Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbandonare

Numero di risultati: 27 in 1 pagine

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Da Bramante a Canova

250874
Argan, Giulio 1 occorrenze

Nel 1524, quando gli eredi di papa Giulio minacciano d’intentare un processo per inadempienza, è sul punto di vendere tutti i marmi, restituire il denaro, abbandonare definitivamente l’impresa; poi decide di concludere il lavoro nel modo più sbrigativo, abbassandosi fino a ricalcare schemi tradizionali come quelli delle tombe di Pio II e di Paolo II. La rinuncia ha un motivo inconfessato ma preciso: nella primavera di quello stesso anno Michelangiolo aveva messo mano all’esecuzione delle sculture per la cappella Medicea, l’opera che segna il momento più alto della sua lunga meditazione sulla morte e l’immortalità dell’anima. Che una relazione esista con il progetto ridotto del -1525, che gli eredi del papa respingono e l’artista non difende, è dimostrato dal fatto che, in esso, la statua del pontefice è seduta, forse in una nicchia, come quella di Giuliano e di Lorenzo nella Sacrestia nuova. L’accento cade soprattutto sull’architettura, sul suo spazio astratto e quasi soltanto delineato: in esso le statue appaiono come sospese e il loro chiaroscuro è, potrebbe dirsi, il medio proporzionale tra gli estremi opposti, di luce e di tenebra, delle membrature e degli specchi piani dell’architettura. È una concezione idealmente platonica, e al neoplatonismo fiorentino si ricollega la concezione stessa della morte come rinascita o eterna giovinezza dell’anima. Il tema della morte, infine, si sviluppa nella cappella Medicea in una direzione affatto diversa da quella che aveva ispirato i primi progetti della tomba del papa.

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Della scultura e della pittura in Italia dall'epoca di Canova ai tempi nostri

251474
Poggi, Emilio 1 occorrenze
  • 1865
  • Tipografia toscana
  • Firenze
  • critica d'arte
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Ma se non del tutto si svincolò dalle maniere primitive, bisogna ascriverlo alla difficoltà morale nella quale trovasi un’uomo di abbandonare ed obliare del tutto le tendenze, le aspirazioni, colle quali nacque, si educò e visse lunghi anni nell'esercizio delle arti. E concludendo del Benvenuti, sento che mancherei ad un dovere di giustizia, di reverenza, e di ammirazione, se tacessi che se in tutte le sue opere, negli affreschi della Cupola di S. Lorenzo, nei quadri della morte di Priamo, in quello di Ettore che rimprovera Paride, si riscontra un fare largo, quasi tendente all’esagerato, pure elle sono sempre improntate del carattere classico, e monumentale.

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Il divenire della critica

251634
Dorfles, Gillo 3 occorrenze

Nato a Rosario (in Argentina) nel 1899 da famiglia italiana e stabilito sin dal 1905 a Milano (dove doveva trascorrere tutta la vita salvo per il periodo fascista in cui fece ritorno in Argentina), Fontana diede vita, già nel periodo tra le due guerre, ad una serie di opere, plastiche e pittoriche, dove appariva evidente la sua volontà di abbandonare gli schemi tradizionali allora imperanti per creare opere del tutto staccate dalla rappresentazione veristica della realtà. Tra le opere di questo primo periodo vanno ricordate - perché si riallacciano alla tendenza divenuta poi dominante nella sua attività più matura - alcune statue in gesso bianco e nero e dorato, e alcuni graffiti, già totalmente astratti, che si possono considerare assieme a quelle coeve di Melotti tra le prime sculture non-figurative apparse in Italia. È di questo primo periodo (che va grosso modo dal ’31 al ’35) la vasta produzione astratta - oggi in buona parte dispersa o distrutta - nella quale Fontana fu, tra i primi in Italia a tentare di svincolare la scultura da una figuralità naturalistica, forse influenzato in parte dalla lezione di Arp, di Archipenko, di Zadkine. Si trattava di sculture spesso monodimensionali, prevalentemente piane, sottolineate dall’aggiunta di segni graffiti, già presaghe di future opere che sarebbero state riprese e perfezionate con le «sculture da giardino» in lamiera metallica.

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E, ancora, prima di abbandonare il piccolo drappello degli artisti recentemente scomparsi, vorrei segnalare la presenza qui di due delle grandi e robuste composizioni metalliche di David Smith - questo vero padre della recente scultura metallico-industriale, risalenti alla sua stagione spoletina, e gli assemblages di metallo di Kemény, i quali, per contro, a solo due anni dalla sua scomparsa, sembrano già incredibilmente arretrati nel tempo: ancora immersi nella palude remota dell’informale.

