Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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LE NOVELLE DELLA NONNA. Fiabe fantastiche

679089
Perodi, Emma 3 occorrenze
  • 1992
  • Newton Compton Editori s.r.l.
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Essi portarono nelle poche chiese della città i loro bambini e quindi abbandonando le loro case agli invasori, mossero in processione, con i sacri stendardi spiegati, verso il bosco, dove sapevano di trovare colui che li aveva resi buoni, caritatevoli e pii. Ma appena furono usciti dalla città, videro, in mezzo alla strada, un uomo tutto vestito di nero e circondato da un numero infinito di vipere, le quali alzarono la testa, misero fuori la lingua e, come una schiera di saettatori, mossero all'attacco degli uomini salmodianti. Questi, spaventati, voltarono le calcagna e si diedero a fuga precipitosa, e una volta dentro la città sbarrarono le porte; ma le vipere, strisciando lungo le mura, salirono fino ai merli, e di lassù, con le fauci aperte, la testa eretta, parevano pronte a scendere nella misera Bibbiena. Intanto gli immondi animali, che già erano penetrati prima nelle case, avevano distrutto gran parte delle provviste e insozzate le altre, per modo che gli abitanti non avevano più da mangiare né da bere perché i pozzi e le cisterne erano pieni di bòtte e di serpi acquaiuole. Venne la domenica, giorno in cui il Romito soleva recarsi a Bibbiena, e gli abitanti, non vedendolo giungere, incominciarono a pensare che egli pure li avesse abbandonati, e, ritenendo inutili le preghiere, si diedero a mormorare contro il cielo e contro i santi. - A che ci è valsa la nostra devozione, se nessuno ci aiuta? - dicevano molti, che avevano veduti spirare i loro cari fra atroci spasimi, in seguito alle morsicature delle vipere. Intanto, nella lotta per non morire di fame, avvenivano risse; gli antichi rancori si riaccendevano e la gente, inferocita dallo spavento, dai dolori e dalle sofferenze, si allontanava dalla via del bene. Satana credé giunto il momento di impossessarsi di tutte le anime, e un giorno bussò alle porte della città. Aveva lasciato l'abito nero e nascondeva il volto maligno sotto il cappuccio di un frate francescano. - Chi è? - domandò l'uomo cui era affidata la guardia della porta. - Sono un francescano, - disse il Diavolo, facendo la voce umile. - Apritemi e vi libererò dal flagello che vi colpisce, Il guardiano della porta corse per il paese, cercando i cittadini più cospicui per riferir loro l'accaduto. Essi deliberarono che era meglio aprir subito, e mossero verso la porta, che si spalancò per lasciar entrare il finto frate. - Io vi prometto, - egli disse, - di liberare Bibbiena in poche ore dal flagello; ma voi dovete promettermi di non fare entrare più il Romito nel recinto della città; è lui che ha attirato sopra questo povero paese tanta maledizione. In quel momento i Bibbienesi dimenticarono i beneficî ricevuti dal pio Romito, e promisero tutto ciò che esigeva colui che si proclamava apportatore di salvezza. Il Diavolo incominciò a girare per le vie, a penetrare per le case e nei giardini pronunziando misteriose parole, che nessuno capiva. Però, a quelle parole, serpi, vipere, ramarri, salamandre, grosse lucertole, rospi e bòtte uscivano dai loro nascondigli, salivano su dai pozzi e dalle cisterne, sbucavano dalle tane, e intorno al frate si formava uno stuolo di quei ributtanti animali. Quando egli ebbe esplorato ogni luogo, mosse, seguìto da quel lurido corteo, verso la parte della città dalla quale era entrato, e, sceso nella pianura, disperse tutti i rettili pronunziando altre magiche parole. Dall'alto delle torri della città i Bibbienesi lo avevano seguìto con lo sguardo, e appena lo videro solo, gli andarono incontro riconducendolo a Bibbiena con grandi onori. Fu mandata subito gente nei paesi vicini a far provvista di vettovaglie, e la sera i signori della città offrirono al loro liberatore un banchetto. Il vino bevuto in grande quantità, dette alla testa a molti; nacquero delle dispute, un uomo fu ucciso, le osterie si ripopolarono, si riprese a giuocare, a bestemmiare, e nessuno pensava più al Romito né alle massime di pace, di rassegnazione e di carità che egli aveva predicato per tanto tempo. Una famiglia sola non partecipò alla baldoria generale. Questa famiglia si componeva di un vecchio padre e di due figli, i quali, prima che il Romito facesse udire la sua voce persuasiva ed ispirata, vivevano in continua discordia, con grande amarezza del vecchio. Un giorno, nel calore di una disputa, il maggiore di essi aveva preso un coltello ed erasi avventato contro il suo secondogenito, ferendolo al viso. La cicatrice di quella coltellata era ancora visibile, e il feroce e barbaro giovane, ora che si era pentito, la guardava di continuo. Appena un lampo di risentimento contro il fratello gli offuscava la ragione, la vista di quella ferita bastava a calmarlo e a suggerirgli sentimenti miti e buoni. Il vecchio e i due fratelli, udendo che il patto della liberazione di