli animali che non vivono nell' acqua; ma ci sono superlucciole di specie diversa, le cui femmine imitano la luce ferma delle femmine delle lucciole propriamente dette, attirandone così i maschi e divorandoli appena si posano loro accanto. Da tutti questi comportamenti si ricavano impressioni complesse: stupore, curiosità, ammirazione, orrore, riso. Ma mi pare che predomini su tutte la sensazione dell' estraneità: queste piccole fortezze volanti, queste macchinette portentose i cui istinti sono programmati da cento milioni di anni, non hanno nulla a che vedere con noi, rappresentano una soluzione totalmente diversa del problema del sopravvivere. In qualche misura, o anche solo simbolicamente, noi umani ci riconosciamo nelle strutture sociali delle formiche e delle api; nell' industria del ragno; nella danza delle farfalle: ma ai beetles, veramente, non ci lega nulla, neppure le cure parentali, poiché fra i coleotteri è rarissimo che una madre (e tanto meno un padre) veda la prole prima di morire. Sono loro i diversi, gli alieni, i mostri. Non è scelta a caso l' atroce allucinazione di Kafka, il cui commesso viaggiatore Gregorio, "svegliandosi una mattina da sogni agitati", si trova mutato in un enorme scarabeo, talmente disumano che nessuno della famiglia ne può tollerare la presenza. Ebbene: questi diversi hanno dimostrato mirabili capacità di adattamento a tutti i climi, hanno colonizzato tutte le nicchie ecologiche e mangiano tutto: alcuni perforano perfino il piombo e la stagnola. Hanno elaborato una corazza di straordinaria resistenza agli urti, alla compressione, agli agenti chimici, alle radiazioni. Alcuni fra loro scavano nel suolo rifugi profondi metri. Nel caso di una catastrofe nucleare, sarebbero i migliori candidati alla nostra successione (non gli stercorari, per mancanza di materia prima). Oltre a tutto, la loro tecnologia è ingegnosa ma rudimentale ed istintiva; da quando il pianeta sarà loro, dovranno ancora passare molti milioni di anni prima che un beetle particolarmente amato da Dio, al termine dei suoi calcoli, trovi scritto sul foglio, in lettere di fuoco, che l' energia è pari alla massa moltiplicata per il quadrato della velocità della luce. I nuovi re del mondo vivranno tranquilli a lungo, limitandosi a divorarsi e a parassitarsi fra loro su scala artigianale.

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Mio padre nutriva per la scienza un amore tinto di rimpianto, e non gli sarebbe spiaciuto che avessi seguito io la strada che lui aveva dovuto abbandonare per i casi della vita; tuttavia gli sembrava poco naturale che io adolescente desiderassi un microscopio in luogo delle molte cose allegre e concrete che il mondo offre. Penso che si sia rivolto a qualcuno per consiglio: sta di fatto che dopo qualche mese il microscopio arrivò in casa. Visto con gli occhi del poi, quello strumento non valeva molto: dava solo duecento ingrandimenti, era poco luminoso, e presentava aberrazioni cromatiche da far girare la testa, ma mi ci affezionai subito, più che alla bicicletta a cui ero arrivato dopo due anni di petizioni e di cauta diplomazia. Del resto, la bicicletta e il microscopio erano in certa misura complementari: senza bicicletta, e partendo dal centro urbano, come avrei potuto raggiungere i giardini, le foreste e i ruscelli di cui parlava il mio testo? Comunque, prima di programmare una sortita, mi dedicai ad un inventario microscopico di quanto potevo trovare su di me e intorno a me. I capelli che mi strappavo avevano un aspetto del tutto inaspettato: sembravano tronchi di palma, e guardando bene si distinguevano, sulla loro superficie, quelle minuscole scaglie grazie a cui un capello si sente più liscio quando lo si segue tra le dita dalla radice all' estremità che non viceversa: ecco un primo perché a cui il microscopio dava una risposta. La radice del capello era invece piuttosto ripugnante, sembrava un tubero molliccio e pieno di bitorzoli. La pelle dei polpastrelli era difficile da osservare, perché era quasi impossibile mantenere il dito fermo rispetto all' obiettivo; ma quando ci si riusciva per qualche attimo, si vedeva un paesaggio bizzarro, che ricordava le terrazzature delle colline liguri e i campi arati: grossi solchi rosei translucidi, paralleli, ma con improvvise curve e biforcazioni. Una chiromante munita di microscopio avrebbe potuto predirti l' avvenire con molti più dettagli che non esaminandoti il palmo della mano a occhio nudo. Sarebbe stato interessantissimo, anzi, in qualche modo fondamentale, esaminare il sangue e vedere i globuli rossi descritti nel libretto, ma io non trovai il coraggio di pungermi, e mia sorella (che del resto si mostrava singolarmente insensibile ai miei entusiasmi) rifiutò nettamente sia di pungere me, sia di lasciarsi pungere. Le mosche, poverette, erano una miniera di osservazioni: le ali, un delicato dedalo di nervature incastonate nella membrana trasparente e iridescente; gli occhi, un mosaico purpureo di mirabile regolarità; le zampe, un arsenale di artigli, peli rigidi e cuscinetti gommosi: pantofole, suole Vibram e ramponi condensati insieme. Altra miniera erano i fiori, belli o brutti, indifferentemente; dai petali non si cavava molto (il mio ingrandimento non era sufficiente a rivelarne la struttura), ma ogni specie depositava sul vetrino il suo polline, ed ogni polline era bellissimo e specifico: se ne distinguevano i singoli granelli, architetture delicate ed eleganti, sferette, ovoidi, poliedri, alcuni lisci e lucenti, altri irti di creste o di spine, candidi, bruni o dorati. Altrettanto specifiche erano le forme dei cristalli che si potevano ottenere lasciando evaporare sul vetrino le soluzioni dei vari sali: il sale comune, il solfato di rame, il bicromato di potassio, e altri elemosinati dal farmacista; ma qui c' era qualcosa di nuovo, i cristalli si vedevano nascere e crescere "a vista d' occhio", qualcosa finalmente si muoveva: il microscopio non era più limitato all' immobilità dei vegetali e delle mosche morte. Era curioso che i primi oggetti in movimento fossero proprio gli oggetti meno vivi, i cristalli del mondo inorganico. Forse quest' ultimo termine non era poi così appropriato. Anche nell' acqua dei vasi da fiori c' era movimento: e questo, anzi, non era solenne e ordinato come il crescere dei cristalli. Era invece turbolento e vorticoso, da togliere il fiato: un pullulare tanto più frenetico quanto più stantia era l' acqua del vaso. Eccoli, infine, gli animalculi promessi dal mio testo: li potevo ravvisare sulle illustrazioni, delicate, minuziose, un po' idealizzate, e pazientemente colorate ad acquerello (me n' ero accorto toccandone una con una gocciolina d' acqua). Ce n' era di grossi e di minuti: alcuni attraversavano il campo del microscopio in un baleno, come se avessero fretta di arrivare chissà dove, altri gironzolavano pigri come se pascolassero, altri ancora giravano stupidamente su se stessi. I più graziosi erano le vorticelle: minuscoli calici trasparenti che oscillavano come fiori nel vento, legati a un fuscello mediante un filamento lungo ma così sottile da risultare appena visibile. Ma bastava una minima scossa, sfiorare con l' unghia il fusto del microscopio, e di scatto il filamento si contraeva a spirale e l' apertura del calice si chiudeva. Dopo qualche istante, come se la paura gli fosse passata, l' animaletto riprendeva fiato, il filamento tornava ad allungarsi, e guardando bene si distingueva il piccolo vortice da cui le vorticelle traevano il nome: bruscolini indistinti roteavano intorno al calice, e sembrava che qualcuno vi rimanesse intrappolato. Ogni tanto, come se la sedentarietà le fosse venuta a noia, una vorticella levava l' ancora, ritirava il filamento e se ne partiva alla ventura. Era proprio una bestia come noi, che si spostava, reagiva, mossa dalla fame, dalla paura o dalla noia. O dall' amore? Il sospetto, soave e conturbante, mi venne il giorno in cui per la prima volta ero andato fino al Sangone in bicicletta, e avevo portato a casa un campione d' acqua stagnante e di sabbia del torrente, che allora era pulito. Qui si vedevano mostri: enormi vermi lunghi quasi un millimetro, che si torcevano come torturati; altre bestiole trasparenti, visibili a occhio nudo come puntini scarlatti, che sotto il microscopio si rivelavano irte di antenne e di ciuffi, e si muovevano a scatti, come pulci naufragate. Ma la scena era invasa dai parameci: affusolati, agili, storti come vecchie ciabatte, saettavano così veloci che per seguirli bisognava ridurre l' ingrandimento: navigavano nell' oceano della loro goccia d' acqua ruotando intorno al loro asse, sbattevano contro gli ostacoli e subito si voltavano e ripartivano, come motoscafi impazziti. Sembravano in caccia di luce e d' aria, solitari ed affaccendati: ma ne vidi due frenare la corsa come se l' uno si fosse accorto dell' altro, come se si fossero piaciuti; avvicinarsi, aderire stretti, e proseguire il viaggio insieme con passo più lento. Come se in questo coniugarsi cieco si scambiassero qualcosa, e ne traessero un misterioso infinitesimo piacere.

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La ricerca delle radici

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Levi, Primo 1 occorrenze

Si tratta di un trasporto miserabile, 600 tonnellate di carbone da scaricare a Bangkok, ma sul Judea pesa un destino avverso; dopo una serie d' incidenti che ne hanno ritardato la partenza, nei mari della Malesia il carico entra in autocombustione, sul vetusto veliero scoppia un incendio, e l' equipaggio deve abbandonare la nave.

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Lilit

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Levi, Primo 1 occorrenze

È passato un altro mese in sopralluoghi e perizie, e intanto l' assedio delle miniere intorno alla signorina MacLeish si faceva sempre più stretto; ma lei continuava a soste nere che le era moralmente impossibile abbandonare al suo destino l' anima di sua madre racchiusa nel rovere. Ho letto il rapporto degli esperti: nessuno di loro aveva messo in discussione la legittimità delle obiezioni sollevate dalla signorina, e, quanto alla possibilità che l' anima stesse nell' albero, si limitavano a dire che non avevano argomenti né per provare il fatto né per confutarlo. Proponevano di estirpare il rovere con tutte le sue radici e di trapiantarlo in un luogo che fosse di gradimento della proprietaria. Dopo qualche esitazione, la signorina ha accettato, ma solo su garanzia scritta che l' albero non avrebbe sofferto, e contro stipulazione (a spese dell' impresa) di una polizza di assicurazione sulla sopravvivenza dell' albero stesso: era assistita da un bravo legale. Il rovere era così grande, e con radici così poderose, che trenta sterratori hanno dovuto scavare per una settimana solo per metterle a nudo. Ero sul posto al momento in cui la gru è entrata in trazione, e ti assicuro ... sì, insomma, quelle radici lottavano come cose vive: resistevano, gemevano, e poi, quando sono emerse dalla terra, sembravano mani a cui si strappi una cosa cara. È fortuna che l' impresa ha spalle solide e una vecchia esperienza in trasporti eccezionali: per sollevare l' albero e portarlo via si sono dovute costruire macchine apposite, bloccare la circolazione sulla strada principale, mobilitare la polizia, tagliare e poi riconnettere diverse linee elettriche. Adesso il rovere sta in cima a una collina: ai suoi piedi l' impresa ha dovuto costruire una casetta e una tettoia identiche a quelle che la signorina ha dovuto abbandonare. _ Ed è soddisfatta, la signorina? _ Si è comportata in modo corretto. Dopo qualche mese ci ha scritto una lettera liberatoria, in cui dichiara che il rovere ha attecchito bene, e che anzi produce più ghiande di prima. Ha ceduto il terreno ad una quotazione decisamente modesta.

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ATTRAVERSO L'ATLANTICO IN PALLONE

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Salgari, Emilio 4 occorrenze

Il negro invece emise un urlo così acuto, da far temere che stesse per abbandonare la fune. "Ohè, saldo in gambe!" gridò O'Donnell. "Vuoi cadere fra le braccia del polipo? Mille bombe ... ! La faccenda diventa seria!" Guardò giù e mandò un lungo sospiro di sollievo, non scorgendo più l'orribile mostro. Senza dubbio era stato ferito o ucciso dalle sei pallottole e si era inabissato negli immensi baratri dell'oceano. "Era tempo!" mormorò O'Donnell. "Se avesse continuato ancora un po' a scuotere la corda, ci avrebbe fatto fare uri bel capitombolo." "O'Donnell!" gridò l'ingegnere, che dall'alto della navicella aveva seguito con angoscia inesprimibile quella scena. "Presente, Mister Kelly" rispose l'irlandese, che aveva sentito riacquistato il suo solito buon umore. "L'ancora è libera?" "Sì." "Siete feriti?" "No, ringraziando Iddio; ma quel dannato mostro ci ha profumati con una certa materia che si direbbe inchiostro, o qualcosa di simile. I caimani non puzzerebbero più di noi, ve l'assicuro." "Era un cefalopodo?" "Lo credo." "L'avevo sospettato. Fate salire Simone, poi tireremo su voi." "Ma se è mezzo morto di paura! Temo anzi di vederlo svenire da un momento all'altro." Ed era proprio vero. Pareva che il negro fosse diventato ebete per lo spavento provato. La sua pelle era grigia, cioè pallidissimo; dalle sue labbra uscivano parole tronche e senza senso, e i suoi occhi, stravolti, parevano fissi su di un punto immaginario e si illuminavano di quando in quando di certi lampi, simili a quelli che animano gli occhi dei pazzi. "Ehi, Simone!" disse O'Donnell. "Su, per Bacco! Coraggio! Vuoi rimanere qui fino a domani?" Il negro rispose con uno scroscio di risa; ma era uno di quegli scrosci che invece di mettere allegri fanno male. "Che sia diventato pazzo per la paura?" si chiese l'irlandese, impallidendo. "Non ci mancherebbe che questo per peggiorare la nostra situazione." "Ebbene?" chiese l'ingegnere. "Affrettatevi, che l'idrogeno comincia a dilatarsi." "Mister Kelly," disse O'Donnell, "io temo che il vostro servo deliri. Ride come un negro ubriaco o pazzo, e se l'abbandono sono certo che cada in mare." "Provate a scuoterlo." "È inutile: è un uomo mezzo morto. Mandatemi una corda con cui legarlo per bene, e poi cercherò di risalire io." "Ma vi sono trecentocinquanta metri." "Riposando sui nodi, spero di raggiungervi. Affrettatevi, che le mie forze se ne vanno." "Attento alla testa!" L'ingegnere circondò le guide-ropes di una fune e la lasciò scorrere: O'Donnell fu lesto ad afferrarla prima che gli precipitasse sulla testa. "Non muoverti, Simone." disse. Gli passò la corda sotto le ascelle più volte, poi attorno alle gambe, legandolo solidamente alla guide-rope. Quando fu certo di averlo assicurato in modo da impedirgli di cadere, anche se uno svenimento lo avesse colto, stringendo le mani e le ginocchia attorno alla fune, si mise a salire. La via era lunga; ma l'irlandese possedeva dei muscoli di ferro e un'agilità pari a quella del negro. Si riposò alcuni minuti sul primo nodo, poi raggiunse il secondo, che era lontano quindici metri, poi il terzo, quindi gli altri, impiegando quasi un'ora. L'ingegnere, appena lo vide sotto la navicella, lo afferrò tra le braccia e, facendo uno sforzo erculeo, lo trasse a bordo. "Auff!" esclamò O'Donnell. lasciandosi cadere di peso su una cassa. "Non no posso più, Mister Kelly. Se vi fossero stati altri venti metri, sarei caduto in fondo all'oceano." "Un marinaio non avrebbe fatto di più, mio bravo amico," disse l'ingegnere, porgendogli una bottiglia di whisky. "Grazie, Mister Kelly." rispose l'irlandese dopo aver ingollato parecchi sorsi. "E Simone?" "È sempre in fondo alla corda. Non si muoverà: l'ho legato come un salame. Temo che la paura gli abbia sconvolto il cervello." "Lo credete, O'Donnell?" chiose l'ingegnere, con emozione. "Temo: mi guardava in modo da farmi venire i brividi." "Affrettiamoci a issarlo, allora ... Chi avrebbe sospettato che quel negro fosse così pauroso? Eppure mi aveva dato qualche prova di coraggio." "Questo viaggio lo ha scombussolato." "Tuttavia, quando gli feci la proposta di seguirmi, egli accettò con grande gioia. Mi spiacerebbe assai avergli causato una disgrazia simile." "Sarà forse una esaltazione momentanea, causata dalla paura. Vi assicuro però che quel mostro faceva venire la pelle d'oca anche a me, per non dire che mi gelava il sangue. Per Giove e Saturno! Che occhi! Non li dimenticherò mai, dovessi vivere mille anni! Orsù, issiamo quel povero Simone."

