Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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La tregua

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Levi, Primo 3 occorrenze

Sedevamo sul pavimento di legno del vagone, addossati l' uno contro l' altro per proteggerci dal freddo; i binari erano sconnessi, e ad ogni sobbalzo le nostre teste, malferme sui colli, urtavano contro le tavole della parete Mi sentivo stremato, non solo corporalmente: come un atleta che abbia corso per ore, spendendo tutte le proprie risorse, quelle di natura prima, e poi quelle che si spremono, che si creano dal nulla nei momenti di bisogno estremo; e che arrivi alla meta; e che nell' atto in cui si abbandona esausto al suolo, venga rimesso brutalmente in piedi, e costretto a ripartire di corsa, nel buio, verso un altro traguardo non si sa quanto lontano. Meditavo pensieri amari: che la natura concede raramente indennizzi, e così il consorzio umano, in quanto è timido e tardo nello scostarsi dai grossi schemi della natura; e quale conquista rappresenti, nella storia del pensiero umano, il giungere a vedere nella natura non più un modello da seguire ma un blocco informe da scolpire, o un nemico a cui opporsi. Il treno viaggiava lentamente. Comparvero a sera villaggi bui, apparentemente deserti; poi scese una notte totale, atrocemente gelida, senza luci in cielo né in terra. Solo i sobbalzi del vagone ci impedivano di scivolare in un sonno che il freddo avrebbe reso mortale. Dopo interminabili ore di viaggio, forse verso le tre di notte, ci arrestammo finalmente in una stazioncina sconvolta e oscura. Il greco delirava: degli altri quale per paura, quale per pura inerzia, quale nella speranza che il treno ripartisse presto, nessuno volle scendere dal vagone. Io scesi, e mi aggirai nel buio col mio bagaglio ridicolo finché vidi una finestrella illuminata. Era la cabina del telegrafo, gremita di gente: c' era una stufa accesa. Entrai, guardingo come un cane randagio, pronto a sparire al primo gesto di minaccia, ma nessuno badò a me. Mi buttai sul pavimento e mi addormentai all' istante, come si impara a fare in Lager. Mi svegliai qualche ora dopo, all' alba. La cabina era vuota. Il telegrafista mi vide alzare il capo, e mi pose accanto, a terra, una gigantesca fetta di pane e formaggio. Ero sbalordito (oltre che mezzo paralizzato dal freddo e dal sonno) e temo di non averlo ringraziato. Mi infilai il cibo nello stomaco e uscii all' aperto: il treno non si era mosso. Nel vagone, i compagni giacevano inebetiti; al vedermi si riscossero, tutti salvo il jugoslavo, che cercò invano di muoversi. Il gelo e la immobilità gli avevano paralizzato le gambe: a toccarlo urlava e gemeva. Dovemmo massaggiarlo a lungo, e poi smuovergli cautamente le membra, come si sblocca un meccanismo rugginoso. Era stata per tutti una notte terribile, forse la peggiore dell' intero nostro esilio. Ne parlai col greco: ci trovammo d' accordo nella decisione di stringere sodalizio allo scopo di evitare con ogni mezzo un' altra notte di gelo, a cui sentivamo che non avremmo sopravvissuto. Penso che il greco, grazie alla mia sortita notturna, abbia in qualche modo sopravvalutato le mie qualità di "débrouillard et démerdard", come elegantemente allora si soleva dire. Quanto a me, confesso di aver tenuto conto principalmente del suo grosso sacco, e della sua qualità di salonichiota, che, come ognuno Auschwitz sapeva, equivaleva ad una garanzia di raffinate abilità mercantili, e di sapersela cavare in tutte le circostanze. La simpatia, bilaterale, e la stima, unilaterale, vennero dopo. Il treno ripartì, e con tragitto tortuoso e vago ci condusse in un luogo chiamato Szczakowa. Qui la Croce Rossa polacca aveva istituito un meraviglioso servizio di cucina calda: si distribuiva una zuppa abbastanza sostanziosa, a tutte le ore del giorno e della notte, e a chiunque indistintamente si presentasse. Un miracolo che nessuno di noi avrebbe osato sognare nei suoi sogni più audaci: in certo modo, il Lager a rovescio. Non ricordo il comportamento dei miei compagni: io mi dimostrai talmente vorace che le sorelle polacche, pure avvezze alla famelica clientela del luogo, si facevano il segno della croce. Ripartimmo nel pomeriggio. C' era il sole. Il nostro povero treno si fermò al tramonto, in avaria: rosseggiavano lontani i campanili di Cracovia. Il greco ed io scendemmo dal vagone, e andammo a interrogare il macchinista, che stava in mezzo alla neve tutto indaffarato e sporco, combattendo con lunghi getti di vapore che scaturivano da non so che tubo spaccato. _ Maschìna kaputt, _ ci rispose lapidariamente Non eravamo più servi, non eravamo più protetti, eravamo usciti di tutela. Per noi suonava l' ora della prova. Il greco, ristorato dalla zuppa calda di Szczakowa, si sentiva abbastanza in forze. _ On y va? _ On y va _. Così lasciammo il treno e i compagni perplessi che non avremmo più dovuto rivedere, e ce ne partimmo a piedi alla ricerca problematica del Consorzio Civile. Dietro sua perentoria richiesta, io mi ero caricato il famoso fardello. _ Ma è roba tua! _ avevo cercato invano di protestare. _ Appunto perché è mia. Io la ho organizzata e tu la porti. È la divisione del lavoro. Più tardi ne profitterai anche tu _. Così ci incamminammo, lui primo ed io secondo, sulla neve compatta i una strada di periferia; il sole era tramontato Ho già detto delle scarpe del greco; quanto a me calzavo un paio di curiose calzature quali in Italia ho visto portare solo dai preti: di cuoio delicatissimo, alte fin sopra il malleolo, senza legacci, con due grosse fibbie, e due pezze laterali di tessuto elastico che avrebbero dovuto assicurare la chiusura e l' aderenza. Indossavo inoltre ben quattro paia sovrapposte di pantaloni di tela da Häftling, una camicia di cotone, una giacca pure a righe, e basta: il mio bagaglio consisteva di una coperta e di una scatola di cartone in cui avevo prima conservato qualche pezzo di pane, ma che era ormai vuota: tutte cose che il greco sogguardava con non celato disprezzo e dispetto. Ci eravamo ingannati grossolanamente sulla distanza da Cracovia: avremmo dovuto percorrere almeno sette chilometri. Dopo venti minuti di cammino, le mie scarpe erano andate: la suola di una si era staccata, e l' altra stava scucendosi. Il greco aveva conservato fino allora un silenzio pregnante: quando mi vide deporre il fardello, e sedere su di un paracarro per constatare il disastro, mi domandò: _ Quanti anni hai? _ Venticinque, _ risposi. _ Qual è il tuo mestiere? _ Sono chimico. _ Allora sei uno sciocco, _ mi disse tranquillamente. _ Chi non ha scarpe è uno sciocco. Era un grande greco. Poche volte nella mia vita, prima e dopo, mi sono sentito incombere sul capo una saggezza così concreta. C' era ben poco da replicare. La validità dell' argomento era palpabile, evidente: i due rottami informi ai miei piedi, e le due meraviglie lucenti ai suoi. Non c' era giustificazione. Non ero più uno schiavo: ma dopo i primi passi sulla via della libertà, eccomi seduto su un paracarro, coi piedi in mano, goffo e inutile come la locomotiva in avaria che da poco avevamo lasciata. Meritavo dunque la libertà? il greco sembrava dubitarne. _ ... ma avevo la scarlattina, la febbre, stavo all' infermeria: il magazzino delle scarpe era molto lontano, era proibito avvicinarsi, e poi si diceva che fosse stato saccheggiato dai polacchi. E non avevo il diritto di credere che i russi avrebbero provveduto? _ Parole, _ disse il greco. _ Parole tutti sanno dirne. Io avevo la febbre a quaranta, e non capivo se era giorno o notte: ma una cosa capivo, che mi occorrevano scarpe e altro; allora mi sono alzato, e sono andato fino al magazzino per studiare la situazione. E c' era un russo col mitra davanti alla porta: ma io volevo le scarpe, e ho girato dietro, ho sfondato una finestrella e sono entrato. Così ho avuto le scarpe, e anche il sacco e tutto quello che sta nel sacco, che verrà utile più avanti. Questa è previdenza; la tua è stupidità, è non tenere conto della realtà delle cose. _ Sei tu ora che fai parole, _ dissi io. _ Avrò sbagliato, ma adesso si tratta di arrivare a Cracovia prima che sia notte, con le scarpe o senza _; e così dicendo mi andavo arrabattando con le dita intorpidite, e con certi pezzi di fil di ferro che avevo trovato per strada, per legare almeno provvisoriamente le suole alle tomaie. _ Lascia stare, così non concludi niente _. Mi porse due pezzi di tela robusta che aveva cavati dal fagotto, e mi mostrò il modo di impacchettare scarpe e piedi, tanto da poter camminare alla meglio. Poi proseguimmo in silenzio. La periferia di Cracovia era anonima e squallida. Le strade erano rigorosamente deserte: le vetrine delle botteghe erano vuote, tutte le porte e le finestre erano sbarrate o sfondate. Giungemmo al capo di una linea tranviaria; io esitavo, poiché non avremmo avuto di che pagare la corsa, ma il greco disse: _ Saliamo, poi si vedrà _. La carrozza era vuota; dopo un quarto d' ora arrivò il manovratore, e