Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Fisiologia del piacere

170362
Mantegazza, Paolo 6 occorrenze
  • 1954
  • Bietti
  • Milano
  • Paraletteratura - Divulgazione
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Altre volte anche l'uomo ride più del bisogno per mostrare che i suoi denti sono di una spiccata bianchezza, o abbandona in mostra con artificiosa indifferenza la sua mano, perchè affilata ed elegante. Anche l'uomo, che ha libato le gioie della gloria, non dimentica sempre le umili compiacenze della vanità, e, abbandonandosi ad un cinismo esagerato nel modo di vestire e di camminare, ride di cuore nel vedersi osservato e mostrato a dito. Più d'una volta anche i grandi uomini si pongono a studiare davanti allo specchio il disordine dei capelli e il ridicolo nodo della cravatta, e a bella posta sbagliano l'ordine dei bottoni nell'allacciare la giubba. La vanità morale è meno definibile della precedente, ma non è meno ricca di gioie e di colpe. Nei gradi minori l'uomo non fa che compiacersi in modo esagerato delle lodi che vengono tributate alle doti del suo cuore; mentre nei gradi massimi egli esagera il merito delle sue buone azioni, oppure le compie per il solo scopo della lode, arrivando ad una vera ipocrisia del sentimento. Ogni affetto buono o cattivo può avere le proprie vanità; e sebbene in questo campo le gradazioni per le quali si passa dal bene al male siano infinite, pure sappiamo benissimo determinare i confini che separano la fisiologia dalla patologia. L'uomo che al caffè getta con studiata indifferenza una carta moneta al povero che gli chiede l'elemosina, e si compiace della meraviglia che desta negli altri questa non comune liberalità, prova un piacere patologico. Così pure l'altro che tiene sul proprio tavolo le lettere che ha ricevute da forse un mese, per far credere che le ha tutte ricevute nella giornata, è colpevole dello stesso peccato del primo. Così l'uomo che fugge con orrore dall'innocente uccisione di un pollo, destinato forse a comparire sulla sua tavola, e l'altro che non vuol esser chiamato conte, e, quasi per dispregio, fa mostra del proprio blasone nel luogo più ignobile della sua casa.

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Per lo più si combinano fra loro in diversi modi in uno stesso individuo, il quale non si abbandona alla coltura di un ramo speciale, se non quando spera una raccolta maggiore di frutti. Allora egli arriva qualche volta a sagrificare germogli minori della stessa pianta, onde la gemma prediletta abbia a crescere più rigogliosa. La nostra coscienza e l'opinione pubblica ci fanno decidere nella difficile scelta. La pianta della vanità, essendo perenne e molto vivace, pullula sempre teneri rampolli anche nei tronchi recisi; per cui, quand'anche possa presentarsi un sol tronco ben alto e diritto, esso è circondato presso a terra da una famiglia di polloni che gli fanno corona. Così la donna che, dopo aver consultato se stessa, ha trovato che il suo cuore e la sue mente promettono assai poco, si dedica in modo speciale alla vanità fisica; tanto più che la bellezza è nel suo sesso più apprezzata, ed ella si è già persuasa che la turba che applaude o fischia sarà più pronta a ricompensarla di un voluttuoso piegar dei fianchi, o della studiata posa di una gamba accavallata sull'altra, che per i tesori più preziosi della mente o del cuore. La vanità in tutte le sue forme è sempre fatale alla vita del cuore, il quale intisichisce e muore. La donna che vuol piacere a tutti non può amare alcuno, e quando l'uomo le domanda il cuore, ella non sa trovarlo, perchè l'ha tagliuzzato, e ne ha dato un briciolo a tutti i suoi adoratori. Più di una volta essa si accorge del vuoto, e pone in luogo del prezioso viscere che ha sperperato, un cuore artificiale di cartapesta o di gomma elastica, che giunge talvolta ad ingannare gli uomini di corta vista. Questi cuori, se non altro, hanno il vantaggio di saper resistere alle intemperie e di non invecchiare mai. Che il cielo pietoso ce ne tenga lontani! Queste gioie sono di tutte le età, ma la vanità fisica naturalmente non può brillare che nella giovinezza, senza correre il rischio di farsi deridere anche dai fanciulli. La altre due varietà invece si sanno coltivare meglio nell'età adulta. La civiltà è molto favorevole a queste passioncelle, le quali, essendo bizzarre e capricciose, trovano nei magazzini della moda sempre nuovi abiti per mascherare un fantoccio che è continuamente lo stesso. Le gioie della vanità si nascondono con tale artificio, che la loro fisonomia è poco conosciuta. Qualche volta però brillano di tanta luce, che gli occhi si fanno scintillanti, e tutta la fisonomia ne è raggiante. Spesso l'espansione del piacere è irrefrenabile, e l'uomo vano, tornando nella propria camera, si soffrega le mani, ride col proprio specchio, e si abbandona alla più sfrenata allegria, sghignazzando, saltando, gesticolando, parlando o canticchiando.

