Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbandonando

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Se non ora quando

680420
Levi, Primo 2 occorrenze

Poi si rimisero in cammino abbandonando la strada, e tirandosi dietro il cavallo, pigro e restio, e per di più ingombrante per il carico mal disposto, che si impigliava continuamente nei rami bassi. Camminarono a lungo in silenzio, poi Leonid disse: _ Io non so che cosa voglio, ma so di non saperlo. Anche tu non sai cosa vuoi, e invece credi di saperlo. Mendel, che era davanti e tirava il cavallo per la cavezza, non si voltò e non rispose, ma poco dopo Leonid lo attaccò nuovamente: _ Al tuo paese non c' era il cinematografo. Neppure cavalli c' erano? _ C' erano, ma io non ho mai dovuto occuparmene. Facevo un altro mestiere. _ Facevo anch' io un altro mestiere, ma un cavallo come quello non porta un carico così, o non lo porta a lungo. Lo vedrebbe chiunque. C' era poco da obiettare, e del resto era ormai troppo chiaro per proseguire. Si fermarono nel folto presso un ruscello, abbeverarono il cavallo, lo legarono a un tronco, gli diedero l' erba da mangiare e si addormentarono. Quando si svegliarono, a metà pomeriggio, il fagotto era finito, il cavallo aveva brucato i pochi arbusti che si trovavano alla sua portata, e tirava sulla corda per arrivare un po' più lontano; doveva proprio avere una gran fame. Peccato che i sacchi contenessero farina e non biada: provarono a mettergli davanti un po' di farina, ma la bestia si impiastricciò il muso fino agli occhi e poi cominciò a tossire minacciando di soffocare. Dovettero lavarle la bocca e le froge nel ruscello, poi si rimisero in cammino. Si sentiva nell' aria un odore nuovo, fresco e dolciastro: le paludi non dovevano essere lontane. A mezza giornata di cammino da Nivnoe si imbatterono in una contadina anziana e decisero di attaccare discorso. Il cavallo? La donna lo considerò con occhio esperto: _ Eh, povera bestia. Non vale certo molto, è vecchio, stanco, ha fame, e mi sembra anche ammalato. Per la farina è un altro discorso, ma io offerte non ne posso fare perché non ho niente da offrire. Non doveva essere una sciocca. Squadrò i due con occhio altrettanto esperto; quindi, come in risposta a una domanda sottintesa, aggiunse: _ Non abbiate paura, ce n' è tanti come voi da queste parti. Forse anche troppi, ma i tedeschi qui sono pochi e poco pericolosi. Quanto al cavallo e alla farina, ve l' ho detto, io non ho niente da darvi, ma ne posso parlare con l' anziano del paese: sempre che siate d' accordo. Mendel aveva fretta di liberarsi dell' animale; a loro serviva poco o niente, ed anzi, sembrava che con la sua sola presenza stimolasse il malumore di Leonid, il suo spirito critico e la sua voglia di litigare. Si consultò brevemente con lui. No, niente intermediari, era chiaro che la donna avrebbe cercato di fare la sua cresta sull' affare, grossa o piccola. Ma entrambi provavano diffidenza ad entrare nell' abitato. _ Va bene, _ disse Mendel. _ Vedi di combinarci un appuntamento con questo anziano, a metà strada, in qualche luogo appartato: è possibile? _ Era possibile, disse la donna. L' anziano arrivò puntuale, al tramonto, in un capanno che la contadina aveva indicato. Era sulla sessantina, di poche parole, canuto e solido. Sì, lui, o per meglio dire il villaggio, era solvibile: avevano uova, lardo, sale e mele, ma il cavallo valeva poco _ Non c' è solo il cavallo, _ disse Mendel. _ C' è anche un carretto e sei sacchi di farina; due qui e altri quattro nascosti poco lontano insieme col carretto. _ L' affare non è chiaro, _ disse l' anziano: _ Il cavallo e due sacchi si vedono, ma quanto valgono un carro e quattro sacchi che sono nascosti nel bosco, e tu non sai dove, e non sai neppure bene se esistono? Quanto vale un tesoro sulla luna? Leonid fece un passo avanti e intervenne con durezza: _ Valgono quanto vale la nostra parola e la nostra faccia, e se tu non .... L' anziano lo guardò senza perdere la calma; Mendel posò la mano sulla spalla di Leonid e si interpose: _ Fra persone ragionevoli si finisce sempre con l' intendersi. Vedi, la merce è vicina alla strada, presto o tardi qualcuno la troverà, se la porterà via gratis e sarà un danno per noi e per voi; e se ricomincerà a piovere, la farina non resisterà molto tempo. E noi siamo di passaggio; abbiamo fretta di proseguire. L' anziano aveva occhi piccoli e scaltri. Li puntò successivamente sul cavallo, sui sacchi e su Mendel, e disse: _ È brutto avere fretta e dovere andare piano. Se tenete il cavallo, andrete piano come lui. Se lo vendete, e non vendete i due sacchi, con mezzo quintale ciascuno sulle spalle non andrete né in fretta né lontano: tutt' al più andrete a contrattare con qualcun altro. Non avete molte scelte. Mendel colse uno sguardo di Leonid, rapido ma carico di gioia maligna: era la rivincita della sconfitta agli scacchi. Gli argomenti dell' anziano erano forti, e lui avrebbe fatto meglio a non parlare della loro fretta. Non c' era che ripiegare: _ Va bene, vecchio. Veniamo al concreto. Quanto offri per quello che vedi? Per un quintale di farina e il cavallo? Il vecchio si grattò la testa spostando il berretto sugli occhi: _ Uhm, del cavallo è meglio non parlare. Non vale niente, nemmeno come carne da macello. Forse solo la pelle, se conciata a dovere. Quanto alla farina, non si sa da dove viene: non me l' avete detto, potreste anche dirmelo, e io potrei crederci o no; chi fa commercio ha il diritto di dire bugie. Può essere russa o tedesca, comprata o rubata. Io non voglio saperne nulla, e vi offro in cambio otto chili di lardo e una treccia di tabacco, prendere o lasciare; è roba che non pesa troppo, ve la potete portare dietro senza fatica. _ Facciamo dieci, _ disse Mendel. _ Dieci chili, ma allora senza tabacco. _ Dieci chili, e il tabacco per la pelle del cavallo. _ Nove chili e il tabacco, _ disse il vecchio. _ Va bene. E quanto offri per la roba che non si vede? Due quintali di farina e il carro? Il vecchio spinse il berretto ancora più basso: _ Non offro niente. La roba che non si vede è come se non ci fosse. Se c' è, la troviamo anche se tu non dici dov' è; e se anche lo dici, e dici la verità, magari andiamo e non troviamo più niente. C' è tanta gente in giro per la foresta; e non solo gente, anche volpi, topi, corvi: lo hai detto tu stesso, che qualcuno la può trovare. Se ti facessi un' offerta, al villaggio mi riderebbero dietro. Mendel ebbe un' idea: _ Ti faccio una proposta: una notizia contro un' altra notizia, roba che non si vede contro altra roba che non si vede. Noi ti diciamo dov' è il carro e tu ci dici ... insomma, per strada abbiamo colto certe voci, che a Nivnoe, o vicino a Nivnoe, o nelle paludi, c' è o c' è stata certa gente .... Il vecchio rialzò la visiera del berretto e guardò Mendel fisso negli occhi, cosa che non aveva ancora fatta fino a quel momento. Mendel insistette: _ È un buon affare, no? Non ti costa niente: è come se il carro e la farina te li regalassimo; perché ci sono proprio, non ti stiamo imbrogliando, parola di soldato. Con sorpresa di Mendel e Leonid, l' anziano si fece più sciolto, quasi loquace. Sì, un gruppo c' era, c' era stato: una banda. Cinquanta uomini, o forse anche cento, del luogo e non del luogo. Alcuni, una mezza dozzina, erano ragazzi del suo villaggio: meglio darsi alla macchia che finire in Germania, non è vero? Armati, sì, e anche in gamba, delle volte un po' troppo. Ma erano partiti, da pochi giorni, con le armi, i bagagli e qualche bestia. Che fossero partiti era meglio per tutti. Verso dove? No, questo lui non lo sapeva con certezza, non aveva visto niente; qualcuno però li aveva visti in cammino, e sembrava che marciassero in direzione di Gomel o di Zlobin. Se loro due prendevano il sentiero di Zurbin, era una scorciatoia; forse avrebbero potuto raggiungerli. Se ne andò, tornò dopo mezz' ora con il lardo, il tabacco e una stadera, affinché i due potessero controllare che il peso era giusto. A controllo ultimato, Mendel gli spiegò con precisione dove era nascosto il carro. Inaspettatamente, il vecchio cavò dalla bisaccia una dozzina di uova sode: disse che era un di più, un regalo che faceva loro, perché erano persone simpatiche; ed anche un indennizzo, perché sarebbe stato suo dovere d' ospitalità offrire loro da dormire, ma il consiglio del villaggio si era opposto. Li guidò fino al sentiero e si congedò, tirandosi dietro il cavallo con i due sacchi. _ Se non ci avesse riconosciuti per ebrei, stanotte avremmo dormito in un letto, _ borbottò Leonid. _ Può darsi, ma anche se ce l' avesse offerto, è da vedere se avremmo fatto bene a accettare. Non sappiamo niente di questo villaggio, che gente ci vive, cosa pensano, se hanno solo paura o se lavorano per i tedeschi. Non so, è solo un' impressione, ma mi sarei fidato di più della vecchietta che di questo anziano: più che un amico mi è parso un mezzo amico. Aveva fretta di liberarsi di noi; per questo ci ha dato le uova e ci