"Prepariamoci ad abbandonare il Washington" disse l'ingegnere con una certa emozione. "Non lo salveremo dunque?" chiese O'Donnell, con dolore, "Io amo questo bravo pallone, che ci ha portati attraverso l'Atlantico." "È impossibile, O'Donnell. Le onde, che su queste coste sono assai violente, imprimeranno alla nostra scialuppa tali scosse da affondarla, se non la liberiamo dall'aerostato." "S'innalzerà solo, allora?" "Sì. O'Donnell." "E dove cadrà?" "Chi può dirlo? Forse assai lontano da qui, nell'interno della costa della Sierra Leone, o più oltre." "I negri lo crederanno la luna." "È probabile, O'Donnell, e chissà quanti preziosi talismani e feticci faranno con la seta." Il Washington s'abbassava bruscamente con estrema rapidità. Pareva che tutto ad un tratto fosse diventato estremamente pesante. "Ecco quello che temevo" disse l'ingegnere. "Preparatevi a tagliare le funi!" "Siamo pronti!" risposero O'Donnell e il mozzo. "Gettatevi ad armacollo i fucili e mettete delle munizioni nelle tasche. Non si sa mai ciò che può accadere." Il Washington precipitava sempre descrivendo però una traiettoria obliqua anziché verticale, essendo un po' sorretto dal vento. A quattrocento metri cadde dritto, rapidità vertiginosa. "Tenetevi stretti alle funi" ebbe appena il tempo di gridare l'ingegnere. La scialuppa non era che a pochi metri dall'oceano, i cui cavalloni muggivano sinistramente, come se fossero ansiosi d'inghiottire quell'immensa preda che cadeva dalle alte regioni dell'atmosfera. Ad un tratto gli aeronauti si trovarono fra le onde. La scialuppa, lasciata cadere così precipitosamente si era immersa, ed i marosi l'avevano coperta e rovesciata. "Tagliate le corde!" gridò l'ingegnere. "Affondiamo!" gridò O'Donnell. "La scialuppa è persa" "Tagliate ed aggrappatevi alla rete. Forse risaliremo. O'Donnell e il mozzo, che non avevano perso il loro sangue freddo, con pochi colpi di coltello recisero le funi. La scialuppa, piena d'acqua com'era, calò a picco, ma gli aeronauti avevano avuto il tempo di aggrapparsi alla barra di sostegno. Il Washington, alleggerito di quell'ultimo peso ebbe ancora la forza di risollevarsi a cinquecento metri, trasportando con sé l'ingegnere e i suoi compagni, che si erano seduti sull'asta stringendo con disperata energia le corde. "È finita!" disse O'Donnell "Tenetevi stretti, amici" disse l'ingegnere. "Ricadremo in mare?" "Lo temo, ma le isole sono a pochi passi da noi." Infatti, davanti a loro si stendevano le isole Bissagos. La più avanzata non distava che un miglio, e il vento spingeva l'aerostato verso di essa. Guardarono attentamente la spiaggia, ma non videro alcun abitante. Girando però lo sguardo verso l'ovest, scorsero un piccolo bastimento che veleggiava lungo le coste dell'isola, a una distanza di tre o quattro miglia. "Un altro legno da guerra?" disse O'Donnell. "No: è un piccolo veliero, un cutter mercantile." Disse l'ingegnere. "Guardate: l'equipaggio vira di bordo e mette la prua verso le coste settentrionali dell'isola." "Che ci abbiano scorti?" "Sì, O'Donnell, vengono in nostro aiuto." "Giungeranno in tempo?" In lontananza si udirono alcune detonazioni; era l'equipaggio della piccola nave che avvertiva gli aeronauti di averli visti. O'Donnell scaricò la grossa carabina che aveva salvato dal naufragio, mentre l'ingegnere scaricava il suo revolver. "Vengono," disse Kelly, "ma quando giungeranno qui noi saremo già caduti." "Vedete la nave da guerra?" chiese O'Donnell. "No" rispose l'ingegnere, che si trovava più in alto di tutti, essendosi aggrappato alle maglie. "Nemmeno il fumo?" "Mi pare di vedere laggiù come un sottile pennacchio. "Tanto meglio. E quel piccolo legno cosa sarà?" "Senza dubbio uno di quei legnetti che fanno il traffico delle coste per conto delle fattorie." "Speriamo che non sia inglese." "Probabilmente sarà francese o portoghese. "Cadiamo" disse Walter. "Non avrai paura, povero ragazzo?" chiese l'ingegnere. "No, signore" rispose il mozzo con voce ferma. "Procura di tenerti sempre vicino a me" disse O'Donnell. "So nuotare, signore, e le onde non mi fanno paura." "Bravo ragazzo!" "Attenzione!" gridò l'ingegnere. Il pallone cadeva a mille passi dalla spiaggia della prima isola. Si arrestò ancora un momento, poi precipitò fra le onde come una palla di cannone, ma appena gli uomini furono immersi, si sollevò bruscamente, tendendo le funi. "Tenetevi stretti!" gridò l'ingegnere. "Ci sorreggerà fino alla spiaggia." Il mare era agitato, le larghe ondate dell'Atlantico si frangevano contro quell'arcipelago di isole e isolotti e contro la costa africana, producendo quei furiosi flutti. I marosi si scagliavano rabbiosamente addosso agli aeronauti, quasi fossero bramosi di strapparli, li coprivano di spuma, li sbattevano in tutti i sensi assordandoli con lunghi muggiti. I due grandi fusi, che risentivano le scosse subite dai tre uomini, si abbassavano, poi si rialzavano, giravano su se stessi e si piegavano ora da un lato, ora dall'altro. Il vento, che s'ingolfava entro le loro pieghe, li trascinava però verso l'isola. Ad un tratto, fra i muggiti delle onde echeggiò un grido. Quasi contemporaneamente O'Donnell e l'ingegnere si sentirono tratti bruscamente fuori dall'acqua e trascinati rapidamente in alto. "Gran Dio!" esclamò O'Donnell, aggrappandosi prontamente alla rete. "Che cos'è accaduto?" "Walter! Walter!" gridò l'ingegnere, mentre l'aerostato, scaricato di quel peso, s'innalzava ancora in aria. Il mozzo, che le onde avevano strappato dall'asta alla quale era aggrappato, ricomparve fra la spuma nuotando vigorosamente e additò la spiaggia, lontana duecento metri. Il Washington, malgrado fosse quasi mezzo vuoto e inzuppato d'acqua, fu trascinato sopra i grandi boschi che coprivano l'isola. "Si salverà quel povero ragazzo?" "Nuotava vigorosamente" risposero l'ingegnere. "Toccherà la spiaggia senza fatica." "Lo ritroveremo?" "Lo cercheremo, O'Donnell. Cadiamo ancora." "Sui boschi?" "Meglio così: attenueremo l'urto. State attento ad aggrapparvi ai rami." "Vedete il piccolo bastimento?" "Sì, sta doppiando il capo settentrionale dell'isola." In quell'istante il sole scomparve all'orizzonte. Il Washington precipitava sopra i grandi boschi dell'isola.

e i suoi trenta aiutanti stanno per abbandonare le funi, si odono delle grida di rabbia: "È lui!", "Addosso, policemen," "Prendiamolo!", "Fermate! ... Fermate!" Quindici o venti policemen, guidati da alcuni capi, si precipitano nel recinto, correndo verso il pallone, ma ormai è troppo tardi. Il vascello aereo, libero, s'innalza maestosamente, trasportando con sé l'ingegnere, il suo negro e quello sconosciuto, giunto all'ultimo momento. "Scendete!" gridano i policemen, che sembrano furiosi. Uno di loro con un salto si aggrappa a una fune pendente dalla navicella; ma il vascello aereo, che deve avere una potenza ascensionale immensa, lo trascina con sé. Il pubblico scoppia in una clamorosa risata. Lo sconosciuto però, che pare si aspettasse un simile colpo di scena, si curva sul bordo della navicella e taglia la fune con un rapido colpo di coltello, facendo capitombolare sconciamente l'agente di polizia, e rovescia sul capo degli altri un sacco di zavorra, accecandoli. Una guardia estrae il revolver e lo punta in alto; ma il pubblico, che s'è riversato nel recinto come una fiumana, glielo strappa di mano, per tema che guasti quella meravigliosa nave aerea. Un ultimo immenso grido riecheggia: "Hurrah! Hurrah per Kelly! Viva il Washington!" I due palloni erano allora tanto alti che già parevano due sigari: si videro per alcuni istanti rasentare un grande nuvolone che si estendeva sopra l'oceano, poi sparire verso il nord, in direzione di Terranova. Quasi contemporaneamente una rapida nave a vapore, un incrociatore della Real Marina, usciva precipitosamente da Sidney e si slanciava sulle tracce degli aeronauti.

Tagliare la corda e abbandonare l'ancora?" "Sarebbe una grande imprudenza perdere uno dei nostri coni. Manderò Simone a vedere." "Lui! ... quel pauroso! ... Con il vostro permesso, andrò a vedere io, Mister Kelly." "Ci sono trecentocinquanta metri da discendere, e voi non potete tentare una così pericolosa impresa, O'Donnell. Simone è agile come una scimmia delle foreste africane e può toccare il cono senza stancarsi." "Ma come salirà poi?" "Lo solleveremo noi fino alla navicella, ritirando la fune. Orsù, Simone, prendi una rivoltella e và a vedere che cosa accade laggiù."

IL RE DEL MARE

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Salgari, Emilio 3 occorrenze

Certo, la voce che un corsaro batteva quei paraggi si era sparsa su tutte le isola della Sonda ed i piroscafi inglesi non avevano osato abbandonare i loro ancoraggi ed attendevano che la squadra di Labuan lo catturasse o lo affondasse. Sandokan e Yanez, quantunque molto preoccupati, dipendendo dall'abbondanza del carbone la loro salvezza, non erano però uomini da disperarsi. Potevano ancora percorrere, a velocità ridotta, tre o quattrocento miglia e spingersi quindi fino nei mari della Cina meridionale e, se lo avessero desiderato, tentare ancora qualche buon colpo. Non avevano però, almeno pel momento, alcun desiderio di allontanarsi troppo dalle coste del Borneo. Forse anche la flotta inglese dell'estremo Oriente doveva già essersi messa in moto per catturarli e non desideravano affrontarla con una così scarsa dotazione di carbone. - Aspettiamo, - aveva detto Sandokan a Tremal-Naik che lo interrogava sui suoi progetti. - Non ci conviene pel momento lasciare questi paraggi ed oltrepassare le isole Natuna e Bunguran. So bene che lassù le navi da predare non mi mancherebbero, se lo volessi; però anche qui il lavoro non ci mancherà. - Che cosa aspetti qui? Si direbbe che tu attenda qualche cosa? - Infatti, aspetto, - rispose Sandokan con un sorriso misterioso. - Desidero raccogliere, ad un tempo i due piccioni ed anche la fava. - Sono già quattro giorni che abbiamo lasciato le acque di Sarawak. - Il tempo per noi non ha valore. Aspettiamo dunque. - E quegli incrociatori che continuano l'inseguimento? - Certo, - rispose Sandokan, - ma dietro a chi? Io sono ormai convinto di averli ingannati e dubito molto di ritrovarli per ora sulla mia via. Per quarantott'ore il Re del Mare continuò a navigare verso il nord-ovest, spingendosi assai lontano dalle coste bornesi, poi, avendo nuovamente avvistate le isole Natuna e Bunguran, ripiegò verso levante, desiderando i due comandanti fare una punta a Bruni, la capitale del sultanato del Borneo, sapendo che era di quando in quando frequentato da piroscafi inglesi. Non dovevano ingannarsi. Avevano lasciate le isole da una quindicina di ore, quando una grossa nave si profilò sull'orizzonte limpidissimo. Era uno steamer a due ciminiere e tambure, che filava in direzione di Bruni, forse per far scalo colà prima di risalire verso i mari della Cina. La bandiera rossa che si vedeva ondeggiare a poppa, aveva confermato le speranze di Yanez e di Sandokan, i quali pareva che fiutassero da lontano le navi avversarie. Lo steamer, accortosi della presenza dell'incrociatore e anche dei suoi colori, dapprima aveva continuata la sua corsa verso il nordest, poi aveva bruscamente virato di bordo lanciandosi verso levante, onde cercare un rifugio in qualche baia del Borneo. Il suo comandante, prima della sua partenza dai porti dell'India, doveva aver ricevuto avviso della presenza d'un corsaro malese nelle acque dei mari della Sonda e si era subito dato alla fuga, non potendo impegnare la lotta. Il Re del Mare però, quantunque lo steamer corresse velocissimo e vomitasse torrenti di fumo dalle sue due ciminiere, segno certo che forzava le sue macchine, con un'abilissima manovra lo raggiunse, sparando dapprima una cannonata a polvere, poi a palla, per fargli meglio comprendere che era risoluto ad affrontarlo. Vedendo che non obbediva, e che anzi aumentava la velocità, con una seconda cannonata tirata da uno dei suoi pezzi da caccia gli sconquassò il cassero. Un momento dopo la bandiera bianca s'alzava sulle cime del trinchetto, mentre la velocità scemava. - Ha del fegato quel comandante, - disse Yanez, mentre si mettevano in acqua le scialuppe. - Disgraziatamente non possiamo essere generosi e quel superbo piroscafo andrà a raggiungere gli altri in fondo al mare della Malesia. Discese nella lancia a vapore e si diresse verso lo steamer seguìto da cinque scialuppe montate da settanta uomini, fra malesi e dayaki. Il piroscafo si era arrestato a dieci gomene dal Re del Mare. Era una magnifica nave, montata da numerosi passeggeri, i quali, muti, atterriti, aspettavano ansiosamente l'abbordaggio dei corsari. Il comandante, attorniato dai suoi ufficiali, non aveva abbandonato il ponte. Yanez fu il primo a salire a bordo. Attraversò la folla e si fece sotto il ponte di comando, dicendo al capitano dello steamer, che non si era mosso per incontrarlo: - Non siete troppo cortese, signore, verso un uomo che avrebbe potuto cannoneggiarvi. - Fatelo, se così vi piace, - rispose freddamente il comandante. - Io non mi oppongo. Pensate però che a bordo della mia nave vi sono cinquecento e più donne, molti fanciulli e molti uomini che non sono inglesi. - Avete scialuppe sufficienti per contenerli tutti, compreso l'equipaggio? - Sì. - La costa bornese non è lontana e il mare per ora non ha alcuna intenzione di guastarsi. Fate imbarcare tutti e andatevene, perchè il piroscafo non appartiene ora che a me. - I miei marinai ed i passeggeri sono liberi di abbandonare la nave, io resterò qui, qualunque cosa debba accadere, - disse l'inglese. - Io non cedo ai pirati di Mompracem. - Ah! ... Sapete chi noi siamo? Bravissimo: vi affonderò colla vostra nave. - Voi l'affonderete? ... - Ci appartiene per diritto di guerra e, non avendo alcun interesse per conservarla, la offriremo ai pesci. Vi accordo due ore e aspetto coll'orologio alla mano. - Vi ripeto che io non lascerò la nave, - rispose l'inglese con ostinazione. - Desidero affondare insieme ad essa. - Se non vi strapperemo colla forza dal ponte di comando, - rispose Yanez, impazientito. Il portoghese stava per ritornare verso i suoi uomini che aiutavano i marinai del piroscafo a mettere in acqua le scialuppe, quando si vide venire incontro un uomo piccolo, tozzo, col mento accuratamente rasato e che celava gli occhi sotto due occhiali affumicati. - Comandante, - gli disse lo sconosciuto, levandosi vivacemente il cappello e sbottonandosi una lunga zimarra di panno oscuro che pareva non gli desse alcun fastidio, nonostante il caldo intenso. - Voi siete uno di quei famosi pirati della Malesia? - Uno dei capi, - rispose Yanez, guardando con curiosità quell'omiciattolo panciuto e paffuto. - Allora mi prenderete con voi, perchè io stavo appunto cercando una nave che mi sbarcasse a Mompracem. - Noi non andammo in quell'isola, che d'altronde non è più in nostro possesso e non imbarchiamo altro che uomini di mare e di guerra. - Io volevo venire con voi per combattere gli inglesi, signore. Io conosco tutte le vostre meravigliose imprese. - Voi! - esclamò Yanez, con accento beffardo. - Voi non sapete chi sono io. - No di certo. - Il demonio della guerra, o meglio, se vi piace, il dottor Paddy O'Brien di Filadelfia, infine un uomo che potrà causare danni immensi agli inglesi. Ecco perchè, signore, voi non rifiuterete d'imbarcarmi sulla vostra nave assieme ai miei bagagli. Vi renderò dei preziosi servigi, tali da far stupire e anche tremare il mondo! ...