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Dapprima incerta e piccina, la smania di possedere diventa grande, grandissima, gigantesca; palpiamo amorosamente la moneta per un istante, ma essa si allontana, e ci abbandona per correre in altre tasche, che l'attendono impazienti, ma dalle quali spiccherà presto un altro volo. Non è che l'avaro il quale arresta il corso dell'elemento il più volubile e il più mobile, e chiudendolo nei suoi robusti scrigni, lo castiga dei lunghi viaggi. Nè l'immagine è iperbolica o falsa, perchè l'avaro, nella sua gioia di possedere, sente una vera compiacenza nell'arrestare il movimento delle monete. Per lui il denaro è vivo, e tiene con esso lunghi e misteriosi colloqui, perchè egli lo ama con trasporto e con delicatezza, come un amico, come un amante, e lo adora come dio della forza e della potenza. L'avaro è generalmente sempre vecchio; e s'egli ha i capelli neri e la pelle ancor fresca, è un mostro rarissimo, nato senza affetti. Egli ha già veduto tramontare l'uno dopo l'altro i soli della giovinezza, e le pallide gioie che risplendono ancora d'una luce fioca nel suo oscuro orizzonte non gli bastano. È allora che diventa avaro, e, raccogliendo i frammenti sparsi delle sue rovine morali, li appoggia sopra un sostegno ancor caldo, che comunica loro vita e calore. È il sentimento della proprietà, portato al delirio e sostenuto dall'onda del sagrifizio e dalla veemenza dell'affetto. La rabbiosa tenacità della vecchiaia, che non lascia mai cadere dai suoi artigli di ferro ciò che una volta ha afferrato, si accompagna coll'impeto della passione e coll'ardore del desiderio giovanile. Questo astro è l'ultimo sole che illumina i giorni estremi della vita, e tramonta con essa, brillando sempre d'una luce tanto più viva quanto più è vicina a spegnersi. L'uomo che aveva veduto fino allora nel suo cielo tanti astri, non vede altro che un unico sole; e se prima, nel culto de' suoi piaceri, era stato politeista, diventa ora deista puro e semplice. Le gioie dell'avarizia sono, in generale, più coltivate dall'uomo che dalla donna. Non saprei dire se gli antichi avessero un numero maggiore o minore di avari. L'abitudine al commercio predispose a godere di questi piaceri morbosi, e si può dire con sicurezza che gli Ebrei, i quali da lunghi secoli dovettero attenersi all'unica professione del traffico, devono a questa circostanza l'accusa tradizionale e verissima, salvo onorevoli eccezioni, di una continuata ed esosa avarizia. L'influenza di questi piaceri è pessima, e i sentimenti più nobili muoiono nel clima polare nel quale cresce prosperosa l'avarizia, che è la pianta più nordica che si conosca, eccettuando forse l'egoismo, del quale è degna sorella. La sua fisonomia è calma, e si esprime con sorrisi glaciali o con uno sghignazzare stridente. La mimica dell'avaro si concentra, del resto, quasi tutta nell'occhio che si bea de' raggi dorati, e nella mano che palpa intenta i dischi metallici.