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Dire che l’arte deve abbandonare il piano della connotazione e limitarsi al piano della denotazione (come avveniva e avviene per le operazioni matematiche e scientifiche), o, meglio, che occorre eliminare ogni «alone semantico» di cui era gonfia l’opera pittorica tradizionale, e dimostrarlo praticamente esibendo - a mo’ d’opere d’arte - delle pagine di testi scientifici, di chimica, di astrofisica, di logica, ecc. - significa voler trascurare l’ormai classica distinzione 1 carnappiana tra linguaggio comune, linguaggio estetico e linguaggio scientifico. E significa, soprattutto, non comprendere come è proprio nella «vaghezza» (vagueness, secondo Quine)2 dei significati, nella loro ambiguità e imprecisione semantica che è implicita il più delle volte la loro qualità estetica.

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La pittura moderna in Italia ed in Francia

252785
Villari, Pasquale 3 occorrenze
  • 1869
  • Stabilimento di Gius. Pellas
  • Firenze
  • critica d'arte
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Discepolo di David, egli vide il nuovo slancio che pigliava la pittura; la vide abbandonare il suo maestro, per gli audaci ardimenti del Géricault e del Delacroix; comprese i tempi mutati, e i nuovi pericoli cui essa andava incontro, lasciata in balia di se stessa, e abbandonate le antiche tradizioni. Si decise quindi a regolare la nuova corrente, non contrastandola; ma dandole una guida, un indirizzo; ponendo un argine al fiume che ingrossava minaccioso. Dotato di quella energia di volontà, con cui si compiono le grandi imprese, andò a Roma e si pose allo studio di Raffaello, di Michelangiolo, di quella scuola italiana che aveva dato all’arte classica una forma nuova; uno spirito moderno. Tutta la sua vita fu’dedicata a questo scopo, ed egli, contrastato da molti, compreso da pochi in sul principio, arrivò finalmente ad una reputazione che, dopo lui, nessuno raggiunse in Francia. Le sue opere dimostrano un ingegno eminente, uno studio profondo, una grande padronanza nel modellare, una singolare energia di disegno, una espressione sicura. In lui manca però quella impronta di spontanea originalità, che costituisce la grandezza del Delacroix. Il suo colore è freddo, e le sue opere accusano troppo il lungo studio e il grande amore. V’è in esse una tendenza costante al grande, al severo, al nobile nell’arte; ma vi sono uniti elementi diversi come a contrasto. Il cinquecento, la statua greca, lo studio del vero che egli proseguì sempre, e lo spirito del suo tempo che egli non poteva non sentir vivamente, son come stretti fra loro da una forte volontà, piuttosto che uniti e composti in una nuova forma. Voi sentite la forza dell’alto intelletto, ammirate la severa sapienza dell’artista; ma egli non sempre vi commuove, e potete più studiarlo ed imitarlo, che esserne dominato. I suoi ritratti sono qualche volta impareggiabili, alcuni suoi quadri, come la Stratonica e la Source, hanno un sentimento tutto moderno, con una nobiltà antica di forme, e sono dei più belli e popolari. Guardandoli dovete accorgervi che la pittura moderna trionferà ancora su questa nuova arte classica; ma riceverà da essa un benefizio grandissimo. Ed invero, l’Ingres fu uno dei più grandi fondatori della scuola moderna in Francia. In mezzo a quel tumultuoso risorgimento, pieno di vita e di giovinezza, ma pur pieno di pericoli; egli venne, collo studio dell’antico, a dare alla pittura francese, direi quasi, una solida ossatura, imo scheletro fermo e determinato. Da lui e dal Delacroix, ebbero origine due tendenze diverse che dettero dei coloristi come il Decamps, dei rinnovatori dell’arte italiana e della pittura religiosa come il Flandrin e molti altri. Dai primi e dai secondi risultò poi la storica, che finalmente ci dette con Delaroche una terza forma dell’arte francese.

