Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Aristotele esposto ed esaminato vol. I

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Il bene dunque nell' ente creato si mostra sotto tre aspetti, ora di verità, ora di misura e commisurato, ora di bellezza: e nessuna di queste tre idee può abbandonar l' altra, chè c' è tra esse un naturale sintesismo; nè tuttavia si possono da noi unificare come si converrebbe a comporre l' unica e semplicissima idea del Bene stesso assoluto. A queste tre idee si riducono quelle tre altre di cui fa uso nella « Politeia » di ciò che è giusto, bello, prudente o temperato [...OMISSIS...] , poichè, come apparisce dall' ultimo luogo citato, riduce allo stesso il bello e la virtù [...OMISSIS...] , e perciò la giustizia e l' altre tre virtù cardinali (2); nè si dà il giusto e il prudente o temperato senza verità, misura e bellezza. Il Bene dunque è la verità, la misura e il misurato e il bello. e ciascuna di queste tre essenze è il Bene, che prende diverse forme ed aspetti (3), e nel mondo risplendono. Venendo dunque Platone in sulla fine del « Filebo » a classificare i diversi ordini di bene che sono nel mondo, li distribuisce nella scala seguente. Il primo luogo, dice, dee darsi alla misura [...OMISSIS...] e al misurato e ammodato [...OMISSIS...] e a qualunque altre cose tali, di cui convenga credere aver sortito una sempiterna natura [...OMISSIS...] ; e quest' altre cose sempiterne sono appunto quelle indicate, la verità, la bellezza, la giustizia, la prudenza ed ogni virtù. Tutte queste cose per sè stesse non appartengono al mondo o all' uomo, ma sono di spettanza alla causa, [...OMISSIS...] , e tutte insieme formano l' idea del Bene, [...OMISSIS...] , il quale nel mondo e nell' uomo, siccome in uno specchio, si riflette con diversi raggi in tutte quelle diverse idee supreme, l' una reciprocamente inserta nell' altra, che dicevamo. Tutto questo lume riflesso poi non è lo stesso Bene, ma il figliuolo del Bene, [...OMISSIS...] , nel quale e pel quale noi divinando [...OMISSIS...] acquistiamo una cognizione oscura bensì «( per speculum et in aenigmate ) », ma preziosissima e la più necessaria di tutte, del Bene stesso, colla quale sola misuriamo e giudichiamo tutto ciò che del Bene partecipa, e quelle stesse idee eterne, che al Bene ci conducono, e a questo di nuovo, come ad ultimo principio, riferiamo, e vediamo che senza quest' ultima idea non sarebbero. [...OMISSIS...] . Le quali sublimi parole non pronunzia Platone senza dar segno di quella sua solita riverenza e modestia, con cui parla delle cose divine e che s' addice tanto ad un uomo, specialmente privo della divina rivelazione. [...OMISSIS...] . Nel qual luogo è da notarsi come Platone riconosca chiaramente l' idea del Bene, non solo esser causa delle cose intelligibili, ma anche delle visibili; il che dimostra due cose: 1 che per « idea del Bene »intende l' essenza stessa del Bene, il Bene assoluto, Dio; 2 che nulla ammette fuori di Dio, che non abbia per causa Iddio. Questo dunque ha il primo luogo nell' ordine de' beni: il secondo è occupato dal tutto insieme, perfettamente ordinato, sia nel mondo, sia nell' uomo, cioè in quella perfetta composizione tra la sapienza e il piacere, onde risulta la felicità e la perfezione di tali animali intelligenti: è dunque «to xymmisgomenon». E di questo bene si deve intendere il passo che segue: « « Il secondo (bene) è circa il commisurato, e il bello, e il perfetto, e il sufficiente, e quante v' abbiano cose di questa generazione » » (2). Poichè il mondo e l' uomo a pieno virtuoso ha appunto queste qualità di commisurazione, bellezza, perfezione e sufficienza relativamente alla sua natura; e bene è del pari ogni altra cosa che le abbia in sè. Dipoi vengono i beni elementari, di cui questo bene composto, proprio dell' ente creato, si compone, e anche tra questi Platone cerca qual sia l' ordine di preminenza. Avea già detto che questi elementi buoni sono primieramente due, l' uno appartenente all' ordine intelligibile, e l' altro all' ordine sensibile, e che quello va di lunga mano preferito a questo, stante che abbia una stretta parentela col bene supremo. Ma non contento di ciò, spezza l' intelligibile in due, e all' uno dà le idee più sublimi, come appunto quelle dal cui complesso si arriva all' idea del Bene; e questo pone il primo bene degli elementari e il terzo della serie totale. Dice dunque « « se tu dunque porrai per terzo bene la mente e la sapienza [...OMISSIS...] , non andrai lontano dal vero, come io vaticino » ». Avea detto poco prima della mente che ella « « o è un medesimo colla verità, o certo di tutte le cose è la più simile e la più vera » » (3). Delle quali parole, le prime, cioè che la mente sia il medesimo colla verità, appartengono alla mente divina, alla Causa, al Bene: l' altre, cioè che la mente sia di tutte le cose la più simile alla verità e la più vera, appartengono alla mente creata o partecipata dagli animali divini e dall' animale umano. E questa è quella mente che pone terza nell' ordine de' beni, perchè sola non è sufficiente all' animale, benchè per essa comunichi colle cose divine, perchè egli non è pura mente, ma oltre a ciò ha per sua natura l' elemento dell' indefinito, [...OMISSIS...] , che deve essere dalla mente governato. Appunto per questo, oltre alla prima e più sublime delle facoltà intellettive, cioè alla mente che intuisce le più sublimi idee, s' aggiungono le scienze e le arti; e queste stesse talune sono pure e proprie della sola anima senza mescolanza d' alcun elemento attualmente sensibile, opere della mente e della ragione. A questo secondo genere d' intelligibili dà dunque il secondo luogo tra i beni elementari del creato; e il quarto nella classificazione totale: [...OMISSIS...] . E chiama scienze dell' anima, benchè alle sensazioni congiunte, anche questi piaceri (3): poichè non ammette punto per beni i piaceri sensibili, in quanto sieno scompagnati dalla cognizione e dalla verità, ma dall' essere a queste uniti e loro pedissequi ed inservienti [...OMISSIS...] deriva loro la qualità d' essere bene. Essi, dice, devono esser veri , [...OMISSIS...] . Il piacere dunque animale separato dalla cognizione è escluso da Platone dal novero de' beni, come quello che è indefinito, ma dall' idea, quando ne partecipa, riceve il suo finimento e da un' idea ancor superiore e finalmente dall' ultima che è misura suprema il finimento stesso è misurato (5), poichè le idee inferiori cioè più prossime ai reali sensibili, e il loro ordine dalle superiori e finalmente dall' ultima, che è quella del bene, ricevono la commisurazione. Conchiude dunque colla solita piacevolezza. [...OMISSIS...] . Se noi dunque vogliamo per conclusione e ricapitolazione di questo discorso segnare il principio ed il fine della filosofia platonica, e il corso di quell' arte del raziocinio che Platone chiama dialettica, e che conduce l' umana mente da quel principio passo passo finchè abbia raggiunto quel fine, diremo, con persuasione di non andare errati, che l' idea in universale, e propriamente l' essere ideale, [...OMISSIS...] è il principio, da cui vuole che si muova la filosofica disciplina, e il Bene, [...OMISSIS...] è il termine, a cui deve pervenire. Così descrive il filosofo dal principio e dal termine, quando lo dice « « amatore dell' ente e della verità » », [...OMISSIS...] . Ma torniamo oggimai ad Aristotele. Questo magnifico monumento filosofico non si trova nelle opere d' Aristotele, che mutilo a scarsi frammenti, insufficienti a ricomporlo, e guasti anche questi da un' esposizione infedele, sofisticamente tormentati piuttosto che discussi. Si direbbe, paragonando certi luoghi d' Aristotele, in cui parla delle dottrine di Platone, con altri che ancor si leggono nelle immortali opere di questo, che o gli scritti attribuiti ad Aristotele non fossero del discepolo di Platone, o avessero subite profonde alterazioni . Ad ogni modo ecco in che consistono le cardinali differenze tra i due sistemi, dalle quali dipendono tutte l' altre. 1 Secondo Platone, il mondo, e con esso il moto e il tempo, è cominciato per opera di Dio: secondo Aristotele è eterno, e Dio non fa che imprimergli ab aeterno di continuo il primo movimento; 2 Secondo Platone, il mondo è fatto nel tempo, secondo un eterno esemplare, il quale comprende tutte le idee, che si riferiscono al mondo; esemplare formato dalla mente divina per creare il mondo; secondo Aristotele, il mondo, essendo di sua natura eterno, non ha bisogno d' alcun esemplare, e però non ci sono le idee , che lo compongono, separate e indipendenti dal mondo; 3 Secondo Platone, le idee che si riferiscono al mondo come esemplari, sono intuite dalle menti create, che così ne partecipano; ma gli enti privi d' intelligenza, cioè i sensibili, non partecipano di esse, ma soltanto esprimono le loro similitudini , dalle quali, ricevute dall' uomo col senso, la mente trapassa alle idee , di cui quelle sono similitudini, ossia alle essenze de' medesimi sensibili, e per queste essi si conoscono. Aristotele nega, che gli enti reali e sensibili sieno similitudini, ma dà a loro stessi le specie o forme, che diventano intelligibili, tosto che l' anima che n' abbia il potere, le consideri in separato dalla materia, e così è, che ella conosce gli enti reali. Quindi Aristotele stabilisce, che tutte le cose mondiali sono composte di due elementi: 1 materia, [...OMISSIS...] ; 2 specie, [...OMISSIS...] (a cui si riduce anche il terzo elemento, la privazione ). Ma tutto questo complesso di enti, ciascuno composto di materia e di forma, che dicesi mondo, si muove in molte guise (1). Sebbene dunque nella sua supposizione d' un' eternità del mondo, egli non avesse bisogno di ammettere un ente creatore e ordinatore, tuttavia gli fu necessario di stabilire un principio , ed un fine del movimento del mondo e degli enti in esso contenuti: e quel principio non doveva essere mosso, altramente non sarebbe stato principio; doveva essere un primo motore immobile, [...OMISSIS...] , quel fine non potea essere che il Bene, [...OMISSIS...] , come aveva appreso da Platone. Ora i due elementi, di cui si compongono gli enti, e il principio e il fine del loro movimento, sono chiamati cause da Aristotele, e alla dottrina di queste quattro cause egli riduce tutta la metafisica (3). La prima causa dunque, ossia elemento, è la specie, o forma o essenza, [...OMISSIS...] . La seconda causa o elemento è la materia o il subietto , [...OMISSIS...] . La terza causa è il principio del movimento, [...OMISSIS...] , chiamata ancora causa efficiente, [...OMISSIS...] . La quarta causa è la finale, il fine del movimento, il Bene, [...OMISSIS...] . La materia è la realità in potenza, indeterminata, la forma è la sua determinazione, il suo termine, e però è un che determinato (9). Quantunque non possa esistere il solo indeterminato, tuttavia un ente determinato da una forma è in potenza ad altre forme, e così può passare da una forma all' altra; questo passaggio dallo stato di potenza a quello di atto è il movimento , la formola che esprime tutto ciò che si fa e si patisce nell' Universo. Ora questo passaggio, ossia questo movimento (1) dee avere la sua causa, e questa è il principio del moto ; dee avere anche un termine , e questo è il fine. Queste quattro e, colla privazione, cinque cause, sono considerate da Aristotele come i generi più estesi possibili. Ma ciascuna di queste cause generiche, quando si vuol determinare maggiormente e distribuire in generi minori e in ispecie e in individui, si può considerare sotto due aspetti che danno una diversa base d' eseguire una tale determinazione. Poichè: 1 ciascuna si può considerare nel suo effetto , in quanto può concorrere diversamente a produrlo, spezzandosi così quel genere unico in più classi e individui di cause; 2 e dopo ciò si può prendere ciascuna di queste cause, la più prossima all' effetto prodotto, e ascendendo ad una causa anteriore, e da questa ad un' altra pervenire a trovare la prima, la più remota di tutte l' altre. Si può dunque considerare ciascuno di quei generi di cause relativamente all' ultimo termine della sua azione in basso, e viceversa relativamente al suo primo principio in alto: distribuendosi in una serie dalla prima causa sino all' ultima. Consideriamo ciascuna di queste cinque cause, la materia, la forma, la privazione, la causa motrice e la finale sotto il primo aspetto, in quanto concorre in diverso modo a mettere in essere l' effetto. La materia , secondo Aristotele, non è mai priva della forma (2), ma esiste con questa formando l' ente singolare (3). Ora poichè questi sono diversi (4), perciò, secondo Aristotele, ci devon essere altrettante materie diverse che li moltiplicano. E poichè gli enti reali, oltre dividersi in individui, si classificano secondo le specie e i generi, così anche le materie (5). Le materie della stessa specie producono gli individui (è ciò che gli Scolastici chiamarono principio dell' individuazione), le materie di varia specie o genere appartengono ad individui di varia specie e genere. Così la materia degli astri è specificamente o genericamente diversa, secondo Aristotele, da quella, di cui si compone il mondo sublunare (1). Questa dottrina d' Aristotele intorno alla materia, non regge alla prova; poichè se le materie si distinguono tra di loro, hanno delle differenze, qualunque sieno: se hanno differenze, hanno delle forme, onde non trattasi più d' una materia prima, d' una pura potenza, che come tale, è indifferente a tutto. Se poi le materie si dividono anche specificamente o genericamente, partecipano dunque di forme specifiche e generiche. Aristotele dunque non giunse al concetto d' una prima materia e d' una pura potenza; ma il suo pensiero si fermò ad una materia non del tutto, ma solo in parte informata, e così potè trovare molteplice la materia. Se questa non fosse in parte informata non potrebbe avere il numero, che già è forma. Si fermò ad una potenzialità determinata a una certa classe di forme; ma questa determinazione della potenza è ella stessa una forma (2), quantunque non ultimata. Se la materia, secondo Aristotele, non può esistere nè concepirsi, senza la specie, e si parla di lei per via d' astrazione; della specie non osa dire il medesimo. In fatti riconosce una essenza immobile che appunto per questo dee essere pura specie secondo il suo principio; [...OMISSIS...] . E però anche alla sola specie dà la denominazione di «usia» (3) e di «to ti en einai» (4) come alla sostanza composta, denominazioni che nega interamente alla materia. Ma le forme degli enti singolari e composti non esistono se non in questi (5), e si classificano in dieci supremi generi che sono le categorie. Ci hanno dunque due generi di specie , secondo Aristotele: 1 Quelle che possono sussistere da sè stesse anche senza materia come il motore immobile e la mente; 2 Quelle che non possono sussistere che nella materia, come le specie di tutte le cose sensibili, sieno celesti o sublunari. Esamineremo forse in appresso qual sorta di purità Aristotele accordi al primo genere di queste specie, e se possano anche esse o no mescolarsi colla materia. Le categorie poi sono i generi formali che abbracciano le une e le altre; per esempio: sotto il genere di sostanza si comprendono tutte le sostanze singolari, siano pure forme o composte di materia e di forma. Poichè le categorie hanno per base della classificazione la nostra maniera di concepire per via di predicazione, sono una classificazione di predicati generalissimi; laddove la classificazione delle specie in pure e composte ha per sua base la natura delle forme stesse, è una classificazione di subietti . Venendo alle cause motrici e considerandole rispetto all' effetto che producono, queste si dividono da Aristotele primieramente in due: una causa interna alle cose che chiama natura , e una causa esterna che chiama arte (1). A queste ne aggiunge due altre, il caso e la fortuna , che nascono dalla privazione delle due prime, [...OMISSIS...] , e però presuppongono le due prime (3). Poichè quando la natura fallisce a produrre il suo effetto ordinario, si dice caso ; e quando all' uomo fuori della sua intenzione e aspettazione incontra per accidente qualche cosa, dicesi fortuna (1). Ma queste sono piuttosto cause rispetto al concepire dell' uomo che non conosce tutte le leggi della natura, che non vere cause. Quando poi l' uomo, volendo fare una cosa gliene riesce un' altra, il che dicesi fortuna, è caso anche questo, perchè è la natura che produsse quell' effetto inaspettato in vece dell' arte, onde il caso è un concetto più esteso della fortuna. La natura è dunque considerata da Aristotele come una causa motrice insita nelle sostanze composte di materia e di specie. Dalla materia in tal caso deve venire la forza del movimento, dalla forma la direzione del movimento: onde attribuisce il principio movente che dicesi natura , non meno alla materia ed alla forma che al composto. « « In un modo così si dice natura la prima subietta materia di ciascuna di quelle cose, che hanno in sè il principio del moto e della mutazione: in un altro modo la stessa forma e specie » »: ma questo per astrazione in quanto colla mente si considera la specie come altra cosa separata dalla materia (2). [...OMISSIS...] . Da questo apparisce, che i due principŒ d' ogni mutazione, la natura e l' arte , non sono entità diverse, secondo Aristotele, dai due elementi materia e specie , di cui risulta il mondo, ma sono virtù efficaci inerenti ai medesimi nell' ente composto (natura), e che oltracciò vi sono forme pure di materia, che danno origine all' arte , la quale è una causa fuori del composto (4). Del pari, la causa finale non differisce dalla forma . [...OMISSIS...] . La natura dunque, cioè il principio interno movente d' un ente naturale composto di materia e di forma, si muove verso un' altra forma ; e se niente osta, sempre verso la forma stessa: se non la consegue, dicesi caso . [...OMISSIS...] . Se poi c' è qualche impedimento, allora dicesi avvenire l' effetto per caso o per fortuna. E Aristotele per assegnare un fine agli agenti naturali dice non esser necessario che il movente deliberi, chè anzi l' arte stessa non delibera, operando abitualmente (1): [...OMISSIS...] . E veramente essendo il fine la forma , e questa, secondo Aristotele, essendo la medesima nell' arte e nella natura , nell' arte, cioè nella mente, separata dalla materia, nella natura unita colla materia, ma tuttavia dello stesso genere l' una e l' altra, conviene che tanto la natura quanto l' arte operino ugualmente pel fine. Dove si vede la profonda differenza, che passa da questa dottrina a quella di Platone; poichè questi nella natura sensibile non ammetteva la forma, ma la similitudine della forma riservata alla sola mente. Onde veniva la conseguenza che la natura sensibile non si poteva spiegare senza la mente , che le desse l' ordine e il fine, e a questo la dirigesse. Nel sistema d' Aristotele all' incontro la natura fa da sè, avendo la stessa forma in se stessa. Che la forma nella mente e ne' reali sia presa da Aristotele per la medesima, è chiaro da queste sue parole: [...OMISSIS...] (1). Il qual discorso nulla varrebbe o sarebbe sofistico, se la sanità e la casa senza materia non fossero identiche di numero colla sanità e colla casa reale e materiata. E veramente se fossero numericamente diverse, di maniera che ci fossero due forme, la reale e l' ideale (come in cert' altri luoghi sembra che dica Aristotele), s' incapperebbe nel sofisma del terzo uomo , di cui lo stesso Aristotele accusa ingiustamente Platone (2). Poichè se ci sono due specie della casa, devono aver qualche cosa di comune, e però ce n' abbisogna una terza che rappresenti la similitudine loro: e potendosi su questa fare lo stesso ragionamento che sulle due prime, si va all' infinito, nè si troverebbe mai l' ultima specie. Il che s' evita nel sistema di Platone, in cui la specie è una sola, e ne' sensibili c' è soltanto l' imitazione, la quale nella mente di chi conosce s' aduna insieme colla specie, su cui è stata esemplata. Onde la similitudine, che ha il sensibile colla specie, è la specie stessa imitata: di che anche a noi venne detto, che le idee sono la stessa similitudine (3). S' evita il sofisma del terzo uomo anche facendo, che la stessa numerica specie sia nella mente e nelle cose; ma questo sistema, nel quale ricaddero spesso i filosofi, tra i quali il fondatore della scuola tedesca (1), e appresso di noi il Gioberti conduce ad altri e gravissimi inconvenienti. Aristotele ad ogni modo prese questa via non giungendo a discernere la vera distinzione tra la specie , che solo alla mente appartiene, e il reale, come apparisce dal luogo citato, e come è necessario che sia, se deve mantenersi il suo ragionamento. Perocchè questo tende a dimostrare, che la natura ha in sè una virtù d' operare da sè convenevolmente ed ordinatamente, senza bisogno di ricorrere ad una mente che sia fuori di lei (bastando un primo Motore) per questo appunto che ha in sè la specie , come opera appunto l' arte, perchè ha la specie , sebben quella congiunta colla materia, e questa da ogni materia disgiunta. Alla materia dunque congiunta colla specie nell' ente composto, che è la sostanza perfetta, è inerente un principio di moto che tende a passare o a far passare un altro ente da una forma all' altra; quello che move, è il principio motore (natura), ossia la causa efficiente ; quella a cui arriva, è il fine ossia la causa finale . Aristotele dunque prende a spiegare l' operare della natura così. Alcune cose, dice, sono determinate dalla necessità , e la ragione di questa necessità è la materia (2); altre si fanno per un fine e la ragione dell' operare con un fine utile e buono è la forma o specie. Quando poi la natura pecca o se n' hanno effetti insoliti, questi s' attribuiscono al caso . Poichè l' operare secondo la forma può peccare, cioè non ottenere il fine, secondo Aristotele: e come la forma è nella natura ed è nell' arte , così si danno ugualmente peccati di natura e peccati di arte (3). La natura dunque, benchè legata in parte alla necessità che le impone la materia, ha in sè tutto ciò che le bisogna per operare ad un fine, il che Aristotele crede di dimostrare a questo modo: [...OMISSIS...] . Avendo dunque dato la forma alle cose materiali e sensibili e la medesima anche alla mente, trova Aristotele un problema importante, quello di rendere ragione perchè « « le cose naturali non abbiano intelligenza, e l' abbia l' anima » » (2), e risponde, che nella natura la materia è quella che acceca, per così dire, la forma, e le toglie l' intelligibilità, e di conseguenza al subietto che la possiede, l' intelligenza. Sono da osservare nel passo citato quelle parole: [...OMISSIS...] , poichè in questo sta il nerbo del suo discorso, su cui torna spesso in altri luoghi (3): suppone che le cause remote e prossime nella natura sieno già incatenate da sè, come sarebbero se fossero poste dall' arte . Onde deduce, che non è necessario preporre quest' ultima alla natura (4), e di conseguente non è vero quello che volea Platone, che fossero necessarie le idee, per ispiegare la natura ed il suo operare sapiente, e la sua tendenza a fini migliori. [...OMISSIS...] (1). Ma l' argomento di Aristotele pecca di circolo. Poichè si riduce a questo: « le forze della natura sono connesse e concatenate per modo che conducono un ente da uno stato o da una natura all' altra per una serie di azioni ed effetti di queste, e quindi di gradi determinati. Questa serie rimane la stessa, tanto se la prima forza riceve l' impulso da una mente, che vedendo tutta quella serie di cause e di effetti dà quell' impulso col fine d' ottenere l' ultimo effetto; quanto se quell' impulso è dato dalla natura stessa, dal caso, da una causa cieca insomma, che non delibera e non conosce il fine: questo fine s' ottiene dunque egualmente e nello stesso modo. Non è dunque necessario ricorrere ad una mente e ad un' arte precedente, perchè le forze e l' ordine loro esistono indipendenti dalla mente e dall' arte che si supponga dare ad esse, con un fine preveduto, l' impulso ». Dico che quest' argomento pecca di circolo, perchè considera l' arte o la mente unicamente come causa motrice e suppone che la natura esista da sè, così fatta come noi la vediamo, e che quando produce qualche cosa, non abbia bisogno d' altro che di un primo impulso. Ma è appunto questa la questione platonica: « se la mente eterna ossia il bene sia puramente un principio motore , e non anzi sia causa piena della natura stessa, e vero creatore ». S' egli è dunque vero, come sostiene Platone, che l' universo non esistesse, ma Iddio mosso dalla sola sua bontà l' abbia prodotto, egli accingendosi a quest' opera doveva indubitatamente concepire prima, secondo le regole d' un' assoluta sapienza, l' opera a cui volea por mano, e questo è l' Esemplare eterno composto tutto d' idee, conforme al quale ogni cosa fu fatta e si fa di continuo. In tale supposizione adunque le idee esemplari sono tutt' altro che « vaniloquii e poetiche metafore »: sono anzi sì alte cose a cui il volo d' Aristotele non pervenne. Ma di questo meglio in appresso. Ora veniamo al secondo aspetto in cui dicemmo (1) considerate da Aristotele le sue quattro o sei cause, cioè nel loro ordine, dalla più prossima all' effetto all' ultima più remota, ed è su questo che ci dobbiamo estendere. Tutte queste cause, come vedemmo, si riducono finalmente alle due elementari, materia e specie , perchè la causa motrice è inerente nel composto alla materia e alla specie, e dicesi natura , alla specie separata dalla materia, e dicesi arte . La privazione (2) poi nella natura e nell' arte dicesi caso e fortuna . Essendo dunque tutto per Aristotele materia e forma (subietto e predicato nell' ordine dialettico), quello che si dice dell' ultima materia e dell' ultima specie, vale anche per le ultime delle altre cause. Dice dunque che sussiste in natura il composto di materia e di specie , e che l' ultima materia, come l' ultima forma [...OMISSIS...] non sono prodotte (3). Dagli argomenti che adopera Aristotele a provare questa proposizione si potrà rilevare meglio che cosa intenda per materia ultima ed estrema. Egli argomenta dall' osservazione di ciò che nasce nei cangiamenti naturali: poichè il pensiero del nostro filosofo è così legato alla natura sensibile, che non può concepire un operare diverso da quello che cade sotto la sua esperienza, onde il suo ragionamento ha sempre come supposto il pregiudizio che « le leggi dell' operare naturale siano universali e assolutamente ontologiche ». Osserva dunque, che ogni cangiamento suppone tre cose: 1 il subietto del cangiamento, la materia [...OMISSIS...] ; 2 la causa movente [...OMISSIS...] ; 3 il fine o specie a cui tende il moto [...OMISSIS...] . Da questo deduce che il cangiamento suppone sempre il composto di materia e di forma, e che è sempre il composto quello che si cangia in un altro composto. Poichè se ciò che si cangia o diviene, non fosse il composto, ma ciascuno de' suoi elementi, cioè la materia a parte e la forma a parte, s' andrebbe all' infinito, poichè nella materia, o nella forma si dovrebbero di nuovo trovare quei tre elementi e condizioni necessarie del cangiamento, cioè si dovrebbe di nuovo distinguere in ciascuna di esse: 1 una materia subietto; 2 una forma termine del moto; 3 una causa movente; e in ciascuno di questi ugualmente. Convien dunque fermarsi a quella materia e a quella forma che costituisce da prima il composto, e in quest' unione soltanto rinvenire il cangiamento. Si produce, dunque, per esempio « la sfera di bronzo », ma non si produce a parte il bronzo, la materia, e a parte la sfera, la forma (1). Così avviene in fatti in tutti i cangiamenti e le produzioni della natura; e certo nella natura non si produce mai la forma in separato dalla materia, nè la materia in separato dalla forma: questo lo sapeva anche Platone, nè è prova d' ingegno maggiore averlo osservato. Laonde la conclusione che ne vuole cavare Aristotele contro le idee di Platone, non coglie punto questa sublime dottrina: [...OMISSIS...] . Vuole insomma Aristotele che tanto la causa efficiente , quanto la causa della cognizione delle cose reali sieno nelle stesse cose reali, perchè dice, se ci fossero specie fuori delle cose reali, queste nè potrebbero produrre o informare le cose reali, nè potrebbero farle conoscere (3), perchè sarebbero da esse dissociate, e cosa al tutto diversa da esse. Quindi spiega la produzione collocando un principio produttivo nelle cose reali, che produce non la materia sola, o la forma sola, ma altre cose reali composte di materia e di forma, e lo chiama natura , e spiega la cognizione delle cose collocando del pari in queste un principio conoscibile , cioè la forma, conoscibile cioè tostochè sia ricevuto in un' anima che sia atta a riceverlo scevro dalla materia. Dove osserveremo, di passaggio, aversi qui una nuova prova, che Aristotele ragiona come se la forma , che è nelle cose sensibili, fosse la stessa identica di numero con quella che, ricevuta nella mente, dicesi idea (a differenza di Platone che, ne' sensibili, non riconosce che un' effigie dell' idea) reputando che se fosse diversa e fuori di esse, non potrebbe far conoscere le cose stesse sensibili (4). In questa conclusione dunque e in tutta questa dottrina ontologica giace sempre nel fondo lo stesso vizio di circolo. Si suppone cioè quello che si vuol provare, che il mondo sia eterno, un' eterna successione di generazioni e corruzioni. Questo è quello che si deve provare. In quella vece, Aristotele lo suppone. Supposto questo, è chiaro che la maniera colla quale gli enti reali si cangiano e trasformano è l' unica maniera di produzione che ci sia nell' universalità delle cose. Se questa è l' unica maniera, dunque la forma e la materia stanno sempre unite, e così unite e formanti le sostanze composte, si vanno insieme permutando. Non è dunque più possibile che la forma o la specie abbia preesistito alla materia, e sia concorsa alla produzione del mondo. Non ci sono dunque le idee separate di Platone. Il mondo dunque è eterno e non creato da Dio, come vuole Platone: dunque di separato dalla natura non ci può essere una causa efficiente , ma solo una causa motrice che eternamente il mova. Legato dunque ai sensi e all' esperienza materiale, Aristotele suppose gratuitamente che stesse tutto qui, e che bastasse osservare come son fatti gli enti specialmente sensibili e materiali, per foggiare su di essi e sul loro operare una perfetta ontologia : le leggi dell' ente reale e finito divennero dunque nel pensiero di Aristotele, con un salto immenso, leggi dell' essere in tutta la sua estensione. Ma Platone non gli accorda il supposto, e così il sistema Aristotelico rimane senza alcuna solida base. Prima però di notarne più particolarmente i difetti, conviene che ne ultimiamo l' esposizione, accompagnandolo degli argomenti, dei quali Aristotele lo munisce e fiancheggia. Aristotele osserva, che « « tutto ciò che si produce, si produce di qualche cosa e da qualche cosa, ed è di specie il medesimo » » col producente (1): dal che deduce che il composto di materia e di forma produce altri composti della stessa specie, come l' uomo genera l' uomo. Deduce ancora che quella specie, che non si trova per anco in ciò che è in via di prodursi, deve preesistere nel producente (1). In questa sfera di cose naturali Aristotele non riconosce che una perpetua trasmutazione d' un composto in un altro della stessa specie, senza che mai sia possibile rinvenire l' origine del composto stesso, l' origine dico della materia, o l' origine della forma separata dalla materia. Questa specie è inseparabile dalla materia che informa, ma si separa di ragione, [...OMISSIS...] ; e però esiste nella mente pura da materia. Questo gli fa la via a riconoscere e spiegare un altro genere di produzioni, quelle dell' arte , a cui riduce quelle che vengono da una potenza d' operare e dal pensiero, [...OMISSIS...] . Chiama geniture , [...OMISSIS...] , le produzioni naturali, l' altre fatture, [...OMISSIS...] . Le produzioni dell' arte, dice, sono quelle « « di cui la specie è nell' anima » ». [...OMISSIS...] (5). L' anima che vuol produrre un effetto, per esempio la salute, trascorre col pensiero la serie dei mezzi fino che arriva ad uno, che è in suo potere di produrre, per esempio la frizione per produrre il calore. Allora colla sua potenza d' operare produce questo mezzo, il quale per una serie di effetti produce quello che cercava, la sanità, fine che era presente all' anima sin da principio. Il movimento dunque dell' anima, che dalla prima specie perviene a trovare l' ultima, la specie cioè di quel mezzo che è in suo potere di produrre, dicesi, secondo Aristotele, [...OMISSIS...] , e risponde a ciò che prima aveva detto [...OMISSIS...] : l' operazione poi che comincia da quest' ultima specie, producendo effettivamente il detto mezzo, dicesi [...OMISSIS...] , e corrisponde a quello che prima aveva detto [...OMISSIS...] (6). Da questo deduce che quantunque la sanità che vuol produrre coll' arte, sia nell' anima, sia cioè la stessa specie finale dell' anima (1), tuttavia essa sola non è la causa efficiente della sanità; produce solo il movimento del pensiero, [...OMISSIS...] , trova la specie ultima a cui si rattacca l' azione, per esempio la frizione; allora eseguendosi questa, comincia la vera produzione della sanità, [...OMISSIS...] . Ora se questa causa, cioè la frizione, fosse posta anche dalla natura o dal caso, s' avrebbe ugualmente la sanità, benchè non ci fosse la specie pura nella mente. Di più, quando trovata dalla mente l' ultima specie, la frizione nell' esempio addotto, questa si produce e con questa la sanità, non si produce la sola specie, ma la specie nella materia, cioè nell' uomo: la specie dunque non si genera sola, ma si genera il composto di specie e di materia. L' arte sola dunque nulla produce, ma abbisogna di materia. Ma basta forse la materia, per modo che a questa sovrapponga la specie, senza che quella non l' abbia in nessun modo? No, perchè se la frizione nel corpo umano produce il calore, e questo la specie della sanità, convien dire che questa specie era già in potenza nella materia, nè la materia era svestita al tutto di specie, ma n' avea una; e quel composto, prodotto il primo moto, la frizione, si trasmutava, per diverse trasformazioni, in modo da acquistar l' ultima, cioè la sanità. Dunque le specie non si producono sole; nè separate dalla materia, quali sono nella mente, sono cause efficienti delle cose di cui il mondo sensibile risulta (2). Stabilisce dunque Aristotele questa dottrina: « ciò che si trasmuta è sempre il composto de' due elementi, la materia e la specie ». Ma il primo movimento di questa trasmutazione può venire da tre principŒ; cioè o dal composto stesso, o dall' uno, o dall' altro de' due suoi elementi. Se il primo movimento viene dal composto, si hanno le produzioni della natura; se viene dall' elemento della specie sola, si hanno le produzioni dell' arte; se viene dall' elemento della materia, si hanno le produzioni del caso (1). [...OMISSIS...] . Tale è il sistema aristotelico. Ma di quante difficoltà non è egli circondato? - Molte n' abbiamo indicate: affrettiamoci ad esporre quelle che ci restano, e a rinforzare di nuovi ragionamenti quelle che sono già state sottoposte alla meditazione del lettore.

