Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIFI

Risultati per: abbandonando

Numero di risultati: 4 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

Oro Incenso e Mirra

678752
Oriani, Alfredo 2 occorrenze

Ella riprese il libro dal tavolo, e abbandonando il capo sulla spalliera con un morbido atto di civetteria, che contrastava colla dura marmorea bellezza del suo volto, riprese: - Bonghi ha ragione: naturalmente, voi, suo avversario politico e filosofico, non potrete convenirne, troverete forse questa sua prefazione al Fedone fiacca e pesante, ma chi potrebbe oggi scriverne una degna? Forse noi non lo possiamo più. - Perchè? - Non me lo domandate, giacchè lo sapete fin troppo. Io, una signora, che ha letto poco e capito meno, non posso spiegarvelo, ma noi sentiamo oggi diversamente dai greci, giudichiamo con altri criteri, amiamo un'altra bellezza. Nessun oratore parlando alla Camera si fa accompagnare da un flauto, nessun avvocato come Iperide sveste oggi la propria accusata davanti alle Assise: il nostro abbigliamento troppo complicato darebbe tempo ai carabinieri d'intervenire, mentre la stessa accusata non sentirebbe forse più la forza di tale argomento. - Siete ben sicura che l'aneddoto d'Iperide non sia una favola? - egli ribattè cercando evidentemente d'irritarla. - In questo caso non sarebbe che più vera: credete che se ne potrebbe inventare una simile sui nostri giurati? Bonghi ha tradotto Platone... - Perchè? - Se mi aveste domandato per chi, vi avrei risposto: per noi, per tutti coloro, che ignorano il greco; vedete bene che dedica la prefazione alla principessa di Teano, la più bella signora d'Italia. Certo una traduzione dovrebbe essere come un ritratto, ma Bonghi non è un artista, non sarà forse nemmeno un filosofo, come voi sostenete, però è un ingegno. Come quegli scienziati, che vanno a studiare le flore dei paesi lontani e ritornano con una cassetta di fiori secchi, egli ci reca un Platone vizzo, senza colore e senza profumo. Non importa, io ringrazio Bonghi. - Ma egli - proseguì l'illustre critico, rattenendo un moto di dispetto ed ammirando involontariamente la superba bellezza della duchessa - pretende di tradurre davvero. Non è il gentiluomo, che tenta l'impossibile per una signora affrontando magari il ridicolo e trionfandone con un sorriso. Voi siete troppo buona con lui, e vi dimenticate che il nostro secolo possiede ancora un uomo capace di tradurre Platone: perchè non lo ha voluto? Indovinate il suo nome? - E chi non indovinerebbe? Vi sono forse due scrittori come lui? Come mi dispiacque di vederlo a Firenze per il congresso degli orientalisti! Io, che me lo ero immaginato con una bella testa di filosofo antico ammorbidita da una eleganza femminile, non vidi che un fattore volgare ed atticciato, cui l'essere stato quasi prete dava ancora un impaccio indefinibile, e due occhi troppo belli facevano una fisonomia inaccettabile. Evidentemente quegli occhi li aveva rubati. - A chi? - Ad una donna, che avrebbe dovuto essere un poeta se Dio avesse consentito alle donne di esprimere la poesia invece d'ispirarla. Avete ragione Renan solo poteva tradurre Platone. Vi ricordate la sua preghiera sull'Acropoli di Atene? Avete ancora letto l'ultimo capitolo del suo Ecclesiaste? È uscito ieri. La lingua francese può rendere la greca? A giudicare da Cousin m'hanno detto di no: a leggere Renan io, che non so il greco, affermo intrepidamente di sì. - Forse Renan non ha mai ricevuto complimento più bello. Invano Zola disperato d'imitarlo tenta d'impicciolirlo paragonandolo a Gauthier: Renan scrive e Gauthier bulina, a Gauthier il pensiero deriva quasi sempre dalla frase, Renan ha la frase del proprio pensiero. La loro lingua è diversa: quella di Gauthier a girandole di fiori e di fuochi, piena di ricercatezze recondite e profumate, di parole rare come le gemme, scoppiettanti d'iridi e di baleni. I suoi periodi oscillano come incensieri, in tutti i suoi disegni predomina il rabesco, la confusione prodiga ed inesauribile dell'ornato, la ricchezza che impazza nella ricchezza, la melodia che si perde nel labirinto delle variazioni. - Vi è del Talberg in lui. - Forse... Renan è semplice, non si può essere bello altrimenti. Guardate Zola, che combatte Gauthier e Victor Hugo: ebbene, il suo stile è una fusione dei loro due, talvolta nelle qualità più spesso nei difetti, mentre la sua arte discende da Balzac, che confessa, e dai romanzieri inglesi, che nega. La sua originalità di artista e di pensatore sta nei soggetti prescelti; Zola oggi è il più grande perchè è il più moderno. Un passo ancora e le finezze linguistiche e sensistiche di Gauthier si cambieranno pei Goncourt in vanità di astruserie, che annebbieranno loro sovente la verità dei quadri. Il fino diventerà impalpabile, l'indicibile sarà detto, ma l'incompreso sarà aumentato. La duchessa ebbe un sorriso. - E Renan? Parlatemi di Renan, di questo uomo, che discutendo è sempre della opinione del proprio avversario. - Vi piace questa ultima formula del suo scetticismo? - Se tutti gli uomini fossero scettici con noi alla sua maniera, e se Renan fosse bello! - Lo è. A chi paragonarlo per farvelo meglio sentire? Egli non è un pensatore nel senso altissimo della parola, non ha il genio, che