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Ma chi li ha fatti abbondanare in tutta Europa; chi ha fatto abbandonare la loro via nella prosa e nella poesia? Per qual ragione coloro stessi che li imitano e li seguono, riescono così inferiori anche ai loro compagni che, per disprezzo chiamano realisti? Il mutamento è più profondo che non si crede. Imitare è una parola che bisogna spiegar bene. Studiare i classici, tradurli in propria sostanza, dare con essi solidità e nobiltà alla propria cultura, è necessario nella pittura come nelle lettere. Ma per farlo con successo, bisogna pure avere qualche cosa di proprio da dire, bisogna pure avere una propria aspirazione verso un ideale che vuole essere continuamente rinnovato e creato, che non si può contentare d’una meccanica riproduzione. Imitare! Ma la Trasfigurazione di Raffaello non si può dipingere una seconda volta, appunto perchè fu dipinta una prima. Lo stesso Raffaello non poteva ripeterla; il suo spirito dopo averla finita, era in condizioni ben diverse da quelle in cui l’aveva cominciata. I suoi quadri differiscono tutti gli uni dagli altri, e il giorno in cui avesse cominciato a ripetersi o imitarsi, egli non sarebbe stato più Raffaello, ma la pallida ombra di se stesso. Se non v’è nulla di nuovo nel nostro spirito; se non v’è un’attività propriar, e qualche cosa di necessario a dire; manca la forza assimilatrice per impadronirsi dei classici, e cavarne profitto. Tutto dunque si riduce a sapere: quali sono ora le condizioni dello spirito francese? Esse, crediamo, son quali le abbiamo descritte. E la pittura precipita quindi necessariamente, si studino o non si studino i classici, non solo verso il reale ma verso il materiale.

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Fra questi è da nominare innanzi tutti il Mancinelli, artista certo d’un merito eminente, che senza abbandonare allatto l’Accademia, risentiva la nuova vita dell’arte, ed osava trattare soggetti storici del medioevo, con una correzione di disegno giustamente pregiata. Tutto questo era un moto assai lento, che non bastava ad apparecchiare gli elementi d’un’arte nuova; ma l’ora giungeva, ed ogni cosa doveva contribuire al fine inevitabile.

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La storia dell'arte

253079
Pinelli, Antonio 1 occorrenze

In Transformations in Late Eighteenth Century Art, un libro del 1967 che costituisce ancora un valido punto di riferimento per gli studi sull’arte occidentale tra Sette e Ottocento, lo storico dell’arte americano Robert Rosenblum definisce giustamente concetti come Neoclassicismo e simili «camicie di forza semantiche che è divenuto impossibile sia usare che abbandonare». In pieno accordo con lui, io ritengo che, a dispetto della loro genericità e del loro essere troppo costrittive, sia di fatto impossibile disfarsi di queste «camicie di forza». Occorre tuttavia, da una parte ricaricarle di valore semantico, ripercorrendone a tale scopo le alterne vicende della fortuna storico-critica, e dall’altra considerarle pragmaticamente per quelle che sono: semplici astrazioni di comodo che sono però utili per far ordine nel gremito e variegato panorama della storia dell’arte. Non vanno dunque scambiate per entità concrete, né si può pretendere che esse abbraccino l’intera fenomenologia artistica di un’epoca, così come sarebbe un grave errore ritenere che ciascuna di esse abbia confini cronologici precisi, scanditi in modo netto, con una data di nascita ed una di morte, come Fig. 58. Francisco Goya, La famiglia dell'Infante don Luis di Borbone, 1783 ca., Mamiano di Traversetolo (Parma), Fondazione Magnani Rocca. se si trattasse di organismi biologici. Il Rococò, tanto per fare un esempio, fiorisce tra il 1690 e il 1730-40 circa, ma ciò non toglie che esso si prolunghi ben oltre quest’ultima data con artisti anche di primissimo piano perfettamente «etichettabili» come rococò, che operano quando già sta decollando e conquistando sempre più favore il Neoclassicismo. Quest’ultimo, del resto, è senz’altro la corrente stilistica egemone tra il 1750 e il 1815. Ma a prescindere dal fatto che un pittore come Francisco Goya (fig. 58), pur rientrando perfettamente in questo ambito cronologico, non è neppure alla lontana inquadrabile nella nozione di Neoclassicismo, è facile constatare come opere che in tutto e per tutto corrispondono ai canoni estetici e ai precetti neoclassici non solo continuino a nascere anche nell’Ottocento inoltrato, ma addirittura vengano riproposte in pieno Novecento. Si pensi, ad esempio, al caso della National Gallery di Washington, costruita, rispettando canoni rigorosamente neoclassici, fra il 1937 e il 1941, o di questa banca giapponese degli anni Trenta del secolo scorso (fig. 59), che sfoggia un austero e massiccio ordine dorico, con tanto di triglifi e metope nel fregio, non diversamente da un’opera-manifesto del Neoclassicismo tedesco come il Walhalla di Leo von Klenze, che fu costruita esattamente un secolo prima.