PROFUMO

662640
Capuana, Luigi 1 occorrenze

Ma Eugenia s'era indignata: "Abbandonar Patrizio in questi momenti? Oh! ..." E aveva voluto vegliare assieme con lui, ostinata, irremovibile, senza lasciarlo solo neppure un minuto la prima not- te e gran parte del giorno appresso. Sostenuta dal suo stesso sbalordimento, eccitata dalla pietà dell'immenso dolore di lui, dimenticando i torti della suocera, aveva fin vinta la gran ripugnanza che quel corpo inerte le ispirava; ed era accor- sa premurosamente ogni volta che era stato necessario sollevarla sui guanciali, o mutarla di fianco, per impedire che al- tre mani la toccassero all'infuori delle sue e di quelle di Patrizio. Incontrandosi negli sguardi fissi e duri dell'inferma, che le sembrava volesse farle male anche allora, li aveva sempre evitati. Per istintiva delicatezza di sentimento, aveva cercato di non farsi scorgere nemmeno compiendo la sua umile opera d'infermiera con l'applicare i senapismi, col rinnovare le pezzette delle bagnature diacce alla fronte. E nelle lun- ghe ore di fallace speranza in una benigna risoluzione della crisi, quando nel silenzio della camera si sentiva soltanto il respiro affannato dell'inferma, e in quel volto emaciato dagli anni e dai patimenti, ora immobilizzato dalla paralisi, gli occhi si muovevano lenti per figgersi su qualcuno, quasi cercassero chi potesse intendere il loro muto linguaggio, Euge- nia si teneva un po' indietro su la seggiola dappiè del letto, spinta da inconsapevole suggerimento del suo buon cuore. Perciò si sentì offesa, non appena le parve di comprendere bene l'intenzione di Patrizio e i di lui pretesti per tenerla discosta, per celarne la presenza alla mamma a fine di risparmiarle in quello stato una sensazione spiacevole. Benedetta e Giulia, arrivate poco dopo assieme col fratello, la trovarono piangente, sola sola, nella sua camera. "La signora sta peggio?" domandò Benedetta. "Sempre lo stesso" ella rispose con voce cupa. "Non pianga!" disse Giulia, abbracciandola e asciugandole gli occhi col fazzoletto prèsole di mano. "Si faccia co- raggio." "Povero Agente! Vuol tanto bene alla mamma e n'era voluto tanto bene!" soggiunse Benedetta. "So io come parlava del figliuolo! Bisognava sentirla!" "Il dottore che ne dice?" domandò Ruggero a Eugenia. "Dice che è gravissima." "L'età della povera signora complica il male" riprese Benedetta, scrollando la testa, atteggiando le labbra a compas- sione. "Non riesce a parlare affatto affatto? Che tormento dev'essere non poter dire, in fin di vita, una sola parola al pro- prio figliuolo!" Eugenia portò il fazzoletto agli occhi. Quella pietà la irritava. Tutti compiangevano la vecchia che il gastigo di Dio aveva colpita, sì, il gastigo di Dio, (Eugenia in quel momento n'era proprio convinta!) Nessuno compiangeva lei. Ma la sua liberazione era prossima. Avrebbe respirato, finalmente! Finalmente avrebbe potuto amare ed essere amata senza che quel fantasma si presentasse improvviso a interrompere i baci, a disturbare le carezze di Patrizio e di lei! Ondate di fiele le allagavano il cuore come non le era mai accaduto fin allora. Tutte le sue amarezze vi si rimescolavano, vi veni- vano a galla: e quelle ondate, che le fiottavano dentro con rapide pulsazioni, montavano su, su, fino ad attossicarle la bocca. Più Benedetta si diffondeva a compatire l'inferma, anzi a farne l'elogio quasi fosse già morta, e più Eugenia sen- tiva accrescere la sua spietata soddisfazione. Quando Ruggero, per interrompere la sorella, disse: "Eh via! Non muore poi nel fior degli anni!". Eugenia lo guardò riconoscente; per poco non sorrise. "Così malaticcia e sofferente come dite sia stata sempre" continuò Ruggero "forse non le dispiace morire. Che si fa a questo mondo quando la vita è una pena? Si soffre e si fa soffrire." Egli parlava rivolto a Eugenia, ritorcendo fra l'indice e il pollice d'una mano le punte dei baffettini, con lo sguardo fissato negli occhi di lei, rossi di pianto, quasi vi leggesse nettamente quel ch'ella pensava in quel punto e le desse ra- gione e l'approvasse. "Si soffre e si fa soffrire!" Oh, se l'aveva fatta soffrire colei! Imbarazzata però dallo sguardo di Ruggero, Eugenia sentiva rapidamente racchetare il violento impeto di odio che le aveva attossicato anche la bocca. Da lì a poco - e se ne stupiva ella stessa - presso al letto dell'inferma che rantolava ce- rea in volto, con gli occhi serrati, le occhiaie livide e la bocca un tantino contorta dal lato sinistro, da lì a poco ne prova- va anche e vergogna e rimorso. Patrizio, in piedi, strizzandosi le mani, intento su l'addormentata, il cui magrissimo corpo quasi spariva sotto la co- perta, resisteva alle calde preghiere del dottore che avrebbe voluto pietosamente allontanarlo di là. Pareva non udisse o non comprendesse. Eugenia gli si accostò e lo prese per una mano. "Patrizio! ... Patrizio! ... Fatti animo! ... Non essere un bambino! ..." gli andava dicendo, tra- scinandolo via dolcemente nella loro camera, passandogli un braccio attorno il corpo quasi a sospingerlo. "Patrizio, scuotiti! ... Mi fai paura! ... Non essere un bambino! ... Riposati! Riposati almeno pochi minuti! ... Patrizio!" I singhiozzi le impedivano la parola, le lagrime le inondavano il viso, intanto che egli, aiutato da Ruggero, si lascia- va cascare sul letto come corpo morto, bocconi, singhiozzando alla sua volta: "Mamma! Mamma mia cara! Povera mamma!" "Sì, sì, piangi. Da' sfogo al dolore! ... Sarà bene!" Non sapeva in che modo farsi perdonare la cattiveria di poc'anzi; e gli accarezzava la testa, gli stringeva fortemente la mano che egli le aveva abbandonata. Se fosse stato possibile, in quel punto Eugenia avrebbe sacrificato metà della sua vita per salvare la mamma morente (diceva proprio: "La mamma" nel suo pensiero!) - e così sollevar Patrizio da quell'abbattimento angoscioso, da quella ineffabile tortura. "È sua madre! È sua madre!" si ripeteva da sè, per convincersi meglio della ragionevolezza della sua compassione, per fortificare il suo povero cuore vacillante, sbattuto tra gli opposti sentimenti che vi scoppiavano da due giorni in tu- multo, lottanti tra loro e racchetandosi e riprendendo vigore, eccitandola con fulminei sbuffi di malvagi rancori e op- primendola tosto con lunghi pentimenti e rimorsi. "È sua madre! È sua madre!" ella rispose a Ruggero, che tentava anche lui di consolare Patrizio. E glielo disse con tal accento che quegli si allontanò riputando importuna l'opera sua. "Benedetta e io restiamo qui" gli sussurrò Giulia in un orecchio, rientrando dalla camera dell'inferma. "È già ago- nizzante. Può spirare da un momento all'altro!" Il dottore, dati alcuni ordini al Padreterno, si apprestava ad andar via. "È morta?" venne a domandargli Ruggero sottovoce. "No. Ma è inutile che io stia ancora qui. Ho mandato a chiamare un prete, per le preghiere dei moribondi soltanto. La catastrofe è sopraggiunta più presto che non credevo. Povero Agente! Fa pietà." Eugenia, dall'aria di Giulia, dall'accorrere di Ruggero nell'altra stanza, aveva subito indovinato quello che stava per accadere, e portò le mani alla testa affondando le dita tra i capelli: "Oh Dio! Oh Dio!" cominciò a balbettare sommessamente. Giulia le fe' segno di frenarsi, accennando a Patrizio che pareva addormentato. Tutt'a un tratto lo videro balzar su, con gli occhi sbarrati, pallidissimo, gridando: "Muore! ... Muore! ..." Gli era parso, tra sonno e veglia, di sentirsi chiamare due volte dalla fioca voce della moribonda! E prima che potes- sero pensare a trattenerlo, era già sull'uscio, dove il dottore e Ruggero gli sbarrarono il passo: "Fate la volontà di Dio! ..." gli diceva il dottore. "Non le turbate l'estremo passaggio!" Patrizio strinse i denti, die' una scossa con tutta la persona" quasi a comprimere l'ambascia che lo faceva contorcere come un serpe; e promettendo, più che con le parole coi gesti, di far ogni sforzo per contenersi, supplicava desolatamen- te che lo lasciassero entrare. Supina, col petto che si sollevava e si abbassava pel respiro affannato, con gli occhi intorbidati, spalancati e fissi nel vuoto, il viso disfatto, il naso filiginoso, l'inferma rantolava stancamente a intervalli, che di mano in mano diventavano più lunghi e più strazianti. Nella camera, silenzio profondo. Patrizio era caduto in ginocchio davanti al letto, inebetito, con le mani giunte in atto di preghiera; e a quella vista si erano inginocchiati anche gli altri, tranne Eugenia e Giulia che la sosteneva da un lato. Eugenia si sentiva trattenuta in piedi dal fascino delle torbide pupille della morente che le parevano fissate intensa- mente su lei, piene del loro ultimo cruccio, quasi maledicenti insieme con quel rantolo che le sembrava parola. "No! No! ... Perché? ... Mamma, perché?" avrebbe voluto gridarle. Ma la sua lingua era legata. Sopraffatta da un orrore nuovo, Eugenia sentiva in tutto il corpo il rapido ridestarsi del suo male, creduto domato; e tremava, tremava senza poter distogliere lo sguardo dalle torbide pupille che lo evocavano su, con terribile malia, da tutte le parti del suo corpo, dove la cura del dottor Mola lo aveva già ricacciato. "No! No! Oh, mamma! ... Perché? Perché?" Portò le mani alla gola per tentar di sciogliere il nodo da cui si sentiva soffocata, e si rovesciò indietro con un ranto- lo che si confuse con l'ultimo fioco rantolo della morente. Patrizio non sentì niente, nè vide Giulia e Ruggero portar via la povera Eugenia che si agitava violentemente. I suoi sguardi eran rimasti inchiodati sul volto, immobile e senza vita neppure negli occhi, di colei che era stata la prima, la più grande, l'unica adorazione del suo cuore. Non poteva affatto persuadersi che già fosse cadavere; e gli pare- va impossibile che, dopo così terribile scena, egli potesse ancora continuare a vivere e a pensare! Non piangeva, non diceva nulla, restava là in ginocchio, con le mani giunte, opponendo tutta la inerzia del suo corpo affranto al dottore, a Zuccaro e a Griffo che volevano portarlo via. E rifletteva, come in vaneggiamento muto: "Morta! Morta senza potermi dire una sola parola! Morta, forse, senza aver sentito la mia voce! Morta in questo mo- do, quasi abbia voluto andarsene per sempre col broncio, con la collera che mi ha mostrato fino a pochi giorni fa, ineso- rabile, implacabile! Che orrore!" "Rassegnatevi! Fate la volontà di Dio!" gli ripetè il dottor Mola prendendolo per le braccia. Il pianto gli scattò dal cuore tutt'a un tratto, e singhiozzando "Mamma! Mamma!" si rizzò per coprire di baci e ba- gnare di lacrime la squallida faccia della venerata sua morta.

CENERE

663035
Deledda, Grazia 1 occorrenze

L'altro rise tanto che dovette abbandonar la spranga e premersi il petto. Intanto zia Tatàna, premurosa e carezzevole, interrogava il bimbo, esaminandogli le povere vestine. Egli raccontò tutto con vocina incerta e lamentosa, ogni tanto interrotta da singhiozzi. «Poverino, poverino! Uccellino senz'ali: senz'ali e senza nido!», diceva pietosamente la donna. «Taci, anima mia; tu avrai fame, non è vero? Adesso andiamo a casa, e zia Tatàna ti darà da mangiare, e poi ti manderà a letto, con l'angelo custode, e domani aggiusteremo tutte le cose.» Con questa promessa ella lo condusse in una casetta vicina al molino, e gli diede da mangiare pane bianco e formaggio, un uovo ed una pera. Mai Anania aveva mangiato tanto bene: e la pera, dopo le carezze materne e le dolci parole di zia Tatàna, finì di confortarlo. «Domani ... », diceva la donna. «Domani ... », ripeteva il fanciulletto. Mentre egli mangiava, zia Tatàna, che preparava la cena per il marito, lo interrogava e gli dava buoni consigli, avvalorandoli con l'affermare che erano già stati dettati dal re Salomone ed anche da Santa Caterina. Ad un tratto, sollevando gli occhi ella scorse alla finestruola il visetto paffuto di Bustianeddu. «Va via», disse, «va via, piccola rana. Fa freddo.» «Lasciatemi dunque entrare», egli supplicò. «Fa freddo davvero.» «Va dunque al molino.» «No, c'è mio padre che mi ha mandato via. Ih, quanta gente è venuta là!» «Entra dunque, povero orfano, anche tu senza madre! Che cosa dice zio Anania? Grida ancora?» «E lasciatelo gridare!», consigliò Bustianeddu, sedendosi accanto ad Anania, e raccogliendo e rosicchiando il torso della pera, abbastanza rosicchiato e già buttato via dal piccolo straniero. «Son venuti tutti», raccontò poi, parlando e gestendo come un uomo maturo. «Maestro Pane, mio padre, zio Pera, quel bugiardone di Franziscu Carchide, zia Corredda, tutti vi dico insomma ... » «Che cosa dicevano?» chiese la donna con viva curiosità. «Tutti dicevano che dovete adottare questo bambino. E zio Pera diceva ridendo: "Anania, e a chi dunque lascerai i tuoi beni, se non tieni il bambino?". Zio Anania lo rincorse con la pala; tutti ridevano come pazzi.» La donna dovette esser vinta dalla curiosità, perché ad un tratto raccomandò a Bustianeddu di non lasciar solo Anania ed uscì per tornare al molino. Rimasti soli, Bustianeddu cominciò a fare qualche confidenza al piccolo abbandonato. «Mio padre ha cento lire nel cassetto del canterano, ed io so dove è la chiave. Noi abitiamo qui vicino, e abbiamo un podere per il quale paghiamo trenta lire di imposta: ma l'altra volta venne il commissario e sequestrò l'orzo. Cosa c'è qui, dentro il tegame, che fa cra-cra-cra? Ti pare che prenda fumo?», sollevò il coperchio e guardò. «Diavolo, ci son patate. Credevo fosse altro. Ora assaggio.» Con due ditina prese una fetta bollente, ci soffiò sopra più volte, se la mangiò; ne prese un'altra ... «Che cosa fai?», disse Anania, con un po' di dispetto. «Se viene quella donna! ... » «Noi sappiamo fare i maccheroni, io e mio padre», riprese imperturbato Bustianeddu. «Tu li sai fare? E il sugo?» «Io no», disse Anania, melanconico. Pensava sempre a sua madre, assediato da tristi domande. Dove era andata? Perché non era entrata nel molino? Perché lo aveva abbandonato e dimenticato? Adesso che aveva mangiato e sentiva caldo, egli aveva voglia di piangere ancora, di fuggire. Fuggire! Cercar sua madre! Questa idea lo afferrò tutto e non lo lasciò più. Poco dopo rientrò zia Tatàna, seguìta da una donna lacera, barcollante, che aveva un gran naso rosso ed una enorme bocca livida dal labbro inferiore penzolante. «È questo ... è questo ... l'uccellino? ... », chiese balbettando l'orribile donna: e guardò con tenerezza il piccolo abbandonato. «Fammi vedere la tua faccina, che tu sii benedetto! È bello come una stella, in verità santa! E lui non lo vuole? Ebbene, Tatàna Atonzu, raccoglilo tu, raccoglilo come un confetto ... » Si avvicino e baciò Anania, che torse il viso con disgusto perché l'enorme bocca della donna puzzava d'acquavite e di vino. «Zia Nanna», disse Bustianeddu, facendo cenno di bere, «oggi l'avete presa giusta!» «Co ... co ... cosa sai tu? Che fai qui? Moscherino, povero orfano, va a letto.» «Anche tu dovresti andare a letto!», osservò zia Tatàna. «Andate, andate via tutti e due: è tardi.» Spinse dolcemente l'ubriaca, ma prima d'uscire ella chiese da bere. Bustianeddu riempì d'acqua una scodella e gliela porse: ella la prese con buona grazia, ma appena v'ebbe guardato dentro, scosse il capo e la rifiutò. Poi andò via traballando. Zia Tatàna mandò via anche Bustianeddu e chiuse la porta. «Tu sarai stanco, anima mia; adesso ti metterò a dormire», disse ad Anania, conducendolo in una grande camera attigua alla cucina e aiutandolo a spogliarsi. «Non aver paura, sai; domani tua madre verrà, o andremo a cercarla noi. Sai farti il segno della croce? Sai il Credo? Sì, bisogna recitare il Credo tutte le notti. Poi io ti insegnerò tante altre preghiere, una delle quali per San Pasquale che ci avvertirà dell'ora della nostra morte. E così sia. Ah, tieni anche la rezetta? E come è bella! Sì, bravo, San Giovanni ti proteggerà: sì, egli era un bimbo ignudo come te, eppure battezzò Gesù Signore Nostro. Dormi, anima mia: in nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo. Amen.» Anania si trovò in un gran letto dai guanciali rossi; zia Tatàna lo coprì bene ed uscì, lasciandolo al buio. Egli mise la manina sull'amuleto, chiuse gli occhi e non pianse, ma non poté dormire. Domani ... Domani ... Ma quanti anni erano trascorsi dopo la partenza da Fonni? Che pensava Zuanne non vedendo ritornare l'amico? Pensieri confusi, immagini strane gli passavano nella piccola mente; ma la figura della madre non lo abbandonava mai. Dov'era andata? Aveva freddo? Domani la rivedrebbe ... Domani ... Se non lo conducevano da lei egli fuggirebbe ... Domani ... Sentì il mugnaio rientrare e litigare con la moglie: il cattivo uomo gridava: «Non lo voglio! Non lo voglio!». Poi tutto fu silenzio. Ad un tratto qualcuno aprì l'uscio, entrò, camminò in punta di piedi, s'avvicinò al letto e sollevò cautamente la coperta. Un baffo ispido sfiorò lievemente la guancia di Anania, ed egli, che fingeva di dormire, socchiuse appena appena un occhio e vide che chi l'aveva baciato era suo padre. Pochi momenti dopo zia Tatàna entrò e si coricò nel gran letto, a fianco di Anania, che la sentì lungamente pregare bisbigliando e sospirando.