ha insegnato la strada. E del resto, ormai abbiamo preso una decisione, non è vero? _ Quale decisione? _ domandò Leonid ostile. _ Di raggiungere la banda, no? _ È una decisione che hai preso tu. Non mi hai chiesto niente. _ Non c' era bisogno di chiedere. Sono giorni che se ne parla, e tu sei sempre stato zitto. _ E adesso non sto più zitto. Se vuoi andare con la banda, ci vai da solo. Io di guerra ne ho abbastanza. Tu hai le armi e io ho il lardo: a me va bene così. Me ne torno al villaggio, e un letto lo trovo, e non per una notte sola. Mendel si voltò e si fermò di netto. Non era preparato a far fronte alla collera; tanto meno alla collera di un debole, e in Leonid sentiva un debole. Neppure era preparato all' uragano di parole che Leonid, fino allora così silenzioso, gli soffiava sulla faccia. _ Basta: basta! Ti ho incontrato nel bosco, ma non ti ho sposato. Ho creduto che tu ne avessi abbastanza quanto me: mi sono sbagliato, pazienza. Ma per me basta, non faccio un passo di più. Vacci tu nelle paludi: hai avuto paura a dormire nel villaggio, e adesso mi vuoi portare con gente che non sai neppure che lingua parlino, e se ci vogliano con loro, e da dove vengano e dove vadano. Io sono di Mosca, ma le braccia le ho buone, e la testa anche; di fame non muoio piuttosto vado a lavorare in un kolchoz, o nelle fabbriche dei tedeschi. Non faccio più un passo e non sparo più un colpo, mai più. Non è giusto, non è giusto che uno .... E poi neanche tu sai quello che vuoi: te l' ho già detto, credi di saperlo e non lo sai. Fai l' eroe, ma anche tu vuoi quello che voglio io, una casa, un letto, una donna, una vita che abbia un senso, una famiglia, un paese che sia il tuo paese. Vuoi andare coi partigiani, credi di volerlo, ma non sai quello che vuoi e quello che fai, me ne sono accorto con la faccenda del cavallo. Sei uno che racconta bugie a se stesso. Sei uno come me. Sei un nebech, un disgraziato e un meschugge _. Leonid si piegò lentamente su se stesso e si sedette a terra, come se avesse sputato l' anima e non avesse più la forza di reggersi sulle gambe. Mendel era rimasto in piedi, più incuriosito e sorpreso che incollerito. Si accorse che aspettava quello sfogo da parecchio tempo. Lasciò a Leonid il tempo di calmarsi un poco, poi sedette accanto a lui. Gli toccò la spalla, ma il ragazzo si ritrasse di scatto come se lo avesse toccato un ferro rovente. Nebech è un uomo dappoco, inerme, inutile, da commiserarsi, un quasi-non-uomo, e meschugge significa matto, ma Mendel non si sentiva offeso, né tanto meno in vena di restituire l' offesa. Si stava invece domandando perché Leonid, la cui lingua madre era il russo, si fosse servito del jiddisch, che parlava con stento, in quella occasione: ma il jiddisch, tutti lo sanno, è un immenso serbatoio di insolenze pittoresche, ridicole o sanguinose, ognuna con la sua sfumatura specifica: poteva essere una spiegazione. "Un ebreo ti dà un pugno sul naso e poi grida aiuto", pensò, ma non enunciò il proverbio ad alta voce. Disse invece, con una voce così calma che ne stupì lui stesso: _ Si capisce: neanche per me è una scelta facile, ma credo che sia la migliore. Un uomo deve pesare bene le sue scelte _. Ed aggiunse con intenzione: _ ... e anche le sue parole _. Leonid non rispose. Era ormai quasi buio; Mendel avrebbe preferito camminare di notte, ma quel sentiero era disagevole e mal segnato. Propose di bivaccare sul posto, dal momento che la sera era tiepida e la notte corta; Leonid accettò con un cenno del capo. Si avvolsero nelle coperte, e Mendel era già quasi addormentato quando Leonid, come se continuasse un discorso iniziato da tempo, prese a un tratto a dire: _ Mio padre era ebreo, ma non era credente. Era nelle ferrovie, poi è stato accettato nel Partito. Ha fatto la guerra del '20 contro i bianchi. E poi mi ha messo al mondo, e poi lo hanno mandato in prigione, e poi alle isole Solovki, e non è più tornato. Ecco come stanno le cose. Era già stato nelle prigioni dello Zar, prima che io nascessi, ma da quelle era tornato. Lo hanno mandato alle Solovki perché dicevano che aveva sabotato la ferrovia: che se i treni non partivano era colpa sua. Ecco. Detto questo, Leonid si girò sull' altro fianco voltando la schiena a Mendel, come se l' argomento fosse concluso. Mendel pensò che quella era una strana maniera di scusarsi, e subito dopo convenne con se stesso che era tuttavia una maniera di scusarsi. Lasciò passare qualche minuto, e poi chiese timidamente a Leonid: _ E tua madre? _ Leonid grugnì: _ Adesso lasciami stare. Per favore lasciami stare. Per questa volta basta _. Tacque e non si mosse più, ma Mendel si accorse bene che non dormiva: fingeva soltanto. Insistere perché continuasse era inutile, anzi nocivo; come raccogliere un fungo appena spuntato. Gli si impedisce di crescere, e non si porta a casa niente. Camminarono per due settimane, a volte di giorno, a volte di notte, con la pioggia e col sole. Leonid non parlò più, né per raccontare né per dissentire: accettava cupo le decisioni di Mendel, come un servo svogliato. Incontrarono poca gente, un villaggio bruciato, e tracce sempre più abbondanti della banda che li precedeva: ceneri dei fuochi di bivacco ai margini della pista, orme nel fango essiccato, avanzi di cucina, qualche coccio e qualche straccio; quella gente non prendeva molte precauzioni per non farsi notare. Sul luogo di una sosta notarono addirittura un albero tempestato di pallottole: qualcuno si doveva essere esercitato al tiro al bersaglio, forse avevano fatto una gara. Raramente furono costretti a domandare indicazioni alla gente del luogo; sì, erano passati di lì, diretti dalla tale parte. Sbandati, o disertori, o partigiani, o banditi, a seconda dei punti di vista; comunque, ed a parere di tutti, gente che faceva la sua strada senza dare troppi fastidi né pretendere troppo dai contadini. Li raggiunsero una sera: li videro e li sentirono quasi allo stesso tempo. Mendel e Leonid si trovavano sulla sommità di una collina: videro le anse pigre di un grande fiume, senza dubbio il Dnepr, e poco lontano dalla sponda, a tre o quattro chilometri da loro, brillava un fuoco. Iniziarono la discesa, ed udirono spari, disordinati, di fucile e di pistola; videro lampi rossi, seguiti dai colpi più sordi delle granate a mano. Un combattimento? E contro chi? E allora perché il fuoco? O una lite, una rissa fra due fazioni? Ma in una pausa fra gli spari distinsero il suono di una fisarmonica e grida e richiami allegri: non era una battaglia ma una festa. Si avvicinarono cautamente. Non c' erano sentinelle, nessuno li fermò. Intorno al fuoco c' era una trentina di uomini barbuti, giovani e meno giovani, vestiti in molti modi diversi, vistosamente armati. La fisarmonica suonava una canzone dal ritmo alacre, alcuni lo accompagnavano battendo le mani, altri ballavano con furia, con tutte le armi addosso, piroettando sui tacchi, in piedi e accovacciati. Qualcuno doveva averli visti; una voce impastata ma tonante gridò assurdamente: _ Siete tedeschi? _ Siamo russi, _ risposero i due. _ Allora venite. Mangiate, bevete e ballate! La guerra è finita! _ Seguì, in funzione di punto esclamativo, una lunga raffica di parabellum, sgranata contro il cielo arrossato dal fuoco e dal fumo. La stessa voce, improvvisamente incollerita e rivolta nella direzione opposta, riprese: _ Stiooopka, cretino, figlio d' un corvo, porta bottiglie e gavette, non lo vedi che abbiamo ospiti? Era oramai scuro, ma si intravedeva che l' accampamento, assai sommario, si condensava intorno a tre centri: il fuoco, attorno a cui era un andirivieni chiassoso di uomini in festa; una grossa tenda, davanti alla quale dormicchiavano due cavalli legati a due cavicchi; più in disparte, tre o quattro giovani silenziosi che armeggiavano intorno a qualche cosa. L' uomo dalla voce tonante venne loro incontro tenendo in mano una bottiglia di vodka. Era un giovane colosso biondo, con i capelli tagliati a spazzola e con la barba arricciata che gli arrivava fino a mezzo il petto. Aveva un bel viso ovale dai tratti regolari eppure fortemente segnati, ed era ubriaco al punto che stentava a reggersi in piedi: sull' uniforme dell' Armata Rossa che indossava non portava gradi. _ Alla vostra salute, _ disse, bevendo un sorso dal collo della bottiglia. _ Salute a voi, chiunque siate _. Poi porse la vodka ai due, che bevvero e restituirono il brindisi. _ Stiopka, scemo, lumacone, arrivi con questa zuppa? _ Poi continuò, rivolgendosi a loro con un sorriso radioso e candido: _ Bisogna perdonarlo, forse ha bevuto un po' troppo, ma è un bravo compagno. Anche coraggioso, tenuto conto che è un cuoco; ma svelto no, eh no, non è tanto svelto. Oh, eccolo qui. Speriamo che la zuppa non si sia freddata per strada. Su, mangiate, poi andiamo a sentire se ci sono altre notizie. Contrariamente all' opinione del colosso, Stiopka non appariva né tanto lento né tanto sciocco. _ No, Venjamìn Ivanovic, non si riesce proprio. Hanno provato un po' tutti, a