Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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I PREDONI DEL SAHARA

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

I più ignoranti invece si abbandonano a pazze danze, roteando intorno a se stessi finché cadono sfiniti o svenuti. Vi sono fra loro anche dei famosi ciurmatori, che pretendono di operare miracoli, di parlare per la bocca dei defunti, e che in tempo di guerra pronosticano le vittorie e vendono amuleti che devono spuntare le armi dei nemici e arrestare perfino le palle dei cannoni! ... Si vantano anche di essere dottori, e le loro ricette consistono sempre in un pezzo di carta, su cui vergano delle frasi del Corano e che poi fanno trangugiare in una tazza di brodo. Sono tuttavia personaggi importanti e anche pericolosi. Con poche parole possono scatenare pericolose ribellioni fra le tribù ignoranti e creare seri fastidi al sultano del Marocco. Fortunatamente i ministri del Commendatore dei credenti, da quei furbi che sono, hanno trovato un mezzo sicuro per tenerli in freno e nel medesimo tempo fare l'interesse delle finanze imperiali. Tutte le tribù marocchine più o meno indipendenti, siano Scellak o Amazirgui o Rifani, hanno sempre provato una vera ripugnanza a pagare all'Imperatore le imposte o i tributi che egli si crede in diritto di esigere. Una volta i ministri levavano delle armate per costringerveli; ora invece ricorrono ai marabutti, i quali possono accumulare ad un tempo le funzioni dei capi religiosi, civili e militari. I santoni, sicuri di fare un ottimo affare, si mettono in viaggio per predicare ... la colletta santa. S'incontrano nel deserto o fra le montagne, visitano le tribù ribelli, parlano e predicano a destra ed a manca con una lena ed una vigoria incredibili, e la loro eloquenza è così persuasiva che finiscono collo strappare quei tributi che degli eserciti forse non otterrebbero. Col gruzzolo in tasca allora tornano nel Marocco, ne trattengono la parte più grossa e consegnano il rimanente al sultano, il quale, come ci si può figurare, è ben lieto di quelle entrate insperate e non si fa avaro di tributare elogi ed onori a così valenti esattori. Il marabutto, raccolto morente, aveva intrapreso il suo viaggio con le funzioni di capo religioso e di esattore. Spinto però o da vero zelo religioso o da eccessiva venalità, si era inoltrato fino nelle oasi dei Tuareg per impinguare maggiormente la borsa, col pretesto che quel denaro doveva servire a distruggere gl'infedeli dell'intera Europa. Disgraziatamente la carovana alla quale si era unito era partita senza svegliarlo, ed il disgraziato, abbandonato fra le sabbie, senza viveri e senza animali, era stato ad un pelo di trovare la sua tomba negl'intestini della famelica pantera. Dopo però un'abbondante scorpacciata di miglio ed un riposo d'un paio d'ore, quel diavolo d'uomo si era risvegliato come uno che avesse preso regolarmente i suoi pasti. Era il momento di farlo parlare, avendo il marchese molta premura di giungere a Beramet, prima che la carovana si allontanasse troppo verso il sud. Dopo avergli offerta una pipa colma di eccellente tabacco, gli chiese a bruciapelo "Voi avete assistito certamente alla distruzione della colonna francese guidata da Flatters!" Udendo quelle parole, il santone aveva levato dalle labbra la pipa, guardando il marchese con profondo stupore. "Cosa ne sapete voi?" chiese finalmente, non senza una certa inquietudine. Poi, dopo esserglisi accostato e averlo guardato attentamente, aggiunse "Ah! Voi non siete un marocchino, bensì un europeo nelle vesti di un arabo. Mi sono ingannato?" "No," rispose il marchese, francamente. "Forse un francese." "Quasi, perché sono un algerino." "E che cosa fate qui, nel deserto?" "Vado al Senegal e attraverso il Sahara per scopi commerciali." "Mi era venuto il sospetto che vi recaste presso i Tuareg." "A che fare, se tutti i componenti la spedizione sono stati uccisi?" "Tutti! ... " "Forse che voi ne sapete qualche cosa? Forse che qualcuno di quei disgraziati è ancora vivo?" Il marabutto non rispose. Guardava