Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Il Marchese di Roccaverdina

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Capuana, Luigi 2 occorrenze

«Ha perduto ogni suo diritto, abbandonando casa e marito. Io ammiro immensamente questa povera donna che ha fatto due giorni di strada, a cavallo, quasi senza fermarsi, soltanto per vederlo. Ieri sera, quando si è presentata e si è buttata ginocchioni, supplicante, io ... che non sono di cuore tenero ... io e il dottore ... eravamo commossi come due ragazzi. Non abbiamo saputo dirle: "Tornatevene donde siete venuta". Sarebbe stata una gran crudeltà.» «Ma ora ... » «Ora, la lasceremo qui, fino a che non vengano a scacciarla via, se ne avranno il coraggio. È stata l'amante? E voi avete tali scrupoli?» «Non li chiamare scrupoli ... Il marchese di Roccaverdina non deve morire con quella donna al capezzale ... Sarebbe uno scandalo!» «Deve morire come un cane, alle mani di gente prezzolata, di Titta e di mastro Vito! ... Questo, ah! non vi sembra uno scandalo! E poi dite che io sono uno scomunicato! ... Ma c'è da rinnegare cento Cristi vedendo simili cose! ... » Tre giorni dopo, l'ebetismo aveva fatto passi da gigante. Il marchese, liberato dalla camicia di forza, restava seduto su la seggiola a bracciuoli, cupo, silenzioso, con le mani sui ginocchi. Agrippina Solmo lo vestiva, gli lavava la faccia, lo pettinava, gli dava da mangiare, con cura materna. Certe volte, al suono della voce che lo chiamava: «Marchese! Marchese!», che lo sgridava con dolcezza quando si ostinava a rifiutare il cibo, egli rivolgeva lentamente la testa verso di lei, la guardava sottocchi, con aria sospettosa, quasi quella voce ridestasse dentro di lui riminiscenze di lontane sensazioni, che però dileguavano rapidissime e lo facevano ricadere nella cupa immobilità per ore ed ore. E nella giornata gli si sedeva vicino; e mentre l'animalità di quel corpo sembrava di sentire qualche godimento pel tepore dell'occhiata di sole che lo investiva presso al balcone, ella gli parlava piano, per sfogo, quantunque sapesse di non essere capita: «Perché ha fatto così, voscenza ? Perché non mi disse mai una parola? ... Ah, se mi avesse detto: "Agrippina, bada!". Mezza parola sarebbe bastata! Non era voscenza il padrone? Che bisogno c'era di ammazzare? ... È stato il destino! Chi credeva di far male? Ah, Signore! Ah Signore! ... ». Ella si rallegrava di vederlo tranquillo, di non più udirlo gridare né smaniare. Le sembrava che questo fosse miglioramento. E rimaneva dolorosamente maravigliata che il dottore ogni volta venisse, guardasse, scotesse la testa e andasse via alzando le spalle, senza risponderle nemmeno quando gli domandava: «Va meglio, è vero? Ora è docile come un agnellino». Si sentiva però stringere il cuore vedendogli voltare e rivoltare lentamente le mani e osservarle a lungo e tastare le punte delle dita a una a una quasi volesse contarle, incurante della bava che riprendeva a colargli. Gliela asciugava col fazzoletto e ne seguiva ogni movimento della testa e degli occhi per scoprirvi qualche lampo di coscienza allorché gli ripeteva: «Sono io! Agrippina Solmo! Non mi riconosce, voscenza ? Sono venuta a posta; non mi muoverò più di qui! ... ». Poi, udendogli mugolare qualche parola, gli