Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNICT

Risultati per: abbandona

Numero di risultati: 9 in 1 pagine

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Cavalleria rusticana

243365
Giovanni Verga 1 occorrenze

Come farò adesso che Turiddu mi abbandona?...

Pagina 19

Il marito dell'amica

245070
Neera 1 occorrenze
  • 1885
  • Giuseppe Galli, Libraio-Editore
  • Milano
  • Verismo
  • UNICT
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In quell'ammasso grandioso di pietre e di tegoli caldamente lumeggiati dal sole, l'occhio di Maria seppe discernere l'ala nera di un palazzo diroccato, sotto l'ombra di un antichissimo cipresso rimasto ritto in mezzo al succedersi di case nuove e di piantagioni moderne; come una sentinella che non abbandona il posto. Maria guardò a lungo, affascinata dalle visioni del passato, ferma sul ciglio del bastione; poi riprese il cammino con passo ancor più celere. Erano le undici, quando arrivò davanti alla casa che rinchiudeva per lei tante memorie. Nulla era cambiato; nè il portone basso e tetro, nè il cortile fasciato dalle alte muraglie coperte di muffa, nè le finestre coi balconcini panciuti di ferro battuto, a riccioloni, intaccati dalla ruggine; nulla era cambiato nell'aspetto austero, fra la prigione e il chiostro. Solamente i locatori erano cambiati e nella vasta sala dove un vecchio infermo era morto, dove una fanciulla avea pianto, cinquanta bambini convenivano tutti i giorni a fare il chiasso. La vecchia casa cadente era stata utilizzata per un asilo infantile. Quando Maria si arrestò sulla soglia del portone i fanciulli uscivano allora in corte per la ricreazione, sbrigliati, tumultuosi, chiamandosi a vicenda, rincorrendosi nello spazio angusto, sempre in pericolo di cadere; tenuti in freno da una maestrina di diciotto anni che aveva fra le mani un lavoro di uncinetto, nel taschino del grembiale un romanzo, e che pure s'affannava a gridare: Zitti dunque! Tranquilli, ubbidienti. Ora viene la signora direttrice - parole che volavano, inafferrate, al di sopra dello sciame brulicante, coperte dalle vocine stridule e dal rumore di cento piedini vivaci che battevano il lastrico. Era una allegria spontanea, un erompere di forze giovanili, di desideri nascenti, uno sgambettare senza scopo, un gridare senza dir nulla; e poi un aprirsi simultaneo di panierini ed una gaja esposizione di mele, di panetti lucidi, di chicche che dava luogo ad altro vocio, ad altri sgambettamenti e a qualche baruffa incruente. Non vi erano ombre malinconiche per quei fanciulli. Le loro risa salivano argentine nel cortile tetro, le snelle figurine mettevano degli affreschi vivi sul muraglione; i più arditi tentavano dare la scalata al cipresso. Maria fu colpita da quell'onda di vita nuova che contrastava colle sue memorie; tanto rumore dove c'era una volta tanto silenzio! tanta gioja dov'ella era stata così mesta! Chiese alla maestra il permesso di assistere ai giuochi dei bimbi e la maestra lo concesse subito, pensando che la signora potesse avere dei bimbi da mandare a scuola. Davanti a Maria si era fermata una ragazzetta vestita di celeste, colle braccia un po' nude piene di fossette, colle gambe grasse dai contorni molli e due occhi estatici, grandi, lucidi, come bagnati, occhi di persona linfatica, che fecero pensare a Maria: «Ecco una donna che non soffrirà, che non combatterà; che cederà la prima volta, e la seconda, e sempre... e la chiameranno buona. » Discorreva con un'altra che presentava il tipo opposto; alta, sottile, nervosa, aveva le vene a fior di pelle e una piccola testa di razza, intelligente e pensosa, colla bocca seria e lo sguardo fermo nella pupilla affondata; sull'abitino di una tinta fredda, la carnagione bruna e trasparente usciva senza contrasti, più bruna nelle piegature del collo e sulla nuca dove spuntavano vigorosi i capelli nerissimi. Maria guardò questa seconda bambina con un vivo interesse, quasi con una simpatia di famiglia; simpatia che crebbe e si fuse a un sentimento di compassione, nel momento che un fanciullo già grandicello, passandole accanto, la scherzò sulla sua pelle scura e sull'abito dimesso; e quel fanciullo si pavoneggiava in una tunica color verde bottiglia, con un gran collo di trine alla Richelieu, che faceva cornice alla testa di una virilità precoce e di una bellezza non comune; il suo sguardo duro e imperioso rivelava già l'abitudine della conquista; doveva essere il figlio di un ricco, adorato e viziato - un futuro tiranno. E che pericolosa civetta quella bimba di sette anni, colla faccia di donna, che si è messa nascostamente dell'ovatta nel corpetto, che ha la pelle profumata dagli aromi sottili rubati alla mamma, che cammina col petto in fuori, colle anche snodate e