ora il marchese, ora Rocco ed ora i due ebrei con una certa inquietudine che non sfuggi al suo interrogatore. "Ascoltatemi," disse questi. "Se voi mi narrate quanto sapete su quella tragedia, io vi regalo un cammello per tornarvene al Marocco e anche un bel fucile per difendervi." "Non mi tratterrete con voi?" chiese il marabutto. "A quale scopo? Noi dobbiamo andare al sud, mentre la vostra destinazione è al nord." "È molto tempo che mancate dall'Algeria?" "Sono due mesi." "Allora non avete saputo che una delle guide è stata arrestata e anche avvelenata?" "Non so nulla affatto. Quando lasciai l'Algeria non erano giunte che le prime voci sull'atroce massacro della spedizione. "Orsù, parlate; io ormai ho indovinato che sapete molte cose su quel dramma." Il marabutto esitò ancora qualche istante, poi disse con un certo tremito nella voce: "Suppongo che non mi crederete un complice dei Tuareg." "Non abbiate alcun timore intorno a ciò. I marabutti sono uomini santi e non già guerrieri," disse il marchese. "E quando avrò parlato mi lascerete andare?" insistette ancora il marabutto. "Ve lo prometto." "Questo santone non deve avere la coscienza tranquilla," mormorò Rocco. "Forse è stato lui ad aizzare i Tuareg contro gl'infedeli." Il marabutto stette alcuni istanti in silenzio come per raccogliere meglio i suoi ricordi, poi tranquillamente disse "Io mi trovavo nell'oasi di Rhat che è, si può dire, la cittadella dei Tuareg Azghar, quando avvenne il massacro della spedizione; trovandomi a poche miglia dal luogo ove i francesi vennero assaliti, nessun particolare mi è sfuggito. "Come voi avrete saputo, il colonnello, oltre al capitano Masson e a parecchi ingegneri, aveva preso con sé una forte scorta di cacciatori algerini del 1o Reggimento, fra i quali si trovavano due uomini che dovevano più tardi tradirlo: Belkasmer Ben Ahmed, che si era arruolato sotto il nome di Bascir, ed El-Aboid- Ben-Alì." "Lo sapevo," disse il marchese. "Quei due soldati non erano algerini, come si era creduto, bensì entrambi originari del paese dei Tuareg. "Giunta la spedizione nel cuore del deserto, Bascir, d'accordo col compagno, ordì il tradimento per impossessarsi delle armi e dei viveri, nonché dei denari e dei regali che supponeva nascosti nei bagagli. "Col pretesto di condurre il colonnello a visitare una miniera d'oro, trascinò la colonna a Uep-Dam, poi disertò assieme a El-Aboid e corse ad avvertire i Tuareg. Il giorno dopo milleduecento pirati del deserto piombavano sulla spedizione, opprimendola col loro numero. "Flatters, il capitano Masson ed un sottufficiale caddero vivi nelle mani dei nemici; altri, guidati da un sergente, riuscirono ad aprirsi un passaggio attraverso le file degli assalitori, fuggendo poi verso il nord, ma i più rimasero sul terreno, falciati dalle larghe sciabolate dei fanatici. "Devo aggiungere che alcuni giorni innanzi i Tuareg avevano già tentato di distruggere la colonna, vendendo ai suoi membri dei datteri avvelenati, i quali avevano prodotto coliche spaventose. Solo alcuni soldati erano spirati sulle sabbie infuocate e dopo atroci tormenti. "I superstiti intanto avevano continuato la loro fuga verso il settentrione, tormentati incessantemente dai Tuareg, che non lasciavano loro un istante di tregua. "Quei disgraziati, morenti di fame e di sete, che si assassinavano reciprocamente durante veri accessi di follia furiosa, sono caduti quasi tutti mordendo le sabbie negli ultimi spasimi dell'agonia." "Cos'è successo poi del colonnello Flatters e di Masson?" domandò il marchese. "Del colonnello io ignoro se sia stato risparmiato o ucciso. Ho udito però raccontare che i Tuareg lo avevano condotto verso Tombuctu, non so se per finirlo lontano dagli sguardi di tutti, o se per renderlo schiavo di quel sultano." "Allora voi non escludete la supposizione che possa essere ancora vivo?" chiese il marchese. "Anch'io ho udito raccontare che è stato condotto a Tombuctu." "Ignoro la sua sorte," rispose il marabutto. "Giuratelo." "Lo giuro sul Corano." "E il capitano Masson?" "Ho veduto la sua testa piantata in cima