L'unico successo ottenuto era stata la demolizione della torricella che essendo troppo esposta, era caduta pezzo a pezzo, obbligando i difensori a ritirare la spingarda e ad abbandonare quel posto. Yanez cominciava ad annoiarsi. Uomo d'azione ed irrequieto, nonostante sembrasse l'uomo più flemmatico del mondo, trovava che la cosa andava troppo per le lunghe e che anche le sigarette, che consumava in quantità prodigiosa, non bastavano più a distrarlo. Eppure non mancava nulla nel kampong. I magazzini erano ben forniti, le tettoie erano piene di gabà, di quel bellissimo riso che coltivano i giavanesi e che supera di gran lunga quello di Rangoon, nel recinto interno le galline selvatiche razzolavano in gran numero pronte ad offrirsi agli stomachi degli assediati senza protestare; le frutta non facevano difetto e le cantine erano piene di enormi vasi di terra colmi di bram, quel forte liquore ottenuto dalla fermentazione del riso mescolato con zucchero e succhi di varie palme. Che più? La guarnigione poteva, nelle ore più calde del giorno, dissetarsi con del buon kalapa, quella bibita rinfrescante racchiusa nelle noci di cocco, essendovi delle piante di quella specie intorno all'aia e fumare senza risparmio del delizioso cortado, quei profumati sigari di Manilla e dei rokok giavanesi, piccoli sigaretti rotolati in una foglia secca di nipa, che sono così gradevoli. - Che cosa ti manca per annoiarti, amico? - gli chiese sul cader del quinto giorno l'indiano, vedendo che Yanez appariva più annoiato che mai. - Io credo che nessuna guarnigione si sia trovata fra tanta abbondanza. - Questa calma mi sfibra, - aveva risposto il portoghese. - Calma la chiami! Ma se le artiglierie del nemico tuonano da mane a sera! - Per bucare semplicemente dei panconi che non hanno mai fatto male ad alcuno e che non protestano. - Vorresti che le palle bucassero i nostri uomini? - Tu hai ragioni da vendere, mio caro Tremal-Naik, eppure io vorrei andarmene di qua. - Non hai che da far alzare la saracinesca. Io però al tuo posto preferirei passeggiare intorno al bengalow, - rispose l'indiano ridendo. - Io credo che la tua irrequietezza dipenda dall'assoluta mancanza di notizie di Sandokan. - Anche questo è vero. Vorrei sapere come si svolgono le cose a Mompracem e sospiro il ritorno di Kammamuri. - Lasciagli il tempo necessario. - Dovrebbe essere già qui. - La regione che ha dovuto attraversare per raggiungere la costa non è sempre sicura, mio Yanez, e può aver trovato sul suo cammino non pochi ostacoli. Saliamo sul terrazzo della saracinesca e andiamo a dare uno sguardo agli assedianti prima che il sole tramonti. Lasciarono il salotto dove avevano appena allora terminata la cena in compagnia di Darma e si portarono verso le cinte. Gli uomini di guardia, che erano i giavanesi, toccando a loro quella notte vegliare, stavano terminando il loro pasto serale, a cavalcioni dei parapetti divorando con invidiabile appetito i loro piatti stravaganti. Essi davan dentro, senza preoccuparsi delle palle dei nemici che di quando in quando si cacciavano nei panconi con sordo fragore, al blaciang, quel puzzolente intruglio formato di gamberetti e di piccoli pesci conservati entro vasi di terra e lasciati a fermentare fino a corrompersi; o all'ud-ang, una specie di pasta formata di crostacei seccati e poi ridotti in polvere; o ai pasticci di laron, formati con larve di termiti, un piatto scelto e gustosissimo pei palati giavanesi e malesi. Pareva che l'assedio non avesse ancora guastato l'appetito di quei bravi, dal lavoro energico che compivano i loro denti neri come chiodi di garofano, per l'abuso del siri e del betel. Yanez e Tremal-Naik erano appena saliti sul parapetto, quando notarono nei campi dei dayaki un certo movimento. Dei capi radunavano attorno a loro numerosi guerrieri e pareva che facessero loro dei discorsi infuocati a giudicare dall'agitarsi furioso delle braccia, mentre in altri luoghi si eseguivano le danze guerresche dei kampilang e dei kriss. Il sole in quel momento stava per tramontare fra un denso nuvolone nero che pareva saturo di elettricità e che aveva i margini color del rame. - Un attacco ed un uragano? - si chiese Yanez che aspirava l'aria che era diventata estremamente secca. - Che cosa ne dici, Tremal-Naik? - Una bufera l'avremo questa notte, - rispose l'indiano, che guardava pure il nuvolone il quale si allargava a vista d'occhio. - Con accompagnamento di fuoco celeste e terrestre. Io sono certo che i dayaki, stanchi di cannoneggiare inutilmente le nostre cinte, approfitteranno della tromba d'acqua per venire all'attacco. - Ed il momento non sarebbe davvero male scelto. Si spara male quando si ha l'acqua in volto. - Copriamo le terrazze, Tremal-Naik. In mezz'ora i nostri uomini possono alzare delle tettoie per riparare almeno gli artiglieri. Per Giove! Che questa volta ci prendano davvero? - Finchè avremo del caucciù non lo credo. - Fa' riempire tutte le pentole che possiedi. - Vo a dare l'ordine, - rispose l'indiano scendendo precipitosamente. Yanez stava per recarsi verso l'angolo della cinta, dove si trovava una spingarda, quando una freccia lanciata probabilmente da un sumpitan, ossia da una cerbottana, sibilò dinanzi a lui piantandosi contro uno dei pali che reggevano il terrazzo. - Ah! Traditori! - esclamò Yanez, balzando verso il parapetto con una pistola in mano. Guardò sotto le piante, mentre Sambigliong che stava mettendo in batteria la spingarda, accortosi del pericolo che aveva minacciato il portoghese, accorreva armato d'una carabina. Nessun ramo si agitava, nè alcun rumore turbava il silenzio che regnava sotto gli arbusti spinosi fiancheggianti la cinta. - L'avete veduto quel briccone, capitano? - chiese il mastro. - Deve essere scappato subito, - rispose Yanez. - E forse quella freccia era avvelenata col succo dell'upas. - Vediamo, - disse il portoghese, dirigendosi verso il palo. Ad un tratto gli sfuggì un grido di stupore. - Una freccia messaggera! - esclamò. All'estremità del dardo, il cui cannello era solidissimo, aveva scorto qualche cosa di bianco, come un pezzo di carta arrotolata intorno al fusto. - Allora non si tratta di un tentato assassinio della mia rispettabile persona, - disse. Strappò la freccia, la cui punta, formata da una spina acutissima, si era infissa profondamente nel legno e ruppe il filo che teneva la carta stretta attorno al cannello. - Signor Yanez, - disse Sambigliong, - che i dayaki si servano ora delle frecce per mandare le lettere a destinazione? Ecco un servizio postale di nuovo genere. - Che cosa c'è dunque? - chiese in quel momento Tremal-Naik, che aveva già dati gli ordini e tornava con Darma. - Un portalettere sconosciuto che mi ha rimessa questa carta sulla punta di una freccia, - rispose Yanez. - Che contenga una intimazione di resa? Svolse con precauzione la carta che era coperta di caratteri grossolani, vi gettò sopra uno sguardo, poi mandò un grido di gioia: - Kammamuri! - Il mio maharatto - esclamò Tremal-Naik. - Leggi, leggi Yanez! "Sono nei dintorni del campo da stamane" scriveva il maharatto in inglese "e questa notte cercherò d'introdurmi nella fattoria con l'aiuto d'un ex servo che è ora fra i ribelli. Lasciate pendere una fune dall'angolo che guarda verso il sud e preparatevi alla difesa. I dayaki sono pronti ad assalirvi. KAMMAMURI" - Quel bravo maharatto qui! - esclamò Tremal-Naik. - Deve aver divorata la via per essere giunto così presto. - Che sia solo? - chiese Darma. - Se avesse dei Tigrotti in sua compagnia l'avrebbe scritto, - rispose Yanez. - Avrà almeno la tigre, - disse Tremal-Naik. - A meno che non gliela abbiano uccisa! - disse Yanez. - Chi può essere quell'ex servo che l'aiuta? - Ve ne devono essere parecchi fra i ribelli, - rispose Tremal-Naik. - Ne avevo una ventina di dayaki e non me n'è rimasto più uno dopo la comparsa del pellegrino. - Signor Yanez, - disse Sambigliong, - mi troverò io questa notte verso l'angolo che guarda al sud. - Tu sarai più necessario qui che colà, - rispose il portoghese. - Non hai udito che i dayaki si preparano ad assalirci? Manderemo Tangusa col pilota. E ora, amici, prepariamoci a sostenere il secondo attacco, che sarà forse più formidabile del primo e non dimenticate che se i dayaki entrano qui le nostre teste andranno ad arricchire le loro collezioni. La notte era allora calata, una notte oscurissima, che nulla prometteva di buono. La nube nera aveva invaso tutto il cielo, coprendo rapidamente gli astri e verso il sud balenava. Una calma pesante regnava sulla pianura e sulle foreste. L'aria era soffocante al punto da rendere difficile la respirazione e così satura d'elettricità che tutti gli uomini del kampong provavano una viva irrequietezza ed un vero senso di malessere. Anche nei campi dei dayaki tutto era oscuro e di là non proveniva alcun rumore. I lilà ed il mirim da qualche ora non tuonavano più. I difensori del kampong, dopo aver costruite frettolosamente le tettoie per riparare le spingarde, si erano sdraiati sui larghi parapetti delle terrazze, con le carabine a portata di mano, ascoltando ansiosamente i rumori del largo. Yanez, Tremal-Naik e una mezza dozzina di Tigrotti vegliavano sopra la saracinesca, dove avevano piazzata anche la bocca da fuoco che avevano ritirata dalla torricella. Entrambi erano un po' nervosi e preoccupati. Quel silenzio che regnava negli accampamenti dei dayaki produceva su di loro maggior impressione che un fuoco violentissimo. - Preferirei un attacco furioso a questa calma, - disse Yanez che fumava rabbiosamente un cortado masticandone la punta. - Che si avanzino strisciando come serpenti? - È probabile, - rispose Tremai-Naik. - Non si faranno vivi che quando avranno attraversata la pianura e saranno giunti sotto le piante. - O che aspettino l'uragano per rendere meno efficaci le nostre carabine? Quando qui piove è un diluvio che si rovescia. - Il caucciù li calmerà e surrogherà le palle. Tutti i vasi disponibili sono al fuoco. L'uragano intanto si addensava. Qualche soffio d'aria giungeva facendo curvare le cime degli arbusti spinosi con mille fruscii; verso il sud tuonava e lampeggiava. La gran voce della tempesta suonava la carica. Ad un tratto un lampo immenso, simile a una enorme scimitarra, tagliò in due l'enorme nube gravida di pioggia, poi si seguirono dei fragori paurosi. Pareva che lassù, nella volta celeste, si fosse impegnato un duello fra grossi cannoni di marina o da costa e che dei carri carichi di lamine di ferro corressero all'impazzata su dei ponti metallici. Quel fracasso durò due o tre minuti con grande accompagnamento di lampi, poi le cateratte del cielo si aprirono ed una vera tromba d'acqua si rovesciò furiosamente sulla pianura. Quasi nel medesimo istante si udirono le sentinelle collocate agli angoli delle cinte gridare: - All'armi! Ecco il nemico! Yanez e Tremal-Naik, che si erano coricati sul parapetto, erano balzati in piedi. - Alle spingarde! - aveva gridato il portoghese con voce tuonante. Alla luce dei lampi, luce vivissima perchè era un bagliore continuo, con incessante accompagnamento di tuoni formidabili, si vedevano i dayaki attraversare la pianura a corsa sfrenata, a gruppi, a drappelli, coi loro giganteschi scudi alzati per proteggersi dai rovesci d'acqua. Parevano demoni vomitati dall'inferno e l'illusione, con quel lampeggiare che proiettava sulla terra fasci di luce ora rossastra e ora livida, ora cadaverica, era perfetta. Le spingarde, che come dicemmo erano state coperte a tempo colle tettoie, avevano cominciato a sparare furiosamente, falciando le cime degli arbusti spinosi prima che la mitraglia cadesse sulla pianura. Anche i malesi, i giavanesi ed i pirati che non erano occupati al servizio delle bocche da fuoco, sparavano come meglio potevano, rannicchiati dietro i parapetti, ma l'acqua che cadeva era tanta e tanta che il più delle volte le carabine facevano cilecca. La bufera rendeva la difesa estremamente difficile con le armi da fuoco, e non accennava a calmarsi, anzi! È vero che non doveva durare molto; gli uragani che scoppiano in quelle regioni acquistano una intensità spaventevole, di cui non possiamo farci un'idea, ma ordinariamente non si prolungano al di là d'una mezz'ora. Anzi, talvolta cessano dopo pochi minuti. Che furia però in quel brevissimo tempo! Pare che l'universo intero vada a catafascio o che un incendio immenso lo divori, nonostante le trombe d'acqua che si rovesciano dal cielo. La nube nera pareva che fosse diventata di fuoco e che tutti i venti si fossero concentrati sulla pianura stendendosi intorno al kampong di Tremal-Naik. Gli alberi si torcevano come fossero semplici fuscelli; i giganteschi durion che pareva dovessero sfidare le più tremende convulsioni terrestri e celesti, rovinavano al suolo sradicati da quelle raffiche irresistibili; i poderosi pombo si spogliavano rapidamente dei loro rami; le gigantesche foglie delle palme e dei banani volavano per l'aria come mostruosi volatili. Acqua, vento e fuoco si mescolavano gareggiando di violenza, mentre in alto, sulla cima della cupola fiammeggiante, i tuoni facevano udire la poderosa voce della tempesta, soffocando completamente i rombi del mirim, dei lilà e delle spingarde. I difensori del kampong, quantunque accecati dai lampi e affogati sotto quei getti d'acqua colossali, non si smarrivano d'animo e mantenevano il loro fuoco vivissimo mitragliando le orde selvagge che si avanzavano mescendo le loro urla ai tuoni del cielo. - Non arrestatevi! - gridavano senza posa Yanez, Tremal-Naik e Sambigliong, che si trovavano sotto la tettoia che riparava la spingarda della saracinesca. I dayaki che non subivano già grosse perdite, non marciando più in colonna, ben presto giunsero sotto le piante spinose che si misero a sciabolare furiosamente coi loro pesanti kampilang, per aprirsi un varco che permettesse loro di montare liberamente all'assalto della cinta. Tutto il loro sforzo si era concentrato verso le saracinesche che ormai conoscevano. Era quello il punto più solido del kampong, ma anche quello che offriva maggiori probabilità di poter invadere la fattoria. Alcuni drappelli si erano muniti di travi pesanti per servirsene come di arieti e sfondare i panconi della cinta. Yanez e Tremal-Naik, comprendendo che stavano per giuocare la loro ultima carta, avevano fatti accorrere tutti i servi del kampong coi pentoloni colmi di caucciù. Quel liquido terribile, ancora una volta, poteva rendere maggiori servigi che le armi da fuoco. I dayaki, che massacravano rapidamente gli arbusti spinosi, giungevano. Un drappello dopo essersi aperto un largo sentiero, sbucò sotto la cinta ed assalì risolutamente la saracinesca percuotendola poderosamente con un tronco d'albero spinto innanzi da trenta o quaranta braccia. Una pioggia di caucciù bollente, che cadde sulle loro teste, bruciando ad un tempo i loro capelli e la cotenna, li costrinse ad abbandonare precipitosamente l'impresa. Un altro non ebbe miglior fortuna; ma giungeva il grosso che la mitraglia delle spingarde non era riuscita a trattenere. Due o trecento uomini, resi furibondi dall'ostinata resistenza che opponevano gli assediati, si rovesciarono contro la cinta appoggiando ai parapetti delle grosse canne di bambù per dare la scalata alle terrazze. Alle grida di Yanez e di Tremal-Naik, tutti gli uomini del kampong erano accorsi da quella parte, non lasciando che pochi artiglieri alle spingarde. Avevano gettate le carabine, diventate quasi inutili con quell'acquazzone che non cessava ancora, ed avevano impugnati i parangs, armi non meno pesanti e non meno taglienti dei kampilang dei dayaki. Gli assalitori, nonostante gli spruzzi abbondanti del liquido infernale, montavano intrepidamente all'attacco con un coraggio disperato, mandando clamori orribili. I primi che giungono sui parapetti, rotolano nel fossato sottostante con le mani tagliate o la testa spaccata, ma altri ne sopraggiungono menando formidabili colpi di kampilang per allontanare i difensori. Si arrampicano come le scimmie, su pei bambù o balzandosi l'uno addosso all'altro formano delle piramidi umane che nemmeno il caucciù, che continua a venire versato, riesce a scuotere. Mandano urla spaventevoli, la loro pelle cade a brandelli e fuma, eppure quei fanatici, incoraggiati dalla voce del pellegrino che echeggia in mezzo alle piante spinose, resistono con una tenacia che fa impallidire Yanez, il quale comincia a perdere buona parte della sua fiducia. I difensori del kampong, soprattutto i Tigrotti della Malesia, non dimostrano tuttavia meno tenacia, nè meno coraggio degli assalitori. I loro parangs, manovrati da braccia solide, tagliano nel vivo e mutilano orrendamente quelli che riescono a issarsi sui parapetti. Mentre i dayaki urlano: - Allah! Allah! Allah! -, nè più nè meno dei fanatici mussulmani delle sabbiose terre dell'Arabia, i pirati di Yanez rispondono con non meno entusiasmo: - Viva Mompracem! Largo alle tigri dell'arcipelago! Il sangue scorre a fiotti. Le palizzate della cinta grondano e le terrazze si arrossano. Da una parte e dall'altra combattono con pari furore, mentre l'uragano imperversa sempre e somministra la luce ai combattenti onde possano scannarsi meglio. La tenacia e il coraggio dei dayaki, non guadagnano gran che. Tre volte i guerrieri del pellegrino, tutto sfidando, il fuoco delle spingarde collocate agli angoli che li prende di fianco con bordate di chiodi, i getti di caucciù ed i parangs che li mutilano, sono mandati all'assalto e hanno raggiunti e anche scavalcati i parapetti e tre volte sono stati costretti a lasciarsi cadere nei fossati già pieni di morti e di feriti. - Ancora uno sforzo! - urla Yanez, che vede gli assalitori esitare. - Uno sforzo ancora e avremo ragione di questi testardi. Le spingarde raddoppiano il fuoco ed i malesi e i giavanesi, che hanno avuto un momento di riposo, tornano a tagliare nel vivo, mentre i servi rovesciano gli ultimi vasi contenenti il caucciù. L'attacco si rallenta, i dayaki tentano per la quarta volta la scalata, non più con lo slancio e col fanatismo di prima. La paura comincia ad impossessarsi dei loro animi. Non invocano nemmeno più Allah. Tuttavia il loro ultimo sforzo non è meno pericoloso. Sono ancora in buon numero, mentre la guarnigione si è assottigliata non poco, esposta al fuoco di alcuni tiratori nascosti sotto gli arbusti. E poi la stanchezza comincia a farsi sentire. Le lunghe sciabole pesano nelle mani dei malesi e dei giavanesi, se non in quelle dei Tigrotti di Mompracem. I tagliatori di teste tornano ad arrampicarsi, mentre i loro compagni che sono nel fossato, tentano con uno sforzo supremo di aprire una breccia nella saracinesca percuotendo i panconi colle travi. Guai se i difensori si perdono d'animo. È finita per tutti. Anche per la graziosa Darma! Yanez volta la spingarda in modo che la mitraglia rada il parapetto, gridando contemporaneamente ai suoi uomini che stanno per avventarsi sugli assalitori che già si preparano a balzare sulle terrazze: - Indietro ... un momento solo! Il colpo parte e la mitraglia spazza da un angolo all'altro della cinta, tutto il parapetto, fulminando o storpiando quanti nemici si trovano sopra. Nel medesimo tempo i servi rovesciano tutte le caldaie ancora rimaste su coloro che s'accaniscono contro la saracinesca. Il fumo si era appena dileguato, quando una tigre superba si scaglia sul parapetto mandando un aoung ferocissimo, abbranca un dayako rimasto sospeso e miracolosamente illeso e gli pianta i denti nel cranio. Alla vista di quel terribile carnivoro che i lampi incessanti mostrano come se fosse di pieno giorno, un terrore invincibile invade gli assalitori. Se anche le belve della foresta accorrono in aiuto dell'uomo bianco e dell'indiano, vuol dire che gli uomini sono più potenti del pellegrino della Mecca. La ritirata si converte in pochi istanti in una fuga precipitosa, disordinata. Dei selvaggi gettano perfino gli scudi e i kampilang per correre più lesti. Più nessuno obbedisce ai capi, nè alle grida del pellegrino che invano si sfiata a urlare: - Avanti per Allah! Maometto vi protegge! Non erano dopotutto così sciocchi per accorgersi che Allah ed il Profeta non li avevano affatto protetti. Mentre scappavano a rotta di collo, spronati dai tiri delle spingarde, un uomo si era slanciato sulla terrazza, muovendo rapidamente verso Yanez e Tremal-Naik. Era anche quello un bel tipo di indiano di circa quarant'anni, meno alto di Tremal-Naik ed invece più membruto, dalla pelle abbronzata con certi riflessi dell'ottone, che spiccava vivamente sul suo vestito bianco, cogli occhi nerissimi e fieri ed i lineamenti fini ad un tempo ed energici. Vedendolo Yanez aveva mandato un grido di gioia: - Kammamuri! - Il mio bravo maharatto! - aveva esclamato dal canto suo Tremal-Naik. - Arrivo troppo tardi, - rispose il nuovo arrivato, - è vero padrone? - In tempo per vedere i talloni dei dayaki, - rispose Tremal-Naik. - Sei salito in questo momento? - chiese il portoghese. - Sì, signor Yanez, ed è stato un vero miracolo se i vostri uomini non mi hanno ucciso. Mi arrampicavo sulla fune e proprio nel momento che tiravano una bordata di chiodi. - Sei stato a Mompracem? - Sì, signor Yanez. - Dunque hai veduto la Tigre della Malesia? - L'ho lasciata sette giorni or sono. - Sei giunto solo? - Solo, signor Yanez. - Non hai condotto alcun rinforzo? - No. - Va'a rifocillarti, che devi essere stremato dalle privazioni. Fra poco noi saremo da te, - disse Tremal-Naik. - Yanez, diamo gli ultimi colpi ai fuggiaschi e tu, Darma, - gridò, volgendosi verso la tigre, che portava il medesimo nome di sua figlia, - lascia quell'uomo e vattene in cucina.