VECCHIE STORIE

663199
De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Gli fece capire che la Nina aveva qualche motivo di non abbandonar Padova, città allegra, piena di studenti e di capi scarichi, che fanno all'amore coi sonettini e coi trilli di flauto.... - Birbo! - ....Tre volte birbo! Il marito, facile a insospettirsi, aprì gli occhi, osservò dissimulò, e può essere che cogliesse qualche segno a volo. Ma non volendo far scene per paura d'uno scandalo, una sera, detto fatto, annuncia alla Nina che aveva accettato il posto: si preparasse a sbarazzare la casa e a partire per Venezia, La povera donna, che cominciava appena a respirare e a godere la sua libertà, còlta in un momento cattivo, dichiarò a Malgoni che lei a Venezia non sarebbe andata.... - Ah! tu non vuoi venire? - gridò con voce ironica il vecchio geloso: e siccome l'amico lontano in quei giorni aveva avuta la bontà d'inviargli tutta la raccolta de' miei sonetti innocenti, in cui il nome di Nina tornava spesso a rimare con divina , armato di quei documenti, si scagliò sulla povera donna e cominciò a batterla. - So tutto, svergognata! so tutto, brutta traditora, senza cuore e senza carità. E tu fai all'amore, mentre hai il marito malato, quasi moribondo? e tu dimentichi così il bene che ti ho fatto, brutta servaccia? E siccome non cessava di picchiare con un pezzo di riga sulla spalla e sulla testa della povera donna, alle grida, ai pianti di costei, sì risvegliò la casa, si aprì qualche finestra, comparvero dei lumi e cominciarono gli uhè.... di sotto e di sopra. La Nina che non capiva bene per colpa di chi la battesse il suo padrone, aveva cercato di scappare dall'uscio sul ballatoio; e fu allora che il vecchio esasperato, pensando che volesse fuggire di casa, le sbarrò il passo, l'afferrò pei capelli e la fece strillare come un'aquila. Era troppo ormai anche per un matricolino. Corsi di sopra, piombai su quel disperato, che al mio comparire si fece livido; poi non so dire quel che sia avvenuto. Pare che l'emozione fosse troppo forte per il vecchio malaticcio, o che una violenta stretta di cuore soffocasse insieme la bile, il sangue e la vita. Cadde come un sacco slegato, lo circondarono, lo portarono sul letto, e nella notte stessa morì, con infinito spavento della povera Nina, che s'immaginava quasi d'averlo ammazzato. Due giorni dopo questi fatti alcuni compagni corsero a casa mia ad avvertirmi che avevano arrestato Branchetti, il direttore del Trovatore e che la polizia era in cerca di me. Non era il caso di stare ad aspettarla. Le guardie entrarono in casa mia e sequestrarono le carte, le robe, il flauto. Padova non era più aria buona per me: e per non aspettare di peggio, la notte stessa presi la strada del confine. - Era anche questo un intrigo di Franzon? - ....Còlto nel segno! Coll'ingegno che natura gli ha dato, egli aveva saputo dimostrare alla polizia centrale di Venezia che a Padova si congiurava contro l'ordine costituito e che un branco di giovinastri mazziniani nelle conventicole del Trovatore inneggiavano all'Italia sotto l'allegorico nome di Nina. - Che talento! Non poteva vendicarsi con più spirito. E come finì? - Finì che, morto Malgoni e venuto al mondo, sei mesi dopo il funerale, un bel maschietto, la povera Nina trovò ancora della sua convenienza di andare a Venezia e d'acconciarsi in casa del suo nuovo padrone e tiranno; il quale qualche tempo dopo trovò della sua convenienza anche lui di sposare la vedova e tirarsi in casa quel po' di ben di Dio che Malgoni le aveva lasciato sul testamento. La siora Nina dev'essere morta qualche tempo prima che entrassero gli Italiani in Venezia. - Bella storia! e Franzon? - Franzon sano, robusto, vispo come un pesce, di trionfo in trionfo, oggi è diventato una mezza illustrazione della scienza europea. Si dice che alla prima infornata abbiano a farlo senatore. - ....È naturale! Non son più i tempi dei tedeschi.

Le Fate d'Oro

678842
Perodi, Emma 1 occorrenze

Son poverella e poverella resterò.... non voglio abbandonar la nonna mia nè Moreccino. - Conducili con te.... - Qui vi fu un momento di sosta.... La tentazione era molto forte.... Ma ad un tratto Fragolina rialzò il capo e disse fieramente: - Va', non mi tentar più. Con le ric- chezze non si compera la felicità. - E l'omìno se n’andò sotto terra mogio mogio e, come si dice, colle pive nel sacco.

Pagina 55

LE NOVELLE DELLA NONNA. Fiabe fantastiche

679070
Perodi, Emma 1 occorrenze
  • 1992
  • Newton Compton Editori s.r.l.
  • prosa letteraria
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E Buona, pregata da un frate che bazzicava al castello, se ne andò, scalza e vestita della bianca tunica, presso il vecchio signore, che teneva rinchiusa sua madre in un sotterraneo e che aveva fatto abbandonar lei alla voracità dei lupi. - Signore, - disse Buona quando fu alla presenza dell'infermo, - io non so altro che pregare, e pregherò per voi. Quella voce dolce scese come un balsamo al cuore del vecchio, il quale incominciò subito a migliorare. - Chi sei? - le domandò il vecchio, - e dove stanno i tuoi genitori? - Non lo so. Quindici anni fa, frate Buono mi raccolse fra la neve nel Pian del Prete. Io non ho altra famiglia che i frati camaldolensi, altra madre che la Madonna. - Quindici anni fa, tu dici! - Sì, avevo allora pochi mesi. Tacque il vecchio, e il suo volto rivelava la lotta che si combatteva dentro di lui. - Dimmi, sapresti tu perdonare a chi ti avesse privato della madre? - Io ho imparato da fra' Buono, che non sta a noi giudicare le azioni altrui. - Avvicinati! - ordinò il Conte. Il vecchio le prese le mani e la esaminò attentamente. Non poteva ingannarsi: erano proprio quelli gli occhi grandi e dolci del suo Corso, eran quelli i lineamenti del figlio perduto. Allora, preso dalla tenerezza, il vecchio attirò a sé Buona e disse: - Figlia del figlio mio, ti benedico! Buona non capiva nulla. Soltanto quando il Conte le narrò la storia truce, ella comprese e disse: - Liberate l'infelice madre mia! Questo desiderio fu subito appagato; ma quando Buona fu in presenza della madre, credé di vedere uno spettro. - E tu, Selvaggia, puoi perdonarmi? - domandò il vecchio. - Mi rendete la mia creatura e io dimentico tutto per non rammentare altro che questo momento felice. Il Conte in breve si rimise in salute e appena ebbe riacquistate le forze, cavalcò fino a Camaldoli per fare una ricca offerta al monastero che aveva tenuto Buona come figlia e visitare il santuario eretto in onore di lei. Ma, nonostante che egli fosse circondato dalle cure amorevoli delle due donne, il suo pensiero era sempre rivolto a Corso. Una sera gli fu annunziato che un cavaliere chiedeva l'ospitalità. Il signore ordinò che fosse subito introdotto, e quando il viaggiatore entrò nella sala, gli occhi affievoliti del vecchio Conte non lo ravvisarono; ma dalla bocca di Selvaggia uscì un grido, riconoscendo in quel cavaliere il proprio marito. Corso raccontò che era riuscito a fuggire, e, raccolto da alcuni marinari sulle coste d'Africa, era passato in Sicilia, e di là era tornato in patria. Buona fu per molti anni la consolazione dei genitori, com'era stata la consolazione del vecchio Conte; ma nonostante le ricche offerte di maritaggio, ella volle rimanere libera e non dismise mai l'abito bianco dei Camaldolensi. Rimasta orfana, ella cedé ai parenti il castello di Poppiano e i feudi annessi, e costruitasi una piccola casa all'Abetiolo, accanto al santuario eretto in memoria della sua miracolosa salvazione dal lupo, vi morì in odore di santità. La novella terminò senza che Cecco fosse tornato. Regina, per distrarre Vezzosa, che vedeva malinconica, avrebbe incominciato volentieri a raccontarne un'altra; ma gli uomini si erano già alzati per andare a letto, meno Maso, il quale disse: - Cecco si meriterebbe di dormire sull'aia; stasera lo aspetto io e gli dico il fatto mio! Vezzosa si sentì gelare. Le dispiaceva l'assenza del marito, ma più ancora l'affliggeva che il capoccia lo biasimasse. Per questo disse al cognato che Cecco lo avrebbe aspettato lei. - Tu puoi rimproverarlo quanto vuoi in camera tua, come moglie, ma io voglio rimproverarlo come capo di casa, - rispose Maso. - Nella nostra famiglia nessuno ha mai bazzicato le osterie con gli amici, e non deve essere il primo lui. Vezzosa dovette ubbidire e andare in camera sua, ma non si spogliò finché non udì il passo di Cecco, e rimase inchiodata alla finestra per udire il colloquio fra i due fratelli. I rimproveri che rivolse Maso a Cecco furono così aspri, che Vezzosa non ebbe coraggio di fargliene altri. Ma piangeva la povera donna, come una vite tagliata, e quelle lacrime inasprirono il colpevole, invece di rabbonirlo.

MEMORIE DEL PRESBITERIO SCENE DI PROVINCIA

679340
Praga, Emilio 2 occorrenze
  • 1881
  • F. CASANOVA. LIBRAIO - EDITORE
  • prosa letteraria
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Senza quel pozzo, vivrebbe ancora che sarebbe un piacere a vederla, - In un museo, osservò Bazzetta, e mentre la comare si contorceva per la tosse, - ecco qua, aggiunse, un cucchiaio ogni tre ore ... e abbandonar l'acquavite. Avete inteso. Addio. E la congedò dandole amichevolmente del palmo sulle spalle; ciò che mi parve facesse un gran piacere a colei, che uscì dedicandomi un inchino grottesco. - Ed ora a noi! Aspettatemi un momento che vado per un certo affarettino; intanto affilate le orecchie. Ritornò quasi tosto e m'introdusse sotto il portichetto, dopo aver dato una girata di chiave alla bottega. Trovai due comode seggiole davanti a un piccolo tavolo dove ergevasi maestosa una pingue bottiglia di vino bianco fra due enormi bicchieri. - Qui nessuno ci sentirà, e c'è un fresco che consola. Un sorso e riprendo il filo. Così, in vera santa pace, il facondo Bazzetta cominciò: - Dicevamo dunque che era arrivato a Zugliano il De Emma e che la curiosità era grande di sapere i fatti suoi. Del resto si ha il diritto, quando arriva in paese un forastiere, di conoscere chi è ... per potersi regolare. Io fui dei primi a conoscere la verità, quando meno me lo aspettava. Naturale. Il signor De Emma era un medico; tornava dall'Inghilterra, e mezzo per vaghezza di studio, mezzo per occuparsi, innamorato delle nostre montagne, veniva a stabilirvi una casa di salute. La nostra farmacia ebbe dunque subito dei rapporti con lui. Il dottore si dedicava quasi esclusivamente alle malattie di cervello. E, come vi dissi, l'Angelo De Boni si arrovellava allora per liberarsi del padre. Lo presentai al De Emma, il quale, per sottrarre il vecchio alle sevizie della famiglia, acconsentì, mediante una modica pensione a prenderlo nel suo nuovo stabilimento. Il vecchio non oppose alcuna resistenza, ma concepì un odio implacabile per quelli della sua famiglia, tantochè non voleva più vederli. Ciò dava fastidio ad Angelo, perchè non essendo accertata giuridicamente l'alienazione mentale del padre, egli ne temeva un testamento di vendetta. Del resto il vecchio era mansuetissimo; - solo rimaneva chiuso, muto, assorto tutto il giorno nella lettura dei suoi libri religiosi. Il signor De Emma aveva con sè due giovani donne: una inglese, sua moglie, - l'altra italiana, vezzosissima, i cui rapporti colla famiglia per allora rimasero ignoti. Si credeva fosse un'inferma in cura del dottore - tanto era patita e sparuta. Costei, per suo gusto, si occupava degli ospiti dello stabilimento. Aveva una pazienza, e certe maniere e certo visino dolce, amorevole, che i malati presero a volerle bene: era un pallido raggio di sole nella tenebrìa squallida della loro vita di ospedale. Ed anche il De Boni non rimase insensibile alle sue cure. - Un giorno che il poveraccio s'affaticava, a forza di lenti, di decifrare il carattere minutissimo di un Sant'Agostino ella glielo prese di mano, sedette accanto al letto e gli fe' lettura. Poi ci tornò ogni dì. In breve ella acquistò imperio grandissimo su quel bietolone. E fu in grazia sua se il signor Angelo potè ripresentarsi al suo padre senza farlo montare in furore .... La giovinetta un po' colle buone, un po' colle brusche, come si usa coi ragazzi, sapeva ridurlo docile come un agnello; - tutte le volte che il figlio si presentava, era lei la sua introduttrice e assisteva a tutti i loro colloqui. Strani colloqui di grugniti e di muggiti non interotti che dalle soavi sue parole. Ella faceva da interprete, da paciera .... In quella il vecchio orologio a pendolo della scala battè sei colpi. - Sei ore, sclamò Bazzetta, già sei ore! Era scritto ch'io dovessi rimanere un altro pezzo con la mia curiosità oramai vivissima.