ad una picca e anche quella del sergente." "Infami!" gridò Rocco. "Mi avete detto che uno dei traditori è stato arrestato," riprese il marchese. "Sì, Bascir, il quale aveva avuto l'audacia di recarsi a Biskra con la speranza d'indurre il governatore dell'Algeria ad organizzare una spedizione di soccorso per farla poi massacrare dai Tuareg. "Riconosciuto da uno dei pochi superstiti, venne arrestato e, dopo essere stato ubbriacato, fu sottoposto a lunghi interrogatori." "Ed ha confessato tutto?" "Sì, aggiungendo anzi che il colonnello Flatters era stato ucciso perché si era rifiutato di scrivere una lettera colla quale doveva chiedere una colonna di soccorso." "Che Bascir abbia detto il vero?" "Uhm! Ne dubito, signore." "È ancora vivo quell'uomo?" "Ho saputo che è stato avvelenato l'8 agosto nelle carceri di Biskra per opera di alcuni amici dei Tuareg e coll'aiuto del trattore arabo incaricato di fornire i cibi ai prigionieri. Probabilmente temevano che, minacciato di morte e colle promesse di laute ricompense, potessero indurlo a servire di guida ad una spedizione vendicatrice." "Ed il compagno di Bascir, quell'El-Aboid, sapete dove si trovi ora?" chiese Ben Nartico. "Mi hanno detto che è cammelliere in una carovana che si dirige verso Tombuctu." "È l'uomo che cerchiamo e che ci fu segnalato dal vecchio Hassan," disse l'ebreo al corso, parlando in lingua francese. "Sì," rispose il signor di Sartena, il quale era diventato meditabondo. "Egli deve ora nascondersi sotto il nome di Scebbi, ma noi lo ritroveremo egualmente." Fece sciogliere uno dei migliori cammelli, e lo condusse dinanzi al marabutto, a cui Rocco aveva già dato un fucile e delle munizioni. "È vostro," gli disse. "Vi auguro buon viaggio." "Grazie del dono e d'avermi salvato la vita," rispose il marabutto. "Che Dio sia con voi." Salì in sella, fece alzare il cammello e poi aggiunse "Badate, i Tuareg vegliano onde nessun europeo s'addentri nel deserto. Temono la vendetta dei francesi." Così dicendo si allontanò. "Signore, che cosa ne dite di quel santone?" chiese Rocco, guardando il marabutto che stava per scomparire dietro alle dune. "Che quell'uomo non deve essere stato estraneo al massacro della spedizione," rispose il marchese. "E colle sue parole deve aver aizzato i Tuareg a dare addosso agl'infedeli," aggiunse Ben Nartico. "Questi santoni sono dei pericolosi bricconi." Mezz'ora dopo la carovana riprendeva le mosse, dirigendosi verso le pianure sabbiose del sud.

Sia nel Maharem, che si celebra al principio dell'anno, sia nel Ramadan o nel grande o piccolo Beiram, gli affigliati delle diverse sette religiose, per guadagnarsi il paradiso, si abbandonano ad eccessi che talvolta fanno fremere. In preda ad una esaltazione che rasenta la pazzia, corrono per le vie armati di pugnali, di spilloni e di scimitarre e si straziano orrendamente le carni, gettando il sangue sul volto dei loro ammiratori ed invocando senza posa Maometto. Non è raro anche il caso che dopo una corsa furiosa raggiungano i bastioni e si gettino nel vuoto sfracellandosi sulle pietre dei sottostanti fossati. Tafilelt, al pari di tutte le altre città del Marocco, aveva i suoi santoni ed i suoi fanatici, che attendevano la fine del Ramadan per dar prove del loro zelo religioso e guadagnarsi il famoso paradiso di Maometto. Un fracasso assordante di tamburelli e di urla, che pare non abbiano più nulla di umano, li annuncia. Hanno già lasciata la moschea e stanno per cominciare la loro corsa sanguinosa attraverso le vie. I pochi europei che abitano la città, trafficando colle carovane del deserto, fuggono da tutte le parti, mentre gli ebrei si barricano, tremanti di spavento, nelle loro case, mettendosi a guardia dei loro forzieri colmi d'oro. Gli uni e gli altri sono in pericolo. Se l'europeo è un infedele, l'ebreo è un cane, che qualunque fanatico può percuotere impunemente e anche uccidere. I primi sono forse temuti; i secondi no perché non hanno consoli che li proteggano. All'estremità della via, montato su un bianco cavallo, compare il mukkadem, capo degli hamduca, una setta religiosa