- Colla speranza che noi approfittiamo della loro ritirata per abbandonare il kampong e poi assalirci in piena foresta con tutte le loro forze. No, mio caro Tremal-Naik, non sarò così sciocco io, da abboccare all'amo. Finchè non sapremo la sorte toccata alla mia Marianna, noi non lasceremo questa fattoria dove potremo difenderci lungamente, nel caso che il mio equipaggio sia stato distrutto. Mettiamo qui una sentinella e pel momento non preoccupiamoci delle manovre insidiose di quei furfanti. - Signor Yanez, - disse Darma. - Venite a prendere un po' di riposo, intanto, ed a far colazione. Non udendo più alcun colpo di cannone, quantunque fossero tutti angosciati per la sorte che poteva essere toccata all'equipaggio della Marianna, scesero nella sala pianterrena dove i servi del kampong avevano preparata un'abbondante refezione all'inglese, con carne fredda, burro e thè con biscotti. Terminato il pasto e mandato il meticcio sulla torricella onde li avvertisse delle mosse degli assedianti, fecero una minuta ispezione alle cinte e alle opere di difesa, onde essere pronti a sostenere anche un lungo assedio. Erano trascorse già tre ore dallo scoppio, quando udirono Tangusa gridare dall'alto del minareto: - All'armi! E subito dopo rimbombarono alcuni spari. Yanez e Tremal-Naik si erano precipitati verso la piattaforma più alta della cinta, da cui potevano dominare buon tratto della pianura. Vi erano appena giunti, quando videro un piccolo drappello d'uomini uscire dalla foresta a corsa sfrenata, sparando sui dayaki che accorrevano da tutte le parti come per tagliare loro il passo. Due grida erano sfuggite alle labbra del portoghese e dell'indiano: - Le tigri di Mompracem! Sambigliong! Poi lanciarono due grida tuonanti: - Fuoco le spingarde! - Alzate la saracinesca ai nostri amici! I pirati che avevano scortato Yanez, vedendo i loro compagni alle prese cogli assedianti, si erano gettati sulle tre spingarde che difendevano la cinta dalla parte meridionale, scaricando quasi contemporaneamente. I dayaki, udendo quegli spari e vedendo cadere parecchi compagni, avevano aperte le file rifugiandosi precipitosamente nella foresta. Sambigliong e il suo drappello, trovando il passo libero, si erano slanciati verso il kampong a tutta corsa, non cessando di sparare. La saracinesca era stata alzata e parte della guarnigione era mossa incontro a loro per sostenerli nel caso che i dayaki tornassero alla riscossa e anche per guidarli attraverso il boschetto spinoso. I superstiti della Marianna non erano che una mezza dozzina. Erano neri di polvere, madidi di sudore, ansanti, colle vesti stracciate e insanguinate ed avevano la schiuma alle labbra per la lunga corsa che doveva essere durata non meno di tre ore. Il corriere, che conosceva la via, per fortuna era insieme a loro. - La mia nave? - gridò Yanez, correndo incontro a Sambigliong. - Saltata, capitano, - rispose il mastro con voce rantolante. - Da chi? - Da noi ... non potevamo più resistere ... erano centinaia e centinaia di selvaggi che ci piombavano addosso ... tutti i nostri compagni sono stati uccisi ... anche i feriti ... ho preferito dar fuoco alle polveri ... - Sei un valoroso, - gli disse Yanez, con voce profondamente commossa. - Capitano ... vengono ... sono molti ... preparatevi alla resistenza. - Ah! vengono! - esclamò Yanez con voce terribile. - Vendicheremo i nostri morti!

I FIGLI DELL'ARIA

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Salgari, Emilio 3 occorrenze

Lo "Sparviero", raggiunta l'altezza voluta, stava filando sopra i pini e gli aceri, quando Rokoff e il capitano videro il macchinista abbandonare precipitosamente la macchina. - Che cosa c'è ancora? - chiese il comandante, stupito. - Signore ... - balbettò il giovane pallido come un morto. - La tigre è a bordo! ... - Ma tu vaneggi, giovanotto mio - disse Rokoff. - Tu hai una tigrite acuta indosso. - Ho udito ... un grido rauco ... là ... sotto il boccaporto ... - Per l'inferno! - esclamò il capitano, impallidendo. - Possibile! Stava per slanciarsi a prora onde prendere le carabine, quando vide sorgere dal boccaporto una testa che lo fece retrocedere precipitosamente. Un animale si era aggrappato al margine della botola e tentava di giungere sul ponte. Era una bestia superba che rassomigliava un po' alle tigri, di corporatura massiccia, con zampe corte, la testa allungata col muso sporgente e il pelame grigio biancastro a riflessi giallastri, sparso di macchie nere di forma circolare. Un animale pericoloso senza dubbio. Se non raggiungeva la mole delle grandi tigri reali, non la cedeva di certo, per grossezza, a quelle comuni. Pareva molto sorpreso e fors'anche spaventato di sentire il fuso ondulare. I suoi grandi occhi dalle pupille giallastre, manifestavano un vivo terrore e il suo pelame era irto. - Un irbis! - aveva esclamato il capitano. - Un leopardo delle nevi! Badate! Vale una tigre! - Per le steppe del Don! - gridò Rokoff. - E i fucili sono a prora! ... - Non muovetevi! - Comandò il capitano. - L'irbis potrebbe precipitare l'assalto. II cosacco, invece di obbedire, fece due passi innanzi e s'impadronì rapidamente d'una specie d'arpione, che serviva al macchinista per tendere la seta dei piani inclinati. - Almeno servirà a qualche cosa - disse, raggiungendo sollecitamente i compagni. - La punta è acuta e forerà la pelle della belva. - Se potessimo abbassarci, l'irbis sarebbe ben contento d'andarsene - disse Fedoro. - Mi pare che sia più spaventato di noi. - Bisognerebbe avvicinarsi alla macchina - rispose il capitano. - Chi oserebbe farlo? - Volete che provi io? - chiese Rokoff. - No, sarebbe troppo pericolosa una tale mossa. - Volete continuare il viaggio con un simile compagno? Non oserei chiudere gli occhi. - Come abbassarci? - chiese Fedoro. - Non v'è alcun mezzo, capitano? - Nessuno se non rallentiamo la battuta delle ali - rispose il comandante. - Ah! Pare che si decida a sgombrare! Se si provasse a saltare! - Un capitombolo di quattrocento metri! Non lo tenterò di certo - disse Rokoff. L'irbis, dopo essere rimasto qualche minuto immobile presso il boccaporto, rannicchiato su se stesso, aveva fatto un passo indietro, senza staccare gli occhi dai quattro aeronauti. Non pareva troppo contento di quel viaggio intrapreso involontariamente. Brontolava sordamente, arricciava il pelo e agitava nervosamente la lunga coda inanellata. Di quando in quando un brivido lo faceva sussultare e girava la testa a diritta e a manca come se cercasse di scorgere qualche albero su cui slanciarsi. Aveva cominciato a indietreggiare lentamente allungando, con precauzione, prima una zampa e poi le altre, senza abbandonare tuttavia la sua posa d'assalto. Vedendo Rokoff fare un passo innanzi coll'arpione teso, arrestò la sua marcia retrograda e si raccolse su se stesso come fanno i gatti quando si preparano a slanciarsi sul topo. Aprì le formidabili mascelle, mostrando due file di denti, bianchi come l'avorio e aguzzi come triangoli, mandando un rauco brontolio che finì in un soffio poderoso. - No, Rokoff! - disse Fedoro. - Si prepara ad assalirci. - Fermatevi - comandò il capitano, il quale si era impadronito d'una pesante cassa per scaraventarla contro la belva, nel caso si fosse slanciata innanzi. - Lasciatela indietreggiare. - Finiamola - disse il cosacco. - Siamo in quattro. - E tre sono inermi - disse Fedoro. - Vuoi farci sbranare? - Lasciate che si allontani dalla macchina - rispose il capitano. - Poi scenderemo. L'irbis stette qualche po' immobile, continuando a brontolare, poi con un balzo di fianco si avventò verso la balaustrata, aggrappandosi ai ferri e guardando abbasso. Per un momento i quattro aeronauti credettero che si slanciasse nel vuoto; la loro speranza però ebbe la durata di pochi secondi. La fiera, spaventata dall'abisso che le si apriva dinanzi, si era lasciata ricadere sul ponte. Tremava, come se avesse la febbre e gettava all'intorno sguardi smarriti, nei quali però balenava sempre un lampo di ferocia. Ricominciò a retrocedere verso la prora, guatando cupamente gli aeronauti che non osavano ancora muoversi e si rannicchiò dietro una cassa, manifestando la sua rabbia con frequenti brontolii e con un incessante agitare della coda. - La macchina è libera - disse Rokoff. - Approfittiamone. - Lasciate fare a me - rispose il capitano. - Voi non muovetevi. - Non vi assalirà? - Può darsi. - Allora signore vi domando il permesso di affrontare io il pericolo. Voi siete il capitano e dovete essere l'ultimo a esporre la vostra vita. - Ma anch'io reclamo l'onore di farmi divorare per salvare voi - disse Fedoro. - Né l'uno né l'altro - rispose il comandante. - D'altronde voi non sapete maneggiare la macchina. Vedendo poi che il russo ed il cosacco aprivano le labbra per replicare, aggiunse con voce quasi dura: - Basta, signori. Mi rincresce ricordarvi che il capitano sono io e che perciò voi mi dovete obbedienza assoluta. Poi con un sangue freddo ed un'audacia ammirabile, s'avanzò verso la macchina, dardeggiando sulla fiera uno sguardo che pareva di sfida. L'irbis non si era mosso; solamente le sue poderose unghie si erano infisse profondamente sulla cassa, sgretolando il legno. Il capitano fece agire la leva, poi retrocesse tranquillamente, senza staccare i suoi occhi dal feroce avversario. - Ecco fatto - disse con una voce perfettamente tranquilla. - Fra cinque minuti saremo a terra. Lo "Sparviero" cominciava infatti a discendere. Il movimento delle eliche era stato arrestato e le ali non battevano più che leggermente. - Dove cadremo? - chiese Rokoff. Il capitano si curvò sulla balaustrata. La collina era stata attraversata e l'aerotreno scendeva sul deserto che in quel luogo era coperto da un lieve strato di neve già indurita dal gelido vento del settentrione. - Tutto va bene - disse. - Tenetevi pronti ad afferrare le carabine, appena il leopardo ci lascerà. Lo "Sparviero", sorretto solamente dai piani inclinati, continuava ad abbassarsi dolcemente. L'irbis sempre più spaventato dalle ondulazioni che subiva il fuso, continuava a brontolare e a dare segni d'inquietudine. S'alzava sulle zampe posteriori fiutando rumorosamente l'aria e girava continuamente la testa in tutti i sensi. A un tratto avvenne un urto: lo "Sparviero" aveva toccato terra. - Attenzione! - gridò il capitano. Il leopardo con un salto immenso aveva varcata la balaustrata precipitandosi sulla neve. Stette un momento immobile, stupito forse di trovarsi a terra, poi spiccò tre o quattro salti dirigendosi verso un gruppetto di betulle nane. Il capitano, Rokoff e Fedoro si erano precipitati sulle carabine. - Fuoco! ... Tre spari rimbombarono formando quasi una sola detonazione. Il leopardo che si trovava a solo cento passi dal fuso, si rizzò di colpo mandando un urlo prolungato, girò due volte su se stesso, poi cadde in mezzo alla neve, agitando pazzamente le zampe. Quasi nel medesimo istante si udirono dei clamori selvaggi, poi degli spari. - Mille folgori! - esclamò Rokoff. - Che cosa succede ancora? - I mongoli! - gridò il capitano. - Su, alziamoci! - E il leopardo? - Lo lasceremo a quei banditi; ci manca il tempo di raccoglierlo. Presto: grandina e s'avanzano al galoppo. Un istante dopo lo "Sparviero" s'alzava maestosamente, salutato da una scarica di fucili.

Lo jack si era arenato su un banco di sabbia e una quarantina di brutti avvoltoi, col collo spellato e rognoso, le penne oscure ed arruffate, stavano dilaniandolo con ingordigia feroce; ci vollero molte sassate prima di deciderli ad abbandonare l'enorme preda che avevano già intaccata in più parti, aprendo dei buchi considerevoli. Vi era però ancora tanta carne, da assicurare i viveri per un mese intero ai cinque aeronauti. Nelle continue cadute l'animale era stato ridotto in deplorevoli condizioni. Gambe e costole erano state fracassate e la carne in più luoghi sbrindellata. - Sarà più frolla - disse Rokoff. Lo "Sparviero" giungeva volando a pochi metri dal suolo. Si posò a cinquanta passi dalla riva ed il macchinista, e l'uomo silenzioso scesero armati di scuri. Due ore dopo lo jack, ridotto a pezzi, gelava nella ghiacciaia dello "Sparviero".