Pagina 80

Leggere un'opera d'arte

256672
Chelli, Maurizio 1 occorrenze
  • 2010
  • Edup I Delfini
  • Roma
  • critica d'arte
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Jan Brueghel il Vecchio è il primo ad abbandonare il riferimento paesaggistico, iniziando a rappresentare il tema su uno sfondo indistinto, come nel Vaso di fiori, con monete, conchiglie e un gioiello, dipinto nei primi anni del Seicento per il Cardinale Federico Borromeo (figura 134). La presenza di elementi che richiamano la tattilità (le monete, le conchiglie e il gioiello) uniti agli elementi che richiamano l’olfatto (i fiori) potrebbero fare di questa composizione una allegoria dei sensi. In alcune opere assieme ai fiori compaiono, in contrapposizione simbolica, una farfalla (il bene) e un sauro (il male); in questo caso la natura morta è usata come allegoria della “vanitas”, ossia della caducità dell’esistenza. La natura morta del Maestro di Flartford, conservato nella Galleria Borghese a Roma, mostra un vaso di fiori accanto al quale, in basso a destra, sono due sauri (che sembrano fronteggiarsi), mentre in alto, sopra i fiori, volano delle farfalle.

Pagina 202

L'arte contemporanea tra mercato e nuovi linguaggi

257058
Vettese, Angela 4 occorrenze

La strada era già stata aperta, del resto, dal concetto di Kant di sublime: cioè di qualcosa che causa un’emozione impossibile da elaborare in termini di giudizio e a cui ci si può soltanto abbandonare. Il sublime kantiano è il primo passo, in effetti, verso immagini così perturbanti da risultare letteralmente insopportabili. Le correnti espressioniste hanno messo in evidenza per tutto il Novecento quanto sia rilevante per noi, oggi, evidenziare questo modo del sentire, che nel lessico di Georges Bataille è diventato l’«abietto».

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Sarebbe stata una follia, dato che nessuno degli artisti del XX secolo ha mai avuto l’intenzione di abbandonare una storia culturale e una culla di valori che hanno nell’Umanesimo e nelPllluminismo le loro radici. Se Pablo Picasso, Constantin Brancusi ed Ernst Ludwig Kirchner hanno preso ispirazione dall’arte primitiva non è stato forse più per allargare i propri orizzonti che per smantellare un’eredità di cui erano figli? Lo stesso vale per l’azzeramento delle forme e dei materiali iniziato negli anni Cinquanta e poi radicatosi nel ventennio successivo: se Lucio Fontana, Yves Klein e John Cage hanno guardato a Oriente e alla filosofia zen, è stato per dare nuovo vigore all’arte non certo per farla morire.

Pagina 117

A partire anche da quegli esperimenti, gli artisti hanno iniziato a giocare con le immagini in movimento e ad abbandonare la logica narrativa servendosi di vari effetti: lo sfocato o blurred, la sovrapposizione, l’errore, il disturbo, il flashback, l’intrusione inaspettata. La lezione delle avanguardie si ritrova nei video di oggi, nell'uso di spezzoni trovati e montati tra loro, da un lato, e nella consuetudine di abbinare scene fittizie e brani documentari, dall’altro. Provocare piccoli traumi percettivi o anomalie nella visione è ancora uno dei traguardi principali degli artisti filmmakers. Ricordiamo il belga Johan Grimonprez, che in Dial H-I-S-T-O-R-Y (1997) accostò a una lunga sequenza di immagini found footage di incidenti aerei una colonna sonora rilassante tipo quelle da sala d’attesa. Il contrasto tra le scene e la musica, oltre essere spiazzante, alludeva alla capacità di assuefazione dei media, che riescono ad addolcire qualsiasi pillola alzando la soglia di sopportazione dello spettatore e anestetizzandone lo spirito critico.