che fornisce in ogni festa un bel numero di vittime. È avvolto maestosamente in un ampio caic candidissimo e fa volteggiare sopra il suo immenso turbante lo stendardo verde del Profeta colla sua luna d'argento. Intorno a lui, urlano e saltano o girano vorticosamente, come i dervis saltatori della Turchia, una ventina di aisaua, appartenenti alla setta degli incantatori di serpenti. Sono quasi nudi, non avendo che un turbante in testa e un pezzo di tela legato ai fianchi. Mentre alcuni battono i tamburelli e cavano dai loro flauti note acute e stridenti, altri fanno guizzare in aria, invocando a piena gola il loro santo patrono, serpenti pericolosissimi, dal morso mortale. Ma gli aisaua non li temono; essi sono immuni dal veleno perché sono devoti al santone. Scherzano coi rettili, li irritano, poi li stringono coi denti, ne masticano con una sensualità da cannibali le code, e finiscono per trangugiarli come fossero semplici anguille! ... E non muoiono. Il perché non si avvelenino è un mistero che nessuno è mai riuscito a spiegare. Eppure basta un morso di quei rettili per fulminare un pollo, un cane, un montone e mandare all'altro mondo un uomo che non appartenga alla setta. Ma ecco i fanatici, i santoni. Sono una cinquantina e tutti in preda ad un vero furore religioso: appartengono tutti alla setta degli hamandukas, la più fanatica di quante ne esistono nel Marocco. Hanno gli sguardi torvi, i lineamenti alterati, la schiuma alla bocca ed il corpo già imbrattato di sangue. Urlano come belve feroci, saltano come se i loro piedi toccassero delle braci ardenti e si dimenano come ossessi, storditi dalle grida degli ammiratori, che li seguono come una fiumana, dalle note acute dei flauti e dal rombo assordante dei tamburi. Alcuni si squarciano il petto adoperando una corta spada sormontata da una palla di rame e adorna di catenelle e di piastrine luccicanti; altri, armati di piccoli spiedi acutissimi, si trapassano le gote senza dimostrare alcun dolore o si forano la lingua o trangugiano scorpioni o divorano le foglie ramose dei fichi d'India irte di spine. Dalle loro gole escono senza posa le grida di "Allah ... la ... la ... lah ... [Dio!.. Dio!..]" Ma non sono grida: sono ruggiti che sembrano uscire da gole di leoni o di tigri. Hanno preso la corsa; sorpassano il loro capo, seguiti dagli aisaua e dai loro seguaci. È una corsa pazza, furiosa, che finirà certo tragicamente perché quei poveri allucinati hanno ormai raggiunto l'ultimo limite del fanatismo. Guai se in quel momento incontrassero un infedele! ... Ma se tutti gli ebrei e gli europei sono fuggiti, non mancano i cani, i montoni, gli asini. Si gettano ferocemente su quei poveri animali, se hanno la disgrazia di farsi sorprendere, e li mordono crudelmente, strappando pezzi di carne viva che trangugiano ancora palpitante. Un disgraziato cane che fuggendo va a cacciarsi fra le loro gambe, viene subito preso e divorato ancora vivo; un misero asino, che è fermo sull'angolo d'una via, subisce tali morsi che cade moribondo. Due montoni seguono l'eguale sorte, poi i fanatici riprendono la loro corsa verso i bastioni della città, sempre urlando come belve ed invocando Allah. Già hanno attraversato la piazza del bazar, quando si vedono attraversare la via da un uomo. Un urlo terribile sfugge dalle loro gole. "A morte il kafir ... " Il vestito nero che indossava quel disgraziato, livrea disprezzata dal marocchino il quale non ama che il bianco ed i colori smaglianti, aveva subito fatto conoscere a quegli esaltati che si trovavano dinanzi ad un infedele, peggio ancora ad un ebreo, ad un essere odiato, che potevano uccidere senza che le autorità avessero nulla a che dire. Il povero uomo, che non aveva avuto il tempo di salvarsi nella sua casa, vedendosi scoperto, si era gettato da un lato, rifugiandosi sotto la volta d'un portone. Era un giovane di venticinque o ventisei anni, di statura slanciata e bellissimo, caso molto raro fra gli ebrei del Marocco, i quali generalmente sono d'una bruttezza ripugnante, mentre le loro donne hanno conservato in tutta la purezza