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I fiori più splendidi e più profumati dell'amore si colgono nella giovinezza, quando ci si abbandona alla prima passione col cuore vergine e coi tesori del sentimento ancora incorrotti. Si ama in tutti i paesi e in tutti i tempi; ma credo che la civiltà abbellisca queste gioie di molti delicati ornamenti, ed è innegabile l'influenza che esercitano su questi piaceri le diverse condizioni sociali. Tutti possono nella vita passare qualche istante di piacere con una persona di sesso diverso, ma non tutti possono amare. Per provare questa passione in tutta la sua perfezione fisiologica bisogna avere nel cuore un certo materiale di forza e di fuoco che non tutti posseggono. Per godere le maggiori gioie di questo sentimento bisogna prenderlo a grandi dosi alla volta. La donna e i più generosi amatori tracannano quasi sempre la tazza dell'amore in un sol fiato, sicchè non possono inebbriarsi che una sola volta nella vita; e se amano ancora, non è che spandendo sopra qualche creatura le ultime stille di affetto rimaste nel fondo del calice. Alcuni altri, invece, sono per natura tanto spilorci, che libano sempre a sorsi e a centellini. Questi usurai dell'amore dicono di essere stati innamorati centinaia di volte, e negli archivi polverosi delle loro memorie conservano pacchi di letterine profumate e spasimanti, ciocche di capelli e residui di fiori secchi. Essi però non hanno mai amato. La natura non concede che una sola tazza del nettare dell'amore, e per inebbriarsi bisogna vuotarla di un sorso. Chi mostra di bevervi continuamente, o finge o fa da barattiere, diluendo coll'acqua il santo liquore. Vi sono però alcuni genii o mostri del cuore, che sanno mare più volte e sempre più caldamente, ma sono vere eccezioni.

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Si può bere, mangiare, e provare qualche gioia tattile per la semplice ragione di procurarci un piacere; ma quando si beve un buon bicchier di vino, o si prende un gelato, o ci si abbandona a una gioia nella quale si inganna e si tradisce la natura, non si giuoca. Quanta filosofia in questa ingenua menzogna e in questo giuoco di parole! Sebbene i giuochi inventati dall'uomo siano innumerevoli e diversi fra loro, pure hanno in sè alcuni elementi comuni. Il primo, e forse l'unico necessario a tutti i giuochi, è l'esercizio dell'amor proprio sotto tutte le forme. Vi è sempre uno che deve vincere ed uno che deve perdere; vi deve sempre essere uno che riesce primo. E anche quando il fanciullo si diverte da solo giuocando alla palla, gode di riuscire a fare qualche cosa che presenta una certa difficoltà. Nei giuochi nei quali la vittoria non si deve che al caso, si ha pur sempre la gioia della fortuna, della quale pur troppo abbiamo, così nelle piccole come nelle grandi cose, la vanità di compiacerci. Il secondo elemento, che è quasi indispensabile come il primo per produrre il piacere nel giuoco, è il lavoro facile che ci riposa o ci distrae, e che, in ogni caso, non ci fa sentire il peso insopportabile di un ozio perfetto. Si è già analizzato questo piacere parlando del tabacco. La formula più semplice che rappresenta tutti i giuochi è costituita da due elementi, cioè da una piccola compiacenza dell'amor proprio e dal piacere di far qualche cosa senza fatica, cui bisogna aggiungere i piaceri della curiosità e del guadagno. La curiosità entra in quasi tutti i giuochi come elemento produttore del piacere, ma non è così necessaria come si crede. Si può giuocare con piacere anche quando si è sicurissimi di vincere, e, in qualche caso, anche quando si sa