turno, ma la voce è sempre più debole. Non si capisce più niente, si sentono solo le scariche. _ Sono dei buoni a nulla, che li porti via il diavolo! Proprio oggi dovevano guastarla! Giudicate voi stessi: la guerra finisce, da un momento all' altro deve venire fuori Stalin a dire che andiamo tutti a casa, e questi figli di puttana mandano la radio kaputt .... Ma come, voi non sapete niente? Gli americani sono sbarcati in Italia, noi abbiamo ripreso Kursk, e Mussolini è in prigione. È in prigione, sì, come un merlo in gabbia; lo ha messo in prigione il re. Su, compagni, bevete ancora una volta: alla pace! Leonid bevve, Mendel fece mostra di bere, poi seguirono Venjamìn al posto radio. _ È proprio la radio dell' usbeco! _ disse a Leonid Mendel, che alla luce delle lanterne aveva visto le targhette dell' apparecchio: _ Ma è chiaro che con batterie come queste non poteva andare avanti tanto tempo. È già un miracolo che abbia durato fino adesso _. Mendel riuscì ad interporsi fra Venjamìn, che continuava a tempestare improperi e futili minacce, e i tre ragazzi addetti alla ricezione. Ne nacque un' arruffata discussione tecnica che si trascinò per parecchi minuti, spesso interrotta dalle intemperanze di Venjamìn e di altri barbuti che erano venuti a curiosare e a dire il loro parere. _ Di radio, io ne capisco poco, ma questi non ne capiscono proprio niente, _ borbottò Mendel a Leonid. Alla fine prese corpo la proposta di provare a sostituire l' elettrolita delle batterie con acqua e sale. Venjamìn la fece subito sua, convocò Stiopka , diede ordini confusi: venne l' acqua e il sale, l' operazione fu compiuta fra visi intenti, in un' atmosfera di attesa religiosa, e le batterie furono nuovamente connesse, ma la radio diffuse soltanto una stupida musichetta per pochi secondi e poi ammutolì definitivamente. Venjamìn era diventato di cattivo umore e se la prendeva con tutti. Si rivolse a Leonid, come se lo vedesse per la prima volta: _ E voi due, da dove saltate fuori? Russi? Proprio russi non sembrate; ma oggi ci passiamo su, anche se avete sfasciato la radio, perché oggi è un giorno di festa _. Mendel disse a Leonid: _ Vedremo domani, quando gli sarà passata la sbornia, ma mi pare che non si metta tanto bene. Furono svegliati l' indomani dai rumori pacifici del campo. I cavalli stavano pascolando sulla riva del fiume, uomini nudi si lavavano o diguazzavano nell' acqua bassa, altri si rammendavano i panni o facevano il bucato, altri ancora stavano sdraiati al sole, e nessuno sembrava curarsi di loro due. Erano in maggior parte russi, ma si sentivano anche grida e canti in lingue che Mendel non riuscì a individuare. A mattina avanzata venne Stiopka a cercarli: _ Mi vorreste aiutare? C' è un malato, là dentro la tenda; si lamenta, ha la febbre, e io non so che cosa fare. Volete venire con me? _ Ma noi non siamo medici ... _ obiettò Leonid. _ Neanch' io sono medico, e neppure infermiere, ma sono il più anziano della banda; e poi ho perso le armi quando abbiamo fatto l' assalto alla stazione di Klintsy, e allora mi fanno fare un po' di tutto, ma in battaglia non mi mandano più. Faccio anche la guida, perché questi posti li conosco bene, meglio di tutti, meglio di Venja stesso; facevo già la guida nel 191., per i partigiani rossi, proprio da queste parti, e non c' è sentiero, guado o strada che io non abbia percorso dozzine di volte. Insomma, mi dànno anche da curare i malati, e voi mi dovreste aiutare: ha la febbre, e la pancia dura come una tavola di legno. Mendel disse: _ Non capisco perché insisti proprio con noi. Io non me ne intendo più di un altro. Stiopka fece una faccia imbarazzata: _ È perché ... dicono che voialtri, fin dai secoli lontani, siate bravi a .... _ Noialtri non siamo diversi da voi. I nostri medici sono bravi quanto i vostri, non più e non meno, e un ebreo che non sia medico, e curi un malato, rischia di farlo morire tanto quanto un cristiano. Tutto quello che ti posso dire, è che io sono un artigliere, e di gente con la pancia aperta ne ho vista anche troppa, dopo i bombardamenti, e chi ha la pancia aperta non deve bere: ma questa è un' altra storia. Leonid intervenne: _ Mi pare che il vostro capo sia un tipo in gamba: perché non lasci fare a lui? Ci sarà pure un paese o un villaggio nelle vicinanze; il malato portatelo là, starà certo meglio che qui nel campo, e un medico finirà col trovarsi. Stiopka scosse le spalle: _ Venjamìn Ivanovic è in gamba per altre cose. È coraggioso come un demonio, sa molti trucchi e altri li inventa, sa farsi rispettare e anche temere, non è mai sfiduciato, ed è forte come un orso: ma è bravo solo per la battaglia. E poi gli piace bere, e quando beve cambia umore da un momento all' altro. Seguirono Stiopka al giaciglio del malato, per non scontentarlo. Era un tartaro che aveva disertato dalla polizia tedesca, e ancora ne vestiva la divisa. A Mendel non parve tanto grave: aveva bensì il ventre un po' teso, ma non provava dolore alla palpazione, ed anche la febbre non doveva essere molto alta. Il suo stato di nutrizione era buono; Mendel cercò di rassicurare Stiopka, gli consigliò di tenerlo a digiuno per un giorno e di non dargli medicine. _ Nessun pericolo, _ disse Stiopka, _ medicine non ce n' è. Avevamo un po' di aspirina ma l' abbiamo finita. Uscendo dalla tenda si imbatterono in Venjamìn. Era irriconoscibile: non era più né l' ospite facilone, ubriaco di vodka e di vittoria, né il grosso bambino deluso per la radio guasta. Era un esemplare umano temibile, un giovane guerriero dalle movenze pronte e precise, dal viso intelligente e dallo sguardo intenso ma illeggibile. _ Un' aquila, _ pensò Mendel fra sé, _ bisognerà stare in guardia. _ Venite con me, _ disse Venjamìn con autorità tranquilla. Si appartò con loro in un angolo della tenda, e chiese loro chi fossero, da dove venissero e dove andassero; parlava con la voce sommessa e sicura di chi sa di essere obbedito. _ Io sono artigliere, questo è un paracadutista. Siamo dispersi, ci siamo trovati per caso nei boschi di Brjansk. Abbiamo avuto notizia di questa banda, vi abbiamo cercati e vi abbiamo raggiunti. _ Da chi avete avuto notizia? _ Dall' usbeco che ti ha venduto la radio. _ Perché ci avete inseguiti? Mendel esitò per un istante: _ Perché vorremmo entrare nella banda. _ Siete armati? _ Sì: un fucile mitragliatore, una pistola tedesca e un po' di munizioni. Senza cambiare tono, Venjamìn si rivolse a Leonid: _ E tu, perché non parli? Leonid rispose con imbarazzo che lasciava parlare Mendel perché era il più anziano, e perché le armi erano sue. _ Le armi non sono sue, _ disse Venjamìn: _ Le armi sono di tutti: le armi sono di chi le sa usare _. Tacque per un momento, come se aspettasse una reazione; ma anche Leonid e Mendel rimasero silenziosi. Poi riprese: _ Perché volete venire in banda? Rispondete separatamente. Tu? Leonid, preso alla sprovvista, si sentiva la lingua legata. Aveva l' impressione di essere retrocesso alle interrogazioni scolastiche; peggio ancora, all' interrogatorio umiliante che aveva subito quando lo avevano arrestato e rinchiuso alla Lubjanka. Mormorò qualcosa sui doveri del soldato e sul desiderio di riabilitarsi dalla condizione di disperso. _ Tu sei stato prigioniero dei tedeschi, _ disse Venjamìn. _ Come lo sai? _ intervenne Mendel sorpreso. _ Le domande le faccio io. Ma glielo si vede in faccia. E tu, artigliere: perché vuoi venire con noi? Mendel si sentiva pesato come su una bilancia, e irritato di essere pesato. Rispose: _ Perché sono disperso da un anno. Perché sono stanco di vivere come un lupo. Perché ho un conto mio da saldare. Perché credo che la nostra guerra sia giusta. La voce di Venjamìn si fece ancora più sommessa: _ Ci avete trovati ieri in un giorno strano, bello e brutto. Un giorno bello, perché la notizia che avete sentita è vera, la radio l' ha ripetuta due volte, Mussolini è caduto. Ma non è detto che la guerra finirà presto; ieri sera ce lo siamo gridati nelle orecchie l' uno con l' altro, ciascuno convinceva gli altri, e ciascuno era pronto a farsi convincere, perché la speranza è contagiosa come il colera. Ieri sera eravamo in vacanza, ma noi i tedeschi li conosciamo: stanotte ci ho ripensato, e credo che la guerra durerà ancora a lungo. E ieri è stato anche un giorno brutto perché la radio si è guastata. È più grave di quanto voi pensiate: una banda senza radio è una banda orfana, sorda e muta. Senza la radio noi non sappiamo dov' è il fronte, e a Mosca non sanno dove siamo noi, e non possiamo chiamare gli aerei per i lanci: tutto viene attraverso la radio, le medicine, il grano, le armi, perfino la vodka. Con le notizie della radio arriva anche il coraggio. E siccome senza grano non si vive, quando manca bisogna prenderlo ai contadini, così una banda senza radio diventa una banda di banditi. Queste cose è bene che voi le sappiate, e che ci pensiate sopra prima di decidere. Ed è bene che sappiate anche qualche altra cosa. Che otto mesi fa eravamo cento, e adesso siamo meno di