Suo primo pensiero era stato quello di abbandonare subito il monastero assieme a Fedoro, ma il tempo gli era mancato, perché i monaci avevano invaso l'appartamento dei due falsi figli di Buddha, rendendo impossibile qualsiasi evasione. I due disgraziati, dopo una lotta disperata, erano stati atterrati, legati, e lì per lì condannati a essere divorati vivi dalle aquile e quindi condotti sull'alta montagna, dove avrebbero certamente lasciato la loro pelle, senza il provvidenziale arrivo dello "Sparviero". Il capitano aveva ascoltato quelle comiche avventure, ridendo a crepapelle. Perfino il muto personaggio non aveva saputo frenare più volte un sorriso. - Povero signor Rokoff! - esclamò il comandante. - E tutto in causa di quel sermone. - E un po' del sciam-sciù che avevo tracannato per farmi coraggio. - Chissà quante ne avrete dette sul conto di quel povero Buddha. - Credo di averlo paragonato a un gran diavolo con venti o trenta corna. Se aveste visto che smorfie faceva il vecchio Bogdo-Lama e che occhiate furiose mi lanciava! - Ne sono convinto. È stata una vera fortuna che quei buddisti abbiano pensato a farvi divorare dalle aquile. Potevano cacciarvi in una stanza oscura piena di scorpioni o farvi mangiare dai selvaggi di U. - Allora sarebbe stata proprio finita per noi - disse Fedoro. - Lo credo, perché non avrei potuto certo salvarvi o sarei giunto troppo tardi - rispose il capitano. - Ci avreste almeno vendicati - disse Rokoff. - Avevo già fatto preparare delle bombe ad aria liquida per far saltare il monastero. - Se lo avessi saputo prima, le avrei gettate sui pellegrini - disse Rokoff. - Perché non dirmelo? - Dovete averne schiacciati un bel numero con quella pesante cassa. Sono stati abbastanza puniti. - Avessi almeno accoppato quel monaco barbuto! Capitano, io ne ho abbastanza anche del Tibet; andiamocene al più presto. - Scendiamo al sud con una velocità di quaranta miglia all'ora. Guardate, anche il Tengri-Nor è scomparso e stiamo rasentando il Nigkorta. - Non andremo a Lhassa? - chiese Fedoro. - No, ho fretta di attraversare la grande catena dell'Himalaya e di calare nell'India. - Attraversando il Nepal? - È probabile - rispose il capitano. - E dove finiremo? - Lo ignoro ancora. Tutto dipende da certe circostanze. - Non andremo a Calcutta? - insistette Fedoro. - Non desidero che mi si veda colà. Il capitano, che non amava, a quanto pareva, spiegarsi sui suoi futuri progetti, si era alzato da tavola accendendo una sigaretta e si era recato a prora dicendo: - Guardate il Nigkorta: è stupendo. L'enorme montagna, una delle più alte del Tibet, giganteggiava verso l'est, capofila dell'immenso ammasso di picchi enormi che formava la catena del Nin- thang-la. Al pari delle altre era tutta coperta di nevi, dalla base alla cima e appariva come un enorme pane di zucchero. Sui suoi fianchi, immensi ghiacciai scintillavano sotto i raggi del sole vomitando senza posa, nelle sottostanti vallate, blocchi colossali di ghiaccio che dovevano più tardi alimentare i fiumi che scendono in gran copia da quel colosso. Lo "Sparviero", costretto a mantenersi a un'altezza di tremila metri, faticava non poco, in causa delle furiose correnti aeree che s'incrociavano in mille guise e che a ogni istante cambiavano direzione, nondimeno riusciva a percorrere le sue trentacinque o quaranta miglia all'ora. Alla sera passava sopra Gang-Ischaka, una borgata di qualche importanza, mettendo in subbuglio la popolazione che in quel momento si trovava nelle vie a mungere gli jacks domestici; poi con una rapidissima volata andava a posarsi sulla cima d'una montagna situata trenta miglia più al sud, in un luogo che sembrava deserto. L'indomani, ai primi albori, il capitano, che pareva avesse molta fretta di attraversare il Tibet, dava il segnale della partenza. Cominciavano allora ad apparire delle pianure. La regione montuosa spariva a poco a poco per riprendere più tardi il suo impero al di là del Brahmaputra, colla gigantesca catena dell'Himalaya. Alle due del pomeriggio il capitano additava a Fedoro e a Rokoff un fiume larghissimo che scorreva dall'ovest all'est con larghi serpeggiamenti. Era il Brahmaputra, uno dei più celebri fiumi dell'Asia, perché le sue acque, al pari di quelle del Gange, vengono ritenute sacre. Questo gigante fra i giganti, nasce nel Tibet occidentale, sui fianchi settentrionali dell'Himalaya. Si apre un varco attraverso l'infinito numero di montagne che ingombrano il paese dei Lama, poi con una immensa curva entra nell'India per la valle dell'Assan, raccogliendo sul suo corso oltre cinquanta fiumi tutti navigabili e va a scaricarsi in mare dopo duemilacinquecentosettanta chilometri di percorso. È più lungo del Gange e ha una massa d'acqua assai maggiore, ma è meno sacro del primo per gl'indiani, quantunque sia chiamato il figlio di Brama. Nel momento in cui lo "Sparviero" lo attraversava, numerosi battelli solcavano le acque del fiume, carichi di mercanzie. I battellieri, scorgendo quel mostro che sbatteva le sue immense ali, presi da una irrefrenabile paura, si erano precipitati in acqua, urlando come se fossero diventati pazzi. - Noi spargiamo il terrore dappertutto - disse Rokoff. - Vedremo se anche gl'indiani fuggiranno. - Se ci vedranno - disse il capitano. - Viaggeremo di notte? - Non amo che gl'inglesi mi scorgano. - Non volete aver rapporti coi popoli civili? - chiese Rokoff, sorpreso. - Per ora no. - Eppure avete attraversato l'America. - E chi mi ha veduto? - chiese il capitano. - Avete mai udito raccontare che una macchina volando sia stata osservata a Nuova York, o a Nuova Orleans, o a Buffalo, o a San Francisco di California? - No, mai, signore. - Eppure io sono passato su tutte quelle città. - E perché non volete che i popoli civili ammirino il vostro "Sparviero"? - Per ora è un segreto che non vi posso svelare, signor Rokoff. Ah! Che cosa sono questi punti bianchi? Guardate questa strana nube che stiamo attraversando. Lo "Sparviero" correva in quel momento sopra le montagne del Giangtse, le quali s'alzavano in forma d'immensi scaglioni, spingendo le loro cime a tremilanovecento metri. La gigantesca catena dell'Himalaya non era lontana, quantunque non si scorgessero ancora le vette di quei colossi che separano il Tibet dall'India. Il passo era ancora popolato. Villaggi e borgatelli comparivano di quando in quando e anche numerose carovane di cammelli e di jacks si vedevano salire faticosamente le strette vallate dei monti. Verso sera lo "Sparviero" si abbassava sulle rive del Tsono, un lago perduto quasi ai confini tibetani, rinchiuso fra montagne altissime. Il freddo era aumentato in causa della vicinanza degli immensi ghiacciai dell'Himalaya e soprattutto del gigantesco Dorkia, costringendo gli aeronauti a riprendere le loro vesti d'inverno e a riaccendere la stufa. - Sarà domani che passeremo la grande catena? - chiese Rokoff al capitano, prima di ritirarsi nella sua cabina. - A mezzodì passeremo presso il Dorkia - rispose il comandante. - E non andremo a vedere l'Everest? - Lo scorgeremo egualmente, essendo visibile a distanza incredibile. - Sicché non andremo verso l'ovest? - No, scenderemo in India attraverso il Butan. Buona notte, signor Rokoff, a domani. Erano appena le quattro del mattino, quando lo "Sparviero" riprendeva il volo per attraversare la grande catena che doveva condurlo in India. Già i primi contrafforti apparivano in forma di altipiani, i quali s'innalzavano rapidamente. costringendo gli aeronauti a portarsi sempre più in alto per non urtare contro quegli enormi ostacoli. La vegetazione scompariva rapidamente. Non più foreste di pini e di abeti, non più praterie verdeggianti, dove pascolavano prima cavalli e mandrie di jacks e anche non più villaggi. Cominciava un deserto di neve e di ghiaccio. Fu verso il mezzodì, quando le brume che coprivano l'orizzonte si furono sciolte, che agli sguardi ansiosi e meravigliati degli aeronauti apparve l'imponente massa dell'Himalaya coronata di nevi e di ghiacci. I mostruosi colossi, fra i quali primeggiava il Dorkia, che spingeva la sua vetta a oltre settemila metri, chiudevano tutto l'orizzonte meridionale, accavallandosi confusamente e mostrando vallate gigantesche, attraverso le quali si vedevano serpeggiare fiumi dal corso impetuoso. All'ovest, a una grande distanza, scintillava l'enorme Gaurinkar, o meglio l'Everest, il monte santo degl'indiani, il più mostruoso picco del globo, il re delle montagne, perché supera tutti toccando un'altezza di ben ottomilaottocentosessanta metri. La catena dell'Himalaya, che è la più vasta che esista sul nostro pianeta, e che in sanscrito significa luogo nevoso, perché è sempre coperta di nevi anche durante l'estate, corre dal Bengala al Cascemir per uno spazio di 1.096.000 chilometri quadrati, limitata all'est dal Brahmaputra e all'ovest dall'India, i due più grandi fiumi della penisola indostana. Ancora cent'anni or sono era pochissimo nota agli europei, in causa delle ostilità dei montanari e soprattutto delle tribù dei Gorka, le quali negavano ostinatamente il passo agli esploratori inglesi, come se temessero che i piedi degli uomini bianchi portassero sventura o scatenassero i Mani nascosti nelle caverne di quelle enormi montagne. Fu solamente nel 1809 e poi nel 1815 che gli ufficiali inglesi, approfittando della guerra che combattevano contro le tribù montanare del Bopal, poterono spingersi su per quelle immense vallate e quindi misurare una ad una le altezze delle montagne con strumenti così imperfetti, da non poter dare a essi la loro esatta dimensione. Kirpatrik e Fraser, due distinti ufficiali, furono primi a tentare l'ascensione di quei colossi, seguiti poi dal capitano Webb e da Colebrosk. Il colonnello Waugh saliva in seguito l'Everest, poi Humbold il Fawahir, Gerard il Chipca-Pic ai confini della Tartaria cinese, poi Hodgson e il tenente Herbet visitavano la catena centrale, scoprendo nel 1821 la vera sorgente del maestoso Gange, il fiume sacro degli indiani, situato a circa 4.480 metri, vicino al Vanaro Fuga. Oggi tutta la catena è nota e tutti i monti sono stati esplorati e misurati scrupolosamente. Questo enorme ammasso di montagne ha undici passaggi posti però ad altezze che variano fra i cinquemila e i seimila metri, ventisette picchi culminanti che toccano i seimilacinquecento metri fino ai settemilaseicentosettanta e un numero infinito di ghiacciai situati a un'altezza straordinaria, quasi quanto il Chimborazo, il colosso dell'America meridionale. Tutti gl'indiani hanno una grande venerazione per la catena dell'Himalaya, che per loro è d'origine santa e da migliaia e migliaia d'anni milioni di pellegrini si recano a visitare i templi sparsi su quelle giogaie. Anzi, secondo una loro tradizione, esisterebbe fra quei monti un lago sacro ove risiederebbe la dea Yamuna, che nessuno può vedere perché verrebbe arrestato prima di giungervi. - Che cosa ne dite di queste montagne? - chiese il capitano, mentre lo "Sparviero", che aveva raggiunto un'altezza di cinquemilacinquecento metri, imboccava un vallone che s'apriva da un fianco orientale del Dorkia. - Mettono spavento - disse Rokoff. - Un panorama meraviglioso, unico al mondo - rispose Fedoro. - Che cosa sono i nostri Urali in confronto a questa catena? Delle semplici colline, meno ancora, dei monticelli di terra. - Farebbero una meschina figura anche le Alpi, che pure sono annoverate come una meraviglia dell'Europa - disse il capitano. - Questi colossi vincono tutti. - E animali se ne trovano qui? - chiese Rokoff. - Qualche orso. Quando però avremo raggiunto la falda boscosa, che ha una estensione considerevole, non avrete a lamentarvi della selvaggina. Troveremo sciacalli, tigri, elefanti, rinoceronti e orsi in maggior numero. - Spero che non lasceremo l'India senza aver almeno dato la caccia a qualche tigre - disse Rokoff. - Vi condurrò più tardi in un luogo ove ne troverete quante vorrete - rispose il capitano. - Probabilmente sarà là che noi ci lasceremo. - Per sempre? - chiesero a una voce Rokoff e Fedoro. - Chi può saperlo? - rispose il capitano. - Può darsi che un giorno noi possiamo di nuovo vederci. Che cosa direste, per esempio, se io venissi a trovarvi a Odessa o fra le steppe del Don? Sbrigate certe faccende che non vi posso spiegare, tornerò libero e allora ... guardate laggiù quella fortezza appollaiata come un'aquila, su quel dirupo. È Pharò, l'ultima del Tibet; laggiù ecco il Tabilung, un bel monte che separa questa regione dal piccolo Stato di Sikkim. Signori, stiamo per entrare nell'India: il Butan non è che a due passi. Lo "Sparviero" era uscito da quell'immenso vallone aperto fra la catena e ora volava su un caos di picchi e d'altipiani nevosi, mantenendosi sempre a un'altezza che variava fra i cinque e i seimila metri. Avanzava sempre faticosamente in causa dei venti che turbinavano su quei desolati altipiani con mille ruggiti e mille sibili, fra le gole spaventevoli che si aprivano in tutte le direzioni, veri baratri scavati dai fiumi di ghiaccio che scendevano dagli enormi ghiacciai della catena e dalle acque che si vedevano precipitare dovunque, in gigantesche cascate. Alle quattro del pomeriggio anche la piccola fortezza veniva lasciata indietro, senza che il suo presidio si fosse accorto del passaggio del mostro volante e mezz'ora dopo gli aeronauti varcavano la frontiera tibetana, entrando nel Butan. L'India s'apriva dinanzi a loro coi suoi fiumi giganti, le sue sterminate foreste, le sue giungle immense e le opulente città.

I MISTERI DELLA GIUNGLA NERA

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

Non ti sembra atroce abbandonare questa terra indorata dal sole e profumata dall'olezzo di mille fiori, per scendere nella tomba, nell'oscurità, nel mistero? - Sei pazzo? - domandò Aghur. - No, Aghur, non sono pazzo, - disse l'assassino avvicinandoglisi fino a toccarlo. - Guarda! - Aprì la tunica che coprivalo e mise allo scoperto il suo petto tatuato del serpente colla testa di donna. - Cos'è? - chiese Aghur. - L'emblema della morte. - Non capisco. - Tanto peggio per te. Il bengalese sciolse il laccio che teneva nascosto sotto la tunica e lo fece fischiare attorno alla sua testa. - Aghur! - gridò, - Suyodhana ti ha condannato e devi morire! L'indiano comprese allora tutto. Balzò in piedi colla carabina in mano, ma gli mancò il tempo di puntarla sul traditore. Un fischio tagliò l'aria e il poveretto, stretto alla gola dal laccio, la cui palla di piombo lo percosse fortemente alla nuca, stramazzò a terra. - Assassino! ... - urlò egli con voce strozzata. - Aghur! - disse lo strangolatore con accento funebre. - Saluta un'ultima volta il sole che ti accarezza, respira un'ultima volta quest'aria che corre sulle Sunderbunds, invia l'estremo saluto ai tuoi compagni e scendi nella tomba. - Kammamuri! ... Padrone! ... - balbettò Aghur, dibattendosi. Il fanatico afferrò solidamente il laccio e soffocò la voce della vittima con una violenta strappata, poi gli si gettò sopra e col pugnale lo trafisse. - Muori, ché la dea lo vuole! - gli gridò un'ultima volta Manciadi. Aghur, col volto cinereo, gli occhi schizzanti dalle orbite cacciò fuori un rauco gemito e cercò di risollevarsi, ma ricadde. - E uno, - disse il fanatico, lanciando un guardo feroce sull'assassinato. - Ora, pensiamo all'altro. E s'allontanò a rapidi passi, mentre uno stormo di marabù calava sul cadavere ancor caldo dell'infelice Aghur.

I PESCATORI DI BALENE

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Salgari, Emilio 4 occorrenze