non il bigliettario (dal che si vide che ancora una volta il greco aveva ragione; e come si vedrà, avrebbe avuto ragione in tutte le successive vicende, salvo una); partimmo, e durante il percorso scoprimmo con gioia che uno dei passeggeri saliti nel frattempo era un militare francese. Ci spiegò che era ospitato in un antico convento, davanti al quale il nostro tram sarebbe passato fra poco; alla fermata successiva, avremmo trovato una caserma requisita dai russi e piena di militari italiani. Il mio cuore esultava: avevo trovato una casa. In realtà, non tutto fu poi così piano. La sentinella polacca di guardia alla caserma ci invitò dapprima seccamente ad andarcene. _ Dove? _ Che mi importa? Via di qui, in qualunque altro luogo _. Dopo molte insistenze e preghiere, si indusse infine ad andare a chiamare un maresciallo italiano, da cui dipendevano evidentemente le decisioni sull' ammissione di altri ospiti. Non era semplice, ci spiegò questi: la caserma era già piena zeppa, le razioni erano misurate; che io fossi un italiano, poteva ammetterlo, ma non ero un militare; quanto al mio compagno, era greco, ed era impossibile introdurlo fra ex combattenti di Grecia e di Albania: ne sarebbero nati certamente disordini e zuffe. Io ribattei con la mia migliore eloquenza, e con genuine lacrime agli occhi: garantii che ci saremmo trattenuti una notte sola (e pensavo fra me: una volta dentro ...), e che il greco parlava bene italiano e comunque avrebbe aperto bocca il meno possibile. I miei argomenti erano deboli, e io lo sapevo: ma il greco conosceva il funzionamento di tutte le naje del mondo, e mentre io parlavo andava frugando nel sacco appeso alle mie spalle. Ad un tratto mi spinse da parte, e in silenzio pose sotto il naso del cerbero una abbagliante scatola di "Pork", adorna di una etichetta multicolore, e di futili istruzioni in sei lingue sul giusto modo di manipolare il contenuto. Così ci conquistammo un tetto e un letto a Cracovia. Era ormai notte. Contrariamente a quanto il maresciallo aveva voluto farci credere, all' interno della caserma regnava la più suntuosa abbondanza: c' erano stufe accese, candele e lampade a carburo, da mangiare e da bere, e paglia per dormire. Gli italiani erano sistemati in dieci-dodici per camerata ma noi a Monowitz eravamo in due per metro cubo. Avevano indosso buoni indumenti militari, giacche imbottite, molti portavano l' orologio al polso, tutti avevano i capelli lucidi di brillantina; erano chiassosi, allegri e gentili, e ci colmarono di cortesie. Quanto al greco, per poco non fu portato in trionfo. Un greco! è arrivato un greco! La voce corse di camerata in camerata, e in breve intorno al mio arcigno socio si radunò una folla festante. Parlavano greco, alcuni con disinvoltura, questi reduci dalla più misericorde occupazione militare che la storia ricordi: rievocavano con colorita simpatia luoghi e fatti, in un cavalleresco tacito riconoscimento del disperato valore del paese invaso Ma c' era qualcosa di più, che apriva loro la strada: il mio non era un greco qualunque, era visibilmente un maestro, un' autorità, un supergreco. In pochi minuti di conversazione, aveva compiuto un miracolo, aveva creato un' atmosfera. Possedeva l' adatta attrezzatura: sapeva parlare italiano, e (ciò che più importa, e manca a molti italiani stessi) sapeva di che cosa si parla in italiano. Mi sbalordì: si dimostrò esperto di ragazze e di tagliatelle, di Juventus e di musica lirica, di guerra e di blenorragia, di vino e di borsa nera, di motociclette e di espedienti. Mordo Nahum, con me tanto laconico, divenne in breve il centro della serata. Percepivo che la sua eloquenza, il suo fortunato sforzo di "captatio benevolentiae", non muovevano soltanto da considerazioni di opportunità. Aveva fatto anche lui la campagna di Grecia, col grado di sergente: dall' altra parte del fronte, s' intende, ma questo particolare in quel momento sembrava trascurabile a tutti. Era stato a Tepeleni, anche molti italiani c' erano stati, aveva sofferto come loro il freddo, la fame, il fango e i bombardamenti, e alla fine, come loro, era stato catturato dai tedeschi. Era un collega, un commilitone. Raccontava curiose storie di guerra; di quando dopo lo sfondamento del fronte da parte dei tedeschi, si era trovato con sei suoi soldati a rovistare il primo piano di una villa bombardata e abbandonata, in cerca di vettovaglie; e aveva sentito rumori sospetti al piano di sotto, era sceso cautamente per le scale col mitra all' anca, e si era incontrato con un sergente italiano che con sei soldati stava facendo il suo stesso mestiere al piano terreno. L' italiano aveva spianato a sua volta il mitra, ma lui gli aveva fatto notare che in quelle condizioni una sparatoria sarebbe stata particolarmente insulsa, che si trovavano entrambi, greci e italiani, nel medesimo brodo, e che non vedeva perché non avrebbero potuto concludere una piccola pace separata locale e continuare le ricerche nei rispettivi territori di occupazione: alla quale proposta l' italiano aveva prontamente accondisceso. Anche per me fu una rivelazione. Sapevo che non era altro se non un mercante un po' furfante, esperto nel raggiro e privo di scrupoli, egoista e freddo: eppure sentivo fiorire in lui, favorito dalla simpatia dell' uditorio, un calore nuovo, una umanità insospettata, singolare ma genuina, ricca di promesse. A notte alta, saltò fuori non so di dove nulla meno che un fiasco di vino. Fu il colpo di grazia: per me tutto naufragò celestialmente in una calda nebbia purpurea, e riuscii a stento a trascinarmi carponi fino alla lettiera di paglia che gli italiani, con cura materna, avevano preparato in un angolo per il greco e per me. Spuntava appena il giorno quando il greco mi svegliò. Ahi disinganno! dove era sparito il gioviale convitato della sera avanti? Il greco che mi stava davanti era duro, segreto, taciturno. _ Alzati, _ mi disse con tono che non ammetteva replica, _ mettiti le scarpe, prendi il sacco e andiamo. _ Andiamo dove? _ Al lavoro. Al mercato. Ti pare bello farci mantenere? A questo argomento mi sentivo del tutto refrattario. Mi sembrava, oltre che comodo, estremamente naturale che qualcuno mi mantenesse, ed anche bello: avevo trovata bella, esaltante, la esplosione di solidarietà nazionale, anzi, di spontanea umanità della sera prima. Inoltre, pieno com' ero di autocommiserazione, mi appariva giusto, buono, che il mondo provasse infine pietà di me. D' altronde, non avevo scarpe, ero malato, avevo freddo, ero stanco; e infine, in nome del cielo, che cosa mai avrei potuto fare al mercato? Gli esposi queste considerazioni, per me ovvie. Ma, "c' est pas des raisons d' homme", mi rispose secco: dovetti rendermi conto che avevo leso un suo importante principio morale, che era seriamente scandalizzato, che su quel punto non era disposto a transigere né a discutere. I codici morali, tutti, sono rigidi per definizione: non ammettono sfumature, né compromessi, né contaminazioni reciproche. Vanno accolti o rifiutati in blocco. È questa una delle principali ragioni per cui l' uomo è gregario, e ricerca più o meno consapevolmente la vicinanza non già del suo prossimo generico, ma solo di chi condivide le sue convinzioni profonde (o la sua mancanza di tali convinzioni). Mi dovetti accorgere, con disappunto e stupore, che tale appunto era Mordo Nahum: un uomo dalle convinzioni profonde, e per di più molto lontane dalle mie. Ora, ognuno sa quanto sia malagevole avere rapporti in affari, anzi convivere, con un avversario ideologico. Fondamento della sua etica era il lavoro, che egli sentiva come sacro dovere, ma che intendeva in senso molto ampio. Era lavoro tutto e solo ciò che porta a guadagno senza limitare la libertà. Il concetto di lavoro comprendeva quindi, oltre ad alcune attività lecite, anche ad esempio il contrabbando, il furto, la truffa (non la rapina: non era un violento). Considerava invece riprovevoli, perché umilianti, tutte le attività che non comportano iniziativa né rischio, o che presuppongono una disciplina e una gerarchia: qualunque rapporto di impiego, qualunque prestazione d' opera, che egli, anche se ben retribuita, assimilava in blocco al "lavoro servile". Ma non era lavoro servile arare il proprio campo, o vendere false antichità in porto ai turisti. Quanto alle attività più elevate dello spirito, al lavoro creativo, non tardai a comprendere che il greco era diviso. Si trattava di giudizi delicati, da dare caso per caso: lecito ad esempio perseguire il successo in sé, anche spacciando falsa pittura o sottoletteratura, o comunque nuocendo al prossimo; riprovevole ostinarsi a inseguire un ideale non redditizio; peccaminoso ritirarsi dal mondo in contemplazione; lecita invece, anzi commendevole, la via di chi si dedichi a meditare e ad acquistare saggezza, purché non ritenga di dover ricevere gratis il proprio pane dal consorzio civile: anche la saggezza è una merce, e può e deve essere scambiata. Poiché Mordo Nahum non era uno sciocco, si rendeva conto chiaramente