Bibbiena dal terribile flagello che li aveva colpiti si era che il Romito non riponesse più piede in città, li aveva indotti a non partecipare alla gioia generale e alle feste che si facevano in onore del liberatore. Essi erano tre poveri e rozzi uomini, ma facevano questi ragionamenti: - Se il frate ha paura del Romito, che aveva convertito tutta Bibbiena alla carità, alla tolleranza e al perdono delle offese, vuol dire che è un nemico del nostro bene, un ribaldo, forse il Diavolo in persona. E mentre tutti i cittadini bevevano, cantavano e giuocavano, padre e figli stavano rinchiusi nella loro casetta, pregando il Cielo di non abbandonare la loro città. E le loro preghiere furono udite in Cielo, dove le preci degli umili e dei buoni vengono trasportate dagli Angeli Custodi. E la Madonna s'impietosì sulla sorte di Bibbiena per l'intercessione di quel padre e di quei figli riconciliati dal Romito, e mandò loro una ispirazione. - Perché, - disse un giorno il padre, - non andiamo noi nel bosco a supplicare il Romito di riprendere le sue prediche? Egli, come quelli che sono mossi da vero spirito di carità, saprà affrontare i pericoli e trionferà del Demonio. Andiamo. E mentre la città era tutta immersa nei tripudî e nei sollazzi, il vecchio e i suoi due figli ne varcarono le mura, e andarono nel bosco. - Santo vecchio, - dissero allorché furono alla presenza del Romito, - perché hai abbandonata la nostra Bibbiena? - Io non avrei altro desiderio che quello di ritornarvi; - rispose il Romito, - ma il Diavolo vi ha stabilito il suo dominio e ogni tentativo per sloggiarlo mi pare inutile. - Vieni e tenta di cacciarlo. La fede non ti può mancare, e la fede opera miracoli. Il Romito pronunziò una breve preghiera, invocando l'aiuto del Cielo sulla impresa sua, e, accompagnato dai tre uomini, salì a Bibbiena. Nessuno guardava più le porte, perché il popolo faceva continua baldoria, e il Romito poté giungere sulla piazza della Pieve, senza che alcuno lo riconoscesse. Ma invano egli fece udire la sua voce dolce e persuasiva. Intorno a lui non vi erano altro che il padre e i due figli; il popolo, adunato nelle osterie e schiamazzante, non poteva afferrare le parole del santo uomo, il quale tornò nel bosco dopo lungo predicare. Però il Diavolo, che sapeva tutto ciò che avveniva in città, fu informato che i Bibbienesi non avevano tenuto il patto, e, adunatili la sera sulla piazza, li rimproverò acerbamente, minacciandoli di una nuova invasione di rettili, e designò i tre colpevoli, i quali vennero legati dal popolo inferocito, e rinchiusi in una prigione sotterranea. Ciò nonostante, il Romito tornò a Bibbiena dopo pochi giorni, attrattovi dalla carità verso quel misero popolo, e si mise di nuovo a predicare in piazza. Questa volta il suo uditorio si componeva di una vecchia, abbandonata nella miseria dai figli, i quali non lavoravan più per andare all'osteria a giuocare e a bere, e della moglie di un uomo ucciso in rissa. Le due povere donne piansero amaramente alle parole del Romito, il quale cercò di consolarle come meglio poteva. Anche questa volta il Diavolo fu informato di tutto, e disse fra sé: - Qui ci vuole un esempio, se no Bibbiena mi sfugge dalle mani. E appena calò la sera fece apparire sulla città tante lingue di fuoco che, abbassandosi, lambirono le mura e i tetti delle case. La gente, impaurita, temendo che l'incendio distruggesse le loro abitazioni, corse nelle vie e nelle piazze urlando e strascicandosi dietro i bambini. Il finto frate s'insinuò tra la folla e incominciò a pronunziare misteriose parole, che i grandi non udivano, ma che i piccini capivano bene. Con quelle parole prometteva loro giuochi, sollazzi, ghiottornie, ogni cosa che alletta la fantasia dei bimbi. E questi gli correvano intorno giulivi e lo seguivano. Quando ebbe radunati tutti coloro che potevano camminare, uscì da Bibbiena e si diresse verso un bosco, dove sapeva che vi era una grotta immensa, praticata nei fianchi di un monte, e ve li rinchiuse. Allora le lingue di fuoco cessarono di lambire le case, e la gente, dopo aver domato alcuni incendi prodotti da quelle, si diede a cercare i bambini. Le donne correvano sgomente per le vie chiamandoli con alte grida, gli uomini si spingevano fuori del paese, frugavano i boschi, urlavano, ma nessuna voce infantile rispondeva al loro appello e soltanto l'eco dei boschi ripeteva quei suoni desolati. Il finto frate, dopo aver compiuto il ratto dei bambini, ritornò in paese fra la gente afflitta e sconsolata. Appena i Bibbienesi lo videro, rammentando che li aveva liberati dai rettili, ricorsero a lui. - Rendeteci i nostri bimbi, - supplicarono essi, - e la nostra gratitudine sarà eterna. Il Diavolo fece un ghigno spaventoso. - Due volte, - egli rispose, - avete calpestati i nostri patti; due volte il Romito ha predicato in piazza. - Abbiamo punito coloro che lo fecero venire la prima volta, - risposero gli afflitti cittadini. - Ma non avete punito le donne che lo hanno ascoltato la seconda; mettetele a morte. - E chi sono? - domandò la folla. Il