apre o chiude una epoca. Tutte le creazioni sono informi, tutte le sintesi incompiute: nelle prime la forma recalcitra, nelle seconde la materia sfugge. Egli non ha inventato nulla, ma sa quasi tutto, ha percorso la storia e la geografia del mondo: l'Oriente gli ha ceduto coi propri colori le sorgenti della poesia e della pittura, la Grecia gli ha dato la bellezza, Roma antica il senno dell'equità, la Germania moderna la critica per tutte le dottrine. Scettico vero, egli concilia in sè stesso le contraddizioni di tutti i sistemi, come la vita risolve nel proprio fatto l'antagonismo di tutte le forze. Michelet ha detto che la storia è una resurrezione, ma scrivendola non ha sempre potuto trionfare della morte; Renan ha giudicato la vita un romanzo, e ha scritto quello di un uomo oggi ancora creduto da quasi tutti un Dio. Il romanzo è per lo più una tragedia indebolita, nella quale la disperazione diventa malinconia e il singhiozzo sorriso. Renan sorride. Egli credente solo nella vita, non ne accetta che la formula più alta, impossibile a tutti i sistemi, la bellezza. La vita è un fatto che la scienza cerca di decomporre, la storia di raccontare, l'arte di ripetere: l'arte è ancora la più fortunata. Forse Schelling aveva ragione affermando in essa l'ultimo momento del pensiero, se la creazione fu il primo momento della vita. - Oh! - Non mi credete? Ritorniamo dunque a Renan. Che direbbe oggi di lui Balzac morto nell'ammirazione di Gauthier? Uno scrittore per diventare veramente bello non deve essere novatore né del pensiero, né della forma; forse questa affermazione scritta susciterebbe polemiche e spropositi, ma io mi vi ostino perchè ogni individuo non può essere perfetto che adulto. La Grecia rappresenta la perfezione del pensiero moderno, quella del nostro secolo non so dove o quando avverrà. Uno scrittore per sperare di essere perfetto deve trovare tutto fatto attorno a sé, nel meriggio di un sistema, il quale abbia felicemente maturato tutto lo spirito di un popolo. Vedete, Renan giunge dopo che i romantici hanno rinnovellato la vecchia lingua classica e prima che i nuovi naturalisti la rimettano nel crogiuolo: ecco forse perché egli scrive meglio di tutti. Però Renan è ancora più scrittore che artista, non rappresenta ma dice; solamente per questo non basta la sapienza della lingua, giacchè Littré sapendo la storia intima di ogni parola gli rimane incalcolabilmente inferiore. Filologia e chimica formano le parole e i colori, la natura e i pittori inventano i toni. E si fermò. - Renan, Renan! - tornò a provocarlo la duchessa senza lasciargli nemmeno il tempo di respirare - fatemi il suo ritratto. Avete cominciato e vi siete ancora distratto: volete Bonghi in compenso? Ve lo cedo, sebbene incominci a diventarmi simpatico, oggi, che tutti si vantano d'insultarlo. - Non crediate così di chiedermi poco e di offrirmi troppo - rispose con certa amarezza.- voi, duchessa, che sapete tanto bene il latino, vi ricordate senza dubbio la definizione della bellezza data da Cicerone: la bellezza si può esprimere talvolta, più raramente raffigurarla, analizzarla mai. Non vi è spesso sembrato che una pagina di Renan rassomigli a una pagina di Mozart, ne abbia la stessa malinconia latente, lo stile puro quantunque capriccioso, l'inimitabilità dell'espressione precisa nella parola e illimitata nel sentimento? Balzac ha detto che la prima qualità di un libro è di far pensare; per un libro di filosofia, forse, ma per un libro d'arte ne dubito. Renan ottiene di meglio: la sua prosa è una musica che vi fa sognare; ecco il prestigio, il fine ultimo dell'arte, dare all'anima una seconda vita, sostituire alla creazione della natura quella dello spirito. L'arte non può avere sistemi. Vedete come Zola, che sarebbe benissimo dotato, sia costretto ad esagerare le scene per sostenere l'esagerazione delle proprie polemiche. In tutte le opere di Renan non vi è forse una sola vera negazione; egli sa che un'idea ne vale un'altra, e che per un'idea come per un individuo il fatto di esistere ne implica il diritto e ne contiene la ragione. La negazione, che pretende distruggere, è al tempo stesso un'impotenza ed una assurdità; essa deve semplicemente essere il limite di ogni individuo attorno a sé medesimo, l'orbita della sua attività. Quindi, se Cousin disse impropriamente che l'errore è la forma della verità nella storia, Renan più fortunato comprese che la verità non può risultare se non da tutte le contraddizioni, ed affermò che solo nel contraddirsi sempre e sinceramente stava la speranza di avere qualche volta ragione. Volete un libro, che contenga la verità? - C'è? - Sì. - Datemelo. - Ma non avrete né il tempo né la pazienza di leggerlo. Pigliate il catalogo di una biblioteca, e se la biblioteca ha qualche milione di libri quel catalogo contiene la verità. - Non si potrebbe farne un estratto? - Si è tentato, si tenterà ancora inutilmente. Nessun ingegno sarà mai così vasto da abbracciare tutto, nessuna vita così lunga da concederne il tempo; l'arte sola, essendo come la vita una creazione, può talvolta essere vera mantenendosi inconscia. Intervenga la coscienza, e subito una sensazione o un'idea facendosi dell'arte un baluardo per difendersi o un monumento per glorificarsi, l'opera d'arte