Mentre in Italia la medicina, per opera specialmente del grande Morgagni, cominciava ma appena ad abbandonar l'antico spirito di sistema per un illuminato eclettismo, e ove pochi ingegni preclari si sprofondavano nello studio dell'anatomia patologica, e da pochissimi o da nessuno determinavasi ancora la sede delle malattie nè descrivevansi le alterazioni che producono, ed erano trascurate quand'anche non derise le ricerche microscopiche e l'analisi dei liquidi, - in Inghilterra, le dottrine di Mesmer, spuntate al tramonto dell'ultimo secolo, già preoccupavano tutti gli spiriti più elevati e già avevano aperti nuovi orizzonti al pensiero; Hanhemann contava ogni giorno più numerosi i suoi satelliti; e le scoperte e le indagini di Jenner, di Corvisart, di Avenbrugger, di Loenner e di Pinnel, il redentore degli alienati, avevano rivoltata come un guanto la scienza. È questa l'imagine abbastanza comune, ma giusta, che si affacciò al giovane studente di medicina, davanti all'inesorabile evidenza dei fatti. Si ingolfò dunque nelle nuove dottrine, benedicendo quasi a quel tempo di miserie perdute, che provvidenzialmente lo aveva scosso nelle false o men rette convinzioni acquistate con tanta perseveranza in Italia. Chiamò la fatica a duello, e fece e si mantenne la promessa di lavorare dieciotto ore sulle ventiquattro. Diminuì il budget delle spese quotidiane, diggià abbastanza mingherlino nell'antecedente preventivo, si fece trappista e cenobita, e rinfrancandosi nel pensiero della patria lontana e nell'esempio nobilissimo del padre, trovò la vigoria e la pertinacia per condurre per quasi un anno una vita che, senza quel ricordo e quello stimolo forse avrebbe spezzato anche una natura più robusta della robustissima sua. Ma i libri in Inghilterra, e quelli in ispecie di cui egli doveva riempire la sua cameretta costavano, a que' tempi, un enorme denaro; non contento di quelle della clinica egli voleva fare esperienze per conto proprio, e queste costavano ancor più dei libri. Ogni nuova riduzione di spesa sarebbe stata l'inedia! Allora ... allora chinò la testa un momento, ma per rialzarla più fiera e più convinta di prima. Scelse fra le lettere di raccomandazione, deposte in fondo al baule, dieci mesi prima con tanta balda illusione, quelle in cui non era precisamente indicato il genere di occupazione che egli si era prefisso ricoverandosi a Londra, e per un mattino di novembre dei più nebbiosi e freddi, uscì per andarsene in cerca di lezioni di lingue e di letteratura. Conosceva, oltre la sua, perfettamente il francese, il tedesco e l'inglese, era coi classici famigliarissimo, e la innata attrazione per tutto che è nuovo ed ardito lo aveva fino dall'adolescenza portato quasi all'adorazione degli autori romantici, allora sconosciuti ai più, da molti rinnegati, compresi o portati alle stelle da pochissimi giovani ingegni, per ciò appunto bersagliati a loro volta e presi a celia. Aggiungete a queste impareggiabili doti acquisite, quelle di cui gli era stata prodiga la natura: un'alta statura, un portamento che rivelava l'aristocrazia della razza, gli occhi splendidissimi, la chioma corvina, una mano bianca e affilata; tutto un insieme di linee armoniose e robuste nel tempo stesso. An italian gentleman susurravano intorno a lui, appena vedendolo passare. Perchè a queste notevoli raccomandazioni non voleva egli aggiungere quella che pochi o nessuno fra gli innumeri aspiranti al posto di maestro di lingua, ecc. ecc., che correvano, corrono e correranno le vie di Londra, avrebbero potuto dividere con lui? Perchè con tanta cura tentava di nascondere il neo-laureato in medicina dietro il postulante pedagogo? Per un sentimento in cui non so se entrasse in dose maggiore l'orgoglio oppure l'egoismo. Entrando nell'onorato ma modesto sentiero in cui lo spingeva il bisogno, egli sentiva di abbassarsi, non in faccia agli altri ma in faccia a sè stesso; non voleva abbassar con sè l'altissimo ideale, la scienza; per Lei, per l'amor suo, pel suo culto ogni maggior sacrificio; ma ambiva di farle la carità delle sue veglie senza ch'Ella sapesse che cosa costassero al suo sacerdote. Come aveva diviso in due parti il proprio tempo, così aveva diviso in due parti sè stesso. Rientrando dopo le sue lezioni per riaprire i dotti volumi, egli spogliavasi per così dire la pelle del maestro e ridiventava il pensatore; se sotto quella pelle alcuno sguardo indiscreto avesse potuto scoprire quest'ultimo, egli se ne sarebbe sentito abbandonato completamente; gli pareva che l'Idolo lo avrebbe guardato con faccia meno benevola, gli pareva che lo avrebbe profanato. La fortuna gli arrise. Non era scorso un anno e la sua fama di professore aveva già fatto il giro delle sale più aristocratiche di Londra, sicchè egli aveva ormai abbandonato l'uggioso e gretto insegnamento delle lingue per non dar che lezioni di lettere e di estetica, lezioni che gli venivano largamente retribuite e che, introducendolo, intermediarii l'ingegno e la coltura, nelle più cospicue famiglie, dovevano trovar preparata al medico futuro una vasta e invidiabile clientela. Gli agi non lo tolsero alla sua vita di privazioni; anzi affilarono, per così dire, l'aculeo che lo spingeva allo studio, talchè in due anni egli fece ciò a cui altri non sarebbe riuscito di fare, in doppio spazio di tempo. Pochi mesi mancavano al giorno in cui sarebbe stato in possesso di tutte le patenti volute dalla legge per professare la scienza salutare, quando un avvenimento sopraggiunse che doveva decidere di tutta la sua vita. Una delle famiglie con cui per mezzo delle lezioni egli era entrato in più intimi rapporti, - rapporti direi quasi di dimestichezza se dimestichezza fosse possibile fra inglesi e stranieri, - era la famiglia di Riccardo Hutley, antico capitano della Grande Compagnia. Arricchitosi di molto nelle Indie, il vecchio viaggiatore terminava in una quiete ben meritata la laboriosissima vita, in uno dei più begli appartamenti della City, educando principescamente insieme colla sua signora, l'unica figlia, miss Jenny, una fanciulla di dieciotto anni, un miracolo di virtù e di bellezza. Oltre le ore dedicate alla lettura e ai commenti dei nostri poeti a fianco di miss Jenny, erano molte quelle che il giovane De Emma passava nelle sale da pranzo e di conversazione e in quella del bigliardo, invitato con sempre maggiore frequenza dal capitano che aveva preso stranamente ad amarlo. Il vecchio scorridore dell'Oceano prendeva un gusto da non dire udendo il professore leggere le terzine di Dante; mai, egli andava dicendo a chi voleva o a chi non voleva sentire, mai egli aveva meglio provato l'influenza dei versi ... e notate che non capiva una sillaba di italiano! Bizzarria britanna! Frequentando così assiduamente quella famiglia, obbediva egli ad un sentimento di cordialità, di gratitudine? Tutti i colleghi che conoscevano quel giovane sempre pensieroso, sempre accigliato, il quale, - finite le ore dello studio non divideva cogli altri le lietissime dell'andarsene a zonzo, - che adocchiava, dalle vetrine dei librai, - le nuove edizioni, - nella attitudine di Adamo davanti al frutto proibito. - Tutti quei giovani inglesi lo guardarono, lo contemplarono, e finirono per ammirarlo. L'idolo è custodito: ecco perchè i passi di De Emma furono seguiti da altri passi. Quella frequenza contraria alle parche abitudini del giovane italiano, nella casa del vecchio capitano fece dire, dopo poco tempo, ad un primo. - È innamorato di miss Jenny! - È il suo amante, - ripetè il secondo. - Quel vecchio babbeo! ... osservò il terzo. E così di seguito. Che c'era di vero in tutto ciò? Eccolo detto in poche parole: De Emma non era l'amante di Jenny, il padre di Jenny non era un babbeo; ma il primo interlocutore aveva ragione. - De Emma era innamorato. E il padre di Jenny se ne accorgeva. Innamorato senza volerlo, quasi senza saperlo; come si è innamorati per la prima volta; innamorato non tanto della creatura come della poesia che ella espandeva; assorto in questa come in una visione; infelicissimo quasi sempre e più che mille volte felice in un giorno. Venne l'ora in cui constatò la propria malattia, e se ne atterrì come mai forse non si era atterrito al capezzale di nessun infermo. Due soli rimedii potevano salvarlo: uno d'ambrosia, l'altro di tossico; al primo non poteva, non doveva nemmeno pensarci; quanto al secondo, c'erano novantacinque probabilità su cento che invece di guarirlo lo avrebbe ucciso. De Emma scelse quest'ultimo. Il giorno stesso in cui si era convinto della dolce e crudele verità, egli ricevette un invito come al solito dettato nei termini della più squisita gentilezza, in cui lo si invitava in campagna ad Hutley House, per l'indomani; era sottoscritto «Jenny». Il povero giovane rispose immediatamente di non poter aderire all'invito attestando occupazioni che gli avrebbero reso necessario per assai tempo il soggiorno alla capitale. È vero che lacerò per ben tre volte il biglietto prima di poterlo scrivere in modo che la sua disperazione non trasparisse dalla sconnessione delle frasi e dei caratteri. Quel giorno errò come un pazzo per le strade e pei parchi preceduto da un fantasima di fanciulla dagli occhi azzurri e dai lunghi, disciolti capelli biondi, che ora pareva sorridergli con ingenua famigliarità, quasi facendogli coraggio a seguirla, ora sembrava comporre a corrucciata espressione l'angelica faccia, come chi vorrebbe rimproverare e non osa, e tiene il broncio di fuori e di dentro ha il rovello. Quella notte la visione sedette davanti a lui, insonne e febbricitante, nè lo abbandonò che coll'alba, quando l'orologio della torre lo richiamò dalle plaghe della inesorabile fantasia ai solchi della crudele realtà. Ma i libri su cui si gettò come si precipita sulla fontana il pellegrino assetato non erano più quelli del giorno prima: che insipida presa, che gelata selva di formule, che arida landa di dubbii, di supposizioni, di errori! Come mai tutto ciò aveva potuto, per tanto tempo, formare la sua delizia, il suo orgoglio, l'esistenza sua tutta intiera? Egli si vide allora spalancato un abisso in cui si sentiva irresistibilmente trascinato; come un ragno a cui la verga di uno spensierato fanciullo abbia infrante tutte le fila cui era sospesa la pensile dimora. Fu dapprima uno sgomento inenarrabile, una perturbazione spasmodica, se così è lecito esprimersi, di tutte le fibre dell'animo suo; uno stupore, una meraviglia, di sè, degli altri, di tutto, come sarebbe quella di un uomo che addormentatosi tranquillamente nel proprio letto, si risvegliasse d'improvviso sull'ultima vetta dell'Imalaia, o all'estremo confine delle sabbie del Sahara. Questi dolori sogliono condurre per mano la pazzia a destra, a manca l'abbrutimento: la rassegnazione sta in mezzo talvolta ..... ma è una rassegnazione forse meno invidiabile dell'abbrutimento e della pazzia. Guardata faccia a faccia la via del dovere, l'angusta via del dovere come la chiama il poeta, quella che lo separava per sempre da Jenny, il giovane De Emma non trovò il coraggio di batterla che esagerandone le scabrosità, moltiplicandone le spine, tenendo a bella posta aperte e sanguinolenti le piaghe che gli rallentavano il cammino. Il suo dolore a poco a poco andava trasformandosi in voluttà. Come il viaggiatore del deserto, sorpreso dalla notte, poichè ha acceso un gran fuoco onde tener lontane le bestie feroci, per paura di addormentarsi si abbrucia un dito, e come appena lo spasimo è cessato, lo riabbruccia, e così continua finchè l'alba tropicale non spunti in suo aiuto; così il signor De Emma cercava la propria salvezza, e, povero illuso, credeva trovarla, martirizzandosi nella fiamma fatale di quell'amore; nè si accorgeva che in tal modo, lungi dall'allontanarli si riscaldava e rinvigoriva ogni sorta di mostri nel cuore. Ragionava, sillogizzava sulla sua passione; ciò che è terribile. Si arrestava, avvolto in certi pensieri che, se altri avesse potuto leggergli dentro all'involucro cerebrale avrebbero fatto dubitare della sua ragione. Continuava, ma macchinalmente, gli studi di medicina; il resto del tempo impiegava (oh dov'era l'uomo serio d'una volta!) rileggendo e meditando le istorie innumeri degli amori e degli amanti infelici. Con esse cominciò ad insinuarsegli nell'animo il veleno che dalle pagine sublimi del Werther e dell'Ortis si era versato in tutta la letteratura dell'epoca. La sirena del suicidio venne a cantargli nell'animo le sue terribili ed affascinanti canzoni. Accade in questi rabbuiamenti del senso morale come nell'orgie: il ritornello vi trascina. E il giovine De Emma si trovò una brutta notte a ripeterlo colla passiva incoscienza dell'uomo soggiogato da una fissazione sopra il parapetto del Tamigi. Pioveva una belletta negra, figlia dei nembi e della caligine delle officine. L'acqua del fiume correva densa, scura, con dei vaghi riflessi plumbei. Scena atta veramente a disgustare del mondo. Egli diceva fra sè, con tutta calma, che non c'era ragione di rimanervi. Ma s'ingannava: per sua buona sorte, la ragione ci fu e tale da riconciliarlo perfettamente con la vita. A sua destra, lontano una cinquantina di passi, le finestre illuminate di una palazzina gettavano sulla superficie liscia, oleosa del Tamigi i suoi riflessi simili a pezzi di tela sudicia. Subitamente gli colpì l'occhio di sbieco qualcosa di bianco che scendeva tuffarsi là dentro. E, fra lo scroscio sordo e pigro dell'onda e il rombo cupo delle macchine che rantolavano la loro veglia, distinse un tonfo leggiero. Non ci avrebbe posto mente (aveva ben altro per il capo) se non ne fosse seguito una specie di tumulto nella casa vicina. Si gridava aiuto, accorreva gente con delle lanterne, si staccavano