Fu attorno al 1950 che l’artista romano — abbandonando, come dissi, tutta la sua precedente attività — espose per la prima volta alcune delle sue tele astratte, basate sopra un unico e costantemente ripetuto modulo grafico, modulato nelle più diverse guise, ma costantemente ricorrente. L’artista ben presto imparò a moltiplicare il numero delle sue sigle, a rimpicciolirle, a farle giganteggiare, a invertirle, a specularizzarle, a trarne delle scansioni ritmiche, o a ridurle a meri motivi decorativi. Questo, anzi, fu il pregio ma anche il difetto della "scoperta” di Capogrossi, che giunse sino a fare della sua pittura un genere realizzabile a mo’ di stoffa stampata, o di semplice decorazione. Il che tuttavia mostra come un segno veramente efficace dal punto di vista formale possa diventare anche un mezzo trasferibile alla cosiddetta arte applicata, possa entrare a far parte di quel vasto settore della “expendable icone” dell’icone diffusibile alle masse e di cui si sente così acutamente il bisogno. Codesto segno aveva in sé — oltre a una indiscutibile efficacia plastica e compositiva — una misteriosa natura criptica, alcunché di magico e di scientifico insieme, quasi come se si fosse trattato della L. Alcopley, Disegno ricomparsa di antichi simboli tratti da testi ermetici, da cifrari alchemici.
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