Diavolo le nominò. - Voi chiedete troppo, - risposero i cittadini, - la prima è una infelice già abbastanza provata dalla sventura; la seconda è una povera vedova; lasciatele dunque vivere, giacché non hanno mai fatto alcun male a nessuno. - Riflettete, - disse il Diavolo. - Se le ucciderete, i vostri bimbi ritorneranno in paese; se le lascerete vivere, non li vedrete più. Il finto frate, dopo aver pronunziate queste parole, sparì. I cittadini rimasero perplessi. Però non potevano risolversi a mettere a morte due innocenti; no, non potevano. - Il loro sangue ricadrebbe su noi in tanta maledizione, - dicevano i più saggi, - lasciamole vivere; Iddio ci renderà i nostri figli. E inteneriti e resi migliori da quella grande sventura, si riversarono nelle chiese, si prostrarono dinanzi agli altari e ripresero a recitare le preci che eran soliti innalzare a Dio allorché il Romito era di continuo in mezzo a loro, sostenendoli con la dolce e persuasiva sua parola. E spinti di nuovo sulla via del bene, liberarono i tre prigionieri che avevano condotto a Bibbiena il Romito, e le preci di questi e delle due donne salvate dalla carità popolare, operarono un vero miracolo. Il Romito, nella sua capannuccia, ebbe un avvertimento nel sonno. Egli si sentì chiamare da una voce celeste, che gli disse: - Va' in città; lassù hanno bisogno di te. Il Romito si alzò nel cuor della notte dal suo giaciglio di foglie secche, e si avviò, in mezzo alle tenebre, verso Bibbiena. Il Diavolo però, che non lo perdeva di vista, gli suscitò contro una quantità di ostacoli. Prima di tutto il sant'uomo fu avvolto da una nebbia impenetrabile, ed egli, in mezzo alle alte piante, non trovava il sentiero battuto tante volte, di modo che dovette fermarsi per non camminare in una direzione opposta alla sua mèta, attendendo che sorgesse il sole. Poi, quando questo ebbe diradata la nebbia, si scatenò all'improvviso un temporale fortissimo. Fulmini spaventosi squarciavano le nubi, il vento turbinoso schiantava gli alberi, l'acqua torrenziale convertiva in fiumi i rigagnoli, la grandine percuoteva il volto del viandante, il quale dovette di nuovo fermarsi. Quando il temporale si fu sfogato, due serpenti, sbucati fuori da un ciuffo di felci, gli si avviticchiarono alle gambe, in modo che egli non poteva più camminare. Allora il Romito, supponendo che tutti quegli ostacoli fossero creati dal Diavolo, toccò con la croce i due rettili spaventosi, e questi si sviticchiarono e fuggirono via. Da quel momento egli poté continuare il cammino senza ostacoli, e giunse a Bibbiena. Il popolo, vedendolo, gli corse incontro esultante, e inginocchiatosi intorno a lui, gli disse: - Rendeteci i nostri figli; noi siamo peccatori indegni di perdono, ma intercedete per noi. E allora il sant'uomo s'inginocchiò in mezzo alla piazza della Pieve, e il popolo unì le sue preci a quelle di lui. Dopo aver lungamente pregato, il Romito volle venti uomini robusti e disse loro: - Seguitemi. Ed essi lo seguirono giù nella valle, ubbidienti ad ogni suo cenno. Mentre camminavano, egli pregava ancora. Allora si vide una bianca colomba staccarsi da un albero e volare prima verso un balconcino dove erasi affacciata una giovanetta e poi volare dinanzi a lui. Il Romito la seguiva, e finalmente ella si fermò sopra un grosso macigno. - Qui sono i vostri figli, - disse il Romito, - qui deve averli celati il finto frate. E i venti uomini si diedero, con quanta forza avevano, a smovere il macigno, ma non riuscirono neppure a scostarlo. - Qui è inutile arrabattarsi, - dissero, - ci vogliono delle corde e diverse paia di manzi! E lasciando il Romito a guardia del luogo, gli altri tornarono al paese a provvedersi dell'occorrente. La colomba intanto non si moveva dal posto ov'erasi posata, come per dire che i piccini di Bibbiena erano lì davvero. E vi rimase finché gli uomini andati in città non furono tornati con cinque coppie di bei manzi alti e poderosi, e muniti di corde e di catene. Avvolsero queste intorno al macigno, vi legarono le corde, e i buoi si misero a tirare; ma tira tira, il sasso non si moveva. Gli uomini sudavano freddo, il Romito era sgomento, e i buoi, stanchi, si rifiutavano di tirare ancora. - Figli miei, - disse il sant'uomo, - mi accorgo che il macigno è sigillato al monte da una forza soprannaturale. Andate, abbiate fede, e se le mie preci saranno ascoltate lassù ove tutto si può, io vi ricondurrò a Bibbiena i vostri figliuoli. Fra i venti uomini andati nel bosco a liberare i bambini, v'erano i due giovani figli del vecchio, quelli, cioè che nonostante il divieto del finto frate, avevano ricondotto il Romito a Bibbiena ed erano stati rinchiusi in prigione. Essi pregarono il santo vecchio di conceder loro di rimanere a fargli compagnia, e il Romito non seppe rifiutare a quei due buoni giovani ciò che gli chiedevano. Gli altri diciotto se ne tornarono dunque in paese a testa bassa, tutti pensosi, disperando quasi di rivedere i loro piccini, e non sapendo come dar la dolorosa notizia, che non erano riusciti a nulla, alle mamme ansiose e