guarda con insistenza provocatrice il bel ragazzo della tunica verde! Un gruppo di piccini, biondi, nudi fino all'ombelico, ruzzolano nella terra del cortile e vengono ad abbattersi coi piedi, colle mani, con tutto, sull'abito di Maria, che sorride, gonfio il cuore di una tenerezza triste. Quella infanzia giuliva così ignara dei mali che la aspettano, accresce la malinconia delle sue riflessioni. Che farà di qui a venti anni il piccolo filosofo dalle brachette aperte che è ora tutto intento ad anatomizzare una formica? - non spezzerà egli allo stesso modo un povero cuore di donna? Quanto tempo ci vorrà perchè quel grazioso amorino ricciuto diventi un ipocondriaco, nemico di tutto il mondo? E gli ospedali, i manicomi, le carceri non recluteranno forse il loro contingente futuro tra quelle testoline ingenue che colla bocca rosea rosicchiano una mela? - Età beata - disse la maestra; infilando una maglia. Maria sorrise a guisa di assentimento e sollevati gli occhi guardò la finestra della gran sala, dove era trascorsa così mestamente per lei una età che si dice pure beata. Ritrovava i brandelli della sua giovinezza distrutta; li ritrovava sui cornicioni del davanzale che le aveva sorretta la persona stanca nelle languide sere di estate, quando da quel pertugio della sua prigione anelava le ebbrezze della vita e le sfioriva, nella lunga attesa, il desiderio. Li ritrovava nelle ombre grigie del cipresso, sul balcone dove ella spiava i passi di Emanuele, nel mistero della scaletta buia dove per la prima volta egli l'aveva baciata, nello sfondo cupo dell'alcova dove era risuonato quel fatale: non posso. E riportando lo sguardo sullo sciame vivace, no, no, ella pensava, nessuno di voi proverà quello che io ho provato. Non tu, paffuta biondina che sarai madre di famiglia tranquilla e soddisfatta; non tu bimba linfatica dagli occhi lucidi, che prenderai sempre nel mondo tutto quello che trovi, lasciando i sogni ai poeti; nè tu, piccola civetta, che darai i tuoi sorrisi a tutti ed a nessuno il cuore. Forse - ella guardava ora la fanciulletta bruna della testina intelligente - tu forse! Le si avvicinò , abbracciandola stretta stretta: Oh se io fossi tua madre! La civettina, tenendo per mano il bel ragazzo dal collo alla Richelieu, propose il giuoco dell'ambasciatore. Sei bambini da una parte, sei bambini dall'altra. Avanti i primi: «È arrivato l'ambasciatore. «Tam tirum, lirum, lera... - È un giuoco stupido - disse la brunetta. - Quando si fa la sposa no - rispose la bimba linfatica. - Io non la faccio mai la sposa. La civettina si avanzò trionfante, perchè l'ambasciatore era venuto a prenderla «vestita di raso bianco» con centomila lire di dote. - Che miseria! - esclamò il bel ragazzo - almeno cento milioni ! - Cento milioni è più che centomila lire? - domandò uno dei piccini. Ma nessuno gli rispose. La campana della scuola avvertì che l'ora della ricreazione era trascorsa. La maestra si levò in piedi dignitosamente e i fanciulli tornarono ad aggrupparsi, spingendosi verso l'uscio, gridando con un rinforzo di acuti, quasi per esaurire nell'ultimo momento di libertà le forze ginnastiche dei loro polmoni. Che noia! - mormorò la civettina dal busto imbottito, scuotendo le gonnelline. Il bel ragazzo dalla tunica verde, sfogò il suo malcontento con un gesto di sfida, dietro le spalle della maestra. Qualcuno era rassegnato, e tra questi la fanciulletta intelligente. I piccini non capivano nulla, continuando a trastullarsi in mezzo alla terra, finché fossero venuti a levarli di peso. In breve il cortile restò deserto, sparso di buccie di mele, di briciole di pane, di pezzi di carta e di qualche pezzuola dimenticata; nell'angolo dei piccini, sotto il cipresso, c'era una scarpetta, larga come un guscio di noce, piena di sabbia. Maria si fermò un istante ancora, assaporando l'amarezza delle sue memorie. Era invasa da quel pensiero mesto fra tutti, della indistruttibilità del passato. Si domandava perché mai la vita è divisa sì crudelmente in parti che non attaccano l'una all'altra? Perché si passano dieci, vent'anni, in un dato ambiente, con persone e con affetti che sembrano eterni, e poi tutto cambia; per altri dieci, per altri vent'anni, per sempre, nuove persone, affetti nuovi, più nulla di quello che è stato, nulla, tranne il rimpianto pungente nei cuori che non sanno dimenticare? E se tutto cambia, se tutto muore, perché solo non muore il triste dono della memoria? Comprese alla fine che era necessario partire: e lo fece con rincrescimento, a brevi e lenti passi, mormorando fra sè: Addio, addio: come si staccasse da persona viva. Le vocine dei bimbi, in alto, sotto la volta cupa del salotto ripetevano in coro: Ba - Bo - Bu.

Pagina 77

Il ritorno del figlio. La bambina rubata.