Pagina 42

Già al tempo delle avanguardie, Vladimir Tatlin immaginò una torre ricetrasmittente; il futurista Filippo Tommaso Marinetti nel 1933 fantasticò con la stesura del manifesto La Radia «la possibilità di captare stazioni trasmittenti poste in diversi fusi orari»; il drammaturgo Bertolt Brecht sognò una radio in grado di «abbandonare il suo ruolo di fornitrice e far sì che l’ascoltatore diventi fornitore». Lucio Fontana, nello scritto Noi continuiamo l’evoluzione del mezzo dell’arte, del 1951, pensò a una ricetrasmittente televisiva da inserire in un aerostato; Robert Rauschenberg e Robert Morris si avventurarono in una precoce collaborazione con ingegneri e scienziati nel progetto Eat (Experiments in Art and Technology), orchestrato, a partire dal 1966, da Billy Kluver, per cercare di varcare i confini dell’arte in senso stretto in un ciclo di happening interdisciplinari (9 Evenings: Theatre and Engineering). Oggi viviamo tutti in quell’ambito attraversato da onde magnetiche, segnali radio e altri invisibili trasportatori di informazioni che chiamiamo «cyberspazio» un termine coniato nella prima metà degli anni Ottanta dallo scrittore di fantascienza William Gibson con il romanzo Neuromancer -, viviamo circondati da protesi che vanno dal personal computer (una definizione del tutto calzante, che ci dice come il vecchio «calcolatore elettronico» sia diventato un’estensione e un contenitore aggiuntivo per la nostra personalità) a tutti gli orpelli che il geniale marketing Apple ha definito con il pronome personale «io» nella versione inglese: iPod, iPhone, iPad. L’individuo si estende nei suoi strumenti.

Pagina 55

Manifesti, scritti, interviste

257740
Fontana, Lucio 1 occorrenze

Le figure sembrano abbandonare il piano e continuare nello spazio i movimenti raffigurati.

Pagina 15

Pop art

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Boatto, Alberto 1 occorrenze

Successivamente ha semplificato le sue costruzioni, basandole ora sulla moltiplicazione seriale di un solo elemento — ritornante è lo schema a gradoni o a ziggurat —, una semplificazione che ha consentito a Tilson di adottare la tecnica industriale e di abbandonare il legno per le materie plastiche.

Pagina 187

Scritti giovanili 1912-1922

262907
Longhi, Roberto 8 occorrenze

E tuttavia non vorremmo abbandonare questi tentativi di un artista eccezionale, che passano ormai in secondo piano, senza ricordare ancora la profonda poesia scultoria che pure racchiudono - oltre i pericoli.

Pagina 140

Il viaggio a Roma non significò precisamente, come vorrebbe il De Dominici, uno studio intensivo della Galleria Farnese, ma soltanto una ricognizione intelligente per orientarsi di fronte al problema dell'affresco, senza abbandonare, al possibile, lo stile caravaggesco. E perciò più che l'ecclettismo del Bolognese, gli servì il risalire agli esemplari del primo Cinquecento che combinati, se non sempre felicemente, almeno con costante serietà, allo stile nuovo ed arcaico di Caravaggio, danno a Battistello, qui ed altrove, un curioso sapore di quattrocento o tutt'al più di quello stile che a' suoi tempi si designava come antico-moderno.

Pagina 189

Noi crediamo che ciò sia addirittura mutare arte, o peggio, abbandonare l'arte (dove la tecnica è assorta nel gesto creativo) per una tecnica astratta dalla creazione. Non perché non si possa fare grandi ritratti col disegno chiuso, invece che col disegno d'impressione, con la linea sola, o con la sola plastica, ma perché in quei ritratti - e sia pure che qualche lampo di vita artistica appaia qua e là in qualche disegno di testa de' Bossi e dell'Appiani - non v'è, di massima, che un conglobato pallido d'imitazioni del disegno e della plastica (statuaria), unite in una rilegatura affatto accademica.

Pagina 289

Pare che il P. persino s'industrii, per non abbandonare tanto materiale dilavato, a trovare acutezze in ineffabili banalità, in piccole saputerie da Cicerone di provincia, magari in Filostrato di Lemno.

Pagina 312

Avverte egli stesso l'impossibilità di sanare il contrasto tra le due concezioni, ma non lo risolve tuttavia in una superiore verità per non sapere né abbandonare quel concetto abbastanza insignificante di «monumentale» (ma che cos'è poi il «monumentale» se ci sono persino dei monumenti che non sono affatto monumentali?!), né d'altra parte condurre una critica profonda agli schematismi un po' troppo accentuati del Wölfflin.

Pagina 454

Non senza tuttavia abbandonare con rimpianto il ricordo di un delizioso colorismo. Poiché - una volta sgombrati i preconcetti più grossolani sulle possibilità delle tecniche specifiche - nessuno vorrebbe negare che il colore di Simone Martini, di Gentile, di Stefano, di Giambono o di Sassetta, sia in verità meno fulgido, meno sostanziato ed atomico, in certi istanti, che quello di un Bellini o persino di un Tiziano.