sarà un'opera morta. Vi siete mai domandata se Renan creda in Dio con una fede più forte che in qualunque altro principio? Domandate a voi stessa, dopo averlo letto, se ci credete: non ne saprete nulla. Vi parrà di essere in alto, nell'azzurro, che le stelle vi guardino con sorrisi di bontà, che la terra vi richiami col sospiro dei fiori, che le nubi si aprano per accogliervi, che il vento si rattenga per sostenervi; vi sentirete l'anima più pura, il pensiero più vivido, il cuore più caldo. E Dio? Forse quella non è che la sua presenza: domandatelo a Renan, domandatelo a voi stessa, e non otterrete risposta. L'arte vi avrà barattate l'estasi della natura, una strofa avrà avuto lo sfondo di una prospettiva, una pagina vi sarà parsa un panorama; le due creazioni si saranno valse, ma se vorrete analizzarle, la scienza non vi darà che dei misteri e dei cadaveri, la critica che delle contraddizioni e delle parole. Si può forse, esprimere in altro modo ciò che la musica dice? Sarebbe essa ancora l'ultimo sforzo del linguaggio, il verbo dei pensieri muti altrimenti? Ebbene, anche la bellezza è una musica ineffabile come la vita stessa. - Triste musica, allora! - Siete pessimista? - Sì. Egli sorrise. La duchessa si alzò per offrirgli da un tavolino prezioso d'intarsi l'astuccio delle sigarette, e rimase qualche istante in piedi guardandolo. La sua bella testa pallida aveva sempre la stessa espressione di freddezza quasi crudele. - La prefazione di Bonghi conclude per la vita - egli soggiunse con accento leggero di provocazione. Io potrei ripetervi la sua frase: poiché siete tanto bella, tutto non è dunque dolore quaggiù. - Allora perché la bellezza non basta alla felicità dell'amore e l'amore spesso non si cura nemmeno della bellezza? Bonghi ha ragione quando afferma contro la falsa serenità dei nuovi pagani che il mondo antico è stato infelice quanto il moderno, e che la malinconia non è un male cristiano. Noi siamo tutti infelici! - Voi! - egli esclamò con accento duro, forse irritato seco medesimo dalle troppe idee sciupate in quel dialogo, e che avrebbero potuto bastare a parecchi dei suoi articoli. Ma ella non si degnò nemmeno di notare l'interruzione. - Lo so - proseguì vivamente - ormai si è detto tutto sul dolore e sul piacere, si è preteso che siano l'uno la cessazione dell'altro, poi due gradi di una stessa sensazione. Vundtz e Lotze, vedete che sono bene informata, me lo diceva ieri il professore Tommasi-Crudeli, presso a poco sostengono questa tesi: ma vi è una obbiezione. Se il dolore deriva dalla vibrazione troppo violenta di un nervo, perché una parola fa spesso più male di una pugnalata, e la frattura di una gamba è meno spasmodica talvolta di una rottura galante? Il dolore morale è dunque diverso dal dolore fisico? La fame crea l'accattonaggio, mentre la vergogna di aver fame produce sovente il suicidio. Perché nella maggior parte dei casi noi affrontiamo il dolore per arrivare al piacere? Perdonate se io, donna, oso gettare con le mie mani lo scandaglio in certi abissi, ma la questione ci interessa tutti, grandi e piccoli, uomini e donne. - Non vi farò che una obbiezione la più volgare ed insieme la più forte: se la vita è infelice, perché tutti l'accettano? - Perché dimenticate voi i suicidi? Coloro che accettano, sperano, ecco tutto. - La speranza deriva essa pure dalla vita: ma volete davvero una ragione irresistibile? - seguitò con evidente intenzione di sarcasmo guardandola negli occhi. - poiché ogni fenomeno è doppio, pigliate i due estremi della gamma, la generazione e la morte: la voluttà dell'una è più intensa del dolore dell'altra. Anzi, Leopardi, un pessimista che non potete rinnegare, sosteneva con ragione che la morte sola è senza dolore. - Siete ben sicuri che in ogni fenomeno della vita il piacere sia maggiore del dolore? - Il fatto della vita è per me, esaminatelo imparzialmente. - Lo volete? - ribattè sollevando il capo dalla spalliera della poltrona. Egli tornò a sorridere. Allora la duchessa si alzò lentamente, andò alla finestra, dinanzi alla quale, fra le tende penzolava una magnifica gabbia dorata; ne aperse lo sportello e ne trasse colla mano il canarino. Il grazioso animaletto mise due o tre stridi lasciandosi prendere dalla padrona. - Alì - ella si volse chiamando il magnifico gatto d'Angora, che sonnecchiava sopra uno sgabello. La duchessa aveva appena avuto il tempo di sedersi che Alì le era saltato sulle ginocchia e, percotendogliele con la coda, le si strofinava con le orecchie nel seno. Poi si accovacciò nel suo grembo guardando tranquillamente il canarino. La duchessa gli passò una mano sul capo e appressandogli sicuramente l'altra alla bocca gli presentò l'uccellino per le zampe. Il canarino gettò un grido. Alì lo teneva già addentato sino al dosso. - Che cosa fate? - esclamò balzando in piedi l'illustre critico, che aveva atteso a tutta quella manovra senza capirla. - Vi confuto - rispose mostrandogli freddamente il gatto, che sgretolava con pigra ghiottoneria quel corpicino ancora vivo. Entrambi erano diventati pallidi. La duchessa scacciò Alì con un gesto, si alzò e tendendogli la mano ripeté con indefinibile sorriso: - Adesso ditemi ancora che nella vita il piacere di mangiare vale il dolore di essere mangiato.