245505
Grazia Deledda 2 occorrenze
  • 1919
  • Fratelli Treves, Editori
  • Milano
  • Verismo
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Pagina 194

Può essere brutto e vecchio quanto volete, questo corpo; la sua anima non lo abbandona volentieri! Questa ragione non mi impediva di serbare astio alla zia e alla sua casa. Eppure questa parve cominciare ad esercitare un triste fascino anche su di me. Nei tempi dopo il ritorno dal "Platano,, , non uscivo mai: tutto al più continuavo ad andare a fare qualche spesa, per conto della zia, in una drogheria all'angolo della strada, dove questa s'incrocia con un'altra più larga tutta bianca di sole e di polvere con gli sfondi perduti uno nell'azzurro dei monti l'altro nell'azzurro del mare. Rientravo a casa stordito da quell'attimo di luce, di calore; e mi sembrava di rientrare in una grotta, tanto la nostra abitazione era diaccia e ombrosa. Solo nel cortiletto cadeva il sole, a picco, ma spariva presto, lasciandovi un tepore chiuso, fermo: i muri rivestiti di verde odoravano di musco, e a questo profumo un po' triste e voluttuoso si mischiava l'odore bestiale dei conigli. Io me ne stavo là, seduto su una cassa rovesciata, e pensavo continuamente alla mia avventura. A volte chiudevo gli occhi e mi pareva di essere ancora nella vigna in fiore: un misterioso senso di attesa mi si risvegliava nel cuore e lagrime di tenerezza mi bagnavano gli occhi. No, tutto non poteva essere finito così. Allora riaprivo gli occhi e prendevo il taccuino per scrivere ancora a Fiora; ma non potevo: non potevo più neppure scrivere il suo nome. Mi pareva di essere diventato muto anche dentro di me: non potevo esprimere la mia angoscia, la mia stessa impotenza. Eppure aspettavo sempre; non sapevo che cosa, ma aspettavo. E io che avevo commesso il delitto avevo l'impressione di subire un'ingiustizia, perchè mi si negava il diritto, il modo di ripararlo, o almeno d'espiarlo con un castigo qualsiasi. Solo per amore di Fiora ed anche per quel senso di attesa che mi faceva sperare mio malgrado, non andavo a denunziarmi. Ma a giorni si ridestava in me una sensualità feroce: mi pareva di aver diritto alla donna ch'era stata mia, che doveva essere ancora solamente mia. Era come se fossi stato io il violentato e pretendevo una riparazione. Ma tutte queste tempeste si sbattevano entro di me, inutilmente, come in un vulcano chiuso: fuori dovevo sembrare un po' idiota, e nessuno si curava di me, neppure la zia, che pensava solo al mio benessere materiale come a quello delle sue bestie. Eppure bastava che una foglia, un fiore, una piuma calda di sole cadessero dal muro, davanti a me, per commuovermi: li prendevo fra le dita, li esaminavo, ne sentivo l'odore, il colore: le bestie, no, non le toccavo e non le amavo; ma quelle piccole cose mute e vagabonde mi piacevano; si rassomigliavano a me: e odoravo a lungo i fiori, fino ad appassirli, e li baciavo pensando a Fiora. Una cosa sola mi aiutava a vivere, fra tanta desolata solitudine: il sonno. Dormivo a lungo: e mi abbandonavo al sonno come ad un vizio, non perchè mi portasse l'oblio, ma perchè mi gettava in una esistenza fantastica che si univa in qualche modo alla mia avventura. Nell'addormentarmi mi pareva di essere ancora davanti ai portoni chiusi della casa colonica: li toccavo uno dopo l'altro, poi andavo a mettermi sotto la finestra di Fiora. Inciampavo e mi svegliavo di soprassalto. Ma poi mi riaddormentavo e sognavo. Invariabilmente, i sogni mescolavano la mia vita nell'Istituto con la mia avventura. Mi ritrovavo nel giardino della villa coi compagni: andavo in cerca dell'istitutore e lo trovavo con Fiora: ma questa mi sorrideva, di sopra la spalla di lui, e bastava tanto per farmi svegliare tutto in sudore e singhiozzante. Quell'angoscia notturna era la mia salvezza; poichè mi costringeva a piangere e nel pianto si scioglieva il mio dolore.

Pagina 84

Il romanzo della bambola

245678
Contessa Lara 1 occorrenze
  • 1896
  • Ulrico Hoepli editore libraio
  • Milano
  • Verismo
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È proprio vero che Dio non abbandona mai chi soffre. Quando la Marietta s'era scordata di lei per il puledro, ecco che ad amarla con tutto il cuore e tutta l'anima era venuta Camilla, creatura piena di gentilezza e di tenerezza. Finito con la morte l'amore di Camilla, quando la Rachele l'aveva tenuta male, dandola per denaro qua e là a bimbe sconosciute, e Attilio l'avea sfregiata, ecco Orlando a tenerle compagnia e consolarla, mentre ella meno se l'aspettava. Non era che un misero burattino fuori d'uso, Orlando; i suoi trionfi teatrali restavano soltanto un ricordo lontano e confuso; ma, per la Giulia, il sentire ch'ella non si trovava completamente sola al mondo, era pure una gran dolce cosa; e il cuore, povero cuore nascosto nella segatura, le si rasserenò a poco a poco come per incanto. Che le importava adesso lo squallore del luogo dove l'avevano imprigionata, e la poca luce che lo schiarava di sbieco, e il ribrezzo che le mettevano tutte le cose in torno per la muffa, la polvere, il vecchiume, la sudiceria? L'affetto del suo compagno di pena valeva certo più di molti bei mobili. Meglio quel lurido asilo fuori del consorzio umano insieme al buon Orlando, anzichè la splendida, allegra casa de' Rivani, col disamore della Marietta e il suo triste tradimento! Meglio finir cosi all'oscuro, sepolta sotto la polvere ma compresa e amata da un amico, anzichè passar nella vita, al gran sole d'oro, coperta di stoffe di seta a ricami, ma in mezzo all'indifferenza, tra la folla ma senza un essere pietoso e devoto.