s'inginocchiava davanti, prendendolo per le mani che brancicavano i calzoni, e tentava di farsi fissare da quegli occhi che parevano inerti. «Sono io; Agrippina Solmo! ... Faccia uno sforzo, voscenza ! Si ricordi, si ricordi! ... Mi guardi in viso!» Lo sollevava pel mento su cui la barba era già cresciuta ispida, pungente; gli scansava dalla fronte i capelli cascatigli giù nel tenere sempre abbassata la testa come appesantita per la malattia del cervello; e all'ultimo, rizzatasi con scatto disperato, nascondeva la faccia tra le mani convulse, balbettando: «Che castigo, Signore! Che castigo!». E intendeva di dire pure per sé, quasi gran parte della colpa fosse stata sua, se il marchese aveva ammazzato Rocco Criscione. Titta, di tratto in tratto, veniva a tenerle compagnia. «Voi non l'avete visto nei primi giorni. Non si chetava un momento! Sono stato tre giorni e tre notti senza chiudere occhio! ... Faceva terrore.» «E la marchesa? Con che cuore ha potuto abbandonarlo?» «Ringraziate Iddio! ... Se ci fosse stata lei, non sareste qui ... » La osservava. Era tuttavia bella, meglio della marchesa, con quel viso affilato, bianco come il latte e quegli occhi neri e quei folti capelli nerissimi, alta e snella. E parlando di lei con mastro Vito, Titta dichiarava che, secondo lui, la prima pazzia il marchese l'aveva commessa dandola per moglie a Rocco che non se la meritava. «Non sapete il patto? Non doveva toccarla neppure con un dito ... Per questo il marchese lo ha ammazzato.» «Aveva messo l'esca accanto al fuoco ... Che avreste fatto voi?» «Capriccio di gran signore! ... A voi e a me non sarebbe passato per la testa quel patto. E n'è andato di mezzo un innocente! La marchesa non sa che la Solmo è qui. Verrebbe a cavarle gli occhi. Maria mi ha raccontato di averle sentito dire alla madre: "Non lo posso perdonare! È diventato assassino per quella donna!". Ed ha voluto andarsene.» «Il marito è sempre marito! In quello stato poi!» «Dicono che ha rinunziato alla dote per mano di notaio ... Il marchese le aveva assegnato Poggiogrande.» «Per mano di notaio?» «Ci credete voi? Io vorrei sapere intanto chi comanderà qui e provvederà ai fatti miei.» Lo zio don Tindaro e il cavalier Pergola venivano tre, quattro volte nella giornata, in compagnia del dottor La Greca. «Ah dottore! Non vuole mangiare più! Serra i denti, si volta di là; come fare?» «Ci siamo!» Il dottore non die' altra risposta; e Agrippina Solmo, che ne comprese il significato, si buttò su una seggiola, con le mani nei capelli, singhiozzando: «Figlio, figlio mio!». La desolata tenerezza di queste parole non commosse il vecchio zio del marchese, che le si avvicinò e la prese per un braccio, riguardosamente ma severo: «Dovete capirlo», le disse, «non potete restare più qui. Mastro Vito, pensateci voi ... Poveretta!». Ella gli sfuggì per baciare e ribaciare quelle mani quasi inerti che avevano ammazzato per gelosia di lei; e pareva volesse lasciarvi tutta l'anima sua grata e orgogliosa di essere stata amata fino a quel punto dal marchese di Roccaverdina. «Figlio! figlio mio!» E si lasciò trascinar via da mastro Vito, senza opporre resistenza, umile, rassegnata com'era stata sempre, convinta anche lei che non poteva restare più là, perché il suo destino aveva voluto così.