Poi morì abbandonando il giovane dissoluto con due bambini, solo e povero. Il giuoco gli aveva già fatto perdere quasi tutte le masserizie, senza che il suo temperamento ne fosse domo: lasciò i figli crescere nel rigagnolo e iniziò per sé stesso un sistema di scroccherie basato sulle antiche relazioni di famiglia. L'arguzia dei primi espedienti aiutata dalla sfacciataggine delle maniere gli diede per qualche anno un abbondante ricolto; in seguito slargò le operazioni, come soleva egli stesso dire ironicamente, circuì ogni forestiere signorile capitasse nel paese, fece da scrivano e da segretario, fu sensale e mezzano, visse di tutto e di tutti. Avendo una eccellente calligrafia, qualche studio grammaticale e potendo firmare "conte" e "cavaliere", due titoli che davano una grande rispettabilità alla sua volontaria sventura, poté spillare quattrini al vescovo, poi a quanti gli successero, finché giunto il '59 ed eletti i deputati si credette quasi ricco. Per molti anni gabbò tutti quelli della provincia col darsi a credere a volta un Giobbe e a volta un grande elettore, o partendo talora cogli abiti più sdruciti a fare il giro della diocesi si presentava ovunque e sempre col migliore italiano, mentre nel villaggio per dispregio della gente non discorreva mai che nel più sordido dialetto, ma ritornando invariabilmente senza un soldo dopo averli tutti perduti in qualche bettola. Però non sentiva rimorsi. E oltre il giuoco aveva ancora un vizio ed una passione: era goloso, nauseantemente goloso di dolciumi, e pazzo per la caccia alle reti. Nei giorni migliori, quando colla vendita di qualche uccello poteva comprarsi delle paste, veniva subito nel caffè per mangiarle dinanzi alla gente con ogni sorta di lazzi e d'ingiurie contro i signori del paese, che facevano la più miserabile vita e non erano nemmeno da tanto che sapessero come lui cavarsi un capriccio. - Perché non le dai piuttosto ai tuoi bambini? - gli fu chiesto un giorno. - Il bambino sono io. Ma poi ci pensò e gli parve con un certo senso di umiliazione che la risposta fosse più vera di quanto volesse. Infatti era stata accolta da una risata significativa. Alcuni parenti umiliati da quella sua vita di mendicante si offersero più di una volta a trovargli un impiego, ma egli rifiutava ostinatamente. - Se lavorassi nessuno mi crederebbe più conte. - Allora mandate almeno a bottega i ragazzi. - Prima di tutto sono conti anche loro se lo sono io: però se ci vogliono andare, non mi oppongo. Naturalmente i ragazzi se ne guardavano bene. Poi venne il '66 ed essendo allora quasi due giovanotti diventarono due garibaldini. Alla partenza, siccome in paese si era fatta una colletta per i volontari e ad essi n'era già toccata una parte, il padre li chiamò. Erano presso un'osteria. - I tedeschi sono sempre stati nostri nemici, ma questa volta dev'essere finita per sempre: battetevi tutti da bravi - concluse dopo un lungo discorso alla presenza di molta plebaglia, che gli batté fragorosamente le mani. - E adesso beviamo. - Vorreste mangiarci quei due soldi che abbiamo - rispose il maggiore dei due figli, il più lacero. - Ti ho detto di bere - ribatté il conte rattenendosi. - Dove avete i quattrini voi? - Il vecchio, che si vide penetrato, gli lanciò una occhiata sinistra; la plebaglia rideva e fermava quanti passassero per farli assistere alla scena. - Il conte, il conte! - vociavano i bambini. Il conte era diventato livido. - Tu dunque vai a batterti per la patria? - replicò con voce stridula. - Sai che cosa ti darà la patria, dopo? - Non voglio niente io. - Te lo darà ugualmente: ti darà la galera. Il figlio alzò la mano, ma la gente s'interpose. Nullameno il conte trovò modo di farsi ubbriacare da un altro volontario, e prima di sera incontrandosi coi figli: - Ohé! - gridò loro barcollando - io ho fatto bene la mia prima tappa. Questo scherzo li rappattumò. Ma come il vecchio aveva predetto accadde: dopo cinque o sei anni ambo i figli quantunque non malvagi finirono in galera. Egli proseguiva la solita vita, solamente era stato nominato organista della parrocchia con cento lire annue di stipendio e, ciò che maggiormente importava, con una nuova facilità a scroccare buoni pranzi. D'allora non fu festa di campagna alla quale si suonasse o no l'organo senza di lui. Arrivava primo, nel tempo della caccia, colle reti e i richiami, per cacciare in qualche campo vicino ove in mancanza d'uccelli s'ingegnava colla frutta o altro; d'inverno col solito mantello bucherellato di panno turchino, un residuo dell'antica eleganza, e il caldanino sotto. Partiva ultimo non senza qualche cartoccio nelle tasche, giacché a tavola domandava quasi per ogni pietanza il permesso di conservarne un ricordo, esagerando questo uso già troppo sfacciato di molti preti. Nella primavera, a caccia proibita, invescava le cingallegre, d'estate arretiva gli ortolani, nel settembre le passere, d'ottobre trovava qualche paretaio disusato per i fringuelli; e d'inverno tornava colla pania ai tordi, o saliva malgrado la neve al paretaio, ne spazzava la platea, e lì nel