Pagina 102

In Toscana e in Sicilia

245754
Giselda Fojanesi Rapisardi 1 occorrenze
  • 1914
  • Cav. Niccolò Giannotta, Editore
  • Catania
  • Verismo
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- Iddio è misericordioso, non abbandona le sue creature, e non abbandonerà nè anche me, quantunque sia una peccatrice indegna. Dava queste risposte calma, senza guardarlo in faccia, con accento umile e fermo al tempo istesso, già trasformata, inaridita, staccata dalla vita e dal mondo. Anche nella persona il cambiamento principiava ad essere evidente: il bel colorito roseo, sano, di prima, era scomparso e un pallore unito, senza sfumature, dal tono dell'avorio antico, si stendeva su quel visetto un tempo fresco, aperto, gioviale, che sembrava ora come velato e invecchiato precocemente dalla tiratura che era agli angoli della bocca, dalla mancanza di ogni vivacità, negli occhi, che sfuggivano sempre d'incontrarsi in quelli di chi parlava con lei, e dalla perduta rotondità nel contorno quasi infantile del volto e delle forme giovanili. La voce pure aveva attenuato il suono argentino che Roberto rammentava così bene, e che incominciava a divenir monotono, con dei suoni nasali; il gesto, una volta pronto e vivacissimo, si era fatto sobrio e lento; le mani rimanevano spesso incrociate alla cintura, o nascoste dentro le maniche del vestito, nella posa consueta alle monache, che cercano di sottrarsi più che possono all'osservazione altrui. Roberto Catalani non poteva credere agli occhi suoi: tutto quel profumo agreste di gioventù florida, spensierata, che gli era piaciuto tanto in lei, era scomparso, e ritrovava, dopo pochi mesi soltanto, un essere avvizzito di corpo e di spirito, su cui era passato un soffio distruggitore che ne aveva disseccata la vita nel suo pieno rigoglio. Dinanzi a quella rovina di cui Roberto Catalani scorgeva ora i segni palesi, si sentì prendere da una tristezza profonda, accresciuta da una punta di rimorso: non avrebbe dovuto lasciarla; egli era responsabile di tutto.... Bisognava condur via subito lei e la bambina.... risolver poi.... Oh! come si pentiva del suo egoismo, della sua leggerezza... Ma chi poteva supporre una cosa simile? Ebbene, l'avrebbe condotta via ora, per forza, giacchè non poteva per amore. Finalmente, era la madre della sua bambina ed aveva l'obbligo di seguirlo: era così giovane, così semplice, che tolta di lì si sarebbe rifatta in breve, d'anima e di corpo, ed ei l'avrebbe riavuta come prima, bella, giovane, sana, allegra e fiduciosa. Tutto ciò passò come un lampo dinanzi al pensiero di lui. Sì, non c'era altro mezzo e non, bisognava lasciarsi vincere dalle resistenze di Maria. Glielo disse chiaramente, bruscamente, passando all'improvviso dalle parole buone, dolci, persuasive, alle frasi dure, tronche imperiose. Essa parve spaventarsi un momento, smarrirsi; ma si riebbe presto e gli disse con voce ferma, che non aveva paura di lui, che, grazie al cielo, egli non aveva nessun diritto su lei e non poteva obbligarla a far cosa che ripugnava alla sua coscienza di fare. - Come t'hanno ammaestrata! Si vede che han pensato a tutto, e tu, povera grulla, ti sei prestata ai loro infernali raggiri..... Ma te ne pentirai e più amaramente di quello che tu ti sia pentita d'avermi voluto bene, d'aver ceduto al tuo amore per me, e non sarai più in tempo; non potrai più tornare indietro. Maria, al ricordo del suo fallo, aveva abbassata la testa e chiusi gli occhi, come inorridita, e alla profezia del suo nuovo pentimento, avea fatto un segno energico di negazione, come se avesse sentito dire un'eresia. Roberto Catalani, ormai stanco e disgustato, uscì dalla povera stanza nella quale aveva pur passate tante belle ore, quando la Maria, rimasta sola in casa, dopo che il babbo e i fratelli erano andati a lavorare, lo avvertiva che poteva entrare da lei, e andò fuori, sull'aia, come per respirare e riaversi del suo sbalordimento. Il vecchio e i due giovanotti, seduti sur una panca all'ombra di un pagliaio, capirono dal viso di lui, come fosse andata la cosa: - Fiato sprecato eh? Me l'immaginavo - disse Sandro. - E se si provasse a adoperare un pò di sugo di bosco, chi sa che non fosse il modo di farle capir ragione - aggiunse l'altro fratello. - Mah! io ho fatto di tutto.... e non so più che dire..... Il Catalani, non sentendosi nè la forza, nè la voglia di discutere con loro che disprezzava, si avviò verso il vicino paesello, con l'idea di ritornare la sera per fare un ultimo tentativo. Camminava come un sonnambulo senza