delle barche. Si mosse istintivamente e discese anch'egli alla riva. Sul fiume era cominciata la ricerca; tre barche in crocchio scendevano la corrente e, in mezzo ad esse, qualcuno gettavasi a nuoto e tuffavasi: a brevi intervalli, quando veniva a galla, i barcaiuoli gli gettavano dei monosillabi di consiglio, di avvertimento. - Si trattava certo di qualcuno caduto nel fiume. De Emma, in mezzo alla folla raccolta sulla sponda, guardava, aspettava con grande ansietà: avrebbe voluto essere dalla partita di salvataggio. Cosa strana; il sentimento della vita spento dal tedio della propria esistenza, rinasceva in lui dalla compassione per quell'infelice. Finalmente una esclamazione venne dal fiume ad annunziare il successo dell'impresa. Una barca si staccò innanzi alle altre e si avvicinò rapidamente alla riva. Recava il corpo inanimato di una donna. I barcaiuoli la portarono in una casupola vicina. e chiusero i battenti dell'uscio in faccia alla curiosità invadente della folla. Dopo qualche minuto, un finestrello s'aperse; una voce gridò: - Un medico! ... - Eccolo, rispose De Emma, che era rimasto là in mezzo. L'uscio si riaperse e fu introdotto nella camera. La donna distesa sopra un mucchio di reti non s'era punto riavuta. Egli si assicurò che il cuore le batteva fievolmente. Era giovane e bellissima: indossava una splendida veste di raso bianco e aveva un stupendo monile di brillanti al collo. Quella brava gente aveva esaurito senza frutto tutti i soliti mezzi empirici per richiamarla alla vita. De Emma si curvò e, posate le proprie labbra sulle sue, con quanta forza aveva nei polmoni inspirò a più riprese nel petto della giovane. Dopo un quarto d'ora un debol soffio indicò che le funzioni respiratorie si rianimavano. Due o tre curiosi erano riusciti a penetrare in casa col dottore; mentre egli era curvo intento all'operazione sporgevano il capo sopra le sue spalle per vedere. Uno di essi, un vetturale della vicina stazione, sclamo: - Tò la ballerina della palazzina verde. Qualcun altro confermò le sue parole. De Emma domandò: - Sta qui vicino? - A due passi. Il luogo non era adatto alle cure necessarie nella crisi che stava per dichiararsi. Per suo ordine i barcaiuoli la presero e la trasportarono in casa sua. Colà nessuno s'era accorto della sua assenza; un servitore che dormiva in anticamera si alzò in soprassalto e, tutto sbalordito, li guidò nella camera della signora. Attraversando l'appartamento la triste comitiva si imbattè nel finale di un banchetto d'uomini. Nella sala da pranzo dormicchiavano distesi nella posa di volgari ubbriaconi lords e gentlemens dei più noti del gran mondo. I meno cotti, all'inatteso spettacolo, pensando si trattasse di una burletta di quella matta di Rosilde, che quella sera li aveva invitati, come diceva il biglietto «all'ultima cena» levarono alte risa e batterono le mani; e afferrato un candeliere fecero scorta recitando le preci dei defunti. Figuratevi come rimanessero quando si accorsero che la cosa era pur troppo seria. Due, che giocavano in un salotto attiguo, assorti nella loro partita non intesero e non videro nulla: nel silenzioso stupore di quel momento si sentivano distintamente le loro irose osservazioni. Un reporter di un giornale del mattino scarabocchiava in un boudoir il suo cenno descrittivo. Fu il solo ad afferrar subito il vero: ma, avvezzo per professione a non meravigliarsi di nulla, seguì colla matita sulle labbra il convoglio, ne osservò i particolari, assunse a bassa voce minute osservazioni e tornò tranquillamente a terminare l'articolo, felice di potere nella chiusa impreveduta di esso regalare ai suoi lettori una ghiotta primizia. Il dottore riuscì non senza stento a congedare tutta quella marmaglia in giubba nera e non permise di rimanere che al barcaiuolo che avea pescata la giovinetta. Dopo un'ora di sforzi Rosilde cominciò davvero a riaversi. Aprì gli occhi, e al ritrovarsi nella sua camera, fe' una smorfia di disgusto. Volle sapere come c'era tornata e bisognò contentarla. Quando il signor De Emma ebbe terminata la sua breve relazione, lei si tolse dal collo il monile di brillanti e porgendolo al barcaiuolo: - Prendi, spetta a te; io l'avevo portato per chi avesse ripescato il mio cadavere. Tu mi hai servita un po' troppo sollecitamente, - ma non importa, la colpa è dello stupido mio destino. - Quanto a voi, disse poi al dottore, non vi date troppo fastidio, il miglior servizio è lasciarmi finir presto. De Emma, nella sua passione di medico, non si sgomentò per questo. Non vide in lei che un organismo da conservare a dispetto della sua volontà e prese a cuore il suo compito. Per parecchie settimane fu una guerra continua fra il medico e l'inferma. Egli faceva valorosamente il suo assedio, ed ella, benchè soggiogata da quel fermo proposito, si schermiva con delle segrete astuzie, con delle resistenze dissimulate. Però la crisi fu più lunga di quello che il dottore si riprometteva: quando credeva d'averla vinta scoprì d'aver di fronte un nemico formidabile. La Rosilde era affetta da un serio male di cuore che il suo tentativo di suicidio aveva aggravato. Era questa la causa della sua disperata risoluzione; la disperazione di guarire l'aveva buttata nelle braccia della morte per finirla colle ansie, colle terribili delusioni di una lenta consunzione, che pareva inevitabile. Quel giorno Rosilde gli gettò come una sfida queste dure parole: - Per far tanto armeggio bisognerebbe almeno sapermi rifare questo ordigno guasto. E picchiava coll'indice sul suo seno ansimante per l'asma, eh! che ne dite, patria? - Lo spero, rispose gravemente il De Emma con una sicurezza che non era punto una simulazione. - Davvero? ebbene proviamo. Da quel giorno fu di una docilità assoluta. Ella amava la vita. Il romanzo della ballerina del Covent-Garden, rivestito di tutte le grazie letterarie dei giornali, corredata delle ipotesi e delle spiegazioni con cui si fabbrica il mistero, menò grandissimo rumore. Tutti gli amici vennero a trovarla; molte notabilità vollero esserle presentate: ella fu per due mesi grandemente alla moda. Malgrado il divieto del medico, per due ore il giorno si teneva nella stanza di lei una sceltissima conversazione. Un po' la nuova speranza, un po' la cura del De Emma cominciavano a trionfare del male. La giovinetta rifioriva. Quelli che sapevano della sua malattia dichiarata incurabile da due celebrità mediche del paese ne facevano le meraviglie. Quando essi la complimentavano della sua guarigione, essa rispondeva: - Non so nulla io, è tutto merito del mio genio taciturno. Voleva dire il De Emma. Nessuno l'aveva mai veduto. Qualche volta egli veniva mentre c'era gente; e la Rosilde s'alzava per ricevere il «genio»; di solito rientrando congedava seria seria la compagnia. Si cominciò a scherzare del misterioso personaggio: poi ad esserne curiosi. Il baronetto Mac Snagley aveva un fratello che soffriva di cuore: pregò Rosilde di presentargli il suo medico. De Emma ebbe la sorte di guarire il giovinetto Arturo Snagley, idolo della famiglia. La sua riputazione si estese nella alta società di Londra. Parecchie altre cure felici finirono per metterlo in voga. La sua non era soltanto fortuna. Per il primo aveva indovinato, allora al tempo delle cliniche dirette e operative, l'importanza dell'igiene nella cura delle lente alterazioni organiche: non violentava il male, aiutava indirettamente la natura a correggerlo, a sopprimerlo. La novità del suo metodo, la gradevole facilità di eseguirlo aggiungevano attrattiva alla sua assistenza. Quando venne la primavera Rosilde per suo consiglio affittò un grazioso villino dalle parti di Brighton. L'aria aperta, la quiete della vita campestre compierono la sua guarigione. De Emma le rare volte che fu colà a visitarla si confermò nella certezza di avere rimosso definitivamente ogni minaccia del male. Gli istinti della sua prima giovinezza avevano ripreso il dominio della sua vita, Ella ritornava la gaia fanciulla di Castelletto. Aveva stretto relazione con la moglie del ministro e l'accompagnava nelle sue visite di beneficenza per le capanne dei contadini. Qualche volta ne invidiava ad alta voce gli uffici. I suoi sentimenti di donna e di campagnuola vi avrebbero trovato intera soddisfazione. Ella e De Emma si dovevano scambievolmente la vita. In lui i tristi fantasimi del suicidio eransi dissipati dinnanzi all'amore rinato della scienza e alla fiducia in sè stesso, - a ciò venne dopo qualche mese ad aggiungersi un alleato anche più poderoso. Una mattina di estate, all'ora in cui il dottore era solito ricevere in casa, il servo introdusse un signore nel quale il dottore ravvisò non senza meraviglia il signor Hutley, il padre di Jenny. Costui gli tenne questo strano discorso: - Voi siete un orgoglioso: avete lasciata la mia casa dove tutti vi volevano bene; ora io vengo umilmente a pregarvi di ritornare. Zitto, non ricusate, vi scongiuro; mia figlia è malata; voi siete medico, guaritela. Nessuno seppe mai bene come terminasse questo colloquio; pare che i due si trovassero nelle braccia l'un dell'altro. La stessa scena dovette ripetersi la sera in casa del signor Hutley e c'era presente una giovanetta un po' pallida che singhiozzava di gioia. Il dottore De Emma sposò poco dopo la sua Jenny; e partì con essa per un viaggio sul continente. Ma, come dicono i contadini, il Signore non vuole nessuno contento. Furono richiamati tosto a Londra dalla triste notizia che Hutley era stato colpito da una apoplessia. Gli sposi tornarono appena in tempo di ricevere la sua benedizione. Dopo la morte del padre, Jenny fu colta da una così profonda malinconia che il marito pensò a levarla dai luoghi che le rammentavano troppo vivamente la disgrazia. E Jenny accettò con viva riconoscenza la proposta di venire in Italia. Il dottore aveva ereditato in Lomellina da un lontano parente una vistosa tenuta: e poichè egli poco ambizioso, tutto assorto negli studi scientifici poco ci teneva alla sua clientela risolvettero di fissare la loro dimora a Zugliano, dove avevano passati i momenti più lieti del loro viaggio di nozze. Frattanto De Emma aveva, se non dimenticata, almeno perduta di vista la Rosilde. Solo aveva risaputo ch'ell'era tornata verso il fine dell'estate a Londra ed era risalita sul palcoscenico. Egli si proponeva di recarsi a salutarla prima di lasciar l'Inghilterra ma preoccupato dei preparativi della partenza rimandava di giorno in giorno la visita. Una mattina, era pressapoco l'anno da quella sera lugubre del loro primo incontro, ricevette l'invito dì passare da lei. La poveretta era ricaduta malata: l'aria pesante di Londra e gli strapazzi del palcoscenico avevano risvegliate le sue sofferenze di cuore. Il dottor De Emma ebbe rimorso di abbandonare così colei che era la causa di ogni sua fortuna, e si trattenne tutto quell'inverno. Anche allora egli riuscì a scongiurare la crisi minacciata. Le sue cure vinsero la violenza del male. Verso il fine di febbraio Rosilde tornò a stare meglio, ma era tanto debole stavolta, tanto sfinita che la convalescenza progrediva molto stentatamente. La rigidezza dei clima la teneva in continue oscillazioni. Il dottore pensava con viva inquietudine ai venti e alle pioggie del marzo imminente. Una settimana di tempesta poteva uccidere l'Inferma. Allora egli suggerì il ritorno in Italia. Rosilde non disse nè sì nè no, ma non si decideva mai. Il dottore indovinò il segreto motivo della sua esitanza. Ella non aveva più parenti all'infuori di Mansueta che stava a servire dal curato di Sulzena: la malattia aveva esauriti quasi interamente i suoi risparmi. In Italia come e dove avrebbe vissuto? Il dottore ne parlò a Jenny, le ricordò le obbligazioni ch'egli aveva alla Rosilde, gli confidò il suo stato e la pregò di trovar modo di aiutarla. La giovine sposa, buonissimo cuore, interpretò rettamente e liberalmente il suo desiderio. Si recò essa stessa dall'inferma e tanto fece e tanto disse che l'indusse a seguirli in Italia. Per qualche mese le cose andarono a meraviglia, l'accordo delle due giovani pareva perfetto; quando Rosilde parlava di partire i signori De Emma le davano sulla voce, ed ella messi da parte i pensieri dell'avvenire accettava con gioia la generosa ospitalità. Ma, dicono i montanari, due galli in un pollaio, due donne in una casa non fanno il paio. Il sereno non tardò ad intorbidarsi. Colla salute rinverdiva la mirabile bellezza di Rosilde; la sua fisionomia vivace, espressiva, gareggiava vittoriosamente colla figura forse un po' tranquilla di Jenny. Tutti ne parlavano in Zugliano e nei dintorni; facevano dei confronti, aggiungevano delle supposizioni che appunto per il loro carattere di maldicenza trovavano larga e pronta accoglienza. Qualche ciarla cominciò a salire fino all'orecchio della signora De Emma. Ella cominciò a dubitare, poi a sospettare. Il sospetto è un miraggio che ha l'aria di una rivelazione. Tutte le cose pigliano attraverso a quello un'apparenza menzognera che, per disgrazia, è più verosimile del vero, s'incontrano in una logica più stretta perchè più artifiziale della realtà. La effusione tutta italiana con cui Rosilde manifestava al dottore la propria riconoscenza, parve a Jenny, più contegnosa, l'espressione di un sentimento più caldo e meno lodevole. Essa vide in lei non già una rivale, ma una minaccia al suo avvenire, alla tranquillità della casa; e la sua amicizia per Rosilde al soffio gelato della gelosia inaridì. Tuttavia non trascese in volgari ostilità: dissimulò nobilmente il suo sospetto, il suo timore, tutto, fuorchè una cosa, la sua freddezza. Ma questa bastò a Rosilde per indovinare tutto il resto. La triste scoverta la fe' pensare ai suoi casi, alla precaria sua