piangenti. Il Romito, appena rimasto solo con i due fratelli, disse: - Figli miei, preparatevi a passar una notte angosciosa; il Diavolo cercherà di sgomentarci con ogni mezzo. - Siamo pronti a tutto, - essi risposero. Appena le ombre della sera si allungarono sul bosco, un'aquila gigantesca incominciò a descrivere giri attorno al macigno. La bianca colomba, spaventata, volò via, ma l'aquila la inseguì e la ghermì. Un grido straziante echeggiò nel bosco, indicando che l'innocente uccello era stato vittima del suo poderoso aggressore. Poco dopo il bosco fu pieno di urli di lupo. Pareva che quei famelici animali fossero scesi a branchi dalle vette più alte in cerca di cibo. Uno di essi si accostò ai due fratelli, con la bocca spalancata, pronto ad azzannarli, ma il Romito si fece avanti coraggiosamente e invece di lanciargli contro un sasso, lo toccò con la croce del rosario. L'animale barcollò e diedesi a fuga precipitosa. Allora, sul macigno comparvero due diavoli, che mandavano fuoco dagli occhi e dalla bocca e tenevano a distanza chiunque per il fetore che emanava dai loro corpi. Il Romito alzò la mano e fece tre grandi croci nell'aria, e subito i diavoli sparirono. Ma le prove dei tre uomini non eran terminate, e poco dopo che avevano visto sparire i diavoli, si presentò Satana in persona, non più sotto le sembianze del frate francescano, ma con la sua effigie stessa, spaventosa a vedersi. - Romito, - diss'egli, - tu hai troppo potere sull'animo dei mortali; io non voglio che tu continui a vivere. - Io vivrò finché piacerà al Signore Iddio di tenermi su questa terra e con l'aiuto del Cielo spero che la mia anima non ti apparterrà mai. Il Diavolo pronunziò due parole magiche, due sole, e una schiera di demoni s'impossessò del vecchio e diedesi a soffiargli fuoco sulle carni. Queste bruciavano orribilmente, e il santo vecchio pregava, con lo sguardo rivolto al cielo. A un tratto comparve su quello una stella luminosa che via via si avvicinava alla terra spandendo una luce più mite del sole, ma egualmente bella. Quella stella si fermò di fronte al Romito e lo avvolse tutto nei suoi raggi, come avvolse il macigno, il quale incominciò a liquefarsi come se fosse stato di cera molle esposta al fuoco. Quando il macigno, ridotto liquido, ebbe lasciato aperto l'ingresso della grotta, la stella lentamente si allontanò per andarsi a confondere con le sue sorelle del cielo. Allora il Romito, cessando di pregare, chiamò a sé i compagni e disse loro: - Andiamo, con l'aiuto di Dio. E s'internarono nelle viscere della terra. Giunti che furono a una vôlta bassissima, sotto la quale bisognava andar carponi, la stella ricomparve, e i raggi di lei, invece di battere in faccia al Romito e ai due fratelli, si mossero verso il punto opposto. - Là, là debbono essere i bambini, - disse il santo vecchio, e strisciando il corpo sul terreno si avanzò seguìto dai compagni. Giunto nel punto in cui la vôlta toccava quasi il suolo, il Romito vide una pietra posata in modo da far supporre che al di là vi fosse una grotta, e rimossala fu sorpreso di scorgere una specie di sala che prendeva luce dall'alto, nella quale centinaia di bambini erano distesi per terra come morti. La stella allora li toccò con i suoi raggi, ed essi, stropicciandosi gli occhi, si alzarono e vedendo aperta la porta della prigione, ne uscirono frettolosi, curvandosi per passare. Il Romito li trattenne e disse loro di lasciarlo prima uscire con i due giovani ed essi sarebbero venuti poi; i bimbi si fermarono ubbidienti, poi lo seguirono in silenzio. Giunti che furono all'imboccatura della camera, la stella, che fino allora aveva rischiarate le buie gallerie, s'alzò splendente nel cielo e andò a posarsi sulla città di Bibbiena. Gli abitanti, vedendola, sperarono subito che essa fosse annunziatrice di felicità e mossero incontro al Romito. Questi camminava in mezzo alla turba dei bimbi, esultanti per la ricuperata libertà. Così lo videro i Bibbienesi da lungi. Impossibile descrivere la loro gioia. Ognuno chiamava a nome i figli, ognuno se li prendeva fra le braccia, e quando furono tornati in paese, le grida, le esclamazioni, i pianti delle mamme coprirono ogni altro rumore. Il Romito riprese da quel tempo le sue prediche, e Bibbiena ebbe un lungo periodo di calma dovuta alle parole del santo vecchio. Il Diavolo, per quanto facesse onde combatterne il potere, rimase sempre vinto e scorbacchiato e dovette rinunziare all'impresa, aspettando rabbiosamente che il Romito morisse. E quando questi ebbe chiusi gli occhi nella pace del Signore, tornò a regnare in Bibbiena, come regna in molti paesi, ove non c'è un'anima santa per tenerlo lontano. - E qui la novella è finita, bambini, - disse la Regina, - e forse per qualche settimana non ne racconterò altre. - Perché? - domandarono essi. - Perché la signora Durini mi vuole per un po' di tempo a Camaldoli per insegnarle a conservare le frutta, e io non posso rifiutarle questo favore. I bimbi fecero il broncio, ma tacquero, perché erano assuefatti a rispettare la volontà della nonna.