Pagina 61

Non volendo egli tuttavia abbandonare le forme del maestro 'si contenta di sfaccettare.in molti 'Piani le ondulazioni di Pollaiolo: onde non più piani larghi e pronti ad un grande colore ma più e più frammentati, aumento inevitabile di chiaroscuro e risalto plastico e passaggio in seconda linea del problema colore. Il quale infatti dalla gamma totale di Piero si riduce per Signorelli a pochi toni profondi di gialli, di marrone, di verde scuro, che s'intonano colla forma bronzeo-rossiccia e la sorreggono, ma non possono valere in totale come composizione coloristica; è così che Signorelli può agire non solo per la forma ma anche per il colore su Michelangelo. Stiamo dunque, con lui, per rientrare nell'orbita dell'arte fiorentina.

Pagina 74

Solo Piero gli poteva offrire, sia pure giungendogli mediatamente, qualche occasione di rinnovamento, lo poteva dotare di un senso per la sostanza coloristica e per una gamma calda contrapposta alla Mantegnesca, solo Piero dargli la modellatura a piani alabastrini della Crocefissione Correr, l'effetto coloristico del pavimento a quadrelli nel Sangue di Cristo a Londra, la possibilità di un'accensione dei toni delicati del polittico di San Giovanni e Paolo, una volta riformato il senso dell'effetto luminoso, e la capacità di abbandonare i troni di finto marmo, i festoni, l'ortaglia e i legumi plastici Padovani, per campire di tono sul cielo azzurro i gruppi delle sue Madonne col Bimbo.

Pagina 93

Scultura e pittura d'oggi. Ricerche

265840
Boito, Camillo 1 occorrenze
  • 1877
  • Fratelli Bocca
  • Roma-Torino- Firenze
  • critica d'arte
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. — Andrea Salaino o Salai, detto il servitore di Leonardo, che ebbe fattezze sì corrette ed angeliche da meritare che il maestro lo ritraesse sovente ne’ suoi quadri religiosi; Giannantonio Boltraffio o Beltraffio, pittore austero talvolta sino alla durezza, che diresse, pare, nelle assenze del fondatore gli studii dell'Accademia milanese e morì giovine, prima della morte del Vinci; Marco d’Oggiono, spesso inelegante e alle volte goffo ne’ proprii dipinti, grande copiatore e ricopiatore del Cenacolo; Cesare da Sesto, finalmente, di cui la maniera fu detta dal Lomazzo ricca, pronta, bizzarra, ma ineguale e scorretta, artista vigoroso e non di rado singolare, il quale si accostava a volte tanto a Leonardo da rimanere confuso con lui, come nelle Erodiadi e nei disegni, ma fu lì lì per abbandonare la maniera leonardesca e lasciarsi trarre da Pierin del Vaga e da Giulio Romano al modo dell’Urbinate. Di questi caratteri, che distinguono l’uno dall’altro i quattro allievi del Vinci, il Magni non tenne conto: li fece fratelli gemelli di corpo, e senza un’ombra di espressione nei volti.

Pagina 90

Ultime tendenze nell'arte d'oggi. Dall'informale al neo-oggettuale

267355
Dorfles, Gillo 2 occorrenze
  • 1999
  • Feltrinelli
  • Milano
  • critica d'arte
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Ma, oltre ad aver abbandonato il normale metodo di dipingere, Pollock sentì anche l’urgenza di abbandonare spesso il medium normale del colore ad olio, facendo ricorso a materiali diversi, sino allora poco o mai adoperati, come il duco (smalto opaco) e la vernice all'alluminio. L'efficacia di questi mezzi, in certo senso grossolani, ma dalle insolite qualità timbriche, doveva tosto essere avvertita dal pubblico; e presto furono legione gli imitatori sia dei metodi di sgocciolamento che dell'uso di smalti e di vernici alternate a polveri e inchiostri.

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Rothko seppe abbandonare una sua maniera più piacevole, più attraente e invogliarne (quella di certi suoi dipinti post-surrealisti composti nel periodo prebellico) per accettare questa totale rinuncia, non solo alla figurazione, ma alla forma, alla struttura, ad ogni altro elemento costitutivo del dipinto, all’infuori del puro colore, e lo fece appunto per giungere ad una distillata e cosciente proiezione dell’elemento cromatico entro una nuova, inesplorata spazialità.

Pagina 69