condizione, all'incerto avvenire, ma sovr'ogni altra cosa all'umiliazione di essere a carico de' suoi ospiti. A tutta prima ella, come poi confessò al dottore, ebbe un accesso di odio per colei che coi suoi sospetti veniva a turbar la sua quiete: ma si persuase poi che la signora De Emma aveva ragione. Rosilde era innocente: aveva invidiata la felicità della casa in cui era stata raccolta ma l'aveva rispettata: non mai il suo cuore erasi aperto a delittuosi desideri. Voleva bene al dottore come ad un amico, ad un fratello maggiore com'egli si mostrava con lei: i loro caratteri entrambi risoluti, franchi, fieri non eran fatti per amarsi diversamente. L'amicizia si contenta spesso della somiglianza, l'amore esige quasi sempre l'antitesi dei caratteri; cerca l'armonia nelle differenze. Per invaghire un'indole così vivace e quasi virile come quella di Rosilde ci voleva un animo più tenero, più pieghevole, direi quasi più femmineo Ella deliberò di lasciare senz'indugio la casa De Emma e annunzio a tavola il suo divisamento senza preamboli, senza mezze confidenze, senza misteriose titubanze a tutti due i suoi ospiti insieme: disse che Mansueta l'aveva invitata a passare qualche tempo con lei e che intendeva recarsi a Sulzena l'indomani, - così senz'altro. Poi, con singolare tristezza, sorridendo, mutò discorso risparmiando al dottore l'imprudente ingenuità di farle delle preghiore e alla signora l'impaccio di nascondere la sua soddisfazione. Con lei si mostrò gentilissima, serena, volendo dissipare in lei persino l'ombra del dubbio. Questa fu la sua vendetta. Jenny ne fu commossa, Nel congedarla il giorno dopo non potè esimersi dal dirle: - tornerete? Rosilde le rispose: - A salutarvi. Molto probabilmente io lascierò di nuovo l'Italia. E le strinse la mano perfettamente tranquilla. Il dottore s'era accorto all'ultimo delle inquietudini della moglie e, contentissimo di essere liberato da una posizione molesta, si guardò bene dal rattizzarla con delle imprudenze. Riconoscente di tutto cuore a Rosilde della sua discrezione, finchè ella rimase a Sulzena, non cercò una volta sola di vederla. La ritrovò una sera per caso in quelle circostanze strane descrittemi dallo speziale. La povera giovine sorpresa nel proprio segreto gli contò allora la sua vita degli ultimi mesi, un romanzo di trista e funesta dolcezza. L'infelice s'era lusingata di tradurre in pratica il suo sogno di Brighton. La quiete del Presbitero l'aveva sedotta, ammaliata il carattere timido, pensieroso e malinconico di Don Luigi, allora giovane di aspetto e di forze malgrado i suoi quarant'anni sonati. Per certe donne l'amore non è che una forma più squisita della compassione: danno il loro cuore per un sentimento affine a quello per cui si farebbero suore di carità. Rosilde era di questi caratteri che pensano sempre agli altri e mai a sè stessi, che si guardano ansiosi intorno per trovare se c'è persona da soccorrere, da consolare e si feriscono spesso a morte per risanare il primo capitato da una scalfittura. La triste solitudine di quest'uomo così buono, così degno d'affetto la commosse. Ella non dava per sè stessa una grande importanza alle passioni amorose, ma come la madama Warens di Rousseau, e come la maggior parte delle donne, credeva che gli uomini non potessero farne senza, e veramente gli uomini che ella aveva incontrati, il mondo corrotto in cui aveva vissuto non potevano darle una più retta opinione. Perciò le pareva di scorgere nella vita di don Luigi un vuoto doloroso. Ella, così pronta a sacrificarsi senza chiedere ricambio, non capiva che si potesse fare di un'idea, di un sentimento soprannaturale l'interesse massimo della vita. Gli è che il suo cuore arrivava molto più in alto della sua mente incolta. Quando ella, nascosta dietro le stecche delle persiane o fra i cespugli del giardino, vedeva don Luigi appoggiarsi meditabondo al muricciuolo dell'orto, e là rimanere immobile per dell'ore colla fronte corrugata, gli occhi fissi alle cascatelle del torrente: poi levarsi repentinamente e passeggiare e poi fermarsi di botto e riprendere a camminare a passi ineguali, - ella s'immaginava che fossero le torture di un'indole passionata costretta a ripiegarsi dentro di sè. Ella non aveva torto interamente. La gioventù, ingagliardita dal lungo ritegno, tentava allora l'ultima e più formidabile ribellione contro le rigidezze del povero prete, mascherando i suoi assalti con quel misticismo, - potente e fuorviata sensualità delle indoli caste, - il quale penetra l'umana natura nelle sue più intime fibre, e la colpisce nell'arcano principio onde si congiunge l'elemento morale colla materia. Don Luigi attraversava quella crisi in cui il senso aggredisce la volontà violentemente, all'improvviso senza più avvertirla colle tentazioni, - e riesce spesso a sopraffarla. Egli andava inconsciamente contro il pericolo, dissimulato dai sintomi più diversi e più lontani. Sentiva un grande distacco dalle cose terrene, una stanchezza scevra di desideri, - eppure egli non era mai stato così debole di fronte ai piaceri mondani: non li temeva, perciò non stava in guardia. Così è, quando il vapore aderge troppo alto si scioglie e precipita nel rigagnolo. Qualche volta Rosilde sbucava fuori dal suo nascondiglio e andava raccogliendo fiori, camminando dall'una all'altra aiuola queta e silenziosa, come le premesse di non frastornar le sue meditazioni. Egli non tardava a scorgerla. Non l'evitava punto; la seguiva placidamente cogli occhi; guardava la sua manina bianca passar coll'agilità di una farfalla dall'uno all'altro cespo fiorito a farvi la sua preda, senza neppur farne cadere una stilla della rugiada che ne imperlava le fronde. Di solito se le accostava lentamente, e, mentre essa componeva ghirlande e mazzolini per l'altare, avviava con lei, senza sforzo, la conversazione. Parlavano dei fiori, del paese, ma nei discorsi più indifferenti trapelava l'alto pensiero di lui, il sentimento vivace di lei. Così poco alla volta, quel loro mattutino colloquio divenne una necessità della loro vita. Rosilde non mancò più di farsi trovare in giardino; e Don Luigi ci si recava dopo la messa inconsciamente per una abitudine che non gli costava nulla e gli era molto più cara che non credesse. Rosilde era uno di quegli eccezionali temperamenti di donna che, per la loro ventura, il poeta e il filosofo, - questi ossessi dell'idea e dell'immagine, - dovrebbero trovare sempre sull'aspro cammino della loro vita cogitabonda. Indoli fatte per riconoscerne, per ammirarne più che per capirne la superiorità. per tollerarne con pietosa e quasi inconscia abnegazione le debolezze, vigilanti alla felicità dell'uomo distratto dalle alte cure, pazienti ad attenderlo, sollecite ad aggiungere olio alla lampada della loro devozione come le vergini dell'evangelo. Nei primi giorni che ella passò al presbiterio malata, sfinita di cuore e di forze ella non vedeva Don Luigi che molto raramente; ma sentiva intorno a sè, in tutte le cose, la carità benefica delle sue premure, la sua pietà nobile, generosa, schiva di mostrarsi. Ad ogni momento Mansueta le usava qualche riguardo, qualche nuova cortesia, - e sempre ne attribuiva il merito al padrone: - don Luigi così ha detto, don Luigi ha pensato, don Luigi ti manda questo e quest'altro. Ell'erasi così bene avvezza alle dolcezze di quella casa che il pensiero d'uscirne la sgomentava tutta. Però quando, convalescente, ella venne a ringraziar don Luigi, comprendendo che per discrezione dovea prendere finalmente congedo, tremava e i suoi occhi erano assai più fecondi di lagrime che le sue labbra di parole. Ma il buon prete alle prime parole di riconoscenza la interruppe; il suo viso pallido arrossì subitamente dalla commozione, e scotendole la mano: - Che dite mai, che dite mai .... un piacere, un dovere .... Rosilde ebbe la soave, intima certezza che la sua presenza colà non era molesta, e non finì il discorsetto preparato e incominciato. Don Luigi aveva soggiunto: - Che volete, siete capitata in un eremo, e in un brutto mese; ma ora viene la bella stagione e vi ci troverete molto meglio: non manca in questa solitudine una certa selvaggia bellezza: vedrete dei luoghi di una singolare amenità. La giovinetta accolse queste parole con un sorriso di gratitudine, come la più cortese maniera d'invitarla a rimanere. Ma forse il sentimento che le inspirava era ancora più nobile. Ho dovuto convincermi per esperienza che don Luigi non pensava mai alla partenza dei suoi ospiti. La loro domanda di congedo era sempre per lui una sorpresa che, secondo i casi, combatteva con una viva e affettuosa resistenza, o, come nel caso mio, subiva come una triste necessità. Ella rimase dunque. Ispirata dalla calda sua riconoscenza, dalla indipendenza del suo carattere e della sua educazione bizzarra, si convinse che non solo era di troppo, ma poteva recare qualche conforto a quella malinconica vita di anacoreta, Ed aveva istintivamente abbracciato, prima che compresa la sua missione: - umile e sublime missione! Il suo mestiere l'aveva avvezza a riguardare sè stessa come un giocattolo: come uno svago, - ed ora, dopo aver rallegrato colle sue danze le noie di tanti oziosi e buoni a nulla, le pareva di nobilitarsi col fare omaggio di sè stessa a un uomo di merito e di cuore, ad uno che l'aveva ospitata, che le aveva usato riguardo senza esservi spinto nè dalla concupiscenza nè dalla vanità. Però fu con viva gioia ch'ella si accorse d'essergli cara. Ciò bastava al suo orgoglio e non aveva la pretesa nè di dare, nè di ottenerne amore. Era troppo modesta per questo. Certo ella non scandagliava troppo in fondo i proprii sentimenti, non notomizzava con analisi soverchiamente rigorosa l'effetto che produceva nel suo cuore lo sguardo affettuosamente grave di don Luigi, il suo viso allora giovanile e incorniciato da ricche ciocche ricciute di capelli nerissimi. Ella ci teneva a non farsi illusioni, - e forse questa sua modesta smania di realtà era la più grande, la più generosa delle illusioni. Però ella non la smentì mai neppure con sè stessa; se i desideri, i timidi suggerimenti del suo cuore si levarono alla fine contro di essa per dissiparla, - ella seppe vincerli, frenarli, farli tacere. Ella non pensò mai a calcolar sull'avvenire di lui e del presente non prese mai che le ore di riposo: e quando si avvide che ella poteva influire sul suo destino, nuocergli, ebbe il coraggio di .... Ma non precipitiamo gli avvenimenti. Rosilde e don Luigi si vedevano dunque regolarmente tutte le mattine. A quell'ora, dopo la messa prima, si faceva nel Presbiterio e nel villaggio una gran pace. Il campanile dopo aver confidato agli echi della montagna i suoi squilli di benedizione taceva. Baccio, svestito, coll'abito di sacrestia, il sacro carattere delle sue funzioni, usciva in campagna con tutta la sua famiglia. Mansueta attendeva al governo del suo pollaio: governo assoluto, personale, faccenda di colossale importanza. Essi rimanevano soli in mezzo alla vasta e gioconda quiete mattinale. Era giunta la primavera. L'aria olezzava di primolette e di viole. Nei campicelli scaglionati sui clivi, una verzura pallida annunziava colla lirica verginale delle sue tinte delicate l'epopea splendida delle spighe d'oro. In tanta gloria di cielo, in tanta serenità di paesaggio, i loro colloqui erano tutti tranquilli e lieti. Quantunque Rosilde avesse per don Luigi un grande rispetto, l'umiltà vera di lui, la sua repugnanza per ogni apparato. per ogni posa anche la più legittima della sua dignità, davano alla conversazione un tono perfetto di uguaglianza. Schivo di tutte le affettazioni, egli non la chiamava mai figliola e, neppure sorella, diceva senz'altro Rosilde. Egli, come io stesso ne feci la prova molti anni di poi, era anzi istintivamente disposto a riconoscere una certa superiorità nella gente che avesse vissuto nella città. L'attrattiva del mondo era allora anche più possente sulla fantasia dell'anacoreta. Riguardava con uno sgomento d'ammirazione quella debole giovinetta che aveva da sola attraversata quella vita che gli ascetici suoi maestri gli avevano paurosamente descritta come un vortice divoratore. Era una delizia inenarrabile il sentirla parlare dei suoi viaggi e Rosilde, vedendo che ciò lo divertiva, gliene parlava sovente. Poco alla volta il racconto della sua vita teatrale venne a frammischiarsi ai discorsi placidi dei primi giorni, e ad interromperli sovente. Don Luigi, affascinato, si dimenticava; si avvezzava senza volerlo, senza accorgersene, a carezzare col pensiero, sulla fronte bianca, sulle treccie bionde, sulle labbra rosee della bella narratrice, le malie, gl'incanti ch'ella gli suscitava colle sue parole dinanzi alla mente. Se qualche volta, sopraffatto dalle immagini lusinghiere, chiudeva gli occhi, riaprendoli trovava dinanzi a sè il sorriso sereno, soave di Rosilde. E, infine, sorrideva egli stesso, - e, in quel momento di debolezza, egli era vinto; il suo cuore, colto alla sprovveduta, cedeva al fascino di quella bontà e di quella bellezza. Nè l'uno nè l'altro aveva pronunziato mai la parola fatale; eppure l'idillio era incominciato: - e la passione per un sentiero sparso di fiori, molle di muschi trascinava la loro innocenza nei suoi abissi profondi. Oh se i loro cuori avessero conosciuto le cose per il loro vero nome: se l'amore non si fosse celato per lei sotto le sembianze della devozione, e per lui sotto quelle più candide dell'amicizia, nulla sarebbe accaduto. Se don Luigi avesse dovuto lottare, o anche solo formulare un'aspirazione, un desiderio ... egli avrebbe arretrato impaurito; la sua volontà allarmata avrebbe vinto. Ma nulla di tutto questo. Ella offriva. egli non aveva che a chinarsi per accettare.