l'antico tipo semitico. Quel giovane, vedendosi piombare addosso i fanatici, si era levato dalla cintura un pugnale ed una pistola col calcio incrostato d'argento e madreperla e si era messo risolutamente sulla difensiva, gridando "Chi mi tocca, è un uomo morto!" Una minaccia simile in bocca ad un ebreo era così inaudita, che i fanatici si erano arrestati. L'ebreo del Marocco non può difendersi. Deve lasciarsi scannare come un montone dal primo mussulmano che lo incontra durante una festa religiosa e senza protestare. E poi non ne ha quasi il coraggio perché sa che anche difendendosi, verrebbe egualmente condannato a morte dalla giustizia imperiale e il più delle volte bruciato vivo su una pubblica piazza. L'esitazione dei fanatici non doveva durare a lungo; ben presto urlarono: "Addosso al kafir! ... " La folla stava per raggiungerli, pronta a spalleggiarli, e li incoraggiava urlando "Scanna l'infedele! ... A morte l'ebreo! Allah e Maometto vi saranno riconoscenti! ... " L'israelita, quantunque si vedesse ormai perduto, non abbassava il braccio armato. Teneva la pistola sempre puntata, deciso, a quanto pareva, a scaricare contro i suoi nemici i due colpi e poi a far uso anche del pugnale. I suoi occhi neri, pieni di splendore come quelli delle donne ebree, mandavano lampi, ma il suo volto bianchissimo era diventato così pallido da far paura. "Indietro!" ripeté, con voce angosciata. I fanatici, incoraggiati dalla folla, avevano invece impugnato le corte scimitarre e gli spilloni, mandando urla feroci. Stavano per precipitarsi su di lui e farlo a brani, quando due altri uomini, vestiti di bianco come gli europei che soggiornano nel Marocco e nei paesi caldi, si scagliarono dinanzi ai fanatici, tuonando: "Fermi!" Uno era un uomo di trent'anni, alto, bruno, con baffi neri, gli occhi vivi e mobilissimi, elegante; l'altro invece era un vero gigante, alto quanto un granatiere, con un corpo erculeo e con braccia grosse come colonne, un uomo insomma da far paura e da tener testa, da solo, ad un drappello d'avversari. Era bruno come un meticcio, con una selva di capelli più neri delle penne dei corvi, con baffi grossi che gli davano un aspetto brigantesco, coi tratti del volto angolosi, il naso diritto e le labbra rosse come ciliege mature. Vestiva un costume bianco come il compagno, però invece dell'elmo di tela portava una specie di tocco di panno nero, cinto da un drappo rosso e adorno d'un fiocco d'egual colore. Era più vecchio dell'altro di cinque o sei anni, ma quale vigore doveva possedere quell'ercole di fronte a cui i magrissimi marocchini facevano una ben meschina figura! Vedendo slanciarsi quei due uomini, per la seconda volta i fanatici si erano arrestati. Non si trattava più di scannare un cane d'ebreo. Quei due sconosciuti erano due europei, forse due inglesi, due francesi o italiani, due uomini insomma che potevano chiedere l'aiuto del governatore, far accorrere delle corazzate dinanzi a Tangeri e disturbare seriamente la quiete dell'Imperatore. "Levatevi!" aveva gridato, con tono minaccioso, uno dei fanatici "L'ebreo è nostro!" Il giovane bruno invece di rispondere aveva levato rapidamente da una tasca una rivoltella, puntandola contro i marocchini. "Rocco, preparati," disse volgendosi verso il compagno. "Sono pronto a fare una carneficina di questi cretini," rispose il gigante. "I miei pugni basteranno, marchese." La folla, che giungeva coll'impeto d'una fiumana che rompe gli argini, urlava a piena gola: "A morte gl'infedeli!" "Sì, a morte!" vociferarono gli allucinati. Si precipitarono innanzi agitando le scimitarre, i pugnali ed i punteruoli grondanti sangue che avevano levato dalle ferite e si prepararono a fare a pezzi l'ebreo e anche i due europei. "Indietro, bricconi!" gridò ancora, con voce più minacciosa, il compagno del gigante, gettandosi dinanzi all'ebreo. "Voi non toccherete quest'uomo." "A morte i cani d'Europa!" urlarono invece i fanatici. "Ah! Non volete lasciarci in pace?" riprese l'europeo con ira. "Ebbene, prendete!". Un colpo di rivoltella echeggiò ed un marocchino, il primo della