di perdere. E qui non si ha contradizione, perchè nel giuoco l'uomo che perde senza dolore prova sempre la compiacenza di sentirsi generoso, anche quando non pone mente a questo rapido esame di coscienza. L'amore del guadagno può essere del tutto escluso dalle passioni più o meno piccine che lottano fra loro in ogni giuoco, ma quando vi entra, acquista quasi sempre tanta preponderanza da far da padrone. Insieme all'amor proprio costituisce le emozioni più violente del giuoco, ma quasi sempre le sorpassa di gran lunga, sicchè bene spesso da solo viene ad occupare tutto il campo delle gioie del giuoco, il quale allora diventa un terreno di lizza, ove gli eventi di una lotta tempestosa e violenta costituiscono una gioia aspra e agitata, che può arrivare in qualche caso ad un vero delirio. Allorchè il bisogno di provare le vive emozioni del giuoco cresce al grado di passione, ci procura piaceri morbosi, i quali offendono l'estetica morale, quando non ci conducono alla colpa gravissima di dimenticare per esso i doveri più sacrosanti. Si cercano nel giuoco le emozioni; ma queste non si potrebbero avere, se non si avesse un vivo desiderio di guadagnare e un'orribile paura di perdere, e se la speranza ed il timore, alternandosi a brevissimi intervalli colle sconfitte e colle vittorie, non si agitassero continuamente. Può darsi che il guadagno non sia il primo scopo del giuoco, ma è pur sempre vero che a produrre la gioia si adopera sempre un fermento vizioso, una passione bassa o colpevole. Se sopra il telaio costituito dai piaceri dell'amor proprio, dell'occupazione facile, della curiosità e dell'amor del guadagno si tessono tutte le combinazioni dei piaceri del tatto e della vista, dei sentimenti sociali e dell'esercizio di alcune facoltà mentali, si vengono a costituire le formule che rappresentano le gioie di tutti i giuochi conosciuti. Senza entrare in molti particolari, i giuochi, secondo il piacere che in essi predomina, si possono classificare così: Giuochi nei quali predomina il piacere del guadagno e di essere sbattuti dalle rapide e continue oscillazioni segnate dalla fortuna (giuochi d'azzardo); Giuochi nei quali predomina la compiacenza dell'amor proprio, la quale si fonda sopra un'abilità intellettuale (scacchi, dama, ecc.); Giuochi che devono la loro prima attrattiva all'esercizio muscolare e dei sensi, e all'amor proprio che deriva dalla compiacenza di esser più o meno esperti (bigliardo, palla, birilli, bersaglio, bocce, ecc.); Giuochi nei quali la fortuna si combina coll'abilità, sicchè, non potendo misurare l'influenza che esercitano sull'esito questi due elementi, il vincitore può prendersi tutto il merito della vittoria, e il vinto ha un certo diritto di accusare la fortuna e di difendersi dall'umiliazione di non aver saputo vincere. Questi giuochi sono numerosissimi appunto perchè si adattano tanto mirabilmente alle esigenze dell'amor proprio (tarocco, scopa, tresette, domino, ecc.). Oltre queste classi principali se ne potrebbero fare altre secondarie formate dalle combinazioni di diversi piaceri. Oltre i giuochi propriamente detti, vi sono molte occupazioni, che non furono primitivamente immaginate al solo scopo di produrre un piacere, ma che possono benissimo servire a questo scopo. Così si hanno la caccia, la pesca, le passeggiate, i viaggi, il teatro, il ballo e infinite altre occupazioni. A questi possono aggiungersi tutti i ludi sportivi, specialmente quando non si considerano come esercizi, ma si praticano come semplici svaghi, come il pattinaggio, gli ski, il nuoto, il calcio, il tennis, la palla ovale, l'alpinismo e via dicendo.