Il maleficio occulto

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Zuccoli, Luciano 1 occorrenze

Mi sentivo stanco, irritato, proclive ad abbandonar tutto, per andarmene lontano io pure a cercar pace in qualche paese tepido e pieno di sole. Il dopopranzo, mentre le ombre cominciavano ad invadere la camera, mi colse ancora al medesimo posto; e con gli occhi sbarrati nel vuoto, i pugni stretti, andavo pensando che era tempo di scuotermi, di uscire o di accendere i lumi; e non trovandone la forza, rimanevo immobile, sempre con quello stupido pensiero in mente, di alzarmi per accendere la lampada. Forse non ne avrei fatto nulla, se d'improvviso, levando gli occhi e girandoli oziosamente, non avessi scorto sul limitare una figurina di donna; l'ombra della sera non mi permetteva di vederne il viso, ma l'atteggiamento, la linea, il gesto, non potevano ingannarmi. Entrata cautamente, stringeva nella mano destra il lembo della portiera e mi guardava attorno, cercandomi. - Clara! - dissi, mentre mi alzavo e le andavo incontro. - Ah, siete qui? Siete qui, all'oscuro?.... - ella domandò senza inoltrare, Sulla tavola stavano due candelabri, che accendevo di rado, quando mi vestivo per qualche serata; allora la bella luce delle dodici candele mi piaceva, dorata e dolce.... Le accesi e andai a chiudere poscia la finestra. - Perché eravate all'oscuro? - chiese la giovane nuovamente. - Venite, venite - le dissi, additandole il divano. - Ho da parlarvi.... - Ho da parlarvi io pure - ella ripetè. La guardai e vidi ch'ella doveva essere in preda a qualche forte sentimento: le sue sopracciglia corrugate s'univano in una linea dritta e singolarmente dura, così da mutar la espressione della fisionomia, per il solito aperta e fiduciosa. - Cose gravi? - domandai esitando. - Gravissime - ella confermò, sedendo sul divano. - Ma parlatemi voi prima. - Oh, non ho molto da dirvi. Volevo semplicemente annunziarvi che il barone seguita a giuocare, che il suo vizio è indomabile. Posso dirvi anche i nomi degli amici che convengono da lui...... Mi arrestai, vedendo un gesto brusco della donna. - Sempre il barone? - ella interruppe. - Gli date una caccia feroce, come ad una belva, non è vero? - Lo confesso: gli dò la caccia..... - E andate in casa sua, qui e sul lago, a interrogare i servi e le serve - continuò Clara con un indefinibile senso di disgusto. - Poi, dai pettegolezzi di codesta gente traete il tema per inventar dei romanzi a me! Un colpo di stile in pieno petto non mi avrebbe fatto più male di quelle poche frasi, che le labbra della giovane pronunciarono con un'espressione di sarcastico disprezzo. Mi si aprivano gli occhi un tratto. Il mio edificio era crollato e innanzi a me avevo se non Clara innamorata di Lorenzo, Clara stanca di conbattere, decisa a finirla con uno dei suoi due carnefici; e quell'uno ero io. - I servi e le serve, - mormorai intimidito.:- Certo, ho interrogato i servi e le serve, poiché non potevo mica chiedere al barone che cosa pensasse dell'assassinio di sua moglie..... - E chi vi ha mai incaricato di simili ricerche? - domandò la giovane. - E scendendo fino a costoro, non v'è passato per la testa che vi sareste ridotto a diventare confidente di tutti i pettegolezzi, di tutte le miserabili loro querimonie, della loro invidia, del loro astio?... - No, vi dico il vero: le persone che io interrogai erano ben lungi dal supporre ciò ch'io voleva: dovetti faticar molto per giungere a qualche affermazione concreta e decisiva. - Avete fatto il furbo, dunque? - interrogò Clara, con una nuova intonazione ironica. - Quantunque ciò vi paia inverosimile, devo confessarlo - risposi. Mi accorsi ch'io stava in piedi innanzi a Clara, come l'imputato innanzi al giudice; e la cosa mi spiacque. Afferrai bruscamente una sedia, vi presi posto, e seguitai: - Confessarlo?.... Ho detto male. Che cosa devo confessarvi? La mia sollecitudine per voi, il desiderio di aiutarvi in questa gravissima ora della vostra vita, il lavorìo per salvarvi da un passo fatale? Queste non son cose che si confessino, non son cose delle quali ci si fa un vanto. Ho interrogato dei servi e delle serve, come voi dite; che cosa importa? Vi ho persuasa della verità dei miei sospetti; ecco il nodo della questione, ecco ciò che dovete ammettere. Il resto è trascurabile. Or ora vi dicevo che il barone ha ricominciato a giuocare; provatemi il contrario, se vi riesce. Saran confidenze di servi anche queste; ma io vi reco la verità, e voi non avete nulla da opporle. - Vi credevo assai più nobile - mormorò Clara. - Dite che mi credevate assai più sciocco - ribattei con una risata cosi stridula, che lacerò le orecchie a me pel primo - Mi credevate un imbecille, voi e il barone, incapace di prendere una decisione e di condurla a buon porto; credevate che piuttosto di parlare ad un servo o a una serva, avrei lasciato correre l'acqua per la china, rabbrividendo per non so quale orgoglio di casta. Ah no! Volevo sapere e ho saputo. Come? Questo non vi riguarda. - E... di grazia, - interruppe Clara con quella sempiterna espressione di sarcasmo, la quale mi pungeva intollerabilmente - di grazia, che cosa avete saputo? - Me lo domandate? - esclamai. - Non vi ho raccontato tutto, non abbiam passato una intera notte a ricostruire l'accaduto?.... - Sì, un'intera notte - ripetè Giara. - Una intera notte nella quale non faceste che espormi dei ragionamenti. Per via di ragionamenti, avete dimostrato che il barone era mandante dell'assassino. Ma un fatto, un solo fatto, anche minuscolo, voi non l'avete esposto. Se io avessi avuto sufficiente abilità, in quella notte, per via di ragionamenti, avrei distrutto la vostra cabala, dimostrandovi a fil di logica, che so io? che il mandante, per esempio, eravate voi. Ho ripensato a quella notte, non dubitate, e vado ripensandovi, e ho concluso che siamo stati due pazzi! Voi avevate ancora la febbre; eravate convalescente. Quanto a me, col mio orribile carattere, facile a credere, a infiammarsi, a lasciarsi sviare, son rimasta vittima delle vostre fantasticherie.... E' questa la vostra opinione presente? - domandai, alzandomi. - Sì, è questa! - confermò Clara. - Io non ho nulla da obiettare - conclusi. - Siamo stati due pazzi, come voi dite; ma fortunatamente siete ancora in tempo di riparare alle nostre pazzie. Avete un fidanzato di gomma elastica, che si piega e si accomoda a piacere. Basterà un gesto per farvelo ritornare, scodinzolando ai piedi, come un cucciolo. Seguì un breve silenzio; presso la tavola, mi occupai a toglier la cera che colava dalle candele; ma d'improvviso mi rivolsi. - Dunque - esclamai - avete deciso? Avete deciso di sposarlo? E' riuscito nel suo intento? Ieri l'altro è stato da voi a parlarvi; da quel momento, voi diveniste fiduciosa..... Che cosa vi ha detto? - Non ho deciso niente, per ora, - rispose la giovane. - Soltanto, ho meditato e mi son chiesta che cosa voi mi aveste provato: nulla! Nulla, capite? - ripetè, animandosi. - Mi avete detto: " Il barone ha lasciato assassinare sua moglie ", e io vi ho creduto.... Non sentite che questo è assurdo?... Mi avete detto: " in paese, tutti lo accusano d'aver chiuso gli occhi perché il delitto avvenisse ". Ma dove è il paese nel quale non si accusa, non si mormora, non si sussurra?... Una serva vi ha confidato che quando udì il nome dell'assassino, il barone esclamò: " me l'imaginavo " e su questa frase avete ricamato le vostre più belle deduzioni... Ma l'avete udita, voi, codesta parola? Siete sicuro che essa sia uscita dalla bocca dell'uomo che accusate? Non può essere una invenzione, anche ingenua, della vostra confidente? Poi, quella notte, quando vi domandai di che cosa accusaste il barone, mi avete risposto: " non l'accuso di complicità morale e nemmeno d'aver preparata la morte di sua moglie, ma di non averla difesa contro il pericolo ". E l'accusate di questo delitto imponderabile, perché la vigilia dell'assassinio egli dovette partire e andarsene a Milano!.... " Se la vostra logica avesse fortuna, pochi si salverebbero dall'ergastolo, ve lo assicuro io!... Insomma, io vi chiedeva delle prove, e voi non avete potuto darmene..... Lo so, che ostentate un gran ribrezzo per le prove; ma via, che volete? sono una donna, e a certe altitudini speculative non posso giungere. - Che cosa vi ha detto? - interruppi, chinandomi verso Clara. - Nulla mi ha detto, - ella rispose ritraendosi un poco. - Perché si difendesse, avrei dovuto accusarlo; e voi credete che si possa così, improvvisamente, accusare un uomo d'assassinio? - Pure, se è stato da voi, qualche cosa deve avervi detto...... E' certo. Ha parlato d'amore.... - D'amore?- gridai. Avete ascoltato le sue parole d'amore, voi?.... - Vediamo di non perdere la testa per così poco - osservò Clara, inarcando le sopracciglia. - Se anche avessi ascoltate le sue parole d'amore, non avrei da renderne conto ad alcuno..... Ma non è già venuto a parlarmi dell'amor suo; bensì dell'amor mio per voi, perché l'indegna commedia che io recitava venendo tutti i giorni in casa vostra, egli l'ha creduta.... - Indegna commedia? - ripetei attonito. - E avendola creduta, - seguitò Clara, - ha compreso che a lui non rimaneva se non allontanarsi... - Infatti, - dissi, - è partito per Parigi, stanotte...... - E ha fatto malissimo, - concluse Clara freddamente. - Malissimo? - Senza dubbio..... Ah, voi supponete, dunque, che io abbia confermato i suoi sospetti, che abbia confessato d'essere ancora la vostra amante, quando non lo sono più?.... E perché avrei dovuto accusarmi d'una colpa che non ho commesso?.... Certo, non osando narrargli tutto, le mie visite a voi diventavano inesplicabili, e per ciò non ha potuto prestarmi fede, ed è partito. - Ma voi avete dunque tentato di giustificarvi, gli avete chiesto perdono, gli avete riconosciuto il diritto di giudicare le azioni vostre?.... Clara alzò le spalle. - Sapete pure che non ho da chieder perdono ad alcuno - ella disse. L'ho pregato di credere che le mie visite in casa vostra erano innocenti...... - Ma quest'uomo, pochi giorni addietro, vi faceva orrore. - Sì, quando prestavo fede alle vostre accuse. - Ed ora, dunque? - Ora, ve l'ho detto. Ripensandoci mi sembra d'aver fatto un pessimo sogno, per colpa vostra. In nome di Dio - aggiunse drizzandosi in piedi ella pure, quasi con un balzo - in nome di Dio, recatemi un fatto, una data, qualche cosa di concreto, e avrete vinto: ma i vostri indizi sono falsi. Vi dirò di più: è falsa perfino l'accusa che gli fate d'essere un giuocatore... Io non potei frenare un gesto di meraviglia dolorosa. - Si, sì - insistette Clara. - Voi dite che il barone giuocava e perdeva, perché ve l'hanno detto i suoi servi: voi affermate ch'egli giuoca tuttavia, e la notizia vi vien dalla fonte medesima. Non nego che ciò possa essere: ma tra il giuocare e il rovinarsi c'è differenza. Su, ditemi una cifra: quanto ha perduto a Milano, a Montecarlo, a Nizza, quanto perde qui? Ditemi una cifra, la quale mi dimostri che al momento dell'assassinio egli era rovinato e di quell'assassinio aveva bisogno. Non potete dir niente, è vero? Non sapete niente, non accusate, ma il solo fatto d'esser giuocatore rappresenta per voi il motivo riposto dalla complicità in assassinio. - Ah, non sentite, non sentite, ancora che siamo stati pazzi ad accusare e a condannare, cosi, cervelloticamente, quasi, per un esercizio retorico? Io l'ho sentito, questi giorni; io ho avuto vergogna della mia leggerezza.... - Vi prego - interruppi. - Comprendo troppo i vostri scrupoli per non apprezzarli. E' evidente che se vi lascio continuare per questa via, l'assassinio della povera baronessa finirà per ricadere sulla mia testa. Certo: no[n] sono il giuocatore, io sono l'uomo della disgrazia. Mi son voluto occupare dei fatti altrui, e la dura lezione mi sta benissimo. Del resto, nulla è perduto. Il barone tornerà fra un mese, come ha promesso..... - Oh no! - disse Clara, imprudentemente. - Fra pochi giorni. - Fra pochi giorni? - ripetei subito. - Come potete affermarlo? Clara si morse le labbra, guardandosi in giro. Stavamo di fronte l'uno all'altra, a pochi passi dal divano; alla nostra sinistra era la tavola coi candelabri accesi. - Come lo sapete? - insistetti. - Come sapete che tornerà fra pochi giorni? La donna si strinse nelle spalle, scuotendo il capo, annoiata. - Ditemi, dunque? - seguitai, fremendo di impazienza. - Alla sua villa non sanno niente di sicuro; e voi potete affermare che tra pochi giorni egli sarà qui?..... Vi ha scritto? - Senza dubbio. Io non parlo coi servi e se non mi avesse scritto, ignorerei la sua partenza. - E vi ha scritto che tornerà subito? Clara non rispose. - Insomma non volete parlare? - dissi, avvicinandomi anche di più alla giovane. - Ma non ne ho alcun obbligo, mi sembra - ella rispose. - Perché dirvi ciò che contiene una lettera diretta a me? Non son venuta per questo. Lo scopo della mia visita era di farvi ravvedere alla vostra volta. - Ravvedere? - mormorai - Ravvedere, sì, ravvedere! - concluse Clara. - Volevo dirvi di desistere dalla vigilanza sospettosa che esercitate sopra il barone. Io non credo, non credo più alla sua pretesa colpa; e se non è per convincermi, a che fine seguitare quest'opera indegna di voi e di me? Lasciatelo in pace. - Va bene: lo lascerò in pace - dissi rassegnato. - Vi prometto che lo lascerò in pace, ora e sempre. Ma come sapete che egli ritorna fra pochi giorni? - Daccapo! - esclamò la donna, spazientita. - Ora che ho la vostra promessa, il nostro colloquio è finito. Devo ringraziarvi della vostra lealtà aggiunse stendendo la mano guantata. Afferrai la piccola mano convulsamente. - Il nostro colloquio è finito - ripetei - tutto è finito! Non è vero Clara? Hai deciso di sposarlo. La sua visita ti ha scossa. Che cosa ti avrà detto? Ora comprendo: egli ritorna per sposarti. Egli ritorna perché un tuo telegramma, una tua lettera lo richiama a Firenze. E' così; non può essere che così...,. Clara stette muta. - Ah, ho indovinato! - esclamai. - Lo ami, lo ami: finalmente questa confessione me l'hai fatta, senza parlare. Oh, che cosa orribile! - Amico mio - ella interruppe, usando per la prima volta dopo tanto tempo la dolce parola - pensate quanto l'abbiam fatto soffrire senza ragione! L'abbiam costretto a fuggirsene lontano, con le nostre pazzie.... - E allora, l'hai richiamato presso di te? - conclusi. - Egli accorre, si getta a' tuoi piedi, e fra quindici giorni un bel matrimonio chiuderà la commedia. Abbandonai la mano di Clara e mi misi a passeggiare in lungo e in largo per la camera. - Sì, la commedia, - continuai, ridendo. - E' stata una commedia, una farsa, dalla quale io fui lo zimbello.... Non lo negare.... Io credeva, io voleva salvarti: e tu venivi qua per eccitare la sua gelosia, per provare il suo amore: ecco sciolto l'enigma; e quando hai visto che la bella impresa ha avuto buon fine, metti alla porta me, e ti dai a lui.... Che abile allettatrice! Che donnina a modo! Quanta diplomazia!.... - No! - esclamai, accorrendo e mettendomi innanzi all'uscio. - Non devi partire così. Non ti ho detto tutto..... Voglio chiederti se davvero tu credi il barone innocente? Vi risponderò quando m'avrete lasciato libero il passo, - disse la giovane. Mi risponderai ora, subito! - Ma che cosa è questa violenza? - esclamò Clara con la voce che tremava di collera. - Son caduta in un tranello? Per tutta risposta, mi volsi e chiusi la porta a mandata doppia. - Oh! - disse la giovane con un gesto di disprezzo. - Che cosa fate? Lasciatemi passare! Commettete una vigliaccheria.... - Dimmi che lo ami, e sei libera. - Lasciatemi andare! - ripetè la giovane, facendo un altro passo verso di me. - Dimmi che lo ami; dimmi che lo attendi per essere sua..... Dimmi tutto questo: ho bisogno di udir questo dalla tua bocca. Clara battè i piedi, vibrando d'impazienza. - Aprite! Siete pazzo; non siete che un pazzo! Aprite, via! - Lo ami? - In nome del cielo, lasciatemi passare! - Lo ami, il tuo Lorenzo? Ah, ho visto, sai, il ritratto che gli hai regalato: un bel ritratto, apposta per lui, con un abito fatto apposta per lui! E la scrittura: Clara al suo amico Lorenzo LorenzoLa giovane mi guardò trasognata. - Come sapete? - mormorò. - Avete frugato nelle sue carte? - E' probabile, - dissi. - è probabile anche questo..... - Ora non mi stupisco più che pensate di abusare d'una donna! ella esclamò con la voce quasi sibilante. - Vi introducete in casa altrui per frugar tra le carte e per ascoltar le spie..... - Sì, tutto ciò che vuoi. Ma tu non passi, di qui se non mi avrai prima confessato che intendi sposarlo, che intendi darti a quell'assassino. Egli non è che un assassino, ricordatelo bene: e ricorda pure ch'io te ne avvertii. Egli è un gingillo da forca, una canaglia coi guanti, uno sfruttatore di donne! - Tacete, tacete, tacete! - gridò Clara, alzando istintivamente la mano come per chiudermi la bocca. - Non insultate chi non può rispondervi! - Rispondermi? - esclamai. - Ah tu credi che il tuo eroe mi risponderebbe? Il tuo eroe ha paura, ha paura di me, di tutti: la paura è la sua caratteristica eminente... Ciò che ti dico ora, io non temerei di dirlo a lui. - Mi avete promesso di lasciarlo in pace... - interruppe Clara sollecitamente. - Oh, lo lascerò in pace! Non verrò a turbare la vostra luna di miele. Ma a te voglio dirlo ch'egli è un assassino... - Un assassino? - ripetè Clara, come se quella parola l'avesse sferzata in volto. - Un assassino? Ebbene, io lo amo! Una canaglia coi guanti? Ebbene, io lo amo! Uno sfruttatore di donne? Ebbene, io lo amo! Lo amo, lo amo mille volte! Lo amo: odi bene questa parola: lo amo! Ella s'ergeva di repente innanzi a me, con gli occhi che mandavan fiamme, con le labbra umettate agli angoli da una bava sottile. Furiosa, inviperita, fremebonda, pareva più alta, più snella, gettandomi in volto quella sfida. - Lo amo! - ella continuò. - Lo amo, ricordalo bene! Lo amo, e mi darò a lui. Hai voluto udire questo dalla mia bocca? Ebbene, sì, lo amo, l'ho richiamato a Firenze, e mi darò a lui! Hai voluto bere questo veleno? Ascolta ancora dunque: lo amo, lo amo, lo amo! Clara mi stava così vicina, che le nostre bocche si toccavan quasi; e ad ogni sua parola, io sentiva sul volto l'impressione d'una scudisciata. Allungai le braccia, le avvinsi attorno al busto della donna e la sollevai d'un colpo solo, come si spicca il frutto da un albero. Io la sentii straordinariamente leggiera. - Ah, tu lo ami? - dissi con calma, portandola e adagiandola sul divano. Ella pareva non aver più nozione di ciò che avveniva: mi curvai a viso a viso sulla giovane estenuata. - Ah, tu lo ami? - ripetei ironicamente. - Ebbene, ti ricordi ciò che mi dicevi quando venivi qui? Mi dicevi: "Prendimi, se mi vuoi; prendimi, se questo ti farà piacere; sarò tua, purché tu non soffra! ". E io ho sempre rifiutato! Ma non rifiuto ora: ora sarai mia. Mia, hai capito? Mia, devi essere, prima che di lui! Ella volgeva gli occhi intorno, smarrita, passandosi una mano sul volto come se uscisse da un sogno; ma non appena sentì ch'io ero presso di lei e le cingevo il busto con un braccio, fece un balzo e si ricoverò di là dalla tavola su cui stavano i lumi. - Mia, devi essere! - continuai. - Lo hai promesso cento volte: ora voglio che tu mantenga la tua promessa. E allungando rapidamente la mano, l'afferrai per un braccio: ella si divincolava in silenzio, respirando a fatica, dibattendosi con furia, gettando indietro la testa quando vedeva il mio volto avvicinarsi. Avvinghiati così lottavamo presso la tavola, accanitamente. - Oh vigliacco, vigliacco! - ella mormorò. Sentii che le forze le mancavano a poco a poco e ch'ella non poteva resistere ancora a lungo; ma presso a cadere, ebbe uno sforzo supremo, puntò i piedi a terra, inarcò il busto; e nel divincolarsi urtò contro un candelabro con la mano, violentemente. Il candelabro tentennò un attimo, e le si rovesciò addosso. Vidi una fiammata e udii il lieve crepitìo dei capelli che si bruciavano... Il candelabro cadde pesantemente a terra. Fu un lampo e fu il risveglio. Clara mi stava svenuta fra le braccia. Come pazzo di terrore, l'adagiai di nuovo sul divano: la fiamma le aveva bruci[a]to pochi capelli sull'occipite e le aveva lasciato una lunga striscia rossa sulla parte destra del collo... Ma non osando chiamare, le tolsi il cappellino che ancora aveva in testa e le spruzzai il volto con l'acqua. Ella rinvenne subito, guardò in giro, mi vide inginocchiato presso di lei. - Aprite! Lasciatemi andare! - disse rapidamente. Si portò la mano al collo, e soggiunse con un amaro sorriso: - Non è nulla. E' una piccola bruciatura; non c'è nemmeno il pretesto di chiamare il medico per fare sapere a tutta Firenze ch'io sono in casa vostra. Io mi alzai e le recai uno specchio. - E' una piccola bruciatura, - ella ripetè dopo essersi guardata. Avete voluto lasciarmi le stimmate del vostro amore... Datemi il cappello, ve ne prego. - Oh Clara! - mormorai avvilito. - Io non oso chiedervi perdono. - Perdono? - ella disse. - Ma sì, vi perdono, purché mi lasciate andare, purché la finiamo. E vedendo ch'io non mi muoveva, andò ella medesima a prendere il suo cappello, e se lo acconciò in testa. - Mi perdonate dunque? - Sì, sì, tutto ciò che volete; ma finiamola. - E' sera, ormai; non potete uscire sola a piedi. - Esco sola a piedi. Sapete dove abito; in un lampo sono a casa. Io andai ad aprire l'uscio; ella mi passò vicina. - Non mi potete perdonare a questo modo, con queste parole piene di freddezza - osservai, trattenendola con un gesto. - Vi perdono. Che cosa volete vi dica ancora? Debbo forse ringraziarvi? - Ditemi che ci rivedremo, che mi permetterete di venire da voi... Clara alzò le spalle. - Non so niente, - ella rispose. - Debbo prima riflettere. Si mosse, allontanò la portiera con una mano, e la lasciò ricadere dietro di sé, uscendo con passo tranquillo.

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