Il conte Romano ebbe pietà di tanto e sincero dolore e fece cercare la mula dai servi; ma tutto fu inutile, e, per evitare di esser di nuovo sorpresi dalla bufera, dovettero tutti proseguire il cammino, abbandonando la mula alla propria sorte. Quell'abbandono costò molto dispiacere al poeta, il quale non sapeva rinunziare ai sette canti del poema su cui aveva sudato tempo. Egli si pentiva di avere lasciato Nipozzano e soprattutto di non essersi messo addosso quel manoscritto, senza il quale non avrebbe saputo continuare l'opera intrapresa. Ser Bindo giunse, dunque, molto a malincuore a Staggia; il paesaggio invernale gli pareva triste, e il castello una vera prigione. Appena poi ne ebbe oltrepassata la pesante porta ferrata e ebbe veduto una doppia fila di gente, stranamente vestita, che il conte Romano salutò, dicendo al nuovo ospite: "Eccovi i miei poeti!" il fiorentino si sentì ribollire il sangue nelle vene. È bene dire che ser Bindo aveva una speciale avversione per la ciurmaglia di fannulloni; e, in genere, i poeti da strapazzo appartenevano a quella categoria. In antico era uso che alla stessa tavola, all'ora di pasto, sedessero tanto il signore, quanto l'ultimo famiglio. Soltanto la differenza di grado si vedeva dalla diversità del posto. In capo tavola, vicino al signore, stavano le persone di riguardo, come ser Bindo; in fondo, la gente di nessun conto, come i poetastri. Ma anche questi udivano i discorsi che il signore faceva; e infatti la ciurmaglia dei poetastri udì il racconto del temporale, dello smarrimento della mula, e udì le lamentazioni di ser Bindo sulla perdita de' suoi canti. - Io non potrò più scrivere un verso, - diceva l'infelice, - finché quei canti non saranno di nuovo in mano mia. La loro perdita mi affligge tanto, che io non saprei più esser poeta. Avete sentito dire, signor di Staggia, che quando l'uomo perde il filo di una idea non è più capace di nulla, finché non l'ha ripreso? Ebbene, in questi sette canti sta il filo del mio grandioso poema, ed io non potrò riafferrarlo finché non li avrò sott'occhi. Tutti quei poetastri, che fino a quel giorno erano stati fra di loro come cani e gatti, udendo queste parole si scambiarono uno sguardo d'intesa, e appena tolte le mense si riunirono a combriccola in una stanza appartata del castello e stabilirono di muovere sul far del giorno alla ricerca della mula, affinché i sette canti del poema non capitassero mai più nelle mani di quel presuntuoso, che il signore trattava da pari a pari. Infatti, appena fu calato il ponte levatoio del castello di Staggia, i poetastri si misero in cammino, e giunti a un certo punto presero ognuno una direzione differente per meglio cercare la mula. Uno di essi, quello appunto che avea più livore contro ser Bindo per essere stato sloggiato per dato e fatto di lui dalla bella camera che occupava prima, esplorando il terreno a fianco della via maestra, rinvenne la mula mezza sotterrata dalla neve e morta stecchita in un fosso. Ciapo, che così era nominato il poetastro, vi scese con molta precauzione, rinvenne la valigia che ser Bindo aveva descritta, e, aprendola, trovò in essa la busta che conteneva i canti del famoso poema. In sulle prime ebbe voglia di gridare per attrarre l'attenzione dei compagni, ma subito un pensiero maligno gli traversò la mente. Perché non teneva per sé quei canti? Per ora poteva nasconderli in qualche luogo, e quando fosse passato un poco di tempo, per non destar sospetti, andarsene da Staggia alla Corte di un altro signore e gabellarli per suoi. Così avrebbe acquistata fama, onori e denari, senza torturarsi il cervello. - Così, così farò; - disse fra sé, - sarei un bello stupido se non mangiassi la pappa che trovo già scodellata. E senza impensierirsi per la cattiva azione che commetteva, ripose la busta nel farsetto, gettò manate e manate di neve sulla mula, affinché nessuno la potesse scorgere, e finse di cercare ancora, sempre avvicinandosi al luogo ov'erano gli altri compagni. - Quella mula doveva essere indemoniata, - diss'egli allorché li ebbe raggiunti. - Non si trova per quanto si cerchi, e di lei non c'è traccia. Intanto s'era fatto tardi e la comitiva, intirizzita dal freddo, fece ritorno al castello, dove disse di essere andata a caccia, invece che alla ricerca della mula. Ser Bindo e il suo ospite risentivano troppo gli strapazzi del viaggio per potersi mettere in campagna; ma il Conte aveva disposto che fosse dato un premio a quello dei suoi terrazzani che avesse riportato la mula, viva o morta, al castello; e questa notizia l'aveva fatta bandire a suon di tromba per tutta la terra di Staggia. Ciapo rideva fra sé e sé, sentendo i banditori che si sgolavano, e appena giunto nel palazzo si rinchiuse nella nuova camera che gli era stata assegnata, e togliendo con molta fatica due mattoni di sotto il letto, vi nascose la busta. Poi andò a cena, e gongolava vedendo l'abbattimento di ser Bindo e la desolazione che gli cagionava la perdita dei suoi canti. Gli altri poetastri, udendo bandire il premio per tutta la terra, avevano avuto una rabbia da non dirsi. Ormai non potevano più mettersi in campagna, poiché si sarebbero imbattuti nei terrazzani del conte Romano, i quali, più cogniti di loro del paese, avrebbero certo rinvenuta la mula. Ciapo, per non essere scoperto, diceva che avevano ragione, che quella risoluzione del Conte era una vera disdetta, che sarebbe stato tanto meglio se la mula fosse caduta in loro potere, per fare un dispetto a quell'intruso