quaranta. Che nella nostra guerra non c' è mai un giorno uguale a un altro: si è un po' ricchi e un po' poveri, un giorno sazi e un giorno affamati. E che non è una guerra per chi ha i nervi deboli: veniamo di lontano e andiamo lontano, e i deboli sono morti o se ne sono andati. Pensateci sopra; e prima di darvi una risposta ci penserò sopra anch' io. Si udì uno squillo metallico. La zuppa di mezzogiorno era pronta, e Stiopka aveva suonato l' adunata battendo con un sasso contro un pezzo di rotaia appeso a un ramo. Tutti si misero in fila davanti alla marmitta, anche Venja, Mendel e Leonid, e Stiopka fece la distribuzione. Quasi tutti avevano finito di mangiare, e molti si erano già stesi al sole a fumare, quando dalla sponda venne una voce che gridava: _ Arrivano tronchi! _ Arrivavano, infatti, navigando lenti sul filo della corrente: grossi tronchi senza rami, sparsi, alla spicciolata. Venjamìn si avvicinò all' acqua e si fece attento. Domandò a Stiopka: _ Da dove vengono? _ Di solito vengono dal molo di Smolensk, trecento chilometri più a monte; si è sempre fatto così, costa meno che mandarli per ferrovia. Vanno giù in Ucraina, per armare le miniere. _ Si è sempre fatto così, ma adesso le miniere lavorano per i tedeschi, _ disse Venjamìn fregandosi il mento. In quel momento, alla svolta del fiume, apparve qualcosa di più grosso: era un convoglio di zattere legate in fila fra loro, forse una decina, che comparivano una dopo l' altra da dietro una lingua di terra boscosa. _ Bisogna acchiapparle, _ disse Venjamìn. _ È un mestiere che io non ho mai fatto, ma l' ho visto fare, _ disse Stiopka: _ Più giù, a un chilometro, c' è un ramo morto; se facciamo svelti, arriviamo in tempo. Ma ci vogliono degli spuntoni. In un attimo Venja fu padrone della situazione. Lasciò dieci uomini di guardia al campo, mandò altri dieci con le scuri ad abbattere e diramare alberelli, e scese rapidamente lungo la riva con quelli che rimanevano, fra cui Leonid e Mendel. Arrivarono al ramo morto prima del legname, e poco dopo giunsero i dieci con gli spuntoni, ma il convoglio era già in vista. _ Presto, chi è il più bravo a nuotare? Tu, Volodia! _ Ma Volodia, fosse un vero impedimento o cattiva volontà, non riuscì a liberarsi in tempo degli stivali: stava accoccolato a terra tutto contorto, congestionato in viso dallo sforzo, e Venja si spazientì. _ Buono a nulla, fannullone! Su, dammi quel legno _. In un attimo fu scalzo e nudo. Un po' a guado, un po' nuotando con una mano sola, attraversò l' acqua morta, ma quando ebbe raggiunto la punta erbosa che separava i due rami del fiume, il convoglio di zattere la stava già sorpassando. Lo si udì bestemmiare e lo si vide riimmergersi nella corrente; altri uomini lo seguirono con altri spuntoni. Nuotò veloce incontro alle zattere, perse le prime, riuscì a salire sull' ultima, e subito manovrò con la pertica in modo da deviarla sulla punta erbosa, dove si arenò nella melma: ma si vide subito che non vi sarebbe rimasta a lungo, le altre zattere, trascinate mollemente dalla corrente, tiravano sull' ormeggio, e un solo uomo non avrebbe potuto resistere. Senza fiato, Venja gridò agli uomini di salire ciascuno su una delle zattere; puntando forte ciascuno con la sua pertica sul fondo fangoso, riuscirono ad allontanare il convoglio dalla sponda, a risalire la corrente, ad aggirare la punta, ed a spingere trionfalmente il legname nell' acqua ferma del ramo morto. _ Va bene così, _ disse Venjamìn rivestendosi, _ vedremo, magari lo tireremo poi a riva e gli daremo fuoco; basta che non vada alle miniere. Torniamo al campo. Nella breve marcia di ritorno, Mendel gli si affiancò e si complimentò con lui. _ Lo so bene, per i tedeschi non è stato un gran danno _, rispose Venjamìn. _ Ma per gente come questa, non c' è niente di peggio che l' inazione. E niente di meglio che l' esempio. Asciugatevi, voi due, e poi venite da me alla tenda. Nella tenda, Venjamìn entrò subito in argomento: _ Ci ho pensato sopra, e non è facile. Vedete, a modo nostro noi siamo degli specialisti: conosciamo questa zona, siamo allenati. Avervi con noi sarebbe una responsabilità. Ammetto che voi siate buoni combattenti; noi, vedete, più che combattenti siamo gente di retroguardia, siamo guastatori, diversionisti. Ognuno di noi ha i suoi compiti, che non si imparano in pochi giorni. E poi .... _ Stamattina non parlavi così, _ disse Mendel. Venja abbassò gli occhi. _ No, non parlavo così. Ecco, io non ho niente contro di voi; ho avuto amici ebrei fin da bambino, altri li ho avuti come compagni a Voronez, al centro di addestramento, e so che siete gente come tutti gli altri, né meglio né peggio, anzi, forse anche un po' più .... _ A me basta così, _ disse Leonid. _ Se non ci vuoi ce ne andiamo, e sarà meglio per tutti. Non ci metteremo in ginocchio per .... Mendel lo interruppe: _ Io però voglio sapere da te che cosa è accaduto fra questa mattina e adesso. _ Niente. Non è accaduto niente, nessun fatto. È solo successo che ho sentito gente parlare, e che .... _ Siamo soldati, tu e io. Portiamo la stessa divisa, e io voglio sapere da te chi ha parlato e che cosa è stato detto. _ Non ti dirò chi ha parlato: non ha parlato uno solo. Per me, io vi accetterei, ma non posso impedire ai miei uomini di parlare; e non so se avreste le spalle sicure. Qui c' è gente di diverse idee, e svelta di mano. Mendel insistette: voleva sapere, parola per parola, quello che Venjamìn aveva sentito, e Venjamìn glielo ripeté, col viso di chi sputa un boccone di cibo guasto: _ Dicono che a loro gli ebrei piacciono poco, e ancora meno quando sono armati. Intervenne Leonid: _ Noi ce ne andiamo, e tu dirai a quei tuoi uomini che a Varsavia, in aprile, gli ebrei armati hanno resistito ai tedeschi più a lungo dell' Armata Rossa nel '41. E non erano neppure bene armati, e avevano fame, e combattevano in mezzo ai morti, e non avevano alleati. _ Come sai queste cose? _ chiese Venjamìn. _ Varsavia non è così lontana, e le notizie corrono anche senza la radio. Venjamìn uscì dalla tenda, parlò sottovoce con Stiopka e con Volodja, poi rientrò e disse: _ Le armi ve le dovrei togliere, e invece non ve le tolgo. Avete visto chi siamo e dove siamo, non vi dovrei lasciare partire, e invece vi lascio partire: un giorno con noi è stato poco, ma forse quello che avete visto vi servirà. Partite, tenete gli occhi aperti, e andate a Novoselki. _ Perché a Novoselki? Dov' è Novoselki? _ Nell' ansa dello Ptic, centoventi chilometri a ponente, in mezzo alle paludi di Polessia. Pare che là ci sia un villaggio di ebrei armati, uomini e donne. Ce ne hanno parlato i guardaboschi, quelli girano dappertutto e sanno tutto, sono il nostro telegrafo e il nostro giornale. Forse là le vostre armi vi saranno utili. Con noi non potete restare. Mendel e Leonid si congedarono, attraversarono il Dnepr su una zattera fatta di quattro tronchi legati insieme, e ripresero la strada. Camminarono per dieci giorni. Il tempo si era guastato, pioveva spesso, ora in rovesci improvvisi, ore in uno spolverio fine e penetrante che era quasi una nebbia; i sentieri erano fangosi, e i boschi emanavano un odore pungente di funghi che faceva già presagire l' autunno. I viveri incominciavano a scarseggiare; dovettero fermarsi di notte presso le rade fattorie a disseppellire patate e barbabietole. Nel bosco c' erano mirtilli e fragole in abbondanza, ma dopo una o due ore di raccolta la fame cresceva invece di diminuire; la fame e l' irritazione di Leonid: _ Questa è roba buona per scolari in vacanza. Solletica lo stomaco invece di riempirlo. Mendel rimuginava tra sé le notizie apprese al campo di Venjamìn. Che peso potevano avere? Raccontate così, senza un commento, senza una valutazione globale, erano irritanti come i mirtilli, e lasciavano la mente altrettanto affamata. Mussolini in prigione, e il re ritornato al potere. Che cosa è un re? Una specie di Zar, bigotto e corrotto, una cosa di altri tempi, un personaggio di fiaba con alamari, pennacchio e spadino, arrogante e vile; invece questo re d' Italia doveva essere un alleato, un amico, dal momento che aveva fatto catturare Mussolini. Era un peccato che in Germania non ci fosse più il Kaiser, se no forse la guerra avrebbe potuto finire davvero, come diceva Venjamìn da ubriaco. Che in Italia fosse caduto il fascismo era certo una buona notizia, ma che importanza poteva avere? Era difficile farsene un' idea: negli articoli della Pravda l' Italia fascista era stata descritta volta a volta come un avversario pericoloso e infido, o come uno spregevole sciacallo nell' ombra della belva tedesca; di certo, i soldati italiani sul Don avevano resistito poco, erano male equipaggiati e male armati e non avevano voglia di combattere, questo lo sapevano tutti. Forse anche loro ne avevano abbastanza di Mussolini, e il re aveva seguito la volontà del popolo, ma in Germania non c' erano re, c' era solo Hitler: era meglio non farsi illusioni. Se un re è un personaggio da favola, un re d' Italia è