casotto, semivestito, gelato, con una pignattina di caffè, nella quale intingeva un pezzo di pane, aspettava tutto il giorno che un fringuello più affamato di lui venisse a beccare l'erba presso il boschetto. Era una caccia rabbiosa e desolata. Spesso il vento alzando turbini di neve glieli sbatteva sul volto incorniciato dal finestrino, immobile come un ritratto: aveva i diacciuoli nella barba, il naso pavonazzo, le lagrime agli occhi, e nullameno raggomitolato nel vecchio mantello, il caldanino sulla pancia e le mani sul caldanino, i piedi dentro una vecchia sporta piena di paglia, aspettava sempre. L'uccello arrivava pigolando: allora i suoi occhi scintillavano, un brivido più freddo lo faceva tremare sulla panca, afferrava colla mano dritta la ciambella del tiratoio e attendeva senza respirare. Ma se l'uccello saltarellando per la platea s'involava prima di essere entrato fra le reti, la sua passione scoppiava in un delirio di collera. Poneva il caldanino sul parapetto e alzando le corna al cielo chiamava Dio ad alte grida come un nemico personale, che si compiacesse a torturarlo vigliaccamente. - Nemmeno un uccello... To'! - e un gesto intraducibile conchiudeva la bestemmia. La sera giù nel villaggio, vedendolo arrivare mezzo morto dal freddo senza nemmeno un passerotto, gli davano la berta: egli tornava ad inviperirsi. Poi il governo mise una forte tassa di trentacinque lire sui paretai, di quaranta sulle reti a mano, di dieci per le panie, e proibì i lacciuoli. La nuova legge, soggetto, prima e dopo la promulgazione, di tutti i discorsi del villaggio, fu pel conte causa di nuove tragedie. Egli aveva giurato di cacciare senza nessuna licenza, ma nonostante tutti i riguardi dei carabinieri, che fingevano di non vederlo, cadde più volte in contravvenzione, e dovette scontarla con la perdita degli attrezzi e parecchi giorni di carcere. Le sue bravate al caffè, dove parlava dei carabinieri col più insultante disprezzo, li aveva costretti a catturarlo. Allora fu eroico: colle cento lire dell'organo, la sua unica rendita, comprò tutte le licenze e venne trionfante al caffè ad inveire contro quei signori che per paura della nuova tassa avevano dismessi i paretai. - E quest'inverno? - gli chiese un bracciante che giuocava a scopa. - Sai leggere tu? - No. - Io so scrivere - rispose sardonicamente, e una risata in coro gli diede ragione. Infatti le lettere restavano sempre la sua migliore risorsa, anche quando giuocava. Ma questa frenetica passione del giuoco, che gli aveva fatto perdere i lenzuoli, le sedie e una volta persino i tortellini di Pasqua, prima di cuocerli, a un centesimo l'uno, non riusciva oramai più a soddisfarla. I due o i cinque franchi spillati ai gonzi sfumavano tosto in dolciumi, se il gioco non era pronto: nullameno se ne rifaceva alla meglio. Talora nel paretaio, mentre passava un branco di passeri e dava loro lo zimbello, aveva scommesso: - Cinque soldi che piglio almeno tre passere? - Intanto gli uccelli giungevano al tiro. - Scommettiamo, tiravia: cinque soldi... - Ma come vuoi fare? Potresti prendere anche tutto il branco. - Ebbene in questo caso avrò perduto - rispondeva il giuocatore indiavolato. Un'altra volta gli dettero tre lettere da portare a tre parrocchie: erano inviti per un funerale. Egli partì sollecitamente; cinque soldi per lettera e senza dubbio una pagnotta e un bicchiere di vino dal prete che la riceveva. A un miglio dal paese si incontrò in un altro giuocatore, vecchio contadino, già possidente andato a male. Si fermarono a chiacchierare presso il parapetto di un ponte: ambedue non avevano sciaguratamente giuocato da un pezzo, quindi il conte mostrò le tre lettere e gli espose l'incarico. - Eh! - mormorò l'altro invidiosamente - quindici soldi con poca fatica. - Vogliamo giuocarli? - Non ho le carte - ribatté il contadino con tono amaro. Il conte ebbe un sorriso umiliante di superiorità. - Ecco, sono tre lettere a cinque soldi l'una, vanno a tre parrocchie: scommettiamo. Se indovini la parrocchia hai vinto tu, se non la indovini ho vinto io. - Ma se non ho un soldo! - replicò l'altro solleticato dal giuoco e forse anche dalla sua stranezza. Poi una idea lo illuminò. - Facciamo così: se vinco, tu mi cedi l'incarico e le porto io; così tu non metti fuori niente. - E se perdi? - L'altro si grattò la testa. - Va là, imbecille, l'ho trovata io: se perdi mi accompagnerai nel giro senza guadagnare nulla. Invece perdette il conte. Così erano passati molti anni, poi i figli uno alla volta tornarono dalla galera: il maggiore ripartì dal villaggio e andò a fare il manovale a Roma, l'altro si acconciò nel paese da stalliere presso un oste. Il conte viveva solo. Stava lassù in un solaio screpolato, quasi senza porta, col tetto troppo incline, attraverso il quale si vedevano le stelle: d'inverno la neve gli cadeva intorno al letto alta sino al ginocchio senza che egli pensasse a spazzarla, non aveva camino, e d'altronde gli sarebbe mancata la legna. Il fornaio gli riempiva gratis il caldanino di carbonella: del letto non aveva rimasto che il pagliericcio, entro il quale si