vedere, senza sentire.... con una gran confusione in testa, un gran vuoto nell'anima.... A un tratto si scosse e provò il bisogno irresistibile di rivedere la sua bambina. Andò dalla donna che l'allattava e la trovò con la piccina attaccata al petto. Questa, veduto il nuovo arrivato, sospese di poppare: spalancò gli occhietti guardandolo, rise alzando i piedini e battendo le manucce, come se avesse capito chi era.... Roberto Catalani si sentì inondato da una grande tenerezza: la bimba era bella, sana, tenuta bene, ed era sua... tutta sua, dappoichè la mamma l'aveva rigettata, con una crudeltà indegna perfino di una belva. Era possibile che una madre, dopo averla baciata, rinunziasse ad una creaturina simile? Fosse stata malaticcia, stentina, brutta..... ma così rosea, così forte e graziosa, proprio il frutto rigoglioso di due esseri belli e sani che si amano con tutto lo slancio, tutta la vitalità naturale dei migliori anni giovanili! Vi era da andarne orgogliosi, da tenersela come un tesoro benedetto, da coprirla continuamente di baci e di carezze. Allora Roberto Catalani pensò che rivedendo la bambina insieme con lui, la Maria non avrebbe saputo resistere, si sarebbe commossa e data per vinta. Pregò quindi la balia di prendere in collo la piccola Ghita e di seguirlo: ancora una volta il bel fiore della speranza tornava ad aprirsi nel cuore di lui; ancora una volta sorgevano delle illusioni ad illuminargli l'anima. Giunse alla casetta in fondo al villaggio, con la scala ripida di fuori, sull'aia, che incominciava ad annottare. In cucina era stato acceso un lume, se ne vedeva il chiarore fioco riflettarsi in una striscia chiara sul palchetto, dall'uscio aperto. Roberto Catalani entrò in casa e vide il vecchio che si accingeva ad accendere il fuoco, chino sul focolare basso e largo, ove era appeso il paiuolo. - Chiamatemi la Maria, fatemi il piacere - gli disse Roberto Catalani. Quegli si voltò accigliato e borbottò: - La Maria? O dov'è la Maria? chi l'ha più vista? Ha preso il volo - e stendendo il braccio, accennò con la mano che se n'era andata. La donna con la bambina in collo, era rimasta ritta, nel vano dell'uscio illuminato. Il vecchio le dette un'occhiataccia e soggiunse : - Sì, ora che è entrata là dentro, mettetegli il sale sulla coda: chi l'ha vista, l'ha vista; quelle mura agguantano, ma non rendono; era tanto che lo diceva, stasera poi s'è decisa... Per me, non ci metto nè sale nè pepe: guà, chi si contenta gode... Roberto era rimasto sbalordito: questa poi non se l'aspettava... La sua comparsa aveva dunque affrettata la risoluzione della Maria di chiudersi in convento! - E voi l'avete lasciata andare? Perchè non glielo avete impedito? Non siete suo padre? - Io? la ragazza ha l'età della discrezione, ognuno può far di sua pasta gnocchi. Che forse mi veniste a chiedere il permesso, quando metteste insieme quel negozio là? - e accennò la bimba col dito pollice, senza voltarsi a guardarla, sempre curvo sul focolare; poi riprese: - Ora invece pare che abbia mutato idea e si voglia far monaca: buon prò gli faccia; vuol dire che l'abbadessa, se la prende, ha buono stomaco. Il su' fratello maggiore ci s'è arrabbiato, è andato su tutte le furie, il grullo... Come se non fusse una bocca di meno a mangiare... tanto per quel che faceva in casa, da un pezzo in qua..... Roberto Catalani fremeva; capì che non aveva più nulla da fare in quella casa, e se ne andò con un saluto asciutto asciutto. Dopo pochi giorni il giovane pittore riappariva in città, in mezzo ai suoi amici, triste e taciturno. Quelli lo credevano già pentito del passo inconsiderato che stava per fare; nessuno osava perciò di interrogarlo e dirgli qualcosa su tale argomento. Ma il Catalani, natura franca e espansiva, non potè frenarsi a lungo e scoppiò a dire: - Non sapete, eh? non sapete che son tornato con le pive nel sacco? Non m'ha voluto sposare... siete meravigliati, eh? Vi pare impossibile... i preti, cari miei, le monache le han messo per la testa tanti scrupoli, che l'han persuasa a rinunziare a me, e, quello che è peggio, che è mostruoso addirittura, alla sua figliolina..... L'han fatta entrare in convento..... tutto è stato inutile, tutto: preghiere, minacce, ragionamenti, tutto... Non m'ha neppure guardato in viso, capite? Me l'hanno ammazzata... se vedeste... era un fiore... e la mia bambina, la mia povera bambina non avrà mai la madre..... A quest'ultimo grido, il nodo che gli stringeva la gola si sciolse e potè finalmente dar libero sfogo al suo dolore, piangendo a calde lagrime.