che questi suoi principi4 potevano non essere condivisi da individui di altra provenienza e formazione, e nella fattispecie da me; ne era peraltro fermamente persuaso, ed era sua ambizione tradurli in atto, per dimostrarmene la validità generale. In conclusione, il mio proponimento di starmene tranquillo ad aspettare il pane dei russi non poteva che apparirgli detestabile: perché era "pane non guadagnato"; perché comportava un rapporto di sudditanza; e perché ogni forma di ordinamento, di struttura, era per lui sospetta, sia che portasse a una pagnotta al giorno, sia ad una busta paga al mese. Così seguii il greco al mercato; non tanto perché convinto dai suoi argomenti, quanto per inerzia e per curiosità. La sera prima, mentre io già navigavo in un mare di vapori vinosi, lui si era diligentemente informato sulla ubicazione, usanze, tariffe, domande e offerte del libero mercato di Cracovia, e il dovere lo chiamava. Partimmo, lui col sacco (che portavo io), io dentro le mie scarpe fatiscenti, in virtù delle quali ogni singolo passo diventava un problema: il mercato di Cracovia era fiorito spontaneo, subito dopo il passaggio del fronte, e in pochi giorni aveva invaso un intero quartiere. Vi si vendeva e comperava di tutto, e tutta la città vi faceva capo: borghesi vendevano mobili, libri, quadri, abiti e argenteria; contadine imbottite come materassi offrivano carne, polli, uova, formaggio; bambini e bambine, naso e gote rubicondi per il vento gelato, cercavano amatori per le razioni di tabacco che l' amministrazione militare sovietica distribuiva con stravagante munificenza (trecento grammi al mese a tutti, anche ai lattanti). Incontrai con gioia un gruppetto di connazionali: gente esperta, tre soldati e una ragazza, gioviali e spendaccioni, che in quei giorni facevano ottimi affari con certe loro frittelle calde, confezionate con strani ingredienti sotto un portone poco lontano. Dopo un primo giro d' orizzonte, il greco decise per le camicie. Eravamo soci? Ebbene, lui avrebbe contribuito col capitale e con l' esperienza mercantile; io, con la mia (tenue) conoscenza del tedesco e col lavoro materiale. _ Vai, _ mi disse, _ gira tutti i banchetti dove vendono camicie, chiedi quanto costano rispondi che è troppo caro, poi torni e mi riferisci. Non farti notare troppo _. Mi accinsi di mala voglia a svolgere questa inchiesta di mercato: albergavo in me fame vecchia e freddo, e inerzia, ed insieme curiosità, spensieratezza, e una nuova e saporita voglia di attaccare discorsi, di intavolare rapporti umani, di fare pompa e spreco della mia smisurata libertà. Ma il greco alle spalle dei miei interlocutori, mi seguiva con occhio severo: presto, perbacco, il tempo è moneta, e gli affari sono affari. Ritornai dal mio giro con alcuni prezzi di riferimento, di cui il greco prese nota mentalmente; e con un buon numero di nozioni filologiche sgangherate: che camicia si dice qualcosa come "kosciùla"; che i numerali polacchi ricordano quelli greci; che "quanto costa" e "che ora è" si dice su per giù "ile kostùie" e "ktura gogìna"; una desinenza del genitivo in "-ego" che mi rese chiaro il senso di alcune imprecazioni polacche spesso udite in Lager; e altri brandelli di informazione che mi riempivano di una gioia insulsa e puerile. Il greco calcolava fra sé. Una camicia, si poteva vendere da cinquanta a cento zloty; un uovo costava cinque o sei zloty; con dieci zloty, secondo informazioni degli italiani delle frittelle, si poteva mangiare minestra e pietanza alla mensa dei poveri, dietro la cattedrale. Il greco decise di vendere una sola delle tre camicie che aveva, e di mangiare a questa mensa; il di più sarebbe stato investito in uova. Poi avremmo visto il da farsi. Mi consegnò dunque la camicia, e mi prescrisse di metterla in mostra, e di gridare: "Camicia signori, camicia". Per "camicia", già ero documentato; quanto a "signori", ritenni che la forma corretta fosse "Panowie", voce che avevo sentito usare pochi minuti prima dai miei concorrenti, e che interpretai come vocativo plurale di "Pan", signore. Su quest' ultimo termine, poi, non avevo dubbi: si trova in un importante dialogo dei Fratelli Karamàzov. Doveva proprio essere il vocabolo corretto, perché vari clienti si rivolsero a me in polacco, facendomi domande incomprensibili circa la camicia. Ero in imbarazzo: il greco intervenne d' autorità, mi spinse da parte e condusse direttamente la contrattazione che fu lunga e laboriosa ma si concluse felicemente. Su invito dell' acquirente, il passaggio di proprietà ebbe luogo non sulla pubblica piazza, bensì sotto un portone. Settanta zloty, pari a sette pasti o a una dozzina di uova. Non so il greco: io, da quattordici mesi non disponevo di una tale somma di generi alimentari, tutti in una volta. Ma ne disponevo veramente? C' era da dubitarne: il greco aveva intascato la somma in silenzio, e con tutto il suo atteggiamento dava a capire che l' amministrazione dei proventi intendeva tenersela per sé. Girammo ancora per i banchetti delle venditrici di uova, dove apprendemmo che, allo stesso prezzo, se ne potevano acquistare di sode e di crude. Ne comperammo sei, con cui cenare: il greco procedette all' acquisto con estrema diligenza, scegliendo le più grosse dopo minuziosi confronti e dopo molte perplessità e pentimenti, totalmente insensibile allo sguardo critico della venditrice. La mensa dei poveri era dunque dietro alla cattedrale: restava da stabilire quale, fra le molte e belle chiese di Cracovia, fosse la cattedrale. A chi chiedere, e come? Passava un prete: avrei chiesto al prete. Ora quel prete, giovane e di aspetto benigno, non intendeva né il francese né il tedesco; di conseguenza, per la prima e unica volta nella mia carriera postscolastica, trassi frutto dagli anni di studi classici intavolando in latino la più stravagante ed arruffata delle conversazioni. Dalla iniziale richiesta di informazioni ("Pater optime, ubi est mensa pauperorum?") venimmo confusamente a parlare di tutto, dell' essere io ebreo, del Lager ("castra"? Meglio Lager, purtroppo inteso da chiunque), dell' Italia, della inopportunità di parlare tedesco in pubblico (che meglio avrei compreso poco dopo, per esperienza diretta), e di innumerevoli altre cose, a cui l' inusitata veste della lingua dava un curioso sapore di trapassato remoto. Avevo del tutto dimenticato la fame e il freddo, tanto è vero che il bisogno di contatti umani è da annoverarsi fra i bisogni primordiali. Avevo dimenticato anche il greco; ma questi non aveva dimenticato me, e si fece vivo brutalmente dopo pochi minuti, interrompendo senza pietà la conversazione. Non già che ai contatti umani fosse negato, e non ne intendesse la bontà (lo si era visto la sera prima in caserma): ma erano cose fuori orario, festive, accessorie, da non mescolare con quel negozio serio e strenuo che è il lavoro quotidiano. Alle mie deboli proteste, non rispose che con uno sguardo torvo. Ci incamminammo; il greco tacque a lungo, poi, a giudizio conclusivo sulla mia collaborazione, mi disse in tono pensieroso: _ Je n' ai pas encore compris si tu es idiot ou fainéant. Sulla scorta delle preziose indicazioni del prete, giungemmo alla cucina dei poveri, luogo assai deprimente, ma riscaldato e pieno di odori voluttuosi. Il greco ordinò due minestre e una sola razione di fagioli col lardo: era la punizione per il modo sconveniente e fatuo con cui mi ero comportato nella mattinata. Era in collera; ma dopo trangugiata la minestra si ammorbidì sensibilmente, tanto da lasciarmi un buon quarto dei suoi fagioli. Fuori aveva cominciato a nevicare, e soffiava un vento selvaggio. Fosse pietà per il mio abito a strisce, o incuria del regolamento, il personale della cucina ci lasciò in pace per buona parte del pomeriggio, a meditare e a fare piani per l' avvenire. Il greco sembrava aver cambiato luna: forse gli era tornata la febbre, o forse, dopo i discreti affari della mattina, si sentiva in vacanza. Si sentiva anzi in vena benevolmente pedagogica; a mano a mano che passavano le ore, il tono del suo discorso andava insensibilmente intiepidendosi, e in parallelo andava mutando il rapporto che ci univa: da padrone-schiavo a mezzogiorno, a titolare-salariato alla una, a maestro-discepolo alle due, a fratello maggiore fratello minore alle tre. Il discorso tornò sulle mie scarpe, che nessuno dei due, per ragioni diverse, poteva dimenticare. Mi spiegò che essere senza scarpe è una colpa molto grave. Quando c' è la guerra, a due cose bisogna pensare prima di tutto: in primo luogo alle scarpe, in secondo alla roba da mangiare; e non viceversa, come ritiene il volgo: perché chi ha le scarpe può andare in giro a trovar da mangiare, mentre non vale l' inverso. _ Ma la guerra è finita, _ obiettai: e la pensavo finita, come molti in quei mesi di tregua, in un senso molto più universale di quanto si osi pensare oggi: _ Guerra è sempre, _ rispose memorabilmente Mordo Nahum. È noto che nessuno nasce con un decalogo in corpo, e ciascuno si costruisce invece il proprio