banda, cadde morto. Nel medesimo istante il colosso piombò in mezzo all'orda e con due pugni formidabili fulminò altri due uomini. "Bravo Rocco!" esclamò il giovane dai baffi neri. "Tu vali meglio della mia rivoltella." Dinanzi a quell'inaspettata resistenza, i fanatici si erano arrestati, guardando con terrore quel colosso che sapeva così bene servirsi dei suoi pugni e che pareva disposto a ricominciare quella terribile manovra. L'ebreo approfittò per accostarsi ai due europei. "Signori," disse in un italiano fantastico, "grazie del vostro aiuto, ma se vi preme la vita, fuggite." "Me ne andrei molto volentieri," rispose il compagno del colosso, "se trovassi una casa. Noi non l'abbiamo una casa, è vero, Rocco?" "No, signor marchese. Non ne ho trovata ancora una." "Venite da me, signore," disse l'ebreo. "È lontana la vostra?" "Nel ghetto." "Andiamo." "E presto," disse Rocco. "La folla si arma e si prepara a farci passare un brutto quarto d'ora." Alcuni uomini avevano invaso le case vicine ed erano usciti tenendo nei pugni moschetti, scimitarre, jatagan e coltellacci. "La faccenda diventa seria," disse il marchese. "In ritirata!" Preceduti dall'ebreo il quale correva come un cervo, si slanciarono verso la piazza del Mercato, salutati da alcuni colpi di fucile, le cui palle, per loro fortuna, si perdettero altrove. I fanatici ed i loro ammiratori si erano gettati sulle loro tracce urlando ed imprecando: "A morte i kafir!" "Vendetta! Vendetta!" Se i marocchini correvano, anche il marchese ed i suoi compagni mostravano di possedere garetti d'acciaio, perché non perdevano un passo. Però la loro posizione diventava di momento in momento più minacciata, tanto anzi che il marchese cominciava a dubitare di poter sfuggire a quel furioso inseguimento. La folla si era rapidamente ingrossata e dalle strette viuzze sbucavano altri abitanti, mori, arabi, negri, e non inermi. La notizia che degli stranieri avevano assassinato tre fanatici doveva essersi propagata colla rapidità del lampo e l'intera popolazione di Tafilelt accorreva per fare giustizia sommaria dei kafir che avevano osato tanto. "Non credevo di scatenare una burrasca così grossa," disse il marchese, sempre correndo. "Se non sopraggiungono i soldati del governatore, la mia missione finirà qui." Avevano già attraversato la piazza e stavano per imboccare una via laterale, quando si videro sbarrare il passo da una truppa di mori armati di scimitarre e di qualche moschetto. Quella banda doveva aver fatto il giro del mercato per cercare di prenderli fra due fuochi e come si vede era riuscita nel suo intento. "Rocco," disse il marchese, arrestandosi, "siamo presi!" "La via ci è tagliata, signore," disse l'ebreo con angoscia. "Mi rincresce per voi; il vostro aiuto vi ha perduti!" "Non lo siamo ancora," rispose il gigante. "Ho cinque palle e il marchese ne ha altre sei. Cerchiamo di barricarci in qualche luogo." "E dove?" chiese il marchese. "Vedo un caffè laggiù." "Ci assedieranno." "Resisteremo fino all'arrivo delle guardie. Il governatore ci penserà tre volte prima di lasciarci scannare. Siamo europei e rappresentiamo due nazioni che possono creare serie noie all'Imperatore. Orsù, non perdiamo tempo. Si preparano a fucilarci." Due spari rimbombarono sulla piazza e una palla attraversò l'alto berretto del colosso. All'estremità della piazza sorgeva isolato un piccolo edificio di forma quadrata, sormontato da una terrazza, colle pareti bianchissime e prive di finestre. Dinanzi alla porta vi erano certe specie di gabbie che servono da sedili ai consumatori di caffè. I tre uomini si slanciarono in quella direzione, giungendo dinanzi alla porta nel momento in cui il proprietario, un vecchio arabo, attratto da quelle urla e da quegli spari, stava per uscire. "Sgombra!" gridò il marchese in lingua araba. "E prendi!" Gli gettò addosso una manata di monete d'oro, lo spinse contro il muro e si precipitò nell'interno seguito da Rocco e dall'ebreo, mentre la folla, maggiormente inferocita, urlava sempre "A morte i kafir."

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