Pagina 25

Il drago. Novelle, raccontini ed altri scritti per fanciulli

246717
Luigi Capuana 1 occorrenze
  • 1895
  • Enrico Voghera editore
  • Roma
  • Verismo
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In una delle porte a destra ha stabilito la sua rivendituccia di giornali e di fiammiferi un poveretto, che nei momenti della colazione e del desinare abbandona il negozio all'onestà dei passanti e della fida clientela che si serve da lui. Quel giorno, alla rivendita dei pochi giornali e dei fiammiferi, egli aveva aggiunta una primizia; improvvisandosi fruttaiuolo, teso un filo raccomandato a due chiodi, vi aveva messo a cavalcioni un gruzzoletto di ciliege immature, gialliccie, minutine. La via era quasi deserta. Sul marciapiede, davanti a me camminava una povera donna, che guidava il figliuolo cechino, di dodici o quattordici anni, e miseramente vestito. Arrivati a quella porta, la donna si fermò esclamando : — Oh!... Le ciliege! — Di già, mamma? Di già? Chi sa come sono belle! — Guarda. E preso il braccio del ragazzo, gli avvicinò la mano alle ciliege pendenti dal filo. Il ciechino cominciò a palparle, delicatamente, a una a una; e gli occhi senza pupille gli si dilatavano dal piacere, e la faccia gli sorrideva tutta in estasi, quasi per la via del tatto gli arrivasse al palato il sapore di quelle meschine frutte, che egli non poteva distinguere se buone o cattive. E ricominciò da capo, delicatamente, come se palpasse qualcosa di sacro, sorridendo sempre agitando le labbra e la lingua per meglio gustare il sapore ideale. Mi ero fermato dietro a loro, curioso di vedere la fine di quella scenetta; la povera donna sorrideva anche lei al sorriso del figliuolo, e non s'era accorta di me. A un tratto, tirò indietro il braccio del ciechino, e a bassa voce gli disse: — Se avessi un soldo, te le comprerei. Il ciechino, lieto e contento di aver almeno potuto toccarle, si strinse nelle spalle, rassegnato. Passarono oltre. Corsi con la mano al taschino del panciotto... Avevo dimenticato a casa il portamonete! Ma questa volta non risi; e tutta la giornata fui invasato dalla tristezza di non aver potuto fare, così a buon mercato, una buona azione. Povero ciechino, come sarebbe stato felice con due soldi di ciliege ! Ed io ero più mortificato, perchè — bisogna che lo confessi — all'atto della donna, avevo subito sospettato che, approfittando dell'assenza del rivenditore, volesse rubare quelle ciliege, con la scusa di farle palpare al figliuolo. Oneste creature, non vi dimenticherò mai! Quanto vi ho ammirate in questi giorni, ripensando a voi! Mi avete richiamato alla mente il precetto di non essere troppo corrivi nel giudicare le azioni altrui; e forse sarà merito vostro se, da ora in poi, non dimenticherò più il portamonete.