due volte da favola, perché l' Italia stessa è favola. Era impossibile farsene un' immagine concreta. Come si può condensare nella stessa immagine il Vesuvio e le gondole, Pompei e la Fiat, il teatro della Scala e le caricature di Mussolini che si vedevano sul Krokodìl, quella specie di bandito da strada con la mascella da iena, il fez col fiocco, il pancione da capitalista e il coltello in mano? Eppure era stato proprio quel re che ... mah, impossibile capire. Mendel avrebbe dato un patrimonio per avere una radio, ma era un puro modo di dire: da barattare non avevano più niente, salvo il mitra e la pistola, e quelli era meglio tenerli. Chissà se c' erano ebrei in Italia. Se sì, dovevano essere ebrei strani: come puoi figurarti un ebreo in gondola o in cima al Vesuvio? Ma ci dovevano pure essere, ci sono ebrei perfino in India e in Cina, e non è detto che ci stiano male. È da vedere se avevano ragione i sionisti di Kiev e di Kharkov, che predicavano che gli ebrei stanno bene solo in Terra d' Israele, e che dovrebbero partire dall' Italia, dalla Russia, dall' India e dalla Cina e radunarsi tutti laggiù, a coltivare gli aranci, a imparare l' ebraico e a ballare la Hora tutti in cerchio. Forse per la stanchezza, forse per l' umidità, la cicatrice fra i capelli di Mendel aveva cominciato a prudere. Gli stivali di Leonid si erano scuciti, e i suoi piedi diguazzavano nell' acqua e nel fango. Mendel sentiva alle spalle la presenza negativa di Leonid, il peso del suo silenzio: lo impedivano nel cammino più del fango. Non era più solo il fango della pioggia, il fango fertile che viene dal cielo, e va accettato alla sua stagione: a mano a mano che avanzano verso ponente si imbattevano sempre più spesso in un fango diverso, permanente, padrone dei luoghi, che veniva dalla terra e non dal cielo. Il bosco si era diradato, si incontravano radure estese, ma senza traccia di opera umana. La terra non era più nera né argillosa, bensì di un pallore di cadavere; benché umida, era magra, sabbiosa, e sembrava gemere acqua dal suo stesso grembo. Pure non era sterile: alimentava aiuole di canne, piante succulente che Mendel non aveva mai visto, e vasti cuscini di arbusti dalle foglie appiccicose, proni a terra come se annoiati del cielo. Si affondava nel terreno, o nelle foglie marcite, fino al malleolo: Leonid si tolse gli stivali ormai inutili, e presto Mendel lo imitò; i suoi tenevano ancora bene, ma era peccato consumarli. Al settimo giorno di cammino divenne un problema trovare un lembo di terra asciutta per passare la notte, benché la pioggia fosse cessata. All' ottavo giorno si fece difficile anche mantenere la direzione: non avevano bussola, il cielo schiariva di rado, e il sentiero era interrotto sempre più spesso da specchi d' acqua poco profondi, che tuttavia li costringevano a deviazioni snervanti. Era acqua ferma, limpida, dall' odore di torba, su cui galleggiavano foglie spesse e rotonde, fiori carnosi e qualche nido di uccello. Vi cercarono invano le uova: non c' erano uova, solo frammenti di guscio e piume macerate. Trovarono invece rane, in abbondanza: rane adulte grosse un palmo, girini, e ghirlande vischiose di uova di rana. Ne catturarono diverse senza difficoltà, le arrostirono su stecchi e le mangiarono, Leonid con l' avidità ferina del ventenne affamato, Mendel stupito di percepire in sé la traccia della repulsione atavica per le carni vietate. _ Come in Egitto al tempo di Mosè, _ disse Mendel tanto per avviare un discorso. _ Ma non ho mai capito come potessero essere una piaga: gli egiziani avrebbero potuto mangiarle, come facciamo noi. _ Le rane erano una piaga? _ domandò Leonid masticando. _ La seconda piaga: Dàm, Tzefardéà; tzefardéà sono le rane. _ E qual era la prima? _ Dàm, il sangue, _ rispose Mendel. _ Il sangue lo abbiamo avuto, _ disse Leonid sopra pensiero. _ E le altre? quelle che vengono dopo? Per aiutare la memoria, Mendel prese a canticchiare la filastrocca che si recita a Pasqua per divertire i bambini: "dàm, tzefardéà , kinìm, 'arov ..."; poi tradusse in russo: sangue, rane, pidocchi, belve, scabbia, peste, grandine, cavallette .... Ma si interruppe prima di finire l' elenco per chiedere a Leonid: _ Tu, da bambino, non hai mai fatto Pasqua? Si pentì subito della domanda. Pur senza smettere di mangiare, Leonid aveva distolto il viso da lui, e il suo sguardo si era fatto fisso e torvo. Dopo qualche minuto, con apparente incoerenza, disse: _ Quando hanno mandato mio padre alle Solovki, mia madre non lo ha aspettato. Non lo ha aspettato molto tempo. Mi ha messo in un orfanotrofio, è andata a vivere con un altro, e di me non si è più occupata. Mi veniva a trovare due o tre volte all' anno, con quell' altro. Era un ferroviere anche lui, e parlava sempre sottovoce. Forse aveva paura di finire anche lui alle isole; aveva paura di tutto. A quanto ne so, stanno ancora insieme. E io adesso ne ho abbastanza. Abbastanza di camminare verso non si sa dove. Abbastanza di sangue e di rane, e vorrei fermarmi, e vorrei morire. Mendel non rispose: si rendeva conto che il suo compagno non era di quelli che si guariscono con le parole; forse nessuno che avesse sulla schiena una storia come la sua sarebbe guarito a parole. Eppure si sentiva in debito verso di lui, in colpa, in mancanza, come se si vedesse qualcuno che annega in poca acqua e non chiama aiuto, e siccome non chiama aiuto lo si lasciasse affondare. Per aiutarlo, bisognava capirlo, per capirlo bisognava che lui parlasse, e lui non parlava che così, quattro parole e poi silenzio, con lo sguardo che sfuggiva il suo sguardo. Era pronto a ferire e pronto a essere ferito. Se lui Mendel avesse provato a forzare la mano? Poteva essere pericoloso: come quando si imbocca male una vite nel bullone e si sente la resistenza; se si sforza col cacciavite, il filetto si spana e la vite è da gettare. Se invece si ha pazienza e si ricomincia da capo, si avvita tutta senza fatica, e poi rimane ben salda. Ci vuole pazienza, anche per chi non ce l' ha. Specialmente per chi non ce l' ha. Per chi l' ha persa. Per chi non l' ha mai avuta. Per chi non ha mai avuto il tempo e l' argilla per costruirsela. Stava per rispondergli: "Se davvero vuoi morire, non ti mancherà l' occasione"; invece gli disse: _ Dormiamo. Almeno stasera abbiamo la pancia piena. Al nono giorno di cammino il sentiero era praticamente scomparso: lo si poteva riconoscere a tratti, sulle lingue di sabbia che correvano tortuose fra gli stagni, e questi si facevano sempre più ampi e confluivano fra loro. Il bosco si era ridotto a macchie isolate, e l' orizzonte che li circondava non era mai stato così vasto, in tutto il loro viaggio. Vasto e triste, intriso dell' intenso odore funereo dei giuncheti; sulle acque immobili si specchiavano nitide le nuvole rotonde, bianche, immobili nel cielo. Allo sciacquio dei passi dei due uomini qualche anitra si involava dai canneti schiamazzando, ma Mendel non volle sparare, per non sprecare colpi e per non segnalare la loro presenza. Si profilò un edificio di legno. Quando lo ebbero raggiunto, videro che era un mulino ad acqua, abbandonato e semidistrutto; la ruota a pale arrugginita pescava in un' acqua melmosa che si faceva strada in meandri attraverso le paludi. Doveva essere lo Ptic: Novoselki non poteva essere lontana. Dall' altra parte del fiume il terreno era più solido: si distingueva in lontananza una modesta altura rivestita di alberi scuri, querce od ontani. Trovarono una vecchia pista di boscaioli, invasa da rovi e foglie morte. Mendel si rimise gli stivali, Leonid rimase scalzo, con le sole pezze da piedi a protezione contro le spine. Dopo mezz' ora di cammino esclamò: _ Toh! vieni a vedere! _ Mendel si volse e gli vide in mano una bambola: una povera bamboletta rosa, nuda, mutilata di una gamba. La accostò al naso, e percepì un odore dell' infanzia, l' odore patetico della canfora, della celluloide; per un attimo, evocate con violenza brutale, le sue sorelle, l' amichetta delle sorelle che sarebbe diventata sua moglie, Strelka, la fossa. Tacque, trangugiò, poi disse a Leonid con voce piana: _ Queste cose non si trovano nei boschi. Sulla destra della pista c' era una radura, e nella radura videro un uomo. Era alto, magro, pallido e stretto di spalle; quando si accorse di loro cercò goffamente di scappare o di nascondersi: gli diedero una voce e lui li lasciò avvicinare. Era vestito di stracci e portava ai piedi un paio di sandali ricavati da copertoni d' auto; teneva in mano un fagotto d' erbe. Non sembrava un contadino. Gli domandarono: _ È qui il paese degli ebrei? _ Qui non c' è nessun paese, _ rispose l' uomo. _ Ma tu non sei ebreo? _ Sono un profugo, _ disse; ma l' accento lo tradiva. Leonid mostrò la bambola: _ E questa, da dove viene? Lo sguardo dell' uomo si spostò di un piccolo angolo: qualcuno stava avvicinandosi, alle spalle di Leonid. Era una bambina, bruna e minuta; gli prese la bambola dalle mani, dicendo tutta seria: _ È mia. Sei stato bravo a trovarla.