. - Lo spero, poichè il capitano Weimar non è un uomo da abbandonare questi paraggi, sapendo che due dei suoi uomini sono qui. - Ma può crederci morti, tenente. - Non lo credo, Koninson. La costa era vicina e il capitano sa che noi siamo forti nuotatori. - E cosa faremo intanto? - Raggiungeremo quelle alture e là aspetteremo che la tempesta sia cessata. - E poi? - Poi seguiremo la costa verso est. In cammino, Koninson. Si posero in marcia con passo rapido per non gelare vivi, poichè il freddo era veramente feroce, accresciuto anche dal vento il quale sollevava attorno ai due poveri marinai delle vere nubi di minutissimi ghiacciuoli e di nevischio. La via era aspra, ineguale e spesso intersecata da profondi crepacci pieni di neve, entro i quali molto spesso Koninson e il tenente cadevano, penando poi assai nell'uscirne. Tuttavia camminarono così bene, che dopo mezz'ora giunsero ai piedi di una collina assai dirupata e sulla cui cima ondeggiavano fortemente alcuni pini. La girarono e guadagnarono un luogo ove la collina scendeva dolcemente verso il mare. Quasi subito gli occhi del tenente scorsero una nera apertura presso la quale giungevano talora gli sprazzi delle onde. - Là dentro staremo bene! - disse a Koninson. - Potremo riposarci, scaldarci, e nel medesimo tempo guardare l'oceano. - Avanti allora, signor Hostrup. Io non ne posso più! Si avvicinarono all'apertura che era larga assai, ma poco alta e per di più in parte ostruita da certe colonne di ghiaccio, scese forse dalla volta, ed entrarono. Ad un tratto Koninson, che camminava innanzi al tenente, si arrestò bruscamente facendo un gesto di sorpresa e di terrore. - Che hai? - chiese Hostrup. - C'è qualcuno dentro - rispose il fiociniere. - È impossibile! Non vedo che tenebre. - Ho udito un ruggito, signore. - Un ruggito! ... Oh! ... Oh! ... Che ci sia un orso? - Lo temo. - Io ho un coltello alla cintura. - E anch'io, ma poco varranno tali armi contro una bestia così grossa e così feroce. Zitto! ... In fondo alla caverna si udì un profondo ruggito, poi si videro brillare due occhi grandi, rotondi, dai riflessi verdastri. - Non è un orso - disse il tenente, che aveva subito impugnato il coltello. - O m'inganno di molto, o abbiamo da fare con una foca o con un tricheco. - Una foca qui dentro? - E perchè no? Non siamo forse a due passi dal mare? Sarà venuta qui a riposare o a mettersi al riparo dalla tempesta. Va a prendere un ramo di pino. Koninson si affrettò a obbedire e poco dopo ritornò con una bracciata di rami resinosi. Il tenente estrasse da una scatoletta di metallo ermeticamente chiusa l'acciarino e un pezzo d'esca e accese una di quelle torcie. - Avanti! - disse poi. - E i coltelli in pugno! Entrarono nella caverna che pareva assai profonda, e fatti dieci o dodici passi, si trovarono dinanzi ad una foca gigantesca, la quale si era appoggiata ad una parete mostrando i denti ed emettendo rauchi ruggiti. - Addosso, Koninson! - gridò il tenente.- Abbiamo la cena! Il fiociniere balzò addosso alla foca; con un formidabile pugno applicatele sul naso la stordì, poi con un rapido colpo di coltello la scannò. La morte fu quasi istantanea. Il tenente si avvicinò col ramo acceso e la osservò con curiosità. Era una otaria, anfibio appartenente alla famiglia delle foche, dalle quali si distingue per avere un poco d'orecchio esterno. - Quest'animale ci voleva - disse Koninson. - Ho una fame proprio feroce. - Metteremo ad arrostire il fegato, che passa per un boccone delicatissimo- disse il tenente. - Ma affrettati ad accendere il fuoco, Koninson, poichè stiamo per gelare. Tò! Cosa c'è laggiù? Una provvista di legna! Riprese il ramo di pino che aveva piantato accanto la foca e si recò in fondo alla caverna. Con sua grande sorpresa trovò una considerevole provvista di legna, un alto strato di licheni e due lance colla punta di ossidiana. - Ma questa caverna ha servito di ricovero a qualche indigeno - diss'egli. - Forse a qualche cacciatore! - aggiunse Koninson. - Ah! Il bel fuoco che accenderemo! Con due pezzi di roccia improvvisò un camino e vi gettò sopra un ammasso di legna. Il ramo, che continuava ad ardere, fu messo sotto e pochi istanti dopo una superba fiamma illuminava l'antro, spandendo all'intorno un dolce calore. Il tenente e Koninson si spogliarono rapidamente delle vesti che cominciavano a indurirsi, le stesero dinanzi alla fiamma e, impugnati i coltelli, sventrarono destramente l'otaria strappandole il fegato che fu tosto infilzato in una lancia e avvicinato ai tizzoni. - Che colazione! - esclamò Koninson, tornato di buon umore.- Ventre di balena! Il mio naso non ha mai sentito un profumo più appetitoso di questo. Non mancherebbe che una bottiglia di "gin" o di "wisky". - Ne faremo senza! - rispose il tenente, che si era accoccolato accanto alla fiamma e che si stropicciava energicamente le membra per riattivare completamente la circolazione del sangue. - Ditemi, signor Hostrup, - ripigliò il fiociniere. - è buona la carne delle otarie? Confesso di non averne mai mangiato. - Per gli Eschimesi, che vanno pazzi per l'olio e pel grasso, sì, ma per noi bianchi è detestabile. - Ma avendo fame la si può inghiottire. - Anche i tuoi stivali, non avendo altro da porre sotto i denti, si possono rosicchiare. Ma come mai questa otaria si trova qui sola? ... - Vi sorprende forse? - Sì, Koninson, poichè ordinariamente vanno a branchi numerosissimi, specialmente in questa stagione. Su certi punti della costa americana, se ne vedono anche oggidì delle migliaia, malgrado la caccia spietata che loro fanno i balenieri e gli indigeni. - È vero, tenente, che queste otarie non appariscono sulle coste americane che il primo di maggio? - Sì, Koninson, e posso aggiungere anche che tutti gli anni giungono anche alla stessa ora.. - E quanto vi rimangono? - Fino alla metà di dicembre. Oltre quest'epoca non si trova un'otaria a volerla pagare a peso d'oro. È un magnifico spettacolo, Koninson, che merita di essere veduto, l'approdo di questi anfibi. - Ma cosa vengono a fare sulle coste? - Vengono ad attendere le femmine, le quali giungono infallibilmente tutti gli anni il 15 di giugno. - Avete mai veduto uno di questi arrivi? - Sì, Koninson, e parecchie volte.. Sei anni or sono io mi trovavo nella baia Smith quando fu segnalato l'arrivo di parecchie migliaia di otarie. Erano tutti maschi. In men che lo si dica occuparono un punto della costa disponendosi su tre file: dinanzi i "beach-master", o padroni del posto, in mezzo i "bachelors" o celibatari, quasi tutti giovani, ultime le "riserve". Il 15 giugno fu segnalato l'arrivo delle femmine. Venivano innanzi in ranghi compatti e lunghissimi; anche qui le otarie si contavano a migliaia. Allora si vide uno spettacolo curioso. I "beach-master" si gettarono in mare, nuotarono incontro alle femmine e prendendole gentilmente per la pelle della nuca, ne portarono un gran numero a terra. Quando ognuno ne ebbe sette od otto, lasciarono allora il posto ai celibi i quali a loro volta balzarono in mare disputandosi con ferocissime zuffe le femmine rimaste. - I ranghi dei celibi di cosa sono composti? - Di otarie giovani. - E i "beach-master" sono invece? ... - Gli adulti, e, come ti dissi, ognuno prende sette od otto femmine. - Corpo d'una balena! Sono veri sultanelli questi signori "beach-master". - E ve ne sono taluni forti e prepotenti che si prendono persino venti femmine. - E, giunta l'epoca della partenza, se ne vanno tutte assieme le otarie? - No, prima partono i vecchi, e ciò avviene in ottobre, poi i nati, quindi le femmine. - E mentre sono uniti non vengono disturbati? - I balenieri e gli Eschimesi piombano sovente in mezzo a questi grandi campi e fanno degli orribili macelli. - Per averne le pelli? - Sì, Koninson. - E si pagano bene? - Sei, otto e qualche volta dieci dollari ciascuna. - Fanno adunque dei lauti guadagni i cacciatori. - Sempre, poichè uccidono in quei massacri delle migliaia di otarie. Leva dal fuoco il fegato, che mi pare sia cotto a puntino. Il fiociniere obbedì e lo depose su di un sasso ben levigato. II tenente lo divise per metà e tutti e due cominciarono a lavorare di denti e così bene, che in cinque minuti più nulla restava. - Ora, - disse il tenente - facciamo una pipata e poi una dormita. - E non pensate al "Danebrog"? - chiese Koninson. - La tempesta continua, Koninson, e il "Danebrog" non tornerà finchè non sarà finita. - Ma sperate che ritorni? - Ne sono certo; ti ho detto che il capitano Weimar non è uomo da abbandonare i suoi marinai, II tenente accese la pipa che aveva ritrovata in una tasca della sua giacca assieme alla scatola del tabacco che era rimasto perfettamente asciutto, si sdraiò sullo strato di licheni e si mise a fumare flemmaticamente, mentre Koninson richiudeva alla meglio, con grossi sassi e rami di pino, l'apertura della caverna, per essere meglio riparato dal vento e dal freddo. Alle 9 mentre l'uragano accennava a decrescere, i due marinai, coricatisi l'uno accanto all'altro, coi piedi rivolti verso il fuoco, si addormentavano profondamente. Il loro sonno però fu di breve durata, poichè il baccano che veniva dal di fuori era veramente spaventevole. Erano continui muggiti prodotti dalle onde che venivano a sfasciarsi ai piedi del colle, lanciando degli sprazzi d'acqua persino dentro la caverna; erano continui scoppi prodotti dai ghiacci che si frantumavano gli uni contro gli altri e continui fischi ed urla indiavolate prodotte dal vento, il quale dopo essersi un pò calmato, aveva ripreso novella foga. Verso le 11, secondo i calcoli del tenente, provarono a mettere la testa fuori. Non nevicava più, ma il cielo era sempre coperto da gigantesche nubi le quali correvano disordinatamente per il cielo, accavallandosi confusamente sotto i furiosi colpi di vento, e il mare era ancora agitatissimo. Sulle onde oscillavano spaventosamente gran numero di "icebergs", di "hummocks" e di "streams". - Che cosa facciamo? - chiese Koninson. - Ti senti forte? - Sì, tenente. - Allora mettiamoci in cammino. Ho fretta di rivedere il "Danebrog". - Seguiremo la costa? - Finchè potremo sì, poi daremo la scalata a quella catena di colline che vedi lassù. Si coprirono alla meglio, si armarono di un grosso ramo di pino per aiutarsi nell'ascensione che stavano per intraprendere attraverso le dirupate colline, e si misero in cammino con passo abbastanza rapido, tastando però prima il terreno onde non cadere in qualche crepaccio che poteva celarsi sotto lo strato di neve. Per un po' di tempo seguirono la costa passando in mezzo a picchi aguzzi, poi deviarono verso sud non essendovi più passaggi e cominciarono a scalare un'altissima collina coperta di neve e sulla quale ruggiva furiosamente il vento, torcendo un gruppetto di intristiti abeti. - Dannata bufera! - esclamò Koninson, piegandosi verso terra per meglio resistere agli urti del vento. - Quando cesserà? - Ne avremo fino a domani di certo. - rispose il tenente, che segnava la via. - Se il "Danebrog" si trova ancora in mare, sarà a quest'ora ben lontano da noi. - Se non lo troveremo oggi, sarà domani. - Ma dove dormiremo stasera? - In qualche altra caverna. - E metteremo sotto i denti? - Ho un bel pezzo di foca in tasca. Animo, Koninson, che la marcia comincia a diventare faticosa. Bada di non perdere l'equilibrio se non vuoi fracassarti le ossa. La marcia infatti diventava allora difficilissima e anche pericolosa. Non c'erano sentieri in nessun luogo e dalle nevi sorgevano punte rocciose così aguzze da lacerare le scarpe. Oltre a ciò il vento non cessava dal soffiare; anzi, la sua violenza, man mano che i due marinai si innalzavano, diventava sempre maggiore, trascinando con sè nembi di neve e ghiacciuoli e strappando, dalla cima del colle, delle pietre di non piccola mole, le quali scendevano rimbalzando violentemente di roccia in roccia. Verso la cima si udivano poi certi fischi e certi muggiti da mettere i brividi. I due poveri cacciatori di balene, acciecati dalla neve, gelati da quel ventaccio, percossi dai sassi, ora spinti da una parte e ora dall'altra, non procedevano che con molto stento. Ad ogni istante erano costretti a curvarsi ed aggrapparsi alle roccie per non essere portati via. Verso il tocco, sfiniti, insanguinati, coperti di neve, colle vesti lacere, le scarpe sfondate, giungevano sulla cima della collina che si stendeva in forma di altipiano. Colà il vento, non più imprigionato fra le rupi, urlava in modo orribile sconvolgendo lo strato di neve e torcendo come pagliuzze i pochi abeti che lassù vegetavano. - Vedete nulla? - chiese Koninson, addossandosi ad una rupe. Il tenente si arrampicò sulla cima della rupe e guardò innanzi a sè. Alla sua sinistra, ad un miglio di distanza, scorse il mare coperto di ghiacci; alla sua destra si elevava un'alta montagna dirupatissima e coperta di neve; dinanzi si estendeva una pianura ondulata, interrotta qua e là da piccoli corsi d'acqua gelata. Ad un tratto fece un gesto di stupore. Seguendo collo sguardo la costa, aveva veduto sorgere nel mezzo di una profonda spaccatura che doveva senza dubbio essere qualche piccolo seno o qualche stretto "fiord", gli alberi di una nave. - Vedete nulla, signor Hostrup? - chiese Koninson per la seconda volta. - Sì, fiociniere, vedo gli alberi di una nave - rispose il tenente. - Ventre di foca! Una nave avete detto? Il "Danebrog" forse! - Sì, è il "Danebrog", ne sono certo, Koninson. - Iddio sia ringraziato! È molto lontano? - Un miglio e mezzo forse. - Partiamo, partiamo, signor Hostrup! Non sono più stanco. Ah! Bravo capitano! Urrah! Urrah! - Calmati, Koninson. - Andiamocene di qui, signor Hostrup. Io ho le vampe sotto i piedi. Il tenente, che malgrado tutta la sua calma era pure impaziente di ritornare a bordo del valoroso "Danebrog", scese dalla rupe e si mise in cammino preceduto da Koninson. Nonostante la furia della burrasca, attraversarono rapidamente l'altipiano e scesero sul versante opposto lambendo un profondo abisso da cui uscivano dei lamentevoli ululati, forse emessi da qualche branco di lupi affamati. Dopo aver arrischiato più di venti volte di fracassarsi in fondo di quell'abisso e di rompersi le gambe giù per il dirupato pendio, giunsero nella pianura. L'attraversarono quasi a passo di corsa e si arrestarono sulle alte sponde di un lungo e stretto "fiord", in fondo al quale stava solidamente ancorato il "Danebrog" fra un gran numero di ghiacciuoli staccatisi da un grande e grosso banco di ghiaccio che si era incastrato dinanzi l'uscita di quel braccio di mare. - Ohe! Del "Danebrog"! - urlò Koninson con voce tonante. Un marinaio, poi due, poi cinque, poi tutti apparvero sulla tolda della nave. Un gran grido echeggiò - Il tenente Hostrup! Viva il tenente! Viva Koninson! Una baleniera fu subito calata in acqua, sette uomini, compreso il capitano Weimar, vi presero posto, e si diresse a tutta forza di remi verso la riva. Pochi minuti dopo il tenente e Koninson si trovavano l'uno fra le braccia del capitano e l'altro fra quelle di due camerati che ormai li avevano creduti per sempre perduti!

Non mancava che di calare le baleniere in mare e di muovere contro il cetaceo che non pareva disposto ad abbandonare quelle acque. Il capitano Weimar e il suo tenente, sempre in piedi sulla murata seguivano attentamente collo sguardo l'enorme pesce che di quando in quando si tuffava o avventava dei formidabili colpi di coda sollevando delle grandi ondate. Il primo si mostrava impazientissimo e imprecava contro l'oscurità; il secondo invece, uomo flemmatico quanto mai, quantunque non meno intrepido marinaio del capitano, appariva tranquillissimo e taceva fumando con tutta flemma in una vecchia pipa che quasi mai abbandonava. Anche Koninson e l'equipaggio erano in preda ad una viva agitazione, e ingiuriavano il cetaceo che non si lasciava accostare dalla nave, quantunque questa filasse con una notevole velocità avvicinandosi alle isole Aleutine, che ormai non dovevano essere molto lontane. Finalmente cominciò a far chiaro. Ad oriente apparve una luce biancastra che fece impallidire la luce degli astri e che gettò sui neri flutti delle tinte madreperlacee di bellissimo effetto. Il capitano attese ancora un po', quindi tornò a puntare il cannocchiale verso il cetaceo che allora si trovava a due miglia dal "Danebrog", ma quasi nel medesimo istante il gigantesco pesce, quasi indovinasse che qualcuno lo spiava, si tuffò. - Ah, brigante! - esclamò Weimar. - Ma non per questo mi sfuggirai. Ehi, mastro Widdeak governa dritto su quel briccone! Il mastro non si fece ripetere il comando e lanciò il "Danebrog" verso il luogo ove il cetaceo si era inabissato; ma passarono dieci, venti, trenta minuti, senza che apparisse a galla. - Non è una balena quella là! - disse il capitano. - Se lo fosse, a quest'ora sarebbe già tornata a galla. - È un capodolio, capitano - disse il tenente. - Non ci sono che questi cetacei che siano capaci di starsene quaranta, cinquanta e anche sessanta minuti senza respirare. - Niente di meglio. Alla balena preferisco il capodolio che dà maggior profitto. Ma come mai si trova qui? - Guarda! Guarda! - gridò in quell'istante Koninson. A cinquecento metri dal "Danebrog" si era visto alla superficie dei mare un largo tremolio, segno evidente che il cetaceo stava per risalire; poi apparve un punto nero, indi una massa enorme che gettò in aria due nuvolette di vapore grigiastro. Koninson gettò un grido: - Un capodolio! Un capodolio! Alle baleniere, ragazzi!

Poco dopo scomparve dietro al nebbione che pareva non volesse più abbandonare il gran banco di ghiaccio.