di fiorentino, tanto superbioso dell'opera sua. Quella sera i poetastri si separarono tardi, e appena Ciapo fu in camera, dette un'occhiata ai mattoni per assicurarsi che non erano stati rimossi, e poi, stanco morto, si addormentò come un ghiro. Ma il riposo fu di breve durata perché fece un sogno spaventoso e gli parve di vedere quei sette canti trasformarsi in altrettanti serpenti, avviticchiarglisi addosso e stringergli la gola in modo da soffocarlo. Gettò un grido, balzò dal letto, e al lume della luna, che penetrava in camera sua attraverso ai vetri, non vide né canti né serpenti. - È un fatto, - disse, - che quando uno è molto stanco dorme male. E col cuore che gli batteva ancora forte dallo spavento, ritornò a letto, e questa volta dormì fino alla mattina. Prima del mezzogiorno udì un gran scalpiccìo nel cortile. Si affacciò e vide là molti terrazzani che recavano la mula sopra una barella. Il Conte, avvertito, scese, e scese pure ser Bindo: il primo bramava di leggere i sette famosi canti, mentre l'autore desiderava di averli fra mano per incominciare l'ottavo e condurre a termine tutto il poema, col quale intendeva di sferzare i vizî de' suoi ingrati concittadini. Essi si curvarono sulla mula per afferrare la valigia, ma questa non v'era più, e sulla soma del morto animale non rinvennero che roba di vestiario e altri amminnicoli. - Sono rovinato! Sono morto! - urlò ser Bindo, sgranando sui terrazzani, che avevano recato la mula, certi occhi da spiritato. Ciapo, sull'alto della scala, osservava quella scena sorridendo. - Chi di voi ha osato impadronirsi della valigia? - domandò il conte Romano. - Noi non abbiamo preso nulla, - dissero umilmente i terrazzani. - Vedremo, - replicò il Conte. E, furente d'ira, ordinò che tutti quelli che avevano riportata la mula fossero rinchiusi in una prigione buia, umidissima e sotterranea, finché non avessero confessato il misfatto. Ser Bindo avrebbe voluto intercedere per loro, ma era più morto che vivo per quella speranza delusa, e fu assalito dal freddo e dalla febbre. Intanto il corpo della mula venne gettato in uno dei fossati del castello, e i terrazzani tenuti in prigione. Quella notte il conte Romano, che per il solito dormiva come un ghiro, non poté prendere sonno. Rivolta di qua, rivolta di là, gli pareva che nel letto ci fossero le spine, e ogni tanto sentiva una voce interna che gli diceva: - Ma sei proprio sicuro, conte Romano, di non aver colpito il giusto pel peccatore? E questa voce lo tormentava. Intanto che il Conte vegliava, le mogli e le figlie dei terrazzani, imprigionati da lui, passarono la lunga notte invernale piangendo e smaniando. A giorno esse si recarono a un piccolo oratorio, dove era conservata con molta venerazione una immagine miracolosa della Madonna, e togliendosi i pendenti dagli orecchi e i vezzi dal collo, li deposero sull'altare dicendo: - Vergine santa, restituiteci i nostri mariti. Non abbiamo di prezioso che queste gemme e noi ve le offriamo. La Vergine ebbe compassione delle lacrime delle donne e fu commossa dell'offerta che esse facevano. Ma prima di rivolgersi al Conte, volle impietosire Ciapo. Egli dormiva ancora, quando la Vergine gli apparve e gli disse: - Se tu hai cara la salvezza eterna, devi restituire i setti canti del poema di ser Bindo, affinché quell'infelice poeta, quel disgraziato esule, compia l'opera incominciata e tanti poveri innocenti rivedano la luce del sole. La visione era bellissima, poiché la Madonna, che un insigne artista aveva dipinta sul muro dell'oratorio, si presentava a Ciapo non irata in volto, ma con espressione benigna di supplica, e sulla testa le riluceva una corona d'oro, e dal collo le pendevano vezzi di perle e di ambra trasparente. Ciapo si destò, ma non aprì gli occhi, temendo che la bella visione sparisse come un sogno, e sentendo la dolce voce della Madre di Dio che gli parlava con tanta gentilezza, disse: - Madonna, io farò quanto tu mi comandi per compiacerti, e i sette canti del poema ritorneranno dentro oggi a chi li compose e li vergò. Sparì la Vergine dopo aver udita questa solenne promessa di Ciapo; ma questi, aprendo gli occhi alla luce, rise della promessa e del sogno, e invece di restituire ciò che aveva involato, passò la giornata a comporre un'ode in ottava rima, nella quale magnificava la generosità del conte Romano a fine di cattivarsi l'animo del Conte stesso. Quel giorno ser Bindo non comparve a pranzo. Egli era così debole da non reggersi ritto e aveva invano cercato di alzarsi dal letto per assidersi alla mensa del suo ospite. Questi si mostrava accigliato, e allorché Ciapo, tolte le mense, volle recitargli l'ode composta in suo onore, il Conte glielo impedì con mal modo, dicendogli: - Cessa, poetastro, dal gracidare. I tuoi versi mi annoiano. Va' a dirli a chi ti pare, ma non tediarmi più con la tua noiosa presenza. Era lo stesso che se gli avesse detto, chiaro e tondo, di far presto le sue valigie e di sloggiare dal castello. Ciapo capì benissimo, e stabilì di non restare un giorno di più là dov'era. In breve egli riunì le sue robe, tolse di sotto i mattoni la busta e, chiesto un cavallo al signore, gli fece i suoi saluti e se ne andò. Egli aveva appena discesa l'erta del castello, che vide attraverso la via un bove furibondo, il quale gli andò addosso a testa bassa, quasi volesse sollevarlo sulle corna. Smarrito dal terrore, Ciapo spinse il cavallo sulla proda di un fosso, ma il bove lo incalzava sempre più furibondo, e pareva che