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Si rimprovera e si castiga il desiderio onde voglia perdere il brutto vizio di troppo volere; e, dopo averlo fornito di nuovi fondi, lo si abbandona a sè. Ben sovente l'esperienza non fa che inasprirlo e non lo corregge mai affatto. Esso ritenta le antiche speculazioni, e per voler far diventare milionari il più delle volte giunge a non poter nemmeno regalare il mazzolino di viole, che pur sarebbe bastato alla felicità sempre buona e così poco esigente. Non sempre però le speculazioni arrischiate del desiderio vanno male: qualche volta ci porta a casa gioie preziose, che pur basterebbero a formare un capitale perpetuo per la felicità. Ma quando questa vuole impiegare i fondi e trarne un interesse modico ma sicuro, il desiderio vien sempre di mezzo coi suoi sogni dorati, co' suoi splendidi castelli in aria, e coi sofismi più insidiosi ci persuade ad arrischiare il guadagno sulla banca della fortuna, sicchè noi ritorniamo alle prime paure e ai primi pericoli. In questo modo quasi sempre si passa la vita, senza che mai si possa mettere a frutto un sol grano di felicità. Nè basta ancora: si possono qualche volta accumulare pochi capitali, dopo ostinate lotte e difficili vittorie riportate sul desiderio; ma noi abbiamo a sopportare le mille avarie e i mille danni ai quali va soggetta la felicità, il più delicato e il più volubile dei capitali che mai si possano possedere. Quando la felicità non è malata, è una delizia il contemplare la freschezza del suo colorito e l'ammirarne l'amabile vivacità; ma la sua salute è così precaria e cagionevole, che ben di rado si può godere di questo spettacolo soave. Le malattie che attaccano la felicità sono infinite; alcune vengono dal di fuori di noi, altre nascono in noi. Le prime sono costituite dai dolori che ci arrecano gli altri, per propria colpa o senza una colpa al mondo, ad esempio sia mostrandosi ingrati verso di noi, sia morendo, sia riverberando in noi il riflesso dei loro affanni; le seconde sono date dai malanni fisici del nostro corpo e dalle delusioni morali. Vi è un mezzo colpevole adoperato da alcuni per preservare la felicità da tutte le malattie contagiose che vengono dal di fuori, e consiste nel farle prendere ripetutamente un bagno di egoismo; ottimo fra tutti i mezzi che preservano dal dolore. Anche questa vernice però, per quarto impermeabile, non ci può difendere dai mali fisici, e d'altronde essa riesce tanto spiacevole, che nessuno osa avvicinarsi a questa felicità imbalsamata dall'egoismo. Dopo ciò potete comprendere facilmente perchè sembri teoricamente tanto facile l'esser felice, e perchè mai non vi si riesca. In ogni modo, per aspirare almeno ad un posto qualunque nel santuario dei felici in terra, bisogna, per prima cosa, prendere per amministratore dei propri fondi un desiderio già vecchio e prudente. Tutte le fatiche che dovremo durare nel far questa scelta ci saranno largamente compensate, e potremo aspettare senza rimorsi prima di deciderci alla scelta. Del resto, se non potremo trovare un desiderio che sia naturalmente calmo, potremo indebolirlo col regime pitagorico, col digiuno e col cilicio, sicchè abbia a camminare lento e zoppicante, quando uscirà nel mondo a spendere i nostri denari. Fatto questo, ci sarà possibile impiegare i nostri capitali a un interesse basso ma sicuro, assicurandoli e ipotecandoli con la virtù, la prudenza, lo studio. Accontentiamoci del poco, e per tutto ciò che ci mancherà accarezziamo la speranza; amiamo gli uomini e noi stessi; abbelliamo con la fantasia ciò che ci riesce disgustoso e brutto; compiaciamoci delle cose nostre senza superbia; crediamo e ridiamo, e se, dopo questo, non saremo ancora felici, potremo almeno dire di aver fatto tutto ciò che onestamente potevamo fare per diventarlo. A nostro contorto, poi, ricordiamo sempre che la felicità non è uno stato naturale all'uomo onesto, e che non può essere quasi sempre che una fortuna. Si può esser galantuomini e felici, ma soltanto come si può nascere milionari e nello stesso tempo uomini di genio, per un caso straordinario di fortuna. Del resto, ad altre circostanze pari, l'uomo più felice è quello che è dotato di maggiore sensibilità, di maggior fantasia, di volontà più robusta e di minori pregiudizi. È quell'uomo raro che a tanto volere, da sospendere le vibrazioni del dolore