per strada o a cose fatte, sulla scorta delle esperienze proprie, o altrui assimilabili alle proprie; per cui l' universo morale di ognuno, opportunamente interpretato, viene a identificarsi con la somma delle sue esperienze precedenti, e rappresenta quindi una forma compendiaria della sua biografia. La biografia del mio greco era lineare: quella di un uomo forte e freddo, solitario e loico, che si era mosso fin dall' infanzia per entro le maglie rigide di una società mercantile. Era (o era stato) accessibile anche ad altre istanze: non era indifferente al cielo e al mare del suo paese, ai piaceri della casa e della famiglia, agli incontri dialettici; ma era stato condizionato a ricacciare tutto questo ai margini della sua giornata e della sua vita, affinché non turbasse quello che lui chiamava il "travail d' homme". La sua vita era stata di guerra, e considerava vile e cieco chi rifiutasse questo suo universo di ferro. Era venuto il Lager per entrambi: io lo avevo percepito come un mostruoso stravolgimento, una anomalia laida della mia storia e della storia del mondo; lui, come una triste conferma di cose notorie. "Guerra è sempre", l' uomo è lupo all' uomo: vecchia storia. Dei suoi due anni di Auschwitz non mi parlò mai. Mi parlò invece, con eloquenza, delle sue molteplici attività in Salonicco, delle partite di merce comprate, vendute, contrabbandate per mare, o di notte attraverso la frontiera bulgara; delle frodi vergognosamente subite e di quelle gloriosamente perpetrate; e finalmente, delle ore liete e serene trascorse in riva al suo golfo, dopo la giornata di lavoro, con i colleghi mercanti, in certi caffè su palafitte che mi descrisse con inconsueto abbandono, e dei lunghi discorsi che quivi si tenevano. Quali discorsi? Di moneta, di dogane, di noli, naturalmente; ma di altro ancora. Cosa abbia ad intendersi per "conoscere", per "spirito" per "giustizia", per "verità". Di quale natura sia il tenue legame che vincola l' anima al corpo, come esso si instauri col nascere, e si sciolga col morire. Cosa sia libertà, e come si concilii il conflitto fra la libertà dello spirito e il destino. Cosa segua la morte, anche: ed altre grandi cose greche. Ma tutto questo a sera, beninteso, a traffici ultimati, davanti al caffè o al vino o alle olive, lucido gioco di intelletto fra uomini attivi anche nell' ozio: senza passione. Perché il greco raccontasse queste cose a me, perché si confessasse a me, non è chiaro. Forse, davanti a me così diverso, così straniero, si sentiva ancora solo, e il suo discorso era un monologo. Uscimmo dalla mensa a sera, e ritornammo alla caserma degli italiani: dopo molte insistenze, avevamo ottenuto dal colonnello italiano capocampo il permesso di pernottare in caserma ancora una volta, una sola. Rancio niente, e che non ci facessimo troppo notare, non voleva avere seccature coi russi. Al mattino dopo, avremmo dovuto andarcene. Cenammo con due uova a testa di quelle acquistate la mattina, serbando le ultime due per la prima colazione. Dopo i fatti della giornata, mi sentivo molto "minore" nei confronti del greco. Quando si venne alle uova, gli chiesi se sapeva distinguere dal di fuori fra un uovo crudo e uno sodo (si fa girare rapidamente l' uovo, per esempio su un tavolo; se è sodo gira a lungo, se è crudo si ferma quasi subito): era una piccola arte di cui andavo fiero, speravo che il greco non la conoscesse, e quindi di potermi riabilitare ai suoi occhi, sia pure in piccola misura. Ma il greco mi guardò coi suoi freddi occhi di savio serpente: _ Per chi mi prendi? Mi credi nato ieri? Pensi che io non abbia mai commerciato in uova? Su, dimmi qualche articolo in cui io non abbia mai commerciato! Dovetti battere in ritirata. L' episodio in sé trascurabile, mi doveva ritornare a mente molti mesi dopo, in piena estate, nel cuore della Russia Bianca, in occasione di quello che fu il mio terzo ed ultimo incontro con Mordo Nahum. Partimmo al mattino seguente, all' alba (questo è un racconto intessuto di albe gelide), con Katowice per meta: ci era stato confermato che là veramente esistevano vari centri di raccolta per dispersi italiani, francesi, greci eccetera. Katowice non dista da Cracovia che un' ottantina di chilometri: poco più di un' ora di treno in tempi normali. Ma in quei giorni non c' erano venti chilometri di binario senza un trasbordo, molti ponti erano saltati, e per il pessimo stato della linea i treni procedevano di giorno con estrema lentezza, e di notte non viaggiavano affatto. Fu un viaggio labirintico, che durò tre giorni, con soste notturne in luoghi assurdamente lontani dalla congiungente fra i due estremi: un viaggio di gelo e di fame, che ci condusse il primo giorno in un luogo detto Trzebinia. Qui il treno si arrestò, ed io scesi sulla banchina per sgranchirmi le gambe intorpidite dal freddo. Forse ero fra i primi vestiti da "zebra" a comparire in quel luogo detto Trzebinia: mi trovai subito al centro di un fitto cerchio di curiosi, che mi interrogavano volubilmente in polacco. Risposi del mio meglio in tedesco; e di mezzo al gruppetto di operai e contadini si fece avanti un borghese, in cappello di feltro, con occhiali e una busta di cuoio in mano: un avvocato. Era polacco, parlava bene francese e tedesco, era una persona molto cortese e benevola: insomma, possedeva tutti i requisiti perché io finalmente, dopo il lunghissimo anno di schiavitù e di silenzio, ravvisassi in lui il messaggero, il portavoce del mondo civile: il primo che incontrassi. Avevo una valanga di cose urgenti da raccontare al mondo civile: cose mie ma di tutti, cose di sangue, cose che, mi pareva, avrebbero dovuto scuotere ogni coscienza sulle sue fondamenta. In realtà, l' avvocato era cortese e benevolo: mi interrogava, ed io parlavo vertiginosamente di quelle mie così recenti esperienze, di Auschwitz vicina, eppure, pareva, a tutti sconosciuta, dell' ecatombe a cui io solo ero sfuggito, tutto. L' avvocato traduceva in polacco a favore del pubblico. Ora io non conosco il polacco, ma so come si dice "ebreo" e come si dice "politico", e mi accorsi ben presto che la traduzione del mio resoconto, benché partecipe, non era fedele. L' avvocato mi descriveva al pubblico non come un ebreo italiano, ma come un prigioniero politico italiano. Gliene chiesi conto, stupito e quasi offeso. Mi rispose imbarazzato: _ C' est mieux pour vous. La guerre n' est pas finie _. Le parole del greco. Sentii l' onda calda del sentirsi libero, del sentirsi uomo fra uomini, del sentirsi vivo, rifluire lontano da me. Mi trovai a un tratto vecchio, esangue, stanco al di là di ogni misura umana: la guerra non è finita, guerra è sempre. I miei ascoltatori se ne andavano alla spicciolata: dovevano aver capito. Qualcosa del genere avevo sognato, tutti avevamo sognato, nelle notti di Auschwitz: di parlare e di non essere ascoltati, di ritrovare la libertà e di restare soli. In breve, rimasi solo con l' avvocato; dopo pochi minuti, anche lui mi lasciò, scusandosi urbanamente. Mi raccomandò, come già il prete, di evitare di parlare tedesco; alle mie richieste di spiegazioni, rispose vagamente: _ La Polonia è un triste paese _. Mi augurò buona fortuna, mi offerse del denaro che rifiutai: mi pareva commosso. La locomotiva fischiava per ripartire. Risalii sul vagone-merci, dove mi aspettava il greco, ma non gli raccontai l' episodio. Non fu l' unica sosta: altre seguirono, e in una di queste, a sera, ci rendemmo conto che Szczakowa, il luogo della zuppa calda per tutti, non era lontano. Era bensì a nord, e noi dovevamo andare verso ovest, ma poiché a Szczakowa c' era zuppa calda per tutti, e noi non avevamo altro programma che quello di sfamarci, perché non puntare su Szczakowa? Così scendemmo, aspettammo che passasse un treno adatto, e ci ripresentammo più e più volte al bancone della Croce Rossa; credo che le sorelle polacche mi abbiano riconosciuto agevolmente, e mi ricordino tuttora. Come scese la notte, ci disponemmo a dormire per terra, nel bel mezzo della sala d' aspetto, poiché tutti i posti perimetrali erano già occupati. Forse impietosito o incuriosito dal mio abito, arrivò dopo qualche ora un gendarme polacco, baffuto, rubicondo e corpulento; mi interrogò invano nella sua lingua; risposi con la prima frase che si impara di ogni lingua sconosciuta, e cioè "nie rozumiem po polsku", non capisco il polacco. Aggiunsi, in tedesco, che ero italiano, e che parlavo un poco il tedesco. Al che, miracolo! il gendarme prese a parlare italiano. Parlava un pessimo italiano, gutturale ed aspirato, trapunto di nuovissime bestemmie. Lo aveva imparato, e questo spiega tutto, in una valle del bergamasco, dove aveva lavorato qualche anno come minatore. Anche lui, ed era il terzo, mi raccomandò di non parlare tedesco. Gli chiesi perché: mi rispose con un gesto eloquente, passandosi l' indice e il medio, di coltello, fra il mento e la laringe, e aggiungendo tutto allegro: _ Stanotte tutti tedeschi kaputt. Si trattava certamente di una esagerazione, e comunque di una opinione-speranza: ma in effetti incrociammo il giorno dopo un lungo treno di vagoni merci, chiusi dall' esterno; era diretto verso levante, e dalle feritoie si vedevano molti visi umani in cerca d' aria. Questo spettacolo, fortemente evocatore, suscitò in me un groviglio di sentimenti confusi e contrastanti, che ancora oggi stenterei a districare. Il gendarme, molto gentilmente, propose a me e al greco di passare il resto della notte al caldo, in camera di sicurezza; accettammo di buon grado, e ci risvegliammo nell' insolito ambiente solo a tardo mattino, dopo un sonno ristoratore. Partimmo da Szczakowa il giorno dopo, per l' ultima tappa del viaggio. Giungemmo senza incidenti a Katowice, dove realmente esisteva un campo di raccolta per gli italiani, e un altro per i greci. Ci separammo senza molte parole: ma nel momento del congedo, in modo fugace eppure distinto, sentii muovere da me verso lui una solitaria onda di amicizia, venata di tenue gratitudine, di disprezzo, di rispetto, di animosità, di curiosità, e del rimpianto di non doverlo più vedere. Lo vidi ancora, invece: due volte. Lo vidi in maggio, nei giorni gloriosi e turbolenti della fine della guerra, quando tutti i greci di Katowice, un centinaio, uomini e donne, sfilarono cantando davanti al nostro campo, diretti alla stazione: partivano per la patria, per la casa. In testa alla colonna era lui, Mordo Nahum, signore fra i greci, e reggeva il vessillo bianco-celeste: ma lo depose quando mi vide, uscì dalla schiera per salutarmi (un po' ironicamente, ché lui partiva e io rimanevo: ma era giusto, mi spiegò, perché la Grecia apparteneva alle Nazioni Unite), e con gesto inconsueto estrasse dal famoso sacco un dono: un paio di pantaloni, del tipo usato in Auschwitz negli ultimi mesi, e cioè con una grossa "finestra" sull' anca sinistra, chiusa da una toppa di tela a strisce. Poi scomparve. Ma doveva ricomparire un' altra volta, molti mesi più tardi, sul più improbabile dei fondali e nella più inaspettata delle incarnazioni.

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Avevano lasciato Samarcanda in marzo, e si erano messe in via come una piuma si abbandona al vento. Avevano percorso, parte in autocarro e parte a piedi, il Kara-kum, il Deserto delle Sabbie Nere: erano arrivate in treno a Krasnovodsk sul Caspio, e qui avevano aspettato finché un peschereccio le aveva traghettate a Baku. Da Baku avevano proseguito, sempre con mezzi di fortuna, poiché soldi non ne avevano, ma in cambio una sconfinata fiducia nell' avvenire e nel loro prossimo, e un nativo e intatto amore per la vita. Tutti intorno dormivano: Cesare assisteva irrequieto al colloquio, chiedendomi ogni tanto se i preliminari erano finiti e se si veniva al sodo; poi, deluso, se ne andò all' aria aperta in cerca di avventure più concrete. La pace della sala d' aspetto, e il racconto delle due sorelle, furono interrotti bruscamente verso mezzanotte. Si spalancò brutalmente, come per un colpo di vento, una porta che attraverso un breve corridoio metteva in comunicazione la sala grande con un' altra più piccola, riservata ai militari di passaggio. Sulla soglia apparve un soldato russo, giovanissimo, ubriaco: si guardò intorno con occhi vaghi, poi partì davanti a sé a testa bassa, con paurose bordate, come se a un tratto il pavimento si fosse fortemente inclinato sotto di lui. Nel corridoio stavano in piedi tre ufficiali sovietici, assorti in colloquio. Il soldatino, giunto alla loro altezza, frenò, si irrigidì sull' attenti, salutò militarmente, e i tre risposero dignitosamente al saluto. Poi ripartì a semicerchi come un pattinatore, infilò di precisione la porta che dava all' esterno, e lo si udì vomitare e singultare rumorosamente sulla banchina. Rientrò con passo un po' meno incerto, salutò di nuovo i tre ufficiali impassibili, e sparì. Dopo un quarto d' ora, la scena si ripeté identica, come in un incubo: ingresso drammatico, pausa, saluto, frettoloso percorso sghembo fra le gambe dei dormienti verso l' aria aperta, scarico, ritorno, saluto; e così di seguito per infinite volte, a intervalli regolari, senza che mai i tre gli dedicassero altro che una distratta occhiata e un corretto saluto colla mano alla visiera. Così trascorse quella notte memorabile, finché la febbre non mi vinse: allora mi sdraiai a terra, pieno di brividi. Venne Gottlieb, e portava con sé un farmaco inconsueto: mezzo litro di vodka selvaggia, un distillato clandestino che aveva comperato dai contadini dei dintorni: sapeva di muffa, di aceto e di fuoco. _ Bevi, _ mi disse, _ bevila tutta. Ti farà bene, e d' altronde non abbiamo altro, qui, per il tuo male. Bevvi non senza sforzo il filtro infernale, scottandomi fauci e gola, e in breve piombai nel nulla. Quando mi svegliai il mattino dopo, mi sentivo oppresso da un gran peso: ma non era la febbre, né un cattivo sogno. Giacevo sepolto sotto uno strato di altri dormienti, in una specie di incubatrice umana: gente arrivata durante la notte che non aveva trovato altro posto se non al di sopra di quelli che già stavano coricati sul pavimento. Avevo sete: grazie all' azione combinata della vodka e del calore animale, dovevo aver perduto molti litri di sudore. La cura singolare aveva avuto pieno successo: la febbre e i dolori erano spariti definitivamente, e non ricomparvero più. Il treno ripartì, e in poche ore giungemmo a Zmerinka, nodo ferroviario a 350 chilometri da Odessa. Qui ci attendeva una grossa sorpresa e una feroce delusione. Gottlieb, che aveva conferito con il comando militare del luogo, fece il giro del convoglio, vagone per vagone, e ci comunicò che tutti dovevamo scendere: il treno non proseguiva. Non proseguiva perché? E come e quando saremmo arrivati a Odessa? _ Non lo so, _ rispose Gottlieb con imbarazzo: _ non lo sa nessuno. So solo che dobbiamo scendere dal treno, sistemarci in qualche modo sui marciapiedi, e aspettare ordini _. Era pallidissimo e visibilmente turbato. Scendemmo, e pernottammo in stazione: la sconfitta di Gottlieb, la prima, ci sembrava di pessimo auspicio. Il mattino dopo, la nostra guida, insieme con gli inseparabili fratello e cognato, era scomparsa. Erano spariti nel nulla, con tutto il loro vistoso bagaglio: qualcuno disse di averli visti confabulare con ferrovieri russi, e montare nella notte su un treno militare che risaliva da Odessa verso il confine polacco. Restammo a Zmerinka tre giorni, oppressi da inquietudine, frustrazione o terrore, a seconda dei temperamenti e dei brandelli di informazione che riuscivamo a estorcere dai russi del luogo. Questi non manifestavano alcuno stupore per la nostra sorte e per la nostra sosta forzata, e rispondevano alle nostre domande nei modi più sconcertanti. Un russo ci disse che sì, da Odessa erano partite diverse navi con militari inglesi e americani che rimpatriavano, e anche noi, presto o tardi, ci saremmo imbarcati: da mangiare ne avevamo, Hitler non c' era più, perché lamentarsi? Un altro ci disse che la settimana prima un convoglio di francesi, in viaggio per Odessa, era stato fermato a Zmerinka e dirottato verso nord "perché i binari erano interrotti". Un terzo ci informò che aveva visto con i suoi occhi un trasporto di prigionieri tedeschi in viaggio verso l' Estremo Oriente: secondo lui la faccenda era chiara, non eravamo forse alleati dei tedeschi? ebbene, mandavano anche noi a scavare trincee sul fronte giapponese. A complicare le cose, il terzo giorno arrivò a Zmerinka, proveniente dalla Romania, un altro convoglio di italiani. Questi avevano un aspetto molto diverso dal nostro: erano circa seicento, uomini e donne, ben vestiti, con valige e bauli, alcuni con la macchina fotografica a tracolla: quasi dei turisti. Ci guardavano dall' alto in basso, come parenti poveri: loro avevano viaggiato fin lì in un regolare treno di carrozze-passeggeri, pagando il biglietto, ed erano in ordine con passaporto, quattrini, documenti di viaggio, ruolino, e foglio di via collettivo per l' Italia via Odessa. Se solo avessimo ottenuto dai russi di aggregarci a loro, allora anche noi a Odessa ci saremmo arrivati. Con molta degnazione, ci fecero capire che loro, infatti, erano gente di riguardo: erano funzionari civili e militari della Legazione Italiana di Bucarest, e inoltre gente varia che, dopo lo scioglimento dell' ARMIR, era rimasta in Romania con diverse mansioni, o a pescare nel torbido. C' erano fra loro interi nuclei famigliari, mariti con mogli rumene autentiche, e numerosi bambini. Ma i russi, a differenza dei tedeschi, non posseggono che in minima misura il talento per le distinzioni e per le classificazioni. Pochi giorni dopo eravamo tutti in viaggio verso il nord, verso una meta imprecisata, comunque verso un nuovo esilio. Italiani-rumeni e italiani-italiani, tutti sugli stessi carri merci, tutti col cuore stretto, tutti in balia della indecifrabile burocrazia sovietica, oscura e gigantesca potenza, non malevola verso di noi, ma sospettosa, negligente, insipiente, contraddittoria, e negli effetti cieca come una forza della natura.