La più elementare prudenza consigliava ai due balenieri di andarsene verso sud, di abbandonare quel campo di ghiaccio che non avrebbe resistito per molto tempo al calore solare. Fu il 16 aprile che il tenente, che da qualche giorno visitava attentamente le baleniere riparate nel magazzino e colle quali contava di fabbricare una buona slitta, decise di por mano ai lavori. - Non bisogna perdere tempo, mio caro Koninson - disse egli. - La costa americana non è molto distante e solamente là noi possiamo trovare la nostra salvezza. - Non domando che di andarmene, signor Hostrup! - rispose il fiociniere. - Se rimango un'altra settimana in questa dannata capanna, mi si arrugginiranno le gambe al punto da non poter più servirmene. E sarà lunga la via che dovremo percorrere? - Un centocinquanta o duecento miglia. - Ci impiegheremo del tempo. - Non tanto quanto sembrerebbe, mio bravo fiociniere. - Per caso, avete trovato dei cani da attaccare alla slitta? - No, ma qualche cosa di meglio e di più rapido. Il fiociniere lo guardò con stupore, chiedendosi se il freddo e i patimenti gli avessero sconvolto il cervello. - Non meravigliarti! - disse il tenente sorridendo, e forse comprendendo il pensiero che attraversava la mente del fiociniere. - Guarda verso il sud: cosa vedi? - Una superficie brillante che pare non finisca mai. - Sì, ma una superficie che le grandi nevicate e i grandi freddi hanno sufficientemente levigata. Ebbene, amico mio, noi alzeremo una vela sulla nostra slitta e appena il vento del nord soffierà, partiremo colla velocità di un battello a vapore, anzi d'un treno. - Stupenda idea, signor Hostrup. E dire che non mi era mai passata per la mente! Al lavoro! Al lavoro! Mi sento ora capace di costruire dieci slitte. Si recarono ai magazzini e colla scure fecero a pezzi la grande baleniera del cui legname, abbastanza curvo, contavano di servirsi. L'impresa non fu tanto facile, essendo sprovvisti degli utensili necessari, ma finalmente riuscirono a costruire un solido apparecchio che, se non era precisamente una slitta, di poco le si scostava. Il difficile fu l'adattamento dei pattini di ferro, non possedendo che poche lamine di metallo strappate alle imbarcazioni, poco larghe e per di più un pò avariate. Ma colla pazienza, riscaldandole sulla gran lampada e battendole e ribattendole col rovescio delle scuri, anche i pattini furono ottenuti e collocati a posto. - Speriamo che resistano! - disse Koninson, piantando l'ultimo chiodo. - E perchè si dovrebbero rompere? - Il metallo era molto vecchio e molto arrugginito, signor Hostrup. - E se tu non lo sai, fiociniere, ti dirò che il ferro arrugginito naturalmente, e così pure l'acciaio, è sempre migliore di quello appena fuso. Un celebre coltellinaio di Londra ha fatto degli esperimenti in proposito, che diedero dei risultati sorprendenti. - Io non l'ho mai saputo. - Così è, Koninson. Questo coltellinaio, che si chiamava Weiss, seppellì dei vecchi rasoi e delle vecchie lame di ferro, dopo tre anni le ritirò coperte d'un spesso strato di ruggine che pareva trasudato dall'interno e, lavoratele, ottenne delle lame d'una qualità superiore, e tali da vincere quelle famose di Toledo. - Allora non temo più per i nostri pattini. L'indomani i due balenieri riprendevano il lavoro per ultimare la slitta. Costruirono, servendosi sempre del legname fornito dalle imbarcazioni, delle casse per i viveri e per le munizioni, issarono sul dinanzi del veicolo un pennone che assicurarono saldamente e che fornirono d'una vela quadra, e finalmente fabbricarono una specie di timone munito all'estremità d'un grosso gancio di ferro che doveva servire per la direzione e, in caso di bisogno, per le fermate improvvise. Il 18 l'occuparono nel fabbricarsi degli occhiali, oggetti indispensabili in quelle regioni, quando il sole si riflette sui campi di ghiaccio. Infatti quella luce acciecante è pericolosa e cagiona spesso delle oftalmie che conducono alla cecità e delle quali non vanno esenti neanche gli eschimesi che pure nascono e vivono in quei climi. Quegli occhiali richiesero parecchio tempo e molta pazienza, ma finalmente i due balenieri ne vennero a capo. S'intende che non erano formati con lenti, impossibili ad ottenersi, per quanto desiderio avessero il tenente e il suo compagno, ma poco dissimili da quelli usati dagli indiani delle terre della Baia di Hudson. Sarebbero stati necessari dei rami di cedro rosso che essendo assai pieghevoli vengono adoperati dagli indiani nella fabbricazione di questi oggetti, ma non avendone a loro disposizione, i balenieri si servirono di un grosso filo di ferro rinvenuto in un canotto. Curvatolo in maniera da formare un ovale assai allungato, lo coprirono con una sottile pelle di foca, praticandovi, al posto degli occhi, due sottili tagli orizzontali. Ciò era bastante per vedere senza incorrere nel pericolo di rimanere acciecati o di buscarsi qualche seria malattia. La mattina del 20, tutto era pronto per la partenza. La slitta colla sua vela semi-tesa, col suo albero ben assicurato, il suo timone a posto, i viveri sufficienti per tre settimane e le munizioni rinchiuse nelle casse, non aspettava che di essere manovrata per slanciarsi attraverso il campo di ghiaccio. Uno splendido sole brillava sull'orizzonte inondando quella deserta regione d'una luce abbagliante, e un fresco vento soffiava da nord. I due balenieri, chiusi per bene i magazzini nei quali lasciavano ancora una discreta quantità di provvigioni e dato un addio alla capanna che li aveva ricoverati durante il lungo inverno polare, si affrettarono a dirigersi verso la slitta, ansiosi di toccare la costa americana. Stavano per porvi il piede, quando entrambi si fermarono come se a tutti e due fosse istantaneamente venuto lo stesso pensiero. I loro occhi si portarono sul gran banco di ghiaccio risplendente di luce e si fermarono là dove circa quattro mesi prima, in una notte d'orrore, per effetto delle pressioni, il valoroso "Danebrog" sventrato, stritolato, era colato a fondo; là dove i loro sfortunati camerati erano stati inghiottiti in quella tremenda notte. - Riposate in pace! - disse il tenente con voce solenne e triste, scoprendosi il capo. - Riposate in pace voi infelici che non rivedrete giammai le lontane sponde della vostra patria, nè avrete sulle vostre tombe il conforto di un fiore sparso da mano amica, nè una lagrima versata dai vostri cari. Addio, capitano Weimar, addio, miei poveri camerati: noi non vi dimenticheremo. - Riposate in pace! - ripetè Koninson che era profondamente commosso. - I ghiacci del polo vi siano leggeri. - Ed ora partiamo! - disse il tenente. Balzarono nella slitta che pareva impaziente di allontanarsi da quei funebri luoghi e issarono la vela, che subito si gonfiò sotto i soffi del vento settentrionale. Il veicolo per un istante rimase immobile come fosse inchiodato al banco, poi cominciò a scivolare un pò indecisamente, indi si slanciò attraverso la liscia superficie colla velocità di un treno diretto, sollevando attorno a sè una nube di nevischio e di ghiacciuoli e lasciandosi dietro due striscie fiammeggianti che in pochi istanti si prolungarono indefinitamente. Il tenente e Koninson, quasi soffocati dalla rapida e gelida corrente d'aria, flagellati da una vera grandine di ghiacciuoli sottili come aghi, solidamente aggrappati alle traverse del celere veicolo, si sforzavano di guardare innanzi per tema di trovarsi improvvisamente sull'orlo di qualche spaccatura o di urtare contro qualche sporgenza. - Apri bene gli occhi, - ripeteva Hostrup al fiociniere - e sii pronto a lasciar cadere la vela. - Non temete, - rispondeva con voce soffocata il bravo giovanotto, che non abbandonava la prua del veicolo dove maggiore era la pioggia dei ghiacciuoli, taluno dei quali gli lacerava il viso - guardo sempre. E la slitta scivolava, scivolava sempre più senza scosse, senza sbandamenti, senza deviare d'un solo centimetro sotto la robusta mano del tenente che non abbandonava il timone, lasciandosi a destra e a sinistra "icebergs" e "hummocks" e mettendo in fuga volpi, lupi e uccelli. Ben presto la sua velocità divenne tale che il tenente cominciò ad avere delle inquietudini. Oramai filava come un vero uccello, percorrendo non meno di cinquanta chilometri all'ora. Guai se si fosse trovata dinanzi ad un ostacolo o dinanzi ad una spaccatura del ghiaccio; l'urto l'avrebbe mandata in mille pezzi e i due uomini che la montavano non se la sarebbero cavata senza ossa rotte. A mezzogiorno il tenente stimò la distanza percorsa a centosessanta miglia, ma la costa americana non era ancora in vista, quantunque non dovesse essere molto lontana. - Fermiamoci! - disse al fiociniere. - Ammaina la vela. Koninson obbedì. La slitta, trasportata dallo slancio, percorse un buon miglio ancora, poi si fermò di fianco ad un alto masso di ghiaccio. Accesero la lampada che avevano portato seco loro, si prepararono un modesto desinare che in un baleno divorarono, indi rimontarono nel veicolo che riprese la corsa ma con minor velocità, essendo il vento un po' scemato. Alle 4 pomeridiane, dopo essersi più volte fermati per girare dei crepacci che erano stati scorti a tempo e per trascinare la slitta attraverso a ghiacci sollevati dalle pressioni, Koninson segnalava un'alta costa che, quantunque fosse tutta coperta di neve, non pareva una catena di "icebergs", e un pò più tardi, ad una grande distanza, mezze avvolte fra un fitto nebbione, scopriva delle vette che sembravano montagne. - Signor Hostrup! - esclamò con voce commossa. - È la costa americana! - disse il tenente, non meno commosso. - Così presto? - Abbiamo percorso oltre duecento e cinquanta miglia da stamane. Presto, fiociniere, cala la vela o ci sfracelleremo. Koninson si affrettò ad ubbidire. Dieci minuti dopo la slitta si arrestava a solo mezzo chilometro dalle sponde dell'America settentrionale.

LEGGENDE NAPOLETANE

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Serao, Matilde 1 occorrenze

. - Pensa: dimenticare la faccia di tuo padre, cancellare dal tuo volto il bacio delle sorelle, fuggire le dolci amiche, abbandonare il tuo tetto ... - Partiamo, Cimone. - Partire, o dolcissima, partire per un viaggio lungo, penoso, sul mare traditore, per una via ignota, ad una meta sconosciuta; partire senza speranza di ritorno; affidarsi ai flutti, sempre nemici degli amanti; partire per andare lontano, molto lontano, in terre inospitali, brune, dove è eterno l'inverno, dove il pallido sole si fascia di nuvole, dove l'uomo non ama l'uomo, dove non sono giardini, non sono rose, non sono templi ... Ma nei grandi occhi neri di Parthenope è il raggio di un amore insuperabile e nella sua voce armoniosa vibra la passione: - Io t'amo - ella dice -, partiamo. Sono mille anni che il lido imbalsamato li aspetta. Mille primavere hanno gittata sulle colline la ricchezza inesausta, rinascente, dalla loro vegetazione - e dalla montagna sino al mare si spande il lusso irragionevole, immenso, sfolgorante di una natura meravigliosa. Nascono i fiori, olezzano, muoiono perché altri più belli sfoglino i loro petali sul suolo; milioni e milioni di piccole vite fioriscono anche esse per amare, per morire, per rinascere ancora. Da mille anni attende il mare innamorato, da mille anni attendono le stelle innamorate. Quando i due amanti giungono al lido divino un sussulto di gioia fa fremere la terra, la terra nata per l'amore, che senza amore è destinata a perire, abbruciata e distrutta dal suo desiderio. Parthenope e Cimone vi portano l'amore. Dappertutto, dappertutto essi hanno amato. Stretti l'uno all'altra, essi hanno portato il loro amore sulle colline, dalla bellissima, eternamente fiorita di Poggioreale, alla stupenda di Posillipo; essi hanno chinato i loro volti sui crateri infiammati, paragonando la passione incandescente della natura alla passione del loro cuore; essi si sono perduti per le oscure caverne che rendevano paurosa la spiaggia Platamonia; essi hanno errato nelle vallate profonde che dalle colline scendevano al mare; essi hanno percorso la lunga riva, la sottile cintura che divide il mare dalla terra. Dovunque hanno amato. Nelle stellate notti di estate, Parthenope si è distesa sull'arena del lido fissando lo sguardo nel cielo, carezzando con la mano la chioma di Cimone che è al suo fianco; nelle lucide albe di primavera hanno raccolto, nel loro splendido giardino, fiori e baci, baci e fiori inesauribili; ne' tramonti di porpora dell'autunno, nella stagione che declina, hanno sentito crescere in essi più vivo l'amore; nelle brevi e belle giornate invernali hanno sorriso senza mestizia, pur anelando alla novella primavera. La pianta secolare ha prestata la sua ombra benevola a tanta gioventù; la contorta e bruna pietra dei campi Flegrei non ha lacerato il gentil piede di Parthenope; il mare si è fatto bonario ed ha cantata loro la canzoncina d'amore, la natura leale non ha avuto agguati per essi; sugli azzurri orizzonti ha spiccato il profilo bellissimo della fanciulla, il profilo energico del garzone. Quando essi si sono chinati ed hanno baciato la terra benedetta, quando hanno alzato lo sguardo al cielo, un palpito ha loro risposto e fra l'uomo e la natura si è affermato il profondo, l'invincibile amore che li lega. Napoli, la città della giovinezza, attendeva Parthenope e Cimone; ricca, ma solitaria, ricca, ma mortale, ricca, ma senza fremiti. Parthenope e Cimone hanno creata Napoli immortale. Ma il destino non è compito ancora. Più alto scopo ha l'amore di Parthenope. Ecco: dalla Grecia giunsero, per amor di lei, il padre e le sorelle e amici e parenti che vennero a ritrovarla; ecco: sino al lontano Egitto, sino alla Fenicia, corre la voce misteriosa di una plaga felice dove nella bella festa dei fiori e dei frutti, nella dolcezza profumata dell'aria, trascorre beatissime la vita. Sulle fragili imbarcazioni accorrono colonie di popoli lontani che portano seco i loro figliuoli, le immagini degli dèi, gli averi, le comuni risorse; alla capanna del pastore sorge accanto quella del pescatore; la rozza e primitiva arte dell'agricoltura, le industrie manuali appena sul nascere compiono fervidamente la loro opera. Prima sorge sull'altura, il villaggio a grado a grado guadagna la pianura; un'altra colonia se ne va sopra un'altra collina ed il secondo villaggio si unisce col primo; le vie si tracciano, la fabbrica delle mura, cui tutti concorrono, rinserra poco a poco nel suo cerchio una città. Tutto questo ha fatto Parthenope. Lei volle la città. Non più fanciulla, ma ora donna completa e perfetta madre: dal suo forte seno dodici figliuoli hanno vista la luce, dal suo forte cuore è venuto il consiglio, la guida, il soffio animatore. È lei la donna per eccellenza, la madre del popolo, la regina umana e clemente, da lei si appella la città; da lei la legge, da lei il costume, da lei il costante esempio della fede e della pietà. Due templi sorgono a dèe, invocate protettrici della città: Cerere e Venere. Ivi si prega, ivi, attraverso gli intercolunni, sale al cielo il fumo dell'olibano. Una pace profonda e costante è nel popolo su cui regna Parthenope; ed il lavorìo operoso dell'uomo non è che una leggiera spinta alla natura benigna. La più bella delle civiltà, quella dello spirito innamorato; il più grande dei sentimenti, quello dell'arte; la fusione dell'armonia fisica con l'armonia morale, l'amore efficace, fervido, onnipossente è l'ambiente vivificante della nuova città. Quando Parthenope viene a sedere sulla roccia del monte Echia, quando essa fissa lo sguardo sul Tirreno, più fido dello Ionio, l'anima sua si assorbisce in un pensiero. La regione ignota è raggiunta, il mirabile, l'indefinibile, ecco, è creato, è reale, è opera sua. E mentre la fantasia si allarga, si allarga in un sogno senza confine, Parthenope sente giganteggiare il suo spirito e sollevata in piedi le pare di toccare il cielo col capo e di stringere il mondo in un immenso amplesso. Se interrogate uno storico, o buoni ed amabili lettori, vi risponderà che la tomba della bella Parthenope è sull'altura di San Giovanni Maggiore, dove allora il mare lambiva il piede della montagnola. Un altro vi dirà che la tomba di Parthenope è sull'altura di Sant'Aniello, verso la campagna, sotto Capodimonte. Ebbene, io vi dico che non è vero. Parthenope non ha tomba, Parthenope non è morta. Ella vive, splendida, giovane e bella, da cinquemila anni. Ella corre ancora sui poggi, ella erra sulla spiaggia, ella si affaccia al vulcano, ella si smarrisce nelle vallate. È lei che rende la nostra città ebbra di luce e folle di colori: è lei che fa brillare le stelle nelle notti serene; è lei che rende irresistibile il profumo dell'arancio; è lei che fa fosforeggiare il mare. Quando nelle giornate d'aprile un'aura calda c'inonda di benessere è il suo alito soave: quando nelle lontananze verdine del bosco di Capodimonte vediamo comparire un'ombra bianca allacciata ad un'altra ombra, è lei col suo amante; quando sentiamo nell'aria un suono di parole innamorate; è la sua voce che le pronunzia; quando un rumore di baci, indistinto, sommesso, ci fa trasalire, sono i suoi baci; quando un fruscìo di abiti ci fa fremere al memore ricordo, è il suo peplo che striscia sull'arena, è il suo piede leggiero che sorvola; quando di lontano, noi stessi ci sentiamo abbruciare alla fiamma di una eruzione spaventosa, è il suo fuoco che ci abbrucia. È lei che fa impazzire la città: è lei che la fa languire ed impallidire di amore: è lei la fa contorcere di passione nelle giornate violente dell'agosto. Parthenope, la vergine, la donna, non muore, non ha tomba, è immortale, è l'amore. Napoli è la città dell'amore.