cacciava tutto vestito, poi col mantello si faceva una coperta e col vecchio cappellaccio una specie di berrettone. Nei giorni di gran freddo non si alzava più; passava le lunghe ore a guardare i propri uccelli chiusi dentro un abbaino sporgente sul tetto e difeso da una rete di ferro, rifacendo forse per la milionesima volta gli stessi sogni di giuoco, di caccia o di dolciumi. Aveva pochi bisogni e meno rimorsi; se fosse ridivenuto ricco si sarebbe nuovamente rovinato. Oramai in paese la sua miseria e le sue stravaganze si erano talmente invecchiate nell'abitudine di tutti che nessuno gli badava più. Egli tirava dritto. Finalmente si ammalò. Un giorno la ruota di un biroccino pigliandogli il mantello lo fece cadere; parve cosa da nulla, ma non si rimise più. Gli vennero meno le gambe, si mise a letto. Il figlio per rispetto mondano, fors'anche per un rimasuglio di pietà, venne ad usargli qualche cura, a portargli qualche zuppa. Egli non si lagnava. Era d'inverno. Nel solaio aperto a tutti i venti sarebbe gelato il vino: le pareti scrostate e sudicie annebbiavano la poca luce, il pavimento era tutto rotto, la porta sgangherata metteva certi urli ai buffi del vento, che parevano umani. Solo gli uccelli nell'abbaino saltellavano o canticchiavano di quando in quando. Nessun altro mobile o soprammobile occupava un poco di quella nudità desolata, tranne un fiasco spagliato, sospeso per un chiodo a capo del letto. Una volta, quando lo poteva ancora, vi faceva il caffè attaccandolo alla catena del focolare; adesso era vuoto, impolverato, e per coperchio aveva un guscio d'uovo. E, sintomo di morte vicina, egli aveva venduto quasi tutti gli attrezzi di caccia, meno un sacco di reti che gli servivano da guanciale. - È morto? - domandava talvolta la gente al figlio. Questi si stringeva indifferentemente nelle spalle. Ma un giorno l'arciprete si credette in dovere di visitare il suo organista, che da sei mesi non suonava più e si faceva sostituire dal capobanda del villaggio, un giovane di carattere dolcissimo. Quando il conte scorse l'arciprete: - È venuto per darmi il buon viaggio? - esclamò. - Mi dispiace che dovrà accompagnarmi gratis al cimitero, ma io non ce ne ho colpa; l'uso l'hanno inventato loro. Per me ne farei anche a meno. - Non volete dunque i conforti della religione? - Il conte ebbe un sorriso spavaldo. Egli si era sempre vantato d'empietà pur bazzicando nelle chiese, ma la sua fisonomia era così disfatta che il prete credette di non essere venuto inutilmente. Il medico aveva già dichiarato da tempo che il conte oltre la paralisi alle gambe soffriva di un aneurisma. Nullameno l'occhio dell'infermo era sicuro. Allora s'impegnò una lunga discussione fra il prete, che voleva convertire il conte, e questi che, rabbrividendo a qualche sua ragione, non voleva mostrarlo per un'ultima bravata di morire senza sacramento. Erano le tre dopo mezzogiorno; il figlio uscito da un'ora non sarebbe ritornato che a notte. Il vecchio colla testa appoggiata sulle reti, nascosto dentro il pagliericcio, col vecchio mantello sopra il cappellaccio che gli si rialzava come una sporta sulla fronte, non mostrava che la faccia bianca sotto la barba bianca cresciutagli nell'ultimo mese. Ad un tratto si sentì male. Il prete gli si chinò sopra premurosamente: - Aspettate, vado a prendere i sacramenti - mormorò vedendolo mutare fisonomia. Ma l'altro mise fuori una mano e lo rattenne. - È tardi. - Raccomandatevi a Dio. - Ma c'è? - Ne dubitereste proprio? - Il vecchio dubitava davvero. Ma il prete richiamato a tutta la serietà del proprio ufficio da quella agonia improvvisa, si trasse di tasca una grossa medaglia e presentandogliela perché la baciasse: - È la Madonna delle Grazie, vi sono due mesi di indulgenza a dirle un'avemaria. Il vecchio tese la mano. - Baciatela dunque. - Ma c'è? - Chi? - Dio - e tacque; poi facendo uno sforzo per voltarsi a guardare in faccia l'arciprete, gli mostrò la medaglia. - Scommettiamo: io prendo testa, voi lettera. - Disgraziato! - gridò il prete, offeso nella propria fede da quello che egli prendeva per uno scherzo brutale. - Avete paura di perdere; scommettiamo: non c'è. - Dio?! - Testa... - chiamò l'infermo gettando la medaglia in mezzo alla stanza, e piegò subitamente il capo. Rantolava: il prete si voltò al tintinnìo della medaglia, ma attratto dal rantolo del morente non poté raccoglierla. Il conte moriva, aveva gli occhi vitrei, un filo di bava sulla bocca. A un tratto, mentre il prete suo malgrado agitato da quella suprema scommessa stentava a trovare le parole rituali per raccomandargli l'anima, il vecchio sbarrò gli occhi: parve voler parlare. - Raccomandatevi a Dio! - La testa ricadde, era morto. Il prete si chinò atterrito per vedere se respirava ancora, ma sentendolo già freddo provò un brivido alla schiena. Allora confuso, quasi palpitante in un dubbio che non avrebbe voluto sentire, andò a raccogliere la medaglia: era dentro un crepaccio del pavimento. Così al buio non si discerneva da che parte fosse voltata. Si abbassò. - Testa! - Il conte aveva vinto l'ultima scommessa.