e da lasciare oscillare tutte le corde che fremono di piacere. La felicità può dunque essere un piacere al grado superlativo, una scintilla di gioia vivissima che attraversa l'orizzonte della nostra vita e scompare, dopo avere percorso una parabola molto breve. In questo caso essa è sinonimo di beatitudine, di piacere spinto al grado massimo dell'umano sentire, e accompagnato dalla piena coscienza della sodisfazione. Altre volte, invece, essa è una fiaccola che illumina un'epoca della nostra esistenza, o tutta quanta la vita, ed è in questo caso il sommo bene a cui possa aspirare l'uomo. Di questo stato beatissimo si hanno tante varietà quante sono le nature umane. Perchè vi possa essere la felicità, deve esistere un accordo ammirabile fra le circostanze ambientali e l'uomo che in esse si trova, perchè essa non è che l'armonia completa del nostro io col mondo che lo circonda. Le felicità nè si possono confrontare, nè sommare, nè dividere. L'Indiano-pampa che, dopo aver rimpinzato lo stomaco di sangue caldissimo di cavallo, si sdraia sotto il tetto del suo toldo, immerso nella beata coscienza di una digestione eccellente, è felice come il sultano che nelle delizie del suo serraglio, fra i sogni fantasmagorici dell'oppio, pensa di essere padrone d'una gran parte del globo; come il filosofo che, dopo lunghe ore di frenesia intellettuale fra i suoi libri e i suoi manoscritti, va a rannicchiarsi nel letto sentendosi pienamente felice. Questi tre uomini hanno diverse nature, godono in modo assai diverso, ma sono tutti felici, dacchè tutti credono di esserlo. Anche il pazzo, che sorride a chi non lo crede il sommo pontefice, è felice, s'egli si sente tale. Si può fingere la felicità come ogni altra cosa in questo mondo; ma dacchè uno si crede felice, lo è; nè l'eloquenza di Cicerone o le prepotenze d'un tiranno potrebbero farlo cambiare d'avviso.

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Come presentarmi in società

199861
Erminia Vescovi 2 occorrenze
  • 1954
  • Brescia
  • Vannini
  • paraletteratura-galateo
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Nel sedere, una persona veramente ben educata non accavalla le gambe, non si pone obliqua, non si abbandona sulla spalliera, non si dondola sulla sedia, con manifesta noncuranza dei presenti. Questi modi scorretti, una volta severamente proscritti, sono stati recentemente adottati... chi lo direbbe mai? dal sesso gentile. Una donna saggia e onesta non si mostra mai in una posizione indecorosa, perché sa che sopra il capriccio momentaneo della moda, a cui ciecamente sacrificano le teste leggere, ci sono le leggi inviolabili del pudore e del riserbo. E sa anche che la vera eleganza sta nella compostezza e nell'armonia delle attitudini e delle movenze. Quindi, ad esempio, una signora sedendo non accavallerà le gambe, a meno che l'ampiezza e la lunghezza della sua gonna siano tali da consentirle quella posa senza farle perdere nulla di quella compostezza e di quell'armonia. Alcuni hanno in questo un dono innato di grazia: tutto in loro è disinvolta eleganza, nessuna delle loro mosse è soverchia o impacciata, non mai troppo rapida nè troppo lenta, non mai angolosa e affettata. Di costoro bisogna dire come fu detto della poesia:

Nei teatri popolari, il pubblico si abbandona più facilmente alla manifestazione clamorosa delle sue impressioni. E passi pure per gli applausi e le esclamazioni, e non ci faccia sorridere di meraviglia scherzevole l'ingenua commozione di qualche buona donna che piglia proprio sul serio la faccenda e piange e freme... Ricordiamo il grazioso sonetto di Neri Tanfucio, in cui il pubblico inveisce contro il tiranno, all'Arena. Fin qui, niente di male. Ma il male è quando il popolo non abbastanza educato, tumultua, grida e fischia. Il fischiare è un atto crudelmente villano contro chi non si può difendere, e ha fatto quanto meglio poteva per divertire il pubblico e farsi un po' d'onore. La persona bene educata non fischia mai. ... Cioè, ammetto un solo caso. Ed è questo: se una scena immorale fosse accolta da una salve di fischi, la lezione sarebbe severa per chi tocca, ma non certo inefficace. In tutti gli altri casi è inutile usare tal modo di riprovazione, quando c'è quell'altro così semplice e dignitoso, e che non fa male a nessuno: alzarsi e andarsene.

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