CONTRO IL FATO

682592
Steno, Flavia 2 occorrenze

Quell'alcova azzurra, tutta chiusa, custodita da due amorini alati, era troppo seducente e piena di promesse per poterla abbandonare, e quella splendida creatura da tempo trascurata, non gli era mai sembrata tanto bella, così bianca e rosea, un po' stanca, un po' languida, abbandonata tutta sul letto ampio e basso, colle spalle ed il petto scoperti offrentisi ai baci. Nel suo sangue acceso ed eccitato, divampò a un tratto il desiderio. - Sarah!... - disse con voce bassa e implorante, chinandosi su di lei e passandole una mano sotto le spalle. - Lasciami! - non potè far a meno di gridare la duchessa, spaurita e tremante, rabbrividendo all'idea di doverlo subire ancor fremente e inebriato dagli amplessi dell'altra. Ma eccitato e alterato com'era, egli non avvertì l'accento pieno di terrore e di ripugnanza. Credette si schermisse per quell'istintivo senso di pudore, che impedisce sempre ad una donna di offrirsi intera al primo bacio e proseguì più incalzante, tutto curvo su di lei, mordendole la bocca e scompigliandole i capelli. Era un impeto di passione irruente, un soffio di voluttà acre e selvaggia contro il quale essa si difendeva con tutte le forze, torcendosi per svincolarsi dalla stretta di lui, supplicando e gemendo con accenti interrotti e soffocati dai baci, respingendolo colle mani, colle ginocchia, col petto, orribilmente sgomenta dall'idea di appartenergli così, di non poter vincere, di sentirsi mancare e svenire sotto quei baci di fuoco che le toglievano a poco a poco tutta la forza. - Non voglio i tuoi baci, no, no! - supplicava straziata. E finalmente questo grido supremo, cento volto ripetuto, non vinto mai nè dalle carezze, nè dalle proteste, lo percosse brutalmente, riempiendolo di stupore. - Perchè, amor mio? - domandò, senza lasciarla, ma sollevandosi un poco a guardarla in viso. Essa tacque: il cuore le palpitava assai forte in petto, gli occhi neri, stanchi di passione, si riempivano di lacrime. - Perchè non vuoi i miei baci? - insistè lui. E allora, fremente d'indignazione: - Perchè mi ripugni! - ella gridò, chiudendo gli occhi per non vederlo. Luciano si rizzò mortalmente pallido sotto l'insulto che in quell’ora, in quel luogo, era il più sanguinoso ed umiliante che potesse ricevere. - Sarah! - gridò con voce alterata dallo stupore o dalla rabbia. - Sei impazzata, Sarah!... Soffriva, ed era realmente sincero nel suo dolore; ah! quella parola sulla bocca della donna che portava il suo nome, e che egli credeva pur d'amare, a modo suo!... Ah, peggio ancora della parola, la ripugnanza e il disgusto nel cuore e nei sensi di quella donna, che per lui solo aveva conosciuto l'amore. Sarah piangeva in silenzio voltata bocconi nel letto, col viso nascosto nel guanciale e la stupenda massa di capelli d'oro scomposta tutta come un'enorme aureola. E per quel pianto egli ebbe l'intuizione che qualche cosa di molto grave doveva essere successo alla poveretta, così stranamente eccitata e cattiva. - Hai fatto per ridere, non è vero? Dimmi che fu solo un cattivo scherzo; dimmelo per carità!... – S'era chinato un po’ fino a sfiorarle i capelli, e la sua voce era tanto cupa e angosciosa, che essa ne fu profondamente scossa. - Oh, quanto male m'hai fatto! - singhiozzò. - Io? io t'ho fatto del male? Ora cominciava a spiegarsi un po' il vivo sdegno di lei. - Dimmi tutto.... - pregò. - Che vuoi ti dica? So tutto, ecco! so tutto e non ti amo più, non voglio amarti più, perchè tu m'inganni, ti ridi di me, e non sai che farti del mio amore ch'era tanto vero e grande! oh Dio!... Finì in un gemito straziante il lamento doloroso, che era proprio il sangue del suo cuore ferito. Luciano comprese: essa aveva scoperto qualcuna delle sue quotidiane infedeltà; ciò lo seccava assai, ma spiegava benissimo la frase terribile, che non il cuore e non i sensi, ma l'orgoglio ferito della sua povera innocente, gli aveva gettato in faccia. Oh avrebbe egli ben saputo illuderla ancora e farsi perdonare!... - O mia povera bimba! - sussurrò baciandola affettuosamente sulla fronte, come avrebbe fatto una madre. Dimmi dunque che c'è stato, che t'hanno detto....- pregò, immaginando che da qualche pettegolezzo femminile ella avesse potuto sapere qualche cosa. - Oh, no, non m' hanno detto soltanto, ho anche veduto! - singhiozzò lei. - Va' non potrai negare!... -Luciano corrugò la fronte assai seccato. Essa aveva veduto? Ciò era peggio di quanto immaginava; bisognava sapere che cosa avesse veduto. E dolcemente, lentamente supplicandola, riuscì a farsi narrar tutto, mentre il racconto di quella triste conversazione con il signor Rook le strappava torrenti di lacrime. Luciano ascoltò silenzioso col viso conturbato, sul quale si riflettevano le tristi impressioni dell'anima. Il signor Rook era stato tanto vigliacco? Ah, gliel'avrebbe pagata! Non era l'aver tentato di sedurgli la moglie ciò che lo indignava maggiormente, molto più che Sarah con delicatezza infinita e forse sbagliata, aveva appena appena alluso a questo per non addolorarlo; ma l'altro fatto bassissimo di aver svelato a lei le facili relazioni del marito.... Bel favore da amico, in verità! Ah! quel Yankee!... Quanto a Sarah, gli fu facilissimo di convincerla che aveva sbagliato. Non c'era nulla di vero! Le donne che essa aveva veduto, erano alcune artiste della nuova compagnia d'operette del Casino; egli le aveva trovate per pura combinazione passeggiando con Lovere e con Yglau in quelle sale. Ora si rammentava d'aver incontrato il signor Rook appunto là intorno. Certo il vigliacco aveva profittato di quella combinazione, per far credere a lei d'essere tradita, por farle odiare il marito e supplirlo così!... Come mai essa, tanto intelligente e colta, non l'aveva capito? E tutto queste ragioni, tutte queste proteste, erano avvalorate da tanti baci discreti e timidi, da un viso così sinceramente addolorato, da un accento così schietto, che Sarah cominciava a lasciarsene penetrare, ad ammetterle buone, ad abbandonarsi ancora, ebbra di felicità, alla gioia immensa di credersi amata. - Ma, - obiettò ancora timidamente - tu eri appoggiato sulla spalla di quella donna.... - Oh, mia povera innocente! - sussurrò lui, abbracciandola. - Credi tu che quelle sieno donne? Sono femmine e nulla più! Non si trattano certo col rispetto che si ha per una signora, e non si sciupa, non si profana con esse l’amore! M'ero appoggiato su di lei, dici? Non rammento! Può darsi che un po' squilibrato dallo sciampagna bevuto poco prima al buffet e dai profumi della festa, mi sia dimenticato al punto d'appoggiarmi alla spalliera della sua seggiola, ma non certo su di lei.... e ciò per discorrere meglio con Lovere che mi stava proprio di fronte.... E tu, tu, povero amore, hai tanto sofferto? Hai creduto che io non ti amassi più, che ti dimenticassi per quelle miserabili! Oh, Dio, Dio! come se fosse possibile non amarti! Come se si potesse trovare una donna più bella, più buona, più cara di te!... Cattiva che sei!... Non hai veduto come son tornato ansioso dei tuoi baci? - soggiunse più dappresso, più piano, sicuro di aver trionfato, soffiandole in viso tutto il folle desiderio poco prima represso. Essa si schermiva ancora un po' dubitosa tuttavia, ma felice, oh, tanto felice e credula per l'immenso bisogno di illusione che le teneva il cuore, già vinta e inebriata da quella che credeva gran passione, ancor più dolce e soave dopo lo strazio sofferto. E gli tese la bocca avida di baci e gli aprì le braccia desiderose, offrendosi finalmente tutta, povera cara, tanto bisognosa d'affetto e di tenerezze. Fu con un sorriso di trionfo che Luciano le diede quella notte l'ultimo bacio. - È tutto passato, non è vero? - le sussurrò prima di lasciarla. - Sì, amore. Ma senti, partiremo domani, eh? - ella implorò, colle braccia sempre avvinto al collo di lui. - Voglio prima dare una lezione a quel vigliacco! fece il duca sdegnoso. - Oh, no, no, ti supplico! Lascialo stare, fuggiamo soltanto al più presto, perchè io ho paura, ho tanta paura!... - Faremo come tu vorrai!... - egli rispose galantemente. Quella promessa finì di rassicurarla. Ma la mattina seguente, quando Luciano risalì dopo la colazione portando a Sarah la notizia che il signor Rook era partito improvvisamente la notte stessa e che aveva lasciato ordini perchè gli spedissero subito tutta la sua roba a Parigi, essa, felice come una bimba, abbracciò lieta il marito e non parlò più di partire. Il terribile signor Rook se n'era andato, dunque si poteva ben prolungare di qualche settimana il delizioso soggiorno a Biarritz. Anzi, ella avrebbe cominciato solo allora a goderlo, perchè per la prima volta in quindici giorni, non aveva più da tremare. Quando scese in un fresco abbigliamento roseo, tutta coperta di trine bianche, era più bella e più attraente che mai. Accanto a lei, Solange si lagnava di quel cattivo signor Rook ch'era partito senza neppur salutarle. Lovere, Gleunitz e d'Ostrog le attendevano rispettosi. - Due vere aurore! - disse il marchese sorridendo. Per la prima volta Sarah accettò lieta il suo braccio per fare un giro in giardino, mentre Solange li seguiva con miss Lucy, e la baronessa flirtava molto correttamente col buon d'Ostrog. - Non vieni, Luciano? - gridò Sarah al marito. - Se permetti, prendo la rivincita della partita perduta ieri.... - disse questi, sedendosi a un tavolino di fronte a Belitzine. Splendeva il meriggio luminoso lì intorno, su nel cielo, sulla terra, sul mare. Lontano le vele bianche solcavano l'Oceano, quasi tenui fragilissime speranze.... - Che splendida giornata! - disse Sarah commossa. E ancora in fondo al giardino sentirono la voce del duca ch'era su nella terrazza: - Scusi! era fante di cuore, principe!

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. - Sì, - proseguì lui - vorrei ch'egli vi amasse tanto da abbandonare per voi la sua casa, sua figlia, il suo paese, vorrei ch'egli fosse il vostro schiavo, e voi capace di rovinarlo completamente. Ecco: vi ho detto tutto! Certamente siete meravigliata; forse anzi anche indignata; non sapete comprendere come si possa rinunciare a voi e gettarvi in braccio al proprio nemico! Ma voi ignorate anche che cosa siano la vendetta e l'odio.... Yvonne taceva, profondamente stupita del contratto che quell'uomo le proponeva, dubbiosa se dovesse accettarlo o no, un po' umiliata nel suo amor proprio di donna, solleticata invece nella sua cupidigia di cortigiana. Milioni! egli le offriva de' milioni solo per lasciarsi amare da un altro! Oh, il cómpito era facile, e non era certo per scrupolo che esitava. Rovinare un uomo? Che cos'era in realtà? Piacergli e farsi pagare cara! Quanti non s'erano già rovinati ed uccisi per lei? Che cosa importava dunque uno più, uno meno? E i milioni del signor Rook valevano invece assai. - Yvonne, - supplicò William vedendola esitante e temendo un rifiuto - siete sdegnata, Yvonne? - Sdegnata? perchè dovrei esserlo! Non mi avete detto prima di non meravigliarmi? E d'altronde la vostra sete di vendetta non spiega tutto? Il signor Rook mandò un sospiro di sollievo. - Accettate adunque, e m'aiuterete? - interrogò ansioso. - Veramente.... - proseguì essa fingendo un po' di tristezza - veramente sarei stata molto più felice se avessi potuto riuscire a guarirvi io stessa dalla vostra triste passione facendovela dimenticare; l'amore trionfa di molto tristezze, ed io vi avrei amato tanto.... - soggiunse piano con un sottinteso pieno di promesse. William sospirò. Egli pensava al suo amore lontano che non aveva potuto conquistare ancora, e il cui pensiero ormai non lo abbandonava più. - Grazie; - rispose dolcemente - voi siete molto buona, ed io vi sarò infinitamente grato.... O Yvonne, anch'io voglio provarlo il vostro amore, anch'io vi voglio mia per deporvi ai piedi tutti i tesori della terra, ed è appunto perché voglio godere la vita con voi, che vi chiedo prima di fare l'enorme sacrificio e d'aiutarmi nella mia vendetta. Io non avrò mai pace, finché essa non sia compiuta. - Dove mi condurrete? - chiese Yvonne esitando. - A Biarritz ora: vi piace Biarritz? - Non vi sono stata mai. Ed a chi dovrò piacere io? Il signor Rook esitò. Ella se ne avvide e: - Non avete dunque fiducia in me? - chiese. - Non siamo uniti per sempre? - Accettate, dunque? - chiese lui. - Poiché lo volete.... - ed essa aveva l'aria d'una vittima pronta pel sacrificio, rassegnandosi così. - Chi è il vostro nemico? - proseguì. - Il duca d'Eboli! - disse Willian senza più esitare. Yvonne aggrottò un poco le ciglia come pensando. - Non lo conosco - soggiunse piano. - Lo so. - E avete un programma? - interrogò lei, diventata più cinica del suo complice. - Perderlo. - In che modo, con quali mezzi? - Oh, non è un delitto! - disse lui sorridendo. Non avete che a farvi amare! Non sono tutti perduti gl'infelici incatenati dal vostro fàscino? - Non voi. - Un giorno forse perderete me pure. - Oh! - protestò essa. - Ma non abbiate paura. Quel giorno è ancora lontano, perché le miniere di Wyoming sono molto più forti dei tesori europei.... - disse con un certo orgoglio. - E se il duca resistesse? Il signor Rook sorrise. - Allora sarete la padrona della mia vita. Essa comprese la sicurezza e la fiducia immensa ch'egli aveva nel potere della sua bellezza. - Credete adunque ch'egli mi amerà? - Perché farvi ripetere ciò che tanti anni di esperienza devono avervi già detto? - Partiremo presto? - Domani se non vi disturba. Ho molta premura. - Va bene, domani. - Intanto - soggiunse lui, sovvenendosi del dono che aveva seco - permettetemi d'offrirvi questo misero attestato della mia profonda ammirazione e della riconoscenza che mi lega a voi. Essa diede un'esclamazione di meraviglia alla vista di quegli splendidi rubini, che brillavano come brace ardenti al fioco lume della lampada. Non aveva sbagliato accettando lo strano patto di William. L'americano era splendido, quelle gemme valevano un patrimonio. - E - disse ancora il signor Rook, traendo di tasca il libretto degli chèques - siccome la partenza, soprattutto così improvvisa, esigerà delle spese, non permetto certo che voi abbiate a sopportarle sola. Qui vi sono tanti chèques chèquesper cinquecentomila lire - disse staccandoli e deponendoli sulla tavola sotto una fotografia di Yvonne - forse vi basteranno sino a domani. Gli occhi della giovane donna ebbero un lampo di gioia infinita. Ah, quell'americano! - Troppo gentile, - sussurrò chinandosi verso di lui, offrendosi tutta con un invito provocante nello sguardo improvvisamente lascivo. Ma William sfiorò appena colle labbra quella fronte bianca, poi si alzò per uscire. - Ho fatto tardi e dovete essere annoiata, non è vero? - disse galantemente coll'aria d'un gentiluomo che parli ad una contessa. - Tutt'altro! non volete restare a colazione con me? - Come, non avete ancora fatto colazione? Ma io ho mangiato da più d'un'ora! - esclamò lui fingendosi desolato. Yvonne sorrise. - Debbo venire a prendervi per l'Opéra, stasera? chiese ancora William. - Sarà meglio ch'io vada a letto presto, se dobbiamo metterci in viaggio domani! - Come volete; arrivederci a domani, allora. Ella suonò, ma nello stesso punto Maria entrava colla nota di Beudy per la piccola commedia combinata. Yvonne comprese e sorrise. Era ormai inutile quella farsa! Altro che diecimila lire! E quando Maria ritornò in salotto, dopo avere accompagnato il signor Rook fino sul pianerottolo, essa esclamò mostrandole gli orecchini e gli chèques: chèques:- Finalmente eccone uno che paga e che non sarà geloso di certo!...

Pagina 69

IL GIORNALINO DI GIANBURRASCA

683083
Bertelli, Luigi - Vamba 1 occorrenze
  • 1912
  • MARZOCCO Sessantunesima edizione
  • prosa letteraria
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Non so quanto tempo stetti così sveglio, riflettendo sui casi della giornata, architettando deduzioni su deduzioni; ma la tentazione di salire sull'armadietto mi si riaffacciava sempre, ostinata, a traverso a tutte le mie riflessioni, finché da ultimo mi vinse e mi fece abbandonare ogni saggio consiglio di prudenza. Mi assicurai prima se tutti i miei compagni dormivano, ficcai lo sguardo in tutti gli angoli della camerata per vedere se c'era qualche spia messa a vigilare, e alzatomi pian piano salii sul comodino ed entrai nell'armadietto... Oh, sorpresa!... La parete in fondo era murata; murata come era prima ch'io levassi con tanto paziente lavoro il mattone, aprendomi così vasto e interessante campo di osservazione sulla vita privata dei signori Direttori del collegio Pierpaoli! Non so come riuscii a trattenere un grido. Sgusciai giù dall'armadietto sul comodino e di lì sotto ì lenzuoli... e in mezzo alle ipotesi più strane e fantastiche che mi ballavano vertiginosamente nel cervello, una dominava sulle altre, e ritornava alla mia mente, tenace, implacabile, mostrandomi tutte le probabilità delle quali era armata... - È andata così: - diceva con una terribile sicurezza l'ipotesi trionfatrice di tutte le altre - il signor Stanislao ha sentito ridere te e Gigino Balestra dietro il quadro di Pierpaolo Pierpaoli, e gli è entrato da quel momento un vago sospetto che è andato via via crescendo; e siccome gli ci voleva poco a sincerarsi, stamattina ha preso una scala, l'ha appoggiata alla parete, è salito fino al quadro, l'ha alzato, ha guardato sotto di esso, ha scoperto il finestrino che avevi fatto e... e l'ha fatto murare, dopo essersi assicurato - questo s'intende - dove rispondeva questo finestrino e avere scoperto così che esso corrispondeva proprio nell'armadietto di Giannino Stoppani, detto dai suoi nemici Gian Burrasca!- Ahimé! L'ipotesi, giornalino mio caro, mi pare proprio che colga nel segno e mi aspetto qualche cosa di grosso... Chi sa, dopo queste righe che butto giù alla meglio in questa terribile nottata insonne, quando potrò ancora confidare i miei pensieri e i casi della mia vita alle tue pagine?

MILANO IN PERCORSA IN OMNIBUS COMPILATA DA GAETANO BRIGOLA ED ILLUSTRATA DA NOTIZIE STORICHE ED ARTISTICHE DA FELICE VENOSTA

683203
Brigola, Gaetano 1 occorrenze
  • 1871
  • Editore Librajo -PRESSO GAETANO BRIGOLA
  • prosa letteraria
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., abbandonare la linea di Porta Romana e prendere l'omnibus dell'impresa Lissoni con stazione in Piazza Fontana, linea al suburbio di Porta. Ticinese.