mirasse con le corna al farsetto, nel quale il poetastro teneva riposti i canti di ser Bindo. - Cavallo mio, salvami! - esclamò Ciapo. - Se riuscissi a portare in salvo questo tesoro e ad assicurarmi la fortuna e la gloria, darei anche l'anima al Diavolo! Non aveva finito di pronunziare queste parole, che il cavallo fece un lancio, varcò il fosso e si diede a corsa sfrenata. Il bove, per seguirlo, fece un lancio, ma invece di toccar la sponda opposta, precipitò nel fosso e vi rimase. Corri corri, Ciapo giunse verso sera al castello di Poppi, e chiese l'ospitalità. Il Conte, che era persona molto generosa, gliela concesse, e s'intrattenne dopo cena a parlare col nuovo venuto, cui dette una camera per riposare fino alla mattina, sentendo che voleva riprendere il viaggio per recarsi a Spoleto. In quella notte Ciapo fu assalito da un timore che non sapeva spiegarsi. Gli pareva che cento braccia lo afferrassero, che cento bocche gli gridassero: - Restituisci i manoscritti all'esule poeta, e non far morire tanti innocenti! Eppure nella camera non c'era nessuno, e se anche prestava l'orecchio, non udiva nessuna voce. Gli è che le braccia che lo afferravano erano invisibili, e le voci gli parlavano al cuore e non all'orecchio. Ciapo, che non aveva spento la lucerna e si era coricato col farsetto per meglio custodire la busta, guardò da tutti i lati per vedere se scopriva un nascondiglio nella parete, e non vide nulla. Intanto le braccia lo stringevano sempre più, e cento voci minacciose gli ripetevano: - Restituisci i manoscritti all'esule poeta, e non far morire tanti innocenti! - Mai! - esclamò Ciapo. - Satana, aiutami tu! A un tratto si videro molte fiamme invadere la camera e circondare il poetastro. Le braccia cessarono di stringerlo, le voci di parlargli al cuore, e nella parete a fianco del letto si aprì una specie d'imposta che lasciò vedere una cassa di ferro. Ciapo ripose dentro a quella la busta che conteneva i canti, e la cassa si richiuse con fracasso, l'imposta sbatacchiò, e nessun occhio umano avrebbe potuto trovarne traccia. Intanto ser Bindo, desolato per la perdita fatta, si struggeva come una candela, e i poveri terrazzani rinchiusi nelle prigioni del castello di Staggia vedevano sospesa di continuo sulla loro testa la tremenda pena di cui li aveva minacciati il conte Romano. Questi non osava ordinare che i terrazzani fossero messi a morte, e una notte che era seduto accanto al letto del poeta agonizzante, vide la immagine miracolosa della Vergine apparirgli e guardarlo con occhi supplichevoli, stendendo verso di lui le mani in atto di preghiera. Quella visione lo colpì, e nel momento istesso ser Bindo, con voce fievolissima, gli disse: - Messere il Conte, io mi accorgo che la mia fine è prossima. Ormai la gloria non mi alletta più e sento di essere staccato completamente dai beni terreni. Restituite la libertà ai terrazzani che tenete prigionieri; essi sono innocenti, poiché non avevano alcun interesse di defraudarmi de' miei canti. Io sono certo che il colpevole è già lungi, ma anche a lui, in questo estremo momento, io perdono. - Il colpevole è Ciapo! - disse il Conte, che ebbe in quell'istante come una rivelazione. E senza indugiare, ordinò ad alcuni uomini di salir subito a cavallo e ricondurglielo vivo o morto, volendo sollevare, con la vista dei canti, i momenti estremi del morente. E appena il sole indorò le vette dei monti, ordinò che la prigione fosse aperta ai suoi terrazzani e che essi venissero rimessi in libertà. Intanto Ciapo ingrassava per il dispetto fatto a ser Bindo, e, strada facendo per recarsi a Spoleto, ripeteva: - Que' canti non li avrò io, ma neppur lui, poiché li custodisce il Diavolo. Ora, mentre ser Bindo languiva nel castello di Staggia, capitò colà un vecchio e santo frate francescano, il quale, udita la ragione del malore dell'esule, disse che avrebbe ricorso all'aiuto del santo di Assisi per consolarlo. E per ottenere quell'aiuto, digiunò e pregò con fervore. Il frate, dopo questo, proseguì la via per recarsi alla Verna e chiese l'ospitalità al signore di Poppi. Questi, naturalmente, gliela diede e gli assegnò la camera abitata pochi giorni prima da Ciapo. Era costume del francescano di farsi dare l'aspersorio e di benedire ogni stanza che doveva abitare anche per una notte sola. Egli benedì pure la camera di Poppi, e quando la parete che conteneva il nascondiglio del Diavolo fu spruzzata dell'acqua santa, avvenne un fatto strano. L'imposta del muro si spalancò con fracasso, la cassa di ferro s'aprì, la busta cadde per terra e da quella incominciarono ad uscire tanti fogli. Naturalmente il frate raccolse busta e carte, e, appena vi ebbe gettato gli occhi, si accòrse che su quelle carte erano scritti i sette canti rimati da ser Bindo. La notte parve lunghissima al frate, perché non vedeva l'ora e il momento di portare una consolazione all'esule infelice, e appena giorno si rimise in cammino, e un passo dopo l'altro giunse a Staggia. Era sera quando fu ammesso nella camera del morente, il quale, vedendo la busta in mano al frate, non ebbe la forza di parlare né di stendere le mani per riceverla. Pianse, invece, lungamente, amaramente, l'infelice, e quelle lacrime lo sollevarono molto. Il giorno dopo stava assai meglio; la settimana seguente poté alzarsi, e un mese dopo che ser Bindo era di nuovo in possesso dei sette canti del poema, già dava mano all'ottavo, e senza interruzione portava a termine l'opera grandiosa. E ser Ciapo? Si dice che la