Così si rimetteva alla solita vita con vivissima eccitazione di occuparsi, di stordirsi, quasi le energie del suo organismo volessero prendersi la rivincita dell'inerzia in cui le aveva lasciate per tanti mesi, abbandonando gli affari di campagna in mano di garzoni incapaci e senza scrupoli, di mezzadri che col pretesto della cattiva annata, oltre di non pagare i fitti, venivano a piangergli davanti per avere soccorsi di semenza e di alcune giornate di quegli aratri di nuovo modello da lui fatti venire da Milano. La lunga siccità aveva reso duri come il ferro i terreni, e i vomeri ordinari non riuscivano a spezzarli per preparare i maggesi. «Abbiamo la mano di Dio addosso!», conchiudevano malinconicamente. Egli non osava di rispondere, come le altre volte: «La vera mano di Dio che vi pesa addosso è la vostra pigrizia!». Guardava un po' scoraggiato anche lui quelle campagne dove non si scorgeva un fil d'erba, quel cielo che, da mesi e mesi, non mostrava agli occhi ansiosi l'ombra di una nuvoletta all'orizzonte. Soltanto l'Etna fumava, quasi volesse ingannare la gente facendo scambiare per nuvole le dense ondate di fumo del suo cratere, che il vento disperdeva lontano. Verso sera, la spianata del Castello si popolava di contadini, di gente di ogni condizione che venivano a interrogare il cielo per trarne qualche buon augurio. Le serate erano dolci, quantunque già si fosse alla fine di novembre. Non spirava un alito. Il canonico Cipolla, che aveva letto i giornali in Casino, prognosticava vicina la pioggia. «A Firenze piove da un mese, giorno e notte! In Lombardia, fiumi rigonfi straripano, allagano le campagne. Il cattivo tempo è in viaggio; arriverà anche qui!» E i contadini che stavano a udirlo a bocca aperta, volgevano gli occhi verso il levante per scorgere qualche indizio che annunziasse il prossimo arrivo del cattivo tempo in viaggio , e sarebbe stato tempo benedetto! L'anno avanti non si era raccolto neppur tanto da compensare della semenza gettata nei solchi. Le ulive si erano rinsecchite su le piante. Per ciò tutti si sforzavano di raddoppiare la sementa, risparmiando il grano da molire, stringendosi le cigne dei calzoni attorno allo stomaco, sperando di rifarsi col nuovo raccolto. E il marchese parlava poco e senz'alzare la voce, ora passeggiando su e giù per la spianata, dal bastione allo zoccolo della croce, ora seduto su uno scalino di esso, sentendosi lentamente compenetrare dalla costernazione che si leggeva su tutti i volti e dalle parole di tristezza che uscivano dalla bocca di quei poveretti. Essi se ne andavano a uno a uno, a due, voltandosi indietro per dare un'ultima occhiata a quel cielo limpidissimo, a quelle campagne riarse, a quei monti lontani che non si erano coperti di neve e dietro i quali non si affacciava da mesi uno straccio di nuvoletta. Anche quei del Casino che venivano lassù non a godere il fresco ma a spiare, come la povera gente, il cielo di bronzo, l'orizzonte senza vapori e l'Etna che fumava, anche quei del Casino non discutevano più del sindaco, degli assessori, di tutte le loro misere gare municipali per cui ordinariamente si accapigliavano trovandosi insieme. «Sarà una mal'annata peggiore della precedente!» «I piccoli furti non si contano più!» «Che volete? La fame è cattiva consigliera!» «Dobbiamo pensare ai fatti nostri, marchese!» «Ognuno ha i suoi guai!», egli rispondeva. E siccome, una sera, assieme con altre persone, era venuto lassù anche il cavalier Pergola, suo cugino, col quale stava in rottura, il marchese fu costretto a rivolgere la parola pure a lui che si era avvicinato salutandolo il primo. Il cavaliere, ad arte o no, lo aveva toccato nel debole, domandandogli se era vero che quell'anno avrebbe adoperato la trebbiatrice a Margitello. «Forse, per prova, togliendola in prestito dal Comizio agrario provinciale.» «Voi potete farlo; ma i piccoli proprietari?» «Si tratterebbe di trasportare i covoni. La spesa verrebbe largamente compensata dalla celerità e dalla perfezione del lavoro. Margitello