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Deve giudicarmi un pessimo allievo, un caso disperato di ottusità; con mio sollievo, se ne torna al suo fuoco e mi abbandona alla mia barbarie. Un altro giorno, ma alla stessa ora e nello stesso luogo, mi imbatto in uno spettacolo inconsueto. C' è un capannello di italiani attorno a un marinaio russo, giovanissimo, alto, dalle movenze rapide e pronte. Sta "raccontando" un episodio di guerra; e poiché sa che la sua lingua non è compresa, si esprime come può, in un modo che gli è evidentemente spontaneo quanto e più della parola: si esprime con tutti i muscoli, con le rughe precoci che gli segnano il viso, col lampo degli occhi e dei denti, coi balzi e coi gesti, e ne nasce una danza solitaria piena di fascino e di impeto. È notte, "noc": gira intorno a sé piano piano le mani col palmo rivolto in giù. Tutto è silenzio: pronuncia un lungo "sst" coll' indice parallelo al naso. Strizza gli occhi e indica l' orizzonte: laggiù, lontano lontano, sono i tedeschi, "niemtzy". Quanti? Cinque, fa segno con le dita; "finef", aggiunge poi in yiddish a maggior chiarimento. Scava colla mano una piccola fossa rotonda nella sabbia, e vi pone cinque stecchi coricati, sono i tedeschi; e poi un sesto stecco piantato obliquo, è la "masìna", la mitragliatrice. Cosa fanno i tedeschi? Qui i suoi occhi si accendono di allegria selvaggia: "spats", dormono (e russa quieto lui stesso per un attimo); dormono, gli insensati, e non sanno cosa li aspetta. Che ha fatto? Ecco che ha fatto: si è avvicinato, cauto, sottovento, come un leopardo. Poi, di scatto, è balzato dentro il nido estraendo il coltello: e ripete, ormai tutto perduto nella estasi scenica, i suoi atti di allora. L' agguato, e la mischia fulminea e atroce, eccole ripetersi sotto i nostri occhi: l' uomo, dal volto trasfigurato da un riso teso e sinistro, si tramuta in un turbine: salta avanti e indietro, colpisce davanti a sé, ai fianchi, alto, basso, in una esplosione di energia mortifera; ma è un furore lucido, la sua arma (che esiste, un lungo coltello che ha cavato dallo stivale) penetra, fende, squarcia con ferocia e insieme con tremenda perizia, un metro davanti alle nostre facce. A un tratto il marinaio si ferma, si raddrizza lentamente, il coltello gli cade di mano: il suo petto ansima, il suo sguardo si è spento. Guarda a terra, come stupito di non scorgervi i cadaveri e il sangue; si guarda intorno smarrito, svuotato; si accorge di noi, e ci rivolge un timido sorriso infantile. _ Koniecno, _ dice: è finito; e si allontana con passo lento. Assai diverso, e misterioso allora come adesso, era il caso del Tenente. Il Tenente (mai, e forse non a caso, ne potemmo conoscere il nome) era un giovane russo smilzo e olivastro, perennemente aggrondato. Parlava italiano perfettamente, con un accento russo talmente lieve da potersi confondere con qualche intonazione dialettale italiana: ma nei nostri riguardi, a differenza da tutti gli altri russi del Comando, manifestava scarsa cordialità e simpatia. Era lui il solo a cui potessimo rivolgere domande: come mai parlava italiano? perché era fra noi? perché ci trattenevano in Russia quattro mesi dopo la fine della guerra? eravamo ostaggi? eravamo stati dimenticati? perché non potevamo scrivere in Italia? quando saremmo ritornati? Ma a tutte queste domande, pesanti come il piombo, il Tenente rispondeva in modo tagliente ed elusivo, con una sicurezza e una autorità _ che male si accordavano col suo grado gerarchico non molto elevato. Notammo che anche i suoi superiori lo trattavano con strana deferenza, come se lo temessero. Manteneva sia coi russi sia con noi uno scontroso distacco. Non rideva mai, non beveva, non accettava inviti, e neppure sigarette: parlava poco, con parole caute che sembrava pesasse a una a una. Alle sue prime apparizioni, ci era sembrato naturale pensare a lui come al nostro interprete e delegato presso il Comando russo, ma si vide ben presto che i suoi incarichi (se pure ne aveva, e se il suo comportamento non era solo un complicato modo di darsi importanza) dovevano essere altri, e preferimmo tacere in sua presenza. Da alcune sue frasi reticenti ci accorgemmo che conosceva bene la topografia di Torino e di Milano. Era stato in Italia? _ No, _ ci rispose asciutto, e non diede altre spiegazioni. La salute pubblica era eccellente, e i clienti della infermeria erano pochi e sempre gli stessi: qualcuno coi foruncoli, i soliti malati immaginari, qualche scabbia, qualche colite. Si presentò un giorno una donna, che accusava disturbi vaghi: nausea, mal di schiena, vertigini, vampe di calore. Leonardo la visitò: aveva lividi un po' dappertutto, ma disse di non farci caso, era rotolata per le scale. Coi mezzi a disposizione non era facile una diagnosi molto approfondita, ma, per esclusione, e dati anche i numerosi precedenti fra le nostre donne, Leonardo dichiarò alla paziente che si trattava molto probabilmente di una gravidanza al terzo mese. La donna non manifestò gioia né angoscia né sorpresa né indignazione: accettò, ringraziò, ma non se ne andò. Tornò a sedere sulla panchina nel corridoio, zitta e tranquilla, come se aspettasse qualcuno. Era una ragazza piccola e bruna, sui venticinque anni, dall' aria casalinga, sottomessa e trasognata: il suo viso, non molto attraente né molto espressivo, non mi riusciva nuovo, e così pure la sua parlata, dalle gentili inflessioni toscane. Certamente dovevo già averla incontrata, ma non a Staryje Doroghi. Provavo la evanescente sensazione di uno sfasamento, di una trasposizione, di una importante inversione di rapporti, che peraltro non riuscivo a definire. In modo vago eppure insistente, a quella immagine femminile ricollegavo un nodo di sentimenti intensi: di ammirazione umile e lontana, di riconoscenza, di frustrazione, di paura, perfino di astratto desiderio, ma principalmente di angoscia profonda e indeterminata. Poiché continuava a rimanere sulla panchina, quieta e ferma, senza alcun segno di impazienza, le chiesi se le occorresse qualcosa, se avesse ancora bisogno di noi: l' ambulatorio era finito, altri pazienti non c' erano, era ora di chiudere. _ No, no, _ rispose: _ non ho bisogno di niente. Adesso me ne vado. Flora! La reminiscenza nebulosa prese corpo bruscamente, si coagulò in un quadro preciso, definito, ricco di particolari di tempo e luogo, di colori, di stati d' animo retrospettivi, di atmosfera, di odori. Era Flora, quella: l' italiana delle cantine di Buna, la donna del Lager, oggetto dei sogni miei e di Alberto per più di un mese, simbolo inconsapevole della libertà perduta e non più sperata. Flora, incontrata un anno prima, e sembravano cento. Flora era una prostituta di provincia, finita in Germania con l' Organizzazione Todt. Non sapeva il tedesco e non conosceva alcun mestiere, così era stata messa a spazzare i pavimenti della fabbrica di Buna. Spazzava tutto il giorno, straccamente, senza scambiare parola con nessuno, senza sollevar gli occhi dalla ramazza e dal suo lavoro senza fine. Sembrava che nessuno si curasse di lei, e lei, quasi temesse la luce del giorno, saliva il meno possibile ai piani superiori: spazzava interminabilmente le cantine, da cima a fondo, e poi ricominciava, come una sonnambula. Era la sola donna che vedessimo da mesi, e parlava la nostra lingua, ma a noi Häftlinge era proibito rivolgerle la parola. Ad Alberto e a me sembrava bellissima, misteriosa, immateriale. Malgrado il divieto, che in qualche modo moltiplicava l' incanto dei nostri incontri aggiungendovi il sapore pungente dell' illecito, scambiammo con Flora qualche frase furtiva: ci facemmo riconoscere come italiani, e le chiedemmo del pane. Lo chiedemmo un po' a malincuore, consci