Nel sogno

248220
Matilde Serao 1 occorrenze

L'uomo che passa accanto a voi nella via, e che trascorre, quasi senza vedervi, porta in sè un sogno che vi è ignoto: la pallida donna che solleva la portiera pesante di una chiesa e s' inginocchia innanzi alla immagine di Maria, porta in sè un sogno di dolore, forse, e forse di pentimento: il gentiluomo che s'inchina, cortese, squisito, innanzi a una donna e pare ga- tante e spensierato, sogna, forse, un sogno di gelosia e di furore: la dama che si covre di brillanti e appare fulgida nella festa dove trionfa il piacere, nasconde forse nell'anima un sogno di pace, di solitudine, di silenzio, inaccessibile: il banchiere gajo e vittorioso che vi stringe la mano sorridendo e sparisce, sogna, forse, il distacco da questo vecchio povero mondo europeo dove niuno fa più fortuna, dove tutti impoveriscono: la fanciulla che tace e pensa, quando intorno a lei si narrano i fasti dalle grandi nozze, sogna, forse e senza forse, l'altare che la vedrà inginocchiata nella candida veste, mentre ella quasi si curva sulla visione, per scorgere il viso del misterioso sposo che non le è apparso ancora: la donna che legge, nelle pagine di un romanzo, nelle cronache di un giornale, l'urto terribile o truce della passione amorosa, abbandona il libro, il foglio sulle ginocchia e sogna quello che non le fu, che non le sarà mai concesso, vivere e perire per un amore. Oh potenza evocatrice del sogno, in chi sa sognare! Basta aprire un cassetto già chiuso da anni e guardare l'indirizzo di una lettera, per rivedere, sì, per rivedere come se fossero vivi, i cari occhi materni che mai seppero guardarvi senza dolcezza: basta contemplare un fascio di fiori campestri, per sognare il grande silenzio delle vaste distese solinghe, sotto il cielo stellato, nelle notti di estate: basta odorare un noto profumo per vedersi apparire innanzi un volto sfiorito dal dolore che già, da molti anni, sparve dal mondo e le cui treccie nere odoravano di quel profumo: basta udire il fischio di un treno che passa, per creare il sogno di una fuga: fuga interminabile, chi sa dove, chi sa quando, in un paese che non si è mai visto, che esiste, forse, solo nel sogno: basta il verso nostalgico e disperato di un poeta per creare un sogno di dolore e di disperazione. Potenza creatrice del sogno! Forme, linee, espressioni mai scorte, che non si scorgeranno mai: voci, parole, musiche che le nostre orecchie di carne non udranno mai: emozioni, voluttà, ebbrezze che le nostre fibre terrene non saprebbero sopportare: alte felicità e alte sciagure più grandi di ogni avvenimento estremo: improvvise ricchezze, improvvisi trionfi, improvvise glorie che non ci saranno mai date: tutta un'altra vita e mille vite, insieme ardenti, vibranti, tumultuanti, conducenti all'apogeo di ogni sensazione e di ogni sentimento. O fortunati coloro in cui il sogno tanto opera! Il sogno distende fra il sognatore e la vita come un velarlo, come una nuvola e il fortunato essere si avanza in questa specie di custodia immateriale, in quest'atmosfera spirituale isolante; e fra i veli del suo sogno, fra la bianca nuvola che Io avvolge, nella solitudine che lo assorbe, il fortunato può abbandonarsi alla sua profonda e cara visione, può come Issione struggersi di amore, di dolore, di folle ardore, senza che nulla di quanto esiste, nella verità, lo strappi al suo sentimentale delirio! Assai, assai più invidiabili coloro in cui, quale leva magnetica, il sogno diventa operoso. Può, spesso, la società positiva non saper risparmiare a questi sognatori il suo disprezzo; ma nella intimità del suo spirito, la società positiva invidia loro questa forza capace di sollevare le montagne, ma la vita e la morte di questi sognatori operosi finisce per istrappare un lungo grido di rimpianto e di ammirazione persino in coloro che li derisero. Che importa poi ai sognatori operosi la derisione, sogghigno, la beffarda incredulità? Coloro cui fu data questa suprema risorsa dell'intelligenza e del sentimento, coloro che portano in sè questo divino segreto, sono coverti di uno scudo fatato, scintillante, simile a quello su cui si spezzò la lancia di Telramondo senza giungere al petto di Lohengrin. Ogni anno, centinaja di deboli donne, soggette a tutte le fralezze del sesso, entrano negli ordini religiosi militanti e partono per le scuole, per gli ospedali, pei campi di battaglia, per le missioni nei paesi più inospiti e più selvaggi : e prese dal loro sogno di fede e di carità, esse combattono, decimate dalle malattie, dalle fatiche, dai climi perversi, dagli uomini perversi, e dove dieci sono cadute, venti, cento ne arrivano, e questa catena di nobilissime sognatrici giammai s'infrange, continuamente si prolunga. Ogni anno centinaja di giovani, di uomini maturi, di vecchi, entrano nei gabinetti della scienza e si curvano a interrogare tutti i misteri della natura e della vita, e impallidiscono sopra il microscopio, e perdono i loro occhi, la loro salute, semplicemente per portare un piccolo contributo alla verità; e spesso intiere esistenze si consumano, così, ignorate; e, spesso, i loro sforzi nulla raggiungono; e spesso la lotta è così inane, così acre, così tormentosa che essa li uccide, in pieno sogno di passione scientifica. Ma dove tanti perirono, altri, altri portanti nella mente questa visione fulgida, vengono ancora, lottatori accaniti, lottatori indomati, sino a che, un giorno glorioso, il sogno di tutti loro sia compiuto da un solo e la umanità possa dire di aver vinto, ancora una volta, il morbo e la morte. Ogni anno, ogni anno, in cento anime si svolge il sogno di viaggi in regioni non ancora percorse da piede d'uomo