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Questa volta fu Gedale ad interrompere, in buon polacco, abbandonando per la sorpresa il giochetto dell' interpretariato: _ Come? Che cosa ha fatto? Dove lo avete catturato? _ Non lo abbiamo catturato, _ ringhiò il polacco, _ lo abbiamo salvato. E non lo andate a raccontare in giro: perché è la prima volta, sangue d' un cane, che le NSZ salvano un giudeo, e per di più russo e comunista, dalle pallottole dei tedeschi. Ma deve proprio essere un po' tocco: armato, in pieno giorno, senza neppure guardarsi intorno, se ne andava diritto verso il posto di blocco dei tedeschi .... _ Quale posto di blocco? _ Quello della centrale di Zielonka. A rischio di scatenare un finimondo; e senza pensare che l' energia di Zielonka serve anche a noi. Se volete fare dei sabotaggi, andate più lontano, che il diavolo vi porti. E informatevi della situazione politica. E soprattutto non mandate dei balordi come questo. _ Non lo abbiamo mandato noi: è stata una sua iniziativa, _ disse Gedale. _ Lo interrogheremo e lo puniremo. _ Ce lo ha detto anche lui, che l' iniziativa era sua: ci abbiamo già pensato noi a interrogarlo. Ma non ci prenderete per dei deficienti. O per dei bambini. È dal '39 che noi combattiamo su due fronti, e certi trucchi li abbiamo imparati. E voi li avete copiati dai nazi: tutto preciso come al tempo dell' incendio del Reichstag, si prende uno un po' debole di mente, lo si manda allo sbaraglio, e poi la rappresaglia cade come un fulmine dalla parte che fa comodo a voi. Il polacco si fermò per prendere fiato. Era alto, secco, non più giovane, e i mustacchi grigi gli tremavano per la collera. Gedale diede un' occhiata dalla parte di Leonid: stava seduto sulla soglia di pietra della baracca, con le mani legate appoggiate sulle cosce. Era lontano solo dieci passi, a portata di voce, ma sembrava che non stesse ascoltando. Il polacco osservava Jòzek con attenzione: _ Ma anche tu mi hai l' aria di essere ebreo. Ne abbiamo viste, di cose strane, ma questa le passa tutte: degli ebrei che vanno in giro per la Polonia con le armi rubate ai polacchi, e si spacciano per partigiani, puttane le loro madri! Gedale scattò. Con la sinistra strappò il mitragliatore dalle mani del polacco, e con la destra gli assestò un violento ceffone sull' orecchio. Il polacco vacillò, fece qualche passo incerto ma non cadde. Gli altri tre si erano avvicinati con aria minacciosa, ma il loro capo gli disse qualcosa, ed essi si ritirarono di qualche passo, tenendo però sempre le armi puntate. _ Sono ebreo anch' io, Panie Kondotierze, _ disse Gedale con voce tranquilla. _ Queste armi non le abbiamo rubate, e le sappiamo usare piuttosto bene. Voi combattete da cinque anni, e noi da tremila. Voi su due fronti, e i nostri fronti non si possono contare. Sia ragionevole, Signor Condottiero. Abbiamo lo stesso nemico da combattere: non sprechiamo le nostre forze _. Poi aggiunse, con un sorriso cortese: _ ... e neppure le nostre ingiurie _. Forse il "condottiero" sarebbe stato meno arrendevole se non si fosse visto circondato da una ventina di gedalisti dall' aria risoluta. Brontolò qualche misteriosa imprecazione a base di tuono e di colera, poi disse burbero: _ Non vogliamo sapere niente di voi e non vogliamo avere niente a che fare con voi. Ripigliatevi il vostro uomo. E prendetevi anche quell' altro, che dice di essere dei vostri: noi non sappiamo che cosa farcene. A un suo gesto, i suoi seguaci afferrarono Leonid per le braccia, lo fecero alzare in piedi e lo spinsero verso Gedale, che tagliò subito la corda che gli legava le mani. Leonid non disse una parola, non sollevò gli occhi da terra, e si inserì nella schiera dei gedalisti fermi sul sentiero. L' altro uomo nominato dal polacco, quello che se ne stava in disparte a torso nudo a prendere il sole, si fece avanti spontaneamente. Era alto quanto Gedale, aveva un ardito naso da falco e un paio di maestosi baffi neri, ma non doveva avere molto più di vent' anni. Il suo corpo, muscoloso ed agile, sarebbe stato un buon modello per una statua di atleta se non fosse stato per il piede equino che gli deturpava una gamba. Aveva raccattato da terra un fagotto, e sembrava contento di cambiare padrone. Era tempo di ripartire; Gedale rese l' arma al polacco, e gli disse: _ Signor Condottiero, credo che possiamo essere d' accordo su un punto solo, e cioè che anche noi non vogliamo avere niente a che fare con voi. Ci dica quale strada dobbiamo tenere. Il polacco rispose: _ Tenetevi alla larga da Kovel, da Lukov e dalla ferrovia. Non provocate i tedeschi nella nostra zona, e andate al diavolo. _ Ma che bel tipo! _ disse Gedale a Mendel quando ebbero ripreso la marcia, senza mostrare né collera residua né disprezzo. _ Proprio un tipo fantastico, da film di indiani. Secondo me aveva sbagliato secolo. _ Però lo hai preso a schiaffi! _ Per forza: ma che c' entra? L' ho ammirato lo stesso: come si ammira una cascata o un animale strano. È uno stupido, e forse anche pericoloso, ma ci ha offerto un bello spettacolo. Del resto, Gedale sembrava innamorarsi di ogni nuovo venuto, al di là di ogni considerazione morale o utilitaria. Girava intorno ad Arié, il giovane zoppo, come se volesse sentirne l' odore ed osservarlo sotto tutte le angolazioni. Nonostante il suo difetto, Arié non aveva difficoltà a seguire la fila, anzi, camminava agile e sciolto, e si rese subito popolare uccidendo una quaglia con una sassata e offrendola in omaggio a Ròkhele Bianca. Non parlava né capiva il jiddisch, e pronunciava il russo in un modo molto strano: era georgiano, Arié, e fiero di esserlo. La sua lingua materna era il georgiano, il russo lo aveva imparato a scuola, ma il suo nome, di cui era altrettanto fiero, era ebraico puro: Arié significa Leone. Pochi fra i gedalisti avevano incontrato prima un ebreo georgiano, e Jòzek, metà per scherzo, metà sul serio, osò addirittura mettere in dubbio che Arié fosse ebreo; chi non parla jiddisch non è ebreo, è quasi un assioma, e lo dice anche il proverbio: "Redest keyn jiddisch, bist nit keyn jid". _ Se sei ebreo, parlaci in ebraico: dicci una benedizione in ebraico. Il giovane accettò la sfida, e recitò la benedizione del vino con la pronuncia sefardita, rotonda e solenne, invece che in quella askenazita, sincopata e stretta. Molti risero: _ Ih, parli ebraico come lo parlano i cristiani! _ No, _ rispose Arié nobilmente offeso: _ noi parliamo come Abramo nostro padre. Siete voi che parlate sbagliato. Arié si integrò nella banda con rapidità sorprendente. Era robusto e volonteroso ed accettava di buona voglia tutti i lavori; accettò anche quel poco di disciplina partigiana che la banda aveva conservato. Mentre tutti erano curiosi di lui, si mostrò poco curioso delle finalità della banda: _ Se andate ad ammazzare i tedeschi, vengo con voi. Se andate in Terra d' Israele, vengo con voi _. Era intelligente, allegro, fiero e permaloso. Fiero di molte cose: di essere georgiano (discendente dai Macedoni di Alessandro, precisò, senza però essere in grado di dimostrarlo in alcun modo); di non essere russo, ma ad un tempo di essere compatriota di Stalin; del suo cognome Hazansvili. _ Ma certo! Gli assomigli perfino, _ rise Mottel. _ Non solo nei baffi, ma anche nel nome. _ Stalin è un grand' uomo e voi non lo dovreste prendere in scherzo. Mi piacerebbe assomigliargli nel nome, ma non è così. Lui è Dzugasvili, cioè il figlio di Dzuga, e io sono soltanto Hazansvili, che vuol dire il figlio del Hazàn, del cantore della Sinagoga. Era permaloso sull' argomento della sua deformità, e non gli piaceva che se ne parlasse, ma con ogni probabilità essa gli aveva salvato la vita: _ Alla leva militare mi avevano riformato, e al paese mi canzonavano, perché andare soldato per noi è un onore. Ma poi, nel '42, quando prendevano tutti, hanno mobilitato anche me, e mi hanno spedito nelle retrovie di Minsk a cuocere il pane nella panetteria militare. I tedeschi mi hanno preso prigioniero, ma come lavoratore civile, e questa è stata la mia fortuna. Che io fossi ebreo, non se ne sono accorti .... _ Tutto merito dei baffi, credi a me, _ disse Jòzek: peccato che pochi ci abbiano pensato, a farseli crescere. _ Dei baffi e della statura. E poi perché mi sono dichiarato contadino e specialista in innesti. _ Sei stato furbo! _ Ma no, è proprio il mio mestiere, io e mio padre e mio nonno abbiamo sempre innestato viti. E allora mi hanno messo in un' azienda agricola a innestare alberi che non avevo mai visti. Eravamo quasi liberi, e in aprile sono scappato. Volevo andare con i partigiani, e sono incappato in quelli che avete visti; con loro però non stavo tanto bene, mi dicevano "ebreo" e mi facevano portare i pesi come a un mulo. Gedale tendeva alle decisioni improvvisate, ma sulla questione di Leonid non se la sentiva di improvvisare. Chiamò da parte Jòzek, Dov e Mendel e non era il Gedale di tutti i giorni: non divagava, pensava a quello che diceva, e parlava sommesso. _ Le punizioni non mi piacciono: né darle né riceverle. Sono roba da prussiani, e per gente come noi servono a poco. Ma questo ragazzo l' ha fatta grossa: se ne è andato con le armi, senza ordini e senza permesso, e ha fatto quanto poteva per metterci nei guai tutti quanti. È stata una fortuna che il grosso delle forze delle NSZ era lontano, altrimenti ce la vedevamo brutta. Si è comportato da sciocco, ed ha fatto apparire sciocchi tutti noi: sciocchi ed intrusi, pasticcioni e guastamestieri. Già da queste parti non siamo mai stati molto amati; dopo questa faccenda lo saremo ancora meno, e la nostra strada è lunga, ed abbiamo bisogno dell' appoggio della popolazione. O almeno di una neutralità silenziosa. Leonid queste cose le deve capire: gliele dobbiamo far capire. Jòzek alzò la mano per chiedere la parola. _ Se fosse un altro uomo, io credo che il miglior rimedio sarebbe quello di picchiarlo un poco e poi di invitarlo a fare l' autocritica, come fanno i russi. Ma Leonid è un tipo strano, è difficile capire perché fa le cose che fa. Tu dici bene, comandante, che dobbiamo fargli capire certe cose; ebbene, secondo me, e almeno per il momento, quel ragazzo non è in grado di capire niente. Da quando lo abbiamo ripreso non ha più detto una parola: non una. Non mi ha guardato in faccia una volta, e tutte le volte che gli ho portato la gavetta ha fatto finta di mangiare e poi, appena io me ne andavo, versava via tutto: l' ho visto benissimo. Se fossimo in tempo di pace, so io che cosa ci vorrebbe per lui. _ Un medico? _ chiese Gedale. _ Sì, il medico dei matti. _ Voi due lo conoscete da più tempo, _ disse Gedale rivolto a Mendel e a Dov. _ Qual è il vostro pensiero? Parlò per primo Dov, del che Mendel fu lieto. _ A Novoselki mi ha dato qualche fastidio perché non era puntuale sul lavoro. L' ho mandato a fare un sabotaggio, per metterlo alla prova e per dargli un' occasione di far buona figura davanti agli altri: mi pareva che ne avesse bisogno. Se l' è cavata né bene né male, con coraggio e con precipitazione: lo hanno tradito i nervi. Secondo me è un bravo ragazzo con un brutto carattere, ma io non credo che si possa giudicare un uomo da quello che ha fatto a Novoselki; o del resto, anche da quello che fa qui. _ Non mi interessa giudicarlo, _ disse Gedale, _ mi interessa sapere che cosa dobbiamo fare di lui. Tu che dici, orologiaio? Mendel era sulle spine. Gedale sapeva, o aveva indovinato, la vera causa della sortita suicida di Leonid? Se sì, non parlarne era puerile e disonesto. Se no, se non lo aveva intuito, Mendel avrebbe preferito non fornire materia alla sua curiosità ed ai pettegolezzi di tutti. Insomma erano fatti suoi, non è vero? Suoi e di Line, fatti privati. Di aggravare la posizione di Leonid non si sentiva l' animo, e raccontare che Leonid aveva disertato per una faccenda di donne voleva dire aggravare la sua posizione. E aggravare anche la tua. Sì, certo: aggravare anche la mia. Si tenne sul vago, sentendosi intimamente bugiardo, e spregevole come un verme: _ È un anno che siamo insieme, ci siamo incontrati nel luglio dell' altr' anno nelle foreste di Brjansk. Sono d' accordo con Dov, è un bravo ragazzo con un carattere difficile. Mi ha raccontato la sua storia, la sua vita non è mai stata facile, ha incominciato a soffrire molto prima di noi. Secondo me, punirlo sarebbe una crudeltà, e per giunta inutile: si sta punendo da sé. E sono d' accordo anche con Jòzek; sarebbe un uomo da curare. Gedale si alzò di scatto e cominciò a camminare su e giù. _ Siete veramente dei bravi consiglieri. Curarlo, ma non si può. Punirlo, ma non si deve. Tanto valeva dirlo chiaro, che il vostro consiglio è di lasciare le cose come stanno, e che la faccenda si risolva da sé. Mi sembrate i consolatori di Giobbe. Va bene, per adesso lasciamola così; vedrò se la ragazza mi saprà dare un suggerimento più concreto: lei lo conosce meglio di voi, o almeno sotto un aspetto diverso. Dunque non sa, pensò Mendel con sollievo, e insieme vergognandosi del suo sollievo. Ma del colloquio fra Gedale e Line Mendel non seppe più nulla; o non era avvenuto, o (cosa più probabile) Line non aveva detto niente di essenziale. Il malumore di Gedale durò poco; nei giorni successivi era ritornato ai suoi modi consueti, ma, come già aveva fatto a Sarny, scomparve nuovamente ai primi di luglio mentre la colonna era accampata nei pressi di Annopol, non lontano dalla Vistola. Ricomparve il giorno dopo, con una giacca nuova di velluto, un cappello di paglia da contadino, una boccetta di profumo-Ersatz per Bella, e regalini anche per le altre quattro donne. Ma non era andato in città per fare acquisti; dopo di allora diverse cose cambiarono. Le precauzioni aumentarono: di nuovo, come in primavera, si marciava di notte, e di giorno la banda si accampava cercando di non dare nell' occhio; il che si faceva sempre meno facile, perché la zona era fittamente percorsa da strade, e cosparsa di villaggi e case coloniche. Gedale sembrava avere fretta; richiedeva tappe più lunghe, anche di venti chilometri per notte, e puntava in una direzione precisa, verso Opatòw e Kielce. Raccomandò a tutti di non allontanarsi dal gruppo e di non rivolgere la parola ai contadini che eventualmente si incontrassero: con la gente del luogo potevano intrattenersi solo quelli che parlavano polacco, ma anche loro il meno possibile. Sia nelle tappe, sia durante gli spostamenti, la presenza di Leonid era diventata penosa per tutti, e per Mendel in specie. Mendel dovette confessare a se stesso che di Leonid aveva paura: evitava la sua vicinanza, nelle marce in fila indiana si metteva in testa quando Leonid era in coda, o viceversa; ma invece, notò Mendel con disappunto, Leonid, consapevolmente o no, manovrava in modo da essergli vicino, pur senza rivolgergli la parola. Si limitava a guardarlo, con quei suoi occhi neri carichi di tristezza e di richiesta, come se volesse affliggerlo con la sua presenza, non lasciarsi dimenticare, vendicarsi affliggendolo. O forse anche sorvegliarlo? Forse: alcuni suoi gesti facevano pensare che Leonid fosse in preda al sospetto. Volgeva di scatto la testa guardandosi alle spalle. Durante le fermate, che avvenivano di giorno, e per lo più in casupole contadine abbandonate, si coricava per dormire scegliendo il posto più vicino alla porta, e dormiva poco; si svegliava di soprassalto, si guardava intorno inquieto, spiava fuori dalla porta o dalle finestre. In un mattino grigio di nuvole, dopo una tappa notturna che aveva affaticato tutti, Mendel stava raccogliendo legna nel bosco e se lo vide accanto, che raccoglieva legna anche lui, sebbene nessuno glielo avesse ordinato. Era dimagrito e teso, aveva gli occhi lucidi. Si rivolse a Mendel con aria complice: _ Lo hai capito anche tu, non è vero? _ Capito che cosa? _ Che siamo venduti. Non possiamo più farci illusioni. Siamo venduti, e ci ha venduti lui. _ Lui chi? _ chiese Mendel sbalordito. Leonid abbassò la voce: _ Lui, Gedale. Ma non poteva fare diversamente, lo ricattavano, era un burattino nelle loro mani _. Poi fece cenno con l' indice sulle labbra di fare silenzio, e riprese a raccogliere legna. Mendel non raccontò l' episodio a nessuno, ma pochi giorni dopo Dov gli disse: _ Quel tuo amico ha delle idee strane. Dice che Gedale lavora per l' NKVD o per non so quale altra polizia segreta, che loro lo ricattano, e che noi siamo tutti ostaggi nelle loro mani. _ Qualcosa del