di avvilire noi stessi e la qualità di quel delicato contatto umano: ma la fame, con cui è difficile transigere, ci imponeva di non sprecare l' occasione. Flora ci portò il pane, a più riprese, e ce lo consegnava con aria smarrita, negli angoli bui del sotterraneo, tirando su le lagrime dal naso. Aveva pietà di noi, e avrebbe voluto aiutarci anche in altri modi, ma non sapeva come ed aveva paura. Paura di tutto, come un animale indifeso: forse anche di noi, non direttamente, ma in quanto personaggi di quel mondo straniero e incomprensibile che l' aveva strappata dal suo paese, le aveva cacciato una scopa in mano, e l' aveva relegata sotto terra, a spazzare pavimenti già cento volte spazzati. Noi due eravamo sconvolti, riconoscenti e pieni di vergogna. Eravamo divenuti improvvisamente consapevoli del nostro aspetto miserabile, e ne soffrivamo. Alberto, che sapeva trovare le cose più strane perché girava tutto il giorno con gli occhi al suolo come un segugio, trovò chissà dove un pettine, e lo regalammo solennemente a Flora, che aveva i capelli: dopo di che ci sentimmo legati a lei da un legame soave e pulito, e la sognavamo di notte. Perciò provammo un disagio acuto, un assurdo e impotente impasto di gelosia e di disinganno, quando l' evidenza ci costrinse a sapere, ad ammettere a noi stessi, che Flora aveva convegni con altri uomini. Dove e come, e con chi? Nel luogo e nei modi meno adorni: poco lontano, sul fieno, in una conigliera clandestina, organizzata in un sottoscala da una cooperativa di Kapos tedeschi e polacchi. Bastava poco: una strizzata d' occhio, un cenno imperioso del capo, e Flora deponeva la scopa e seguiva docilmente l' uomo del momento. Ritornava sola, dopo pochi minuti; si riassettava le vesti e riprendeva a spazzare senza guardarci in viso. Dopo la squallida scoperta, il pane di Flora ci seppe di sale; ma non per questo smettemmo di accettarlo e mangiarlo. Non mi feci riconoscere da Flora, per carità verso di lei e verso me stesso. Di fronte a quei fantasmi, al me stesso di Buna, alla donna del ricordo ed alla sua reincarnazione, mi sentivo cambiato, intensamente "altro", come una farfalla davanti a un bruco. Nel limbo di Staryje Doroghi mi sentivo sporco, stracciato, stanco, greve, estenuato dall' attesa, eppure giovane e pieno di potenze e rivolto verso l' avvenire: Flora, invece, non era cambiata. Viveva ora con un ciabattino bergamasco, non coniugalmente, ma come una schiava. Lavava e cucinava per lui, e lo seguiva guardandolo con occhi umili e sottomessi; l' uomo, taurino e scimmiesco, sorvegliava ogni suo passo, e la picchiava selvaggiamente ad ogni ombra di sospetto. Di qui i lividi di cui era coperta: era venuta in infermeria di nascosto, e ora esitava a uscire incontro alla collera del suo padrone. A Staryje Doroghi nessuno esigeva nulla da noi, nulla ci sollecitava, su di noi non agiva alcuna forza, non ci dovevamo difendere da niente: ci sentivamo inerti e assestati come il sedimento di una alluvione. In questa nostra vita torpida e senza fatti, l' arrivo del camioncino del cinematografo militare sovietico segnò una data memorabile. Doveva essere una unità itinerante, già in servizio presso le truppe al fronte o in retrovia, ora essa pure sulla via del rimpatrio; comprendeva un proiettore, un gruppo elettrogeno, una scorta di pellicole, e il personale di servizio. Si fermò a Staryje Doroghi per tre giorni, e diede spettacolo ogni sera. Le proiezioni si svolgevano nella sala del teatro: era molto spaziosa, e le sedie asportate dai tedeschi erano state sostituite con rustiche panche, in equilibrio instabile sul pavimento in salita dallo schermo verso la galleria. La galleria, essa pure in pendenza, era ridotta a una stretta striscia; la parte più alta, per una levata d' ingegno dei misteriosi ed estrosi architetti della Casa Rossa, era stata tramezzata e suddivisa in una serie di camerette senz' aria né luce, le cui porte si aprivano verso il palcoscenico. Vi abitavano le donne sole della nostra colonia. La prima sera fu proiettata una vecchia pellicola austriaca, in sé mediocre, e di scarso interesse per i russi, ma ricca di emozioni per noi italiani. Era un film di guerra e di spionaggio, muto e con didascalie in tedesco; più precisamente, un episodio della prima guerra mondiale sul fronte italiano. Vi appariva lo stesso candore e lo stesso armamentario retorico degli analoghi film di produzione alleata: onore militare, sacri confini, combattenti eroici ma pronti al pianto come vergini, attacchi alla baionetta condotti con improbabile entusiasmo. Soltanto, era tutto capovolto: gli austro-ungheresi, ufficiali e soldati, erano nobili ed aitanti personaggi, valorosi e cavallereschi; visi spirituali e sensibili di guerrieri stoici, visi rudi e onesti di contadini, spiranti simpatia al primo sguardo. Gli italiani, tutti quanti, erano una caterva di volgari gaglioffi, tutti segnati da vistosi e risibili difetti corporei: strabici, obesi, colle spalle a bottiglia, colle gambe ercoline, con la fronte bassa e sfuggente. Erano vili e feroci, brutali e loschi: gli ufficiali, con facce da rammolliti viziosi, schiacciate sotto la mole incongrua del berretto a paiolo a noi familiare nei ritratti di Cadorna e di Diaz; i soldati, con grinte porcine o scimmiesche, messe in risalto dall' elmetto dei nostri padri, calcato di sghimbescio o tirato sugli occhi a nascondere sinistramente lo sguardo. Il fellone dei felloni, spia italiana a Vienna, era una stramba chimera, mezzo D' Annunzio e mezzo Vittorio Emanuele: di statura assurdamente piccola, tanto che era costretto a guardare tutti dal basso in alto, portava il monocolo e la cravatta a farfalla, e si muoveva su e giù per lo schermo con arroganti scatti da galletto. Rientrato nelle linee italiane, sovraintendeva con abominevole freddezza alla fucilazione di dieci civili tirolesi innocenti. Noi italiani, così poco avvezzi a vedere noi stessi nei panni del "nemico", odioso per definizione; così costernati dall' idea di essere odiati da chicchessia; ricavammo dalla visione della pellicola un piacere complesso, non privo di turbamento, e fonte di salutari meditazioni. Per la seconda sera, fu annunciato un film sovietico, e l' ambiente cominciò a scaldarsi: fra noi italiani, perché era il primo che vedevamo; fra i russi, perché il titolo prometteva un episodio di guerra, pieno di movimento e di sparatorie. La voce si era sparsa: inaspettatamente, arrivarono soldati russi da guarnigioni vicine e lontane, e fecero ressa davanti alle porte del teatro. Quando le porte si aprirono, irruppero dentro come un fiume in piena, scavalcando rumorosamente le panche e accalcandosi a gran gomitate e spintoni. Il film era ingenuo e lineare. Un aereo militare sovietico era costretto ad atterrare per avaria in un non precisato territorio montagnoso di frontiera; era un piccolo apparecchio biposto, con a bordo solo il pilota. Riparato il guasto, sul punto di decollare, si faceva avanti un notabile del luogo, uno sceicco inturbantato dall' aria straordinariamente sospetta, e con melliflue riverenze e genuflessioni turchesche supplicava di essere accolto a bordo. Anche un idiota avrebbe capito che quello era un pericoloso furfante, probabilmente un contrabbandiere, un capo dissidente o un agente straniero: ma tant' è, il pilota, con dissennata longanimità, aderiva alle sue prolisse preghiere, e lo accoglieva nel seggiolino posteriore dell' apparecchio. Si assisteva al decollo, e ad alcune ottime riprese dall' alto di catene montuose scintillanti di ghiacciai (penso si trattasse del Caucaso): indi lo sceicco, con segrete mosse viperine, cavava di tra le pieghe del mantello un pistolone a tamburo, lo puntava alla schiena