I FIGLI DELL'ARIA

682310
Salgari, Emilio 2 occorrenze

Le giunche si affrettavano a dirigersi verso le rive, mentre i pescatori, pazzi di terrore, balzavano in acqua, abbandonando le loro barche alla corrente. - Un drago! Un drago! - urlavano tutti. Gli abitanti delle sponde, udendo quei clamori, si precipitavano fuori delle capanne, ma, appena scorto il mostro volante, s'affrettavano a rientrare, gridando e facendo gesti disperati. Rokoff e Fedoro si divertivano immensamente del terrore dei cinesi e anche il capitano pareva che si compiacesse dell'effetto che produceva la sua macchina volante, la quale seguiva le capricciose curve del fiume, tenendosi a un'altezza di soli cento metri. A un tratto però le loro risa si tramutarono improvvisamente in un'esclamazione di sorpresa e anche d'angoscia. Lo "Sparviero" aveva superato una curva, quando d'un tratto un colpo di cannone rimbombò sulla riva destra, in mezzo ad un folto gruppo di pini seguito subito dal ben noto ronfo metallico d'un grosso proiettile. Un fortino, nascosto fino allora dalle piante, si era improvvisamente delineato all'estremità d'un piccolo promontorio dominante il corso del fiume ed alcuni artiglieri, che occupavano una bastionata, avevano fatto fuoco contro il mostro, scaricando un grosso pezzo d'artiglieria. La palla, di grosso calibro di certo, era passata pochi metri sopra il fuso, perdendosi poi fra le boscaglie della riva opposta. Un po' più abbasso e forse la macchina sarebbe stata fracassata. - In alto! In alto! - aveva gridato il capitano, slanciandosi verso il macchinista. Rokoff e Fedoro avevano staccato rapidamente due fucili che si trovavano sospesi alla balaustrata armandoli precipitosamente. In quell'istante un secondo sparo rimbombava all'estremità del bastione, dietro un terrapieno. Altri soldati, dei manciù, avevano smascherato un secondo pezzo e credendo in buona fede d'aver a che fare con qualche mostro, avevano fatto fuoco. Un momento dopo l'ala di babordo, troncata a metà, quasi nel centro dell'armatura, si ripiegava bruscamente, spostando il fuso. Il capitano aveva mandato un grido di furore. - Canaglie! Ci rovinano! Rokoff e Fedoro avevano risposto con due colpi di fucile, abbattendo uno degli artiglieri. Gli altri, vedendo cadere il loro compagno, si erano precipitati all'impazzata verso una casamatta, abbandonando il pezzo. Fortunatamente, anche i manciù che si trovavano all'opposta estremità del bastione, ne avevano seguito l'esempio, rifugiandosi entro il fortino. - Signore! - gridò Rokoff. - Cadiamo? - No, - rispose il capitano, che aveva ricuperato prontamente il suo sangue freddo. - I piani inclinati ci sostengono e pel momento non v'è alcun pericolo. È un'avaria che ripareremo. Il fuso infatti si manteneva all'altezza primitiva, però aveva rallentato la sua corsa e si era inclinato verso l'ala ferita. Le eliche orizzontali e quella di rimorchio funzionavano con velocità vertiginosa sostenendo l'apparecchio, ma le ali non agivano più, per non guastare interamente quella che era stata colpita dal proiettile. - Resisteremo? - chiese Rokoff che s'aspettava di vedere, da un momento all'altro, lo "Sparviero" precipitare nelle acque profonde e vorticose del fiume. - Sì, - rispose il capitano che cercava di dare alle eliche la maggior rapidità possibile. - Non approdiamo? - chiese Fedoro. - La riva destra è vicina. - Non ho alcun desiderio di farmi assassinare dai manciù! Se ci vedessero scendere qui verrebbero a scovarci. Bisogna che ci allontaniamo fino a trovare qualche isola o qualche sponda deserta. - E se cadiamo prima di giungervi? - chiese Rokoff, che non si sentiva affatto tranquillo. - Il vento che soffia dietro di noi ci porta e agisce a meraviglia sui piani inclinati. Guardate: non discendiamo nemmeno d'un centimetro. - Maledetti cinesi! ... - Ci hanno scambiato per demoni. - E l'ala? - L'accomoderemo - rispose il capitano. - Non si tratta che di fare una solida saldatura e una rilegatura all'asta, e io, in previsione di possibili accidenti, ho portato con me tutto il necessario per le riparazioni. Il mio macchinista s'incaricherà di guarire la nostra povera ala. Si vede ancora il fortino? - No, signore, è nascosto da una curva del fiume - rispose Fedoro. - E io scorgo dinanzi a due o tre miglia di distanza, un'isola che fa per noi. Sono deserte le rive? - Non vedo che boschi di pini e canneti. - Speriamo di calare inosservati. Lo "Sparviero", sempre sorretto dai suoi piani inclinati e rimorchiato dall'elica prodiera, s'avanzava lentamente sull'Hoang-ho, spinto anche dal vento che era, fortunatamente, favorevolissimo. Era però sempre un po' sbandato dal lato dell'ala spezzata, tuttavia pareva evitato il pericolo d'un capitombolo improvviso. L'isola ingrandiva a vista d'occhio. Era un bel pezzo di terra, di forma allungata, situato proprio in mezzo al fiume, in un punto dove questo aveva una larghezza di oltre due chilometri. Folti canneti circondavano l'isolotto e sulle rive crescevano numerose piante, per la maggior parte pini, querce e giuggioli. Numerosi uccelli acquatici, gru, oche, schiavi