civilizzato: il grande sogno nordico, fra le nevi eterne del polo, fra le immortali bianchezze dove i giorni senza sole succedono alle albe livide e muojono ne le candide notti spettrali; e il sogno dell'Africa, sotto quella Croce del Sud che tanti occhi ansiosi interrogarono nelle notti di marcia, e che parve loro la mistica stella che condusse i Re nella peregrinazione verso Soria, questi due sogni immensi e profondi, affascinanti e travolgenti, tolgono alle ricchezze, agli agi, alla patria, alle famiglie cuori ed anime di sognatori sublimi. Invano essi languiscono di sonno, di fame, di malattia, fra i ghiacci che fanno scricchiolare la nave prigioniera: invano dieci, dodici muojono colà nel settentrionale estremo vedovo sito di silenzio e di gelo. Altri vi saranno che andranno, vinti dal sogno, a immolarsi, a cadere. Invano, la terra d'Africa si copre dei più nobili cadaveri di soldati, di marinai, di scienziati, di scrittori, di principi, di avventurosi: invano, ogni giorno, è la notizia di una nuova tragedia. Altri ancora, dalla Francia, dalla Germania, dall' Inghilterra, dalla stessa degenerata ed abbrutita Italia vi vanno, vi andranno ancora, poichè questo sublime sogno pare riceva un alimento prodigioso e misterioso dal sacrifizio, dal sangue, dalla morte. Infuria dappertutto la collera delle classi meno felici, meno fortunate contro coloro che tengono nelle mani tutti i poteri della Terra; ma dovunque sono donne di cuore, dovunque sono anime gentili muliebri, piccole e grandi associazioni di carità si formano, e ogni miseria morale, ogni infelicità fisica trova la mano che soccorre e che carezza, il sorriso che consola e che assolve, il ricovero che custodisce il sonno e l'innocenza, la protezione che sorveglia e che redime. Immensi dolori agitano il mondo: ma il sogno di carità che affratella le donne di ogni paese e di ogni condizione, ha tale soffio ardente e vivificante che esse sole, esse, le donne, le oscure e grandi anime sognanti, portano nel cuore il segreto che risolve il dolore umano! E il letto di morte dove posa la sua testa stanca, l'uomo che visse e andò verso la tomba per un sogno di fede, di bontà, di gloria, di grandezza, è pieno di pace finale per l'agonizzante. La monaca che muore uccisa dal tifo, il missionario che finisce, ferito dalla zagaglia barbara, lo scienziato che é avvelenato dai farmachi che maneggia,l'inventore che è stritolato dalla sua macchina, il viaggiatore che cade di freddo sulla tolda della nave confitta nella banchina di ghiaccio, l'esploratore che è ucciso dalle febbri o dalla lancia di un selvaggio, la dama che muore di una malattia presa nelle sue opere di carità, muojono in pieno sogno senza destarsi dalla loro nobile visione e dànno la loro vita senza rammarico, rassegnatamente, serenamente, sentendo di aver vissuto per qualche cosa di grande, sentendo di aver vissuto per qualche cosa di nobile. Oh, tu sei morto, Antonio Cecchi, dilettissimo amico, sulla terra di Africa dove vedesti cadere tanti altri, sognanti come te una gloria di civiltà e di redenzione: noi ti abbiamo perduto e non ci resta che abbracciare le tue ceneri fredde, quando arriveranno alla nostra marina, d'onde, anima tenera e gagliarda, tante volte ti salutammo partente. Tu sei morto, amico impareggiabile, impareggiabile cittadino, come Giuseppe Chiarini, come il nostro Licata, come Gustavo Bianchi, come Eugenio Ruspoli, come Vittorio Bòttego, morti, morti tutti, sognatori tutti, ma sognatori grandi, ma sognatori ammirabili, ma sognatori sublimi, morti sulla terra che vi ha sedotti, morti sul campo delle vostre visioni, morti in pieno sogno di eroismo. E voi siete perite, o dame del Bazar di Carità! Belle, ricche, nobili signore: gentili, leggiadre, briose signorine: monache delle case ospitaliere, il fuoco ha distrutto le vostre vite care alla fortuna, care alle vostre famiglie, care alla religione; siete morte mentre compivate un sogno di carità largo, vastissimo, tale da diffondere il bene nel cerchio più ampio e più oscuro delle tristezze umane. Più di cento donne sono morte a Parigi, facendo il bene, morte alcune senza voler fuggire, eroiche sino all'ultimo minuto della loro vita, trascinate dall'eroismo più sublime, dalla sognante passione della carità. Una di esse, mentre già le fiamme la investivano, ha abbracciato una monaca e le ha detto: Sorella mia, ora andiamo insieme in Paradiso. È vero. Deve esser vero. Dio ha fatto il Paradiso per chi muore, sognando così.

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Saper vivere. Norme di buona creanza

248580
Matilde Serao 1 occorrenze
  • 1923
  • Fratelli Treves Editore
  • Milano
  • Verismo
  • UNICT
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Le signorine, invece, hanno una lietezza a tutta prova, non s'incaricano di nulla, ballano con tutti, scherzando, trovando amabili tutti i loro cavalieri, per uno che le abbandona, sanno che ne troveranno dieci in cambio, trovano sempre grazioso il cotillon , non vanno al buffet se non per mangiucchiare dei dolci e intingere appena le labbra nello champagne, e dappertutto portano questo brio e questo entusiasmo, che sono il fascino di un ballo. Le giovani signore non possono fare questo simpatico chiasso, nè sorvolare come farfalle, nè abbandonarsi a tante danze, se no, sembrerebbero tante pazze o delle dame ridicole: esse debbono, al ballo, rappresentare la suprema beltà, la suprema squisitezza, ma debbono passare a traverso le feste come Dee, non saltellare, come le fanciulle. Un ballo, senza signorine, tutto può essere, salvo che allegro: e se è allegro, non allegro bene.

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