genere ha detto anche a me, _ disse Mendel. _ Che fare? _ Niente, _ disse Dov. Mendel si ricordò di avere paragonato Leonid a un orologio inceppato dalla polvere; adesso, invece, Leonid gli ricordava certi altri orologi che gli avevano portati da riparare: forse avevano preso un urto, le spire della molla si erano accavallate, un po' ritardavano, un po' avanzavano follemente, e finivano tutti col guastarsi in modo irrimediabile. L' estate era fulgida e ventosa, e i gedalisti si accorsero di essere entrati nel paese della fame. Le raccomandazioni di Gedale, di evitare i contatti con la gente del luogo, si rivelarono superflue, se non ironiche. Non c' era molta gente, in quelle campagne: nessun uomo, poche donne; sulle soglie delle fattorie devastate, solo vecchi e bambini. Non era gente di cui si dovesse avere paura, anzi, erano essi stessi sigillati dalla paura. Pochi mesi prima, i partigiani dell' Armata Interna polacca avevano scatenato un attacco ai presidi4 tedeschi della zona, mentre a sud di Lublino reparti paracadutati sovietici interrompevano le linee di comunicazione tedesche che portavano munizioni e rifornimenti al fronte. Altri reparti polacchi avevano fatto saltare in aria ponti e viadotti, ed avevano attaccato un villaggio da cui i tedeschi avevano allontanato con la forza i contadini nel 1942 per installarvi i coloni del Reich Millenario. La rappresaglia tedesca si era estesa a tutta la zona ed era stata feroce. Non si era rivolta contro le bande, pressoché inafferrabili, che si erano rifugiate nelle foreste, ma contro la popolazione civile. I tedeschi avevano fatto accorrere rinforzi dalle lontane retrovie; di notte accerchiavano i villaggi polacchi e li incendiavano, oppure deportavano tutti gli uomini e le donne in età di lavoro: gli concedevano mezz' ora di tempo per prepararsi al viaggio, poi li caricavano sui loro autocarri e li portavano via. In alcuni paesi avevano dedicato la loro attenzione ai bambini: deportavano in Germania i bambini dall' aspetto "ariano" e uccidevano gli altri. I villaggi, poveri da sempre, erano ridotti ad ammassi di ruderi affumicati e di macerie, ma i campi erano rimasti indenni, e la segala matura aspettava invano chi la mietesse. L' iniziativa venne da Mottel. Era andato a chiedere acqua ad un casolare isolato, a forse un chilometro dal villaggio di Zborz, e ci aveva trovato una vecchia sola, coricata sulla paglia della stalla, ma nella stalla bestie non ce n' erano più. La vecchia faticava a muoversi, aveva una gamba rotta che nessuno le aveva curato. Aveva detto a Mottel che andasse al pozzo, prendesse tutta l' acqua che voleva, e ne portasse un poco anche a lei. Ma che le portasse anche qualcosa da mangiare: qualunque cosa. Era digiuna da tre giorni, ogni tanto qualcuno del villaggio si ricordava di lei e le portava una fetta di pane. Eppure nel campo lì davanti c' era segala da nutrire una grossa famiglia, ma alla prima pioggia sarebbe marcita, perché per falciarla non c' era nessuno. Mottel riferì a Gedale, e Gedale decise all' istante. _ Dobbiamo aiutare questa gente. La nostra guerra è anche questo. È l' occasione buona per fargli capire che veniamo da amici e non da nemici. Jòzek storse la faccia: _ Da queste parti non ci hanno mai voluto bene; prima che i tedeschi bruciassero le loro case, loro bruciavano le nostre. Non vogliono bene agli ebrei, e neanche vogliono bene ai russi, e molti di noi sono ebrei e russi. Sanno che cosa è successo ai contadini russi negli anni venti, e hanno paura della collettivizzazione. Aiutiamoli, ma stiamo attenti. Tutti gli altri, invece, furono d' accordo senza riserve: erano stanchi di distruggere, stanchi delle opere negative e stupide a cui la guerra costringe gli uomini. I più entusiasti erano Piotr e Arié, che erano pratici dei lavori della campagna. Mottel aveva riferito che il tetto della "sua" vecchia era sfondato, e Piotr disse: _ Lo riparerò io. Sono bravo a rattoppare i tetti di canne, è un lavoro che facevo al mio paese, mi pagavano per farlo. Ma adesso, per riparare il tetto della tua vecchia, darei tanti rubli quanti me ne davano; se li avessi, beninteso, perché invece non li ho. La vecchia accettò, Piotr si mise al lavoro aiutato da Sissl, e pochi giorni dopo un uomo anziano dai baffi spioventi fu visto aggirarsi nei dintorni. Faceva le viste d' interessarsi d' altro: raddrizzava paletti, controllava le paratie dei fossati benché questi fossero disperatamente asciutti, ma spiava da lontano il lavoro dei due. Un giorno si presentò a Piotr e gli rivolse in polacco diverse domande; Piotr finse di non capire e andò a cercare Gedale. _ Sono il Burmistrz, il sindaco del villaggio, _ disse il vecchio con dignità, benché avesse piuttosto l' aspetto di un mendicante. _ Chi siete voi? Dove andate? Che cosa volete? Gedale si era presentato al colloquio disarmato, in maniche di camicia, in brache borghesi lacere e stinte, e con il cappello di paglia che aveva comperato. Parlava polacco senza accento jiddisch, e per chiunque sarebbe stato difficile appurare la sua condizione. Da principio fu cauto: _ Siamo un gruppo di dispersi, uomini e donne. Veniamo da diversi paesi, e non vogliamo farvi del male. Siamo di passaggio, andiamo molto lontano, non vogliamo disturbare nessuno, ma non vogliamo neppure essere disturbati. Siamo stanchi ma abbiamo le braccia buone: forse vi possiamo essere utili in qualche cosa. _ Per esempio? _ chiese il sindaco diffidente. _ Per esempio potremmo mietere, prima che la segala si guasti. _ Che cosa volete in cambio? _ Una parte del raccolto, quella che ti sembrerà giusta; e poi acqua, un tetto, e che si parli poco di noi. _ Quanti siete? _ Una quarantina; cinque sono donne. _ Sei tu il loro capo? _ Sono io. _ Noi siamo meno di voi: neppure trenta, contando anche i bambini. Guarda che denaro non ne abbiamo mai avuto, bestiame non ne abbiamo più, e non ci sono neppure donne giovani. _ Peccato per le donne giovani, _ rise Gedale, _ ma non è questo il nostro primo pensiero. Te l' ho detto, ci bastano l' acqua, il silenzio, e se possibile un tetto sotto cui dormire qualche notte. Siamo stanchi di guerra e di cammino, abbiamo nostalgia dei lavori di pace. _ Anche noi siamo stanchi di guerra, _ disse il sindaco; e subito aggiunse: _ Ma sapete mietere? _ Siamo fuori esercizio, ma ce la caviamo. _ A Opatòw c' è il mulino, _ disse il sindaco, _ e pare che funzioni. Falci ce ne sono, quelle ce le hanno lasciate. Potete incominciare domani. Andarono a mietere tutti gli uomini di Blizna e di Ruzany, e in più Arié, Dov, Line e Ròkhele Nera, a cui si aggiunse Piotr quando ebbe finito di rassettare il tetto: una ventina in tutto. Arié era il più pratico, e insegnò a tutti gli altri come si rizzano i covoni e come si affila la falce prima con il martello e poi con la cote. Anche Piotr si dimostrò bravo e resistente alla fatica. Line stupì tutti: esile com' era, mieteva dall' alba al tramonto senza mostrare segni di stanchezza, e sopportava senza disagio il calore, la sete e il nugolo di tafani e di zanzare che si era subito radunato. Non era la prima volta che faceva quel lavoro: lo aveva fatto mille anni prima, presso Kiev, in una fattoria collettiva in cui i giovani sionisti si preparavano all' emigrazione in Palestina, al tempo remoto in cui essere sionisti e comunisti non era ancora diventata una contraddizione assurda. Lavorava bene anche Dov, benché gli pesassero gli anni e le ferite. Neanche per lui era un' esperienza del tutto nuova: aveva mietuto i girasoli quando era confinato a Vologda, dove i giorni d' estate erano lunghi diciotto ore e bisognava lavorarle tutte. Gli altri della banda, fra cui Mendel, Leonid, Jòzek ed Isidor, si distribuirono nel villaggio a fare diversi lavori che il sindaco aveva indicati: c' erano pollai da rimettere in ordine, altri tetti da riparare, orti da zappare. Superata la prima diffidenza, si venne a sapere che c' erano anche patate da raccogliere, e furono le patate stesse a fare da cemento fra gli ebrei vagabondi e i contadini polacchi disperati, a sera, sotto le stelle dell' estate, seduti nell' aia, sulla terra battuta ancora calda di sole.

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