d'acqua, alcedi e marangoni svolazzavano in mezzo ai canneti, formando, colle loro grida rauche, un baccano assordante. - Bell'isolotto, - disse Rokoff che lo guardava attentamente. - E non vi è alcun abitante - disse Fedoro. - Ne prenderemo possesso senza contrasti e spiegheremo la bandiera dello "Sparviero", se ne ha una. - L'ha, ma non si espone, almeno per ora - disse il capitano che lo aveva udito. - Ehi, macchinista, rallenta e lasciamoci cadere dolcemente. I piani inclinati basteranno. L'isola, che aveva un circuito d'oltre un miglio, si prestava magnificamente alla discesa dello "Sparviero" poiché, mentre le rive erano coperte di folti alberi, l'interno invece era solamente ingombro di sterpi e di piccoli cespugli. Arrestato il movimento turbinoso delle tre eliche, l'aerotreno che aveva già raggiunto la punta estrema dell'isolotto, cominciò ad abbassarsi lentamente, sorretto dai piani inclinati, i quali agivano come due immensi aquiloni. Passò sopra i primi alberi sfiorandone le cime, poi calò dolcemente proprio in mezzo a quel brano di terra, coricandosi fra i cespugli. Le due ali, con un mezzo giro dell'albero motore, si erano distese orizzontalmente, in modo da rimanere perfettamente nascoste a qualunque navigante che scendesse o salisse il fiume. - Che cosa ne dite di questa discesa? - chiese il capitano con voce assai lieta. - Che non poteva riuscire migliore - rispose Rokoff. - Potete andare superbo della vostra macchina, signore. Eppure io avrei giurato che saremmo precipitati in mezzo al fiume. - Sì, se il mio "Sparviero" non fosse stato munito dei suoi piani inclinati - disse il capitano. - Andiamo a vedere l'avaria prodotta da quella maledetta palla. Sbarcarono balzando fra gli sterpi, sotto i quali si udivano pigolare numerosi uccelli e si vedevano fuggire bande di piccoli rosicchianti, ed esaminarono l'ala. Il proiettile aveva spezzato nettamente l'asta principale, a circa metà altezza, asportandone un pezzo lungo trenta centimetri e forando la seta, sicché le nervature superiori, non più sorrette, si erano ripiegate. Era una mutilazione grave, ma non irreparabile. - Quanto tempo ti è necessario? - chiese il capitano al macchinista. - Non meno di dodici ore - disse l'interrogato. - Rispondi della saldatura? - Sarete soddisfatto. Abbiamo una buona scorta d'aste d'alluminio e la fucina. - Ti possiamo essere utili? - Farò tutto da me. - Portami dei fucili da caccia. Poi volgendosi verso Rokoff e Fedoro, disse: - Signori, facciamo una battuta fra i canneti della nostra possessione. Un po' di carne fresca spero che l'accoglierete bene. I fagiani dorati e argentati non devono mancare fra questi cespugli. - Una passeggiata la faccio volentieri - rispose Rokoff. - E poi mi preme di sapere se i manciù del fortino sono rimasti sui loro bastioni. - Temete che vengano a disturbarci? Non credo che ci abbiano veduti calare su questo isolotto. - Non abbiamo percorso molte miglia, capitano. - Una mezza dozzina. - Siamo ancora troppo vicini. - Li consiglierei a non venire qui - disse il capitano. - Abbiamo una mitragliera che tira stupendamente. Signori, in caccia!

I cinque aeronauti, perché anche il macchinista si era armato abbandonando per un momento il timone, fecero due scariche l'una dietro l'altra in mezzo al gruppo. Fu una vera strage. Cinque su nove, caddero moribonde, volteggiando e starnazzando, mentre le altre fuggivano rapidamente, verso gli altissimi picchi dei Tian-Scian. - Che batosta! - esclamò Rokoff. - Capitano, se ci abbassassimo a raccogliere i morti? - Per cosa farne? - Degli arrosti. - Che sarebbero più coriacei della carne dei muli vecchi - rispose il comandante. - Mangiare degli uccelli che hanno forse uno o due secoli di vita! Preferisco i miei pasticci di canguro. - È selvaggina, signore - Che non vale una pipa di tabacco. D'altronde se siete amanti dei selvatici, presto ne troveremo in abbondanza. Il Tibet è ricco d'argali e anche di jacks selvatici che valgono, per la squisitezza delle loro carni, i bufali ed i bisonti. - E li cacceremo da qui? - E perché no? Correremo meno pericolo, signor Rokoff. Gli jacks addomesticati valgono i nostri buoi; allo stato selvaggio sono invece cattivissimi e non esitano a caricare i cacciatori a colpi di corna. In quell'istante delle urla acutissime si alzarono sotto lo "Sparviero". Il capitano, Fedoro e Rokoff, si erano vivamente precipitati verso la balaustrata, prendendo i fucili. - Una carovana! - esclamò il capitano. - Da dove è sbucata che prima non l'avevamo veduta? - Da quel bosco di betulle e di larici - disse Rokoff. - Ma ... to'! Si direbbe che ci adorano! Sono tutti in ginocchio e alzano le mani verso di noi con gesto supplichevole. - Sono calmucchi - disse il capitano. - Non sono predoni e non avremo nulla da temere da parte di loro. Volete che andiamo a visitarli? Vedo che stanno rizzando le loro tende e poi vi è un prete fra di loro. - Non mi rincrescerebbe - rispose Rokoff. - E poi, non sono che una dozzina - disse Fedoro. - Prenderemo le nostre armi. - Macchinista! Scendiamo - comandò il capitano.

Cerca

Modifica ricerca