è un punto centrale ... Noi abbiamo quel che ci meritiamo», aveva soggiunto il marchese. «Non ci curiamo di associarci, di riunire le nostre forze. Io vorrei mettermi avanti, ma mi sento cascare le braccia! Diffidiamo l'uno dell'altro! Non vogliamo scomodarci per affrontare le difficoltà, né correre i pericoli di una speculazione. Siamo tanti bambini che attendono di essere imboccati col cucchiaino ... Vogliamo la pappa bell'e preparata!» «Parole d'oro!» «I nostri vini se li prende la Francia, con quattro soldi, e ce li rimanda trasformati in Bordeaux. I nostri olii sono buoni appena per saponi o per macchine, e abbiamo intanto le migliori ulive del mondo. Io ho prodotto vini, così, per saggio, da mettersi in tasca tutti i Bordeaux, tutti gli Xeres, tutti i Reni dell'universo; olii da dar dei punti a quei di Lucca e di Nizza ... Ma bisognerebbe produrre in grande, esportare ... E non parlo dei formaggi, del burro ... !» Erano rimasti soli lassù, senz'accorgersi che la sera si era inoltrata; il plenilunio ingannava. All'ultimo, il cavalier Pergola gli aveva detto: «Pur troppo è così! Siamo ancora mezzi barbari! ... Ecco: per parlare di noi, giacché l'occasione è capitata, noi ci guardiamo da un bel pezzo in cagnesco. Perché? Per un pregiudizio. Non ho sposato in chiesa! È il mio gran delitto. Vostro zio non vuol vedere in viso, nemmeno da lontano, sua figlia! Voi avete fatto lo stesso con me». «Il torto è vostro, cugino! Siete scomunicato, non lo sapete? E fate vivere in peccato mortale anche quella poveretta!» «Perché un prete sudicio non ci ha buttato addosso due gocce di acqua salata?» «Benedetta, cugino! Dio vuole così!» «Quale Dio? Chi lo ha visto cotesto Dio?» «Io vi rispondo come don Silvio La Ciura, quando don Aquilante voleva provargli che le persone della Santissima Trinità sono quattro: il Padre, il Figlio, lo Spirito Santo e il Dio che vien formato dalla riunione di tutti e tre.» «E che rispose quel bestione?» «Tre! Tre! Tre! E s'inginocchiò e baciò per terra ... Lasciamo andare questo discorso.» «Ebbene, scomunicato qual sono, io sto bene quanto gli altri. Che mi fa la pretesa scomunica? Niente. Se fosse vera, dovrei vedermi cascare i panni d'addosso; le mie campagne non dovrebbero fruttare; i miei affari andare a rotoli. Invece! Guardate là. Che cosa concludono quei gonzi che si affollano dietro a don Silvio, recitando il rosario del Sagramento, con la croce e i lanternoni, in processione per le vie? Sciupano scarpe e fiato. Da mesi, ogni sera, essi vanno attorno, mettendo malinconia alla gente, invocando la pioggia. Se esistesse davvero un Dio che fa la pioggia e il bel tempo, avrebbe dovuto muoversi a compassione. Non piove e non pioverà fino a che le leggi della Natura ... » «La Natura? Che cos'è?» «Il mondo, il cielo, l'universo, la materia; non c'è altro! E piove quando deve piovere, quando può piovere. E se noi crepiamo di fame, la Natura non si turba per ciò. Siamo insetti impercettibili di fronte al Creato.» «Ma cotesta Natura chi l'ha fatta?» «Nessuno. Si è fatta da sé, e da per sé ... » «Chi ve l'ha insegnate tutte queste fandonie?» «Chi? I libri che voialtri non leggete. Fandonie? Verità sacrosante; e i preti che hanno paura di perdere la cuccagna, se esse si diffondono nel popolo ... » «Voi l'avete sempre coi preti!» «Sono nemici d'ogni bene dell'umanità.» Tacquero, per guardare la folla fermatasi e inginocchiatasi laggiù davanti a la chiesa di Sant'Isidoro recitando il rosario del Sagramento dietro a don Silvio che portava la croce nera, tra una dozzina di lanternoni. Si udivano distinte le parole cantate: «E cento mìlia volte sia lodato e ringraziato ... !». In quel momento la campana del convento di Sant'Antonio dava il segno dell'un'ora di notte. Il marchese si avviò. Al lume di luna, si vedeva la folla dei preganti che sfilava inoltrandosi per la via di rimpetto, dietro la croce nera e le fiammelle gialle dei lanternoni che pareva traballassero.

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