sua anima irrequieta abbia abitato per anni e anni il nascondiglio del Diavolo nella camera del castello di Poppi. Infatti, in quella camera nessuno ci voleva dormire, perché dicevano che si sentiva una voce lamentevole talvolta, e talvolta stizzosa, che diceva per ore e ore: "Che cosa ho fatto mai! Che cosa ho fatto mai!" Ora quella stanza è murata da più di cent'anni, e qui la novella è finita. - Nonna, noi vogliamo una promessa, - disse l'Annina accostandosi alla vecchia e guardando dietro di sé per vedere se i fratelli e i cugini la seguivano per mostrare che ella aveva il diritto di parlare a nome di tutti. - Sentiamola; che cosa chiedi? - disse la Regina. - Vedete, questi piccinucci, benché si divertano tanto a sentirvi raccontare, pure fanno fatica a star desti fino a quest'ora. Da qui avanti non ci potreste dire la novella di giorno, sull'aia, prima che suoni l'avemmaria? Ora le giornate sono lunghe, ed essi si levan coi polli e coi polli vorrebbero andare a letto. - La tua domanda sarà esaudita, - rispose la nonna. - Ma staranno buoni, di giorno, quei monellucci, o non si alzeranno venti volte per correre dietro anche a una mosca che voli? - Non per nulla sono la maggiore di tutti. Io saprò tenerli fermi, e vi prometto che nessuno vi disturberà, rispose l'Annina con molto sussiego. Dopo questo breve colloquio, la matrigna di Vezzosa si alzò, ringraziò la Regina e le fece mille complimenti per la novella; quindi cominciarono gli addii alla sposina. Tutte le donne di casa Marcucci la vollero baciare, tutti gli uomini vollero dirle una buona e affettuosa parola, ed ella, commossa da tante dimostrazioni di simpatia, piangeva e rideva nel tempo stesso. - Via, è ora di andare a letto! - disse Momo per tagliar corto a quell'intenerimento che vinceva anche lui. I bambini accompagnarono Vezzosa per un pezzetto di strada, dicendole: - Domenica non te ne andrai! Anche Gigino le zampettava accanto, reggendola per la sottana e ripetendo ciò che sentiva dire agli altri. In mezzo a tutta quella gente che manifestava liberamente la gioia che sentiva, Cecco solo stava zitto e seguiva Vezzosa a testa bassa. - Sei forse pentito? - gli domandò la ragazza, quando i bimbi l'ebbero lasciata. - Pentito! - esclamò egli. - Sono così felice, che non posso parlare. Non sai che mancano otto giorni soli a domenica? - Sette, non otto, - disse Vezzosa guardandolo affettuosamente, - e fra sette giorni porteremo lo stesso nome e saremo uniti nella gioia e nel dolore. - Nella vita e nella morte, - rispose Cecco in tono solenne, stringendole la mano.

Papa Alessandro lo nominò arcivescovo di Benevento e la sua carica passò all'abate Ridolfo, il quale, edificata l'abbazia di San Fedele a Poppi, andò a stabilirvisi abbandonando Strumi. Ora dell'abbazia e del palazzo non restano altro che pochi avanzi, sui quali è stata costruita una casa di contadini; ma chi scava nei dintorni, trova scheletri grandissimi, e chi dice che sian di monaci, chi dei conti Guidi. In quella casa ci andò sposa una mia sorella, e per questo so tanto bene vita, morte e miracoli dell'abate Lamberto e dell'antipapa. Le mura non parlano, la terra neppure, ma parlano gli uomini, e così parlando, la storia dell'abate Lamberto si è risaputa di padre in figlio e io ho potuto raccontarvela, - terminò la Regina. - Grazie, mamma, - disse Maso, - ma non sarò io che potrò raccontarla come voi; farei un bel pasticcio se mi risolvessi a farlo. - Io però la so benissimo, - disse l'Annina, - e non dubitate, nonna, che questa e le altre novelle che ci avete raccontate, le ho tutte qui, - e accennò il capo. - Così potessi narrarle ai miei nipotini, come fate voi! I Marcucci continuarono un bel pezzo a parlare del monastero di Strumi e delle sue vicende, senza accorgersi che Cecco era sparito alla chetichella. Tutta la sera era stato inquieto, pareva che non avesse terren fermo, e appena la mamma aveva cessato di narrare, era uscito dalla parte che metteva nel cortiletto della stalla, e una volta fuori s'era diretto a passi precipitati verso la casa di Vezzosa. In cucina il lume ardeva ancora e il padre della ragazza stava sull'uscio a fumar la pipa. - Buona sera, Momo? - aveva detto Cecco. L'altro aveva risposto, e da un discorso all'altro eran venuti a parlare delle veglie, e Cecco aveva domandato al contadino: - Come mai non ci avete mandate le vostre figliole stasera? - Oh! queste donne! - esclamò Momo. - Non sanno star d'accordo. Che volete che vi dica; la massaia ha rimproverato Vezzosa perché dice che coll'andar fuori a veglia la domenica, svia tutti quelli che verrebbero da noi a far due chiacchiere; e Vezzosa se l'è avuto a male ed è andata a letto. Vedete, io voglio bene alle figliuole ed è per loro che ho ripreso moglie; ma se sapevo che sarebbero state insieme come cani e gatti, vi giuro io che non avrei messo un'altra donna in casa. - La pace tornerà appena avrete maritate le figliuole, - rispose Cecco. - Maritarle! È una parola. Per Vezzosa s'era presentato un partito; Felice del Masi, lo conoscete? Ebbene, lei non lo vuole; la mi' moglie vorrebbe darglielo, e da qui scene continue, e addio pace! Cecco sossultò a quelle parole, ma non ebbe coraggio di spiegarsi. Bisognava che prima interrogasse la mamma, i fratelli, le cognate, e se il maggior numero di loro si fosse opposto al parentado con Vezzosa? Quella sera Cecco andò a letto tutto turbato e dormì male, cosa che non gli era accaduta mai.

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