del pilota e gli intimava di mutare rotta. Il pilota, senza neppure voltarsi indietro, reagiva con fulminea decisione: impennava l' apparecchio, ed eseguiva un brusco giro della morte. Lo sceicco si accasciava sul seggiolino, in preda alla paura e alla nausea; il pilota, invece di metterlo fuori combattimento, proseguiva tranquillamente la rotta verso la meta prefissa. Dopo pochi minuti, ed altre mirabili scene di alta montagna, il bandito si riprendeva; strisciava verso il pilota, alzava nuovamente la pistola, e ripeteva il tentativo. Questa volta l' aereo si metteva in picchiata, e precipitava per migliaia di metri a naso in giù , verso un inferno di picchi scoscesi e di abissi; lo sceicco sveniva e l' aereo riprendeva quota. Così procedeva il volo per più di un' ora, con sempre ripetute aggressioni da parte del mussulmano, e sempre nuove acrobazie da parte del pilota; finché, dopo un' ultima intimazione dello sceicco, che sembrava avere nove vite come i gatti, l' aereo entrava in vite, nuvole monti e ghiacciai gli turbinavano intorno fieramente, e scendeva infine a salvamento sul campo di atterraggio prestabilito. Lo sceicco esanime veniva ammanettato; il pilota, fresco come un fiore, invece di andare sotto inchiesta riceveva strette di mano da contegnosi superiori, la promozione sul campo, e un verecondo bacio da una ragazza che pareva lo aspettasse da tempo. I soldati russi del pubblico avevano seguito con fragorosa passione la vicenda goffa, applaudendo l' eroe e insultando il traditore; ma non fu nulla in confronto di quanto avvenne la terza sera. La terza sera fu annunciato Uragano (Hurricane), un discreto film americano degli anni trenta. Un marinaio polinesiano, moderna versione del "buon selvaggio", uomo semplice, forte e mite, viene volgarmente provocato in una taverna da un gruppo di bianchi ubriachi, e ne ferisce lievemente uno. La ragione è ovviamente dalla sua parte, ma nessuno testimonia in suo favore; viene arrestato, processato, e, con sua patetica incomprensione, condannato a un mese di reclusione. Non resiste che pochi giorni: non solo per un suo quasi animalesco bisogno di libertà e insofferenza di vincoli, ma principalmente perché sente, sa, che non lui ma i bianchi hanno violato la giustizia; se questa è la legge dei bianchi, allora la legge è ingiusta. Abbatte un guardiano ed evade fra una pioggia di pallottole. Adesso, il mite marinaio è diventato un criminale compiuto. Gli si dà la caccia in tutto l' arcipelago, ma è inutile cercarlo lontano: è ritornato tranquillamente al suo villaggio. Viene ripreso, e relegato in un' isola remota, in una casa di pena: lavoro e frustate. Fugge nuovamente, si getta a mare da un dirupo vertiginoso, ruba un canotto e veleggia per giorni verso la sua terra, senza mangiare né bere: vi approda esausto mentre sta incombendo l' uragano promesso dal titolo. Subito l' uragano si scatena furibondo, e l' uomo, da buon eroe americano, lotta da solo contro gli elementi, e salva non solo la sua donna, ma la chiesa, il pastore, e i fedeli che nella chiesa si erano illusi di trovare riparo. Così riabilitato, con la fanciulla al fianco si avvia verso un felice avvenire, sotto il sole che appare fra le ultime nubi in fuga. Questa vicenda, tipicamente individualistica, elementare, e non male raccontata, scatenò fra i russi un entusiasmo sismico. Già un' ora prima dell' inizio, una folla tumultuante (attratta dal cartellone, che riportava l' immagine della ragazza polinesiana, splendida e pochissimo vestita) premeva contro le porte; erano quasi tutti soldati molto giovani, armati. Era chiaro che nel pur grande "salone pendente" non c' era posto per tutti, nemmeno in piedi; appunto per questo essi lottavano accanitamente, a gomitate, per conquistarsi l' ingresso. Uno cadde, fu calpestato, e venne il giorno dopo in infermeria; credevamo di trovarlo fracassato, ma non aveva che qualche contusione: gente di ossa solide. In breve, le porte furono sfondate, fatte a pezzi e i rottami impugnati come clave: la folla che si pigiava in piedi all' interno del teatro era già fin dal principio altamente eccitata e bellicosa. Era per loro come se i personaggi del film, anziché ombre, fossero amici o nemici in carne ed ossa, a portata di mano. Il marinaio era acclamato ad ogni sua impresa, salutato con urrà fragorosi e con i mitra pericolosamente branditi al di sopra delle teste. I poliziotti e i carcerieri venivano insultati sanguinosamente, accolti con grida di "vattene", "a morte", "abbasso", "lascialo stare". Quando, dopo la prima evasione, il fuggiasco esausto e ferito viene nuovamente incatenato, e per di più schernito e deriso dalla maschera sardonica e asimmetrica di John Carradine, si scatenò un pandemonio. Il pubblico insorse urlando, in generosa difesa dell' innocente: una ondata di vendicatori mosse minacciosa verso lo schermo, a sua volta insultata e trattenuta da elementi meno accesi o più desiderosi di vedere come andava a finire. Volarono contro il telone sassi, zolle di terra, schegge delle porte demolite, perfino uno scarpone d' ordinanza, scagliato con furiosa precisione fra i due occhi odiosi del gran nemico, campeggiante in un enorme primo piano. Quando si giunse alla lunga e vigorosa sequenza dell' uragano, il tumulto volse al sabba. Si udirono strida acute delle poche donne rimaste intrappolate fra la ressa; fece la sua comparsa un palo, poi un altro, passati di mano in mano al di sopra delle teste, fra clamori assordanti. In principio non si comprese a cosa dovessero servire, poi il piano fu chiaro: un piano probabilmente premeditato fra gli esclusi che tumultuavano all' esterno. Si tentava la scalata al loggione-gineceo. I pali furono drizzati e appoggiati alla balconata, e vari energumeni, toltisi gli stivali, cominciarono ad arrampicarsi come si fa alle fiere di villaggio sugli alberi di cuccagna. A partire da questo momento, lo spettacolo della scalata tolse ogni interesse all' altro che proseguiva sullo schermo. Non appena uno dei pretendenti riusciva a salire al di sopra della marea di teste, veniva tirato per i piedi e ricondotto a terra da dieci o venti mani. Si formarono gruppi di sostenitori e avversari: un audace poté svincolarsi dalla folla e salire a grandi bracciate, un altro lo seguì lungo lo stesso palo. Quasi a livello della balconata lottarono fra loro per alcuni minuti, quello di sotto afferrando i calcagni dell' altro, questo difendendosi con pedate sferrate alla cieca. In pari tempo, si videro affacciate alla balconata le teste di un drappello di italiani, saliti a precipizio per le scale tortuose della Casa Rossa a proteggere le donne assediate; il palo, respinto dai difensori, oscillò, rimase librato per un lungo istante in posizione verticale, poi rovinò fra la folla come un pino abbattuto dai boscaioli, coi due uomini abbarbicati. A questo punto, non saprei dire se per caso o se per un savio intervento dall' alto, la lampada del proiettore si spense, tutto piombò nell' oscurità, il clamore della platea toccò una intensità paurosa, e tutti sfollarono all' aperto, al chiaro di luna, fra urla, bestemmie ed acclamazioni. Con rimpianto di tutti, la carovana del cinema partì il mattino seguente. La sera successiva si verificò un rinnovato e temerario tentativo russo di invasione dei quartieri femminili, questa volta attraverso i tetti e le grondaie; in seguito al quale, venne istituito un servizio di sorveglianza notturna, a cura di volontari italiani. Inoltre, per maggior cautela, le donne della galleria sloggiarono, e si ricongiunsero col grosso della popolazione femminile, in una camerata collettiva: sistemazione meno intima ma più sicura.

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