Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIFI

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PROFUMO

662635
Capuana, Luigi 1 occorrenze

CENERE

663036
Deledda, Grazia 4 occorrenze

«Ed ora anche Bustianeddu mi abbandona e va via solo! Ed io, quando potrò partire io? Quando potrò ricercarla? Quando sarò grande!», rispose a se stesso, rianimandosi. «Ora non m'importa.» Tuttavia, appena consegnò la scodella a zia Tatàna, corse al finestruolo della stalla. Silenzio. Non si vedeva nessuno, non s'udiva nulla nel grande orto umido e chiaro sotto la luna. Le montagne si delineavano azzurre sullo sfondo vaporoso del cielo; tutto era silenzio e pace. Ad un tratto giunse dal molino la voce di Bustianeddu. «Egli non ha ripreso i denari?», pensò Anania. «Non è entrato nell'orto. Se andassi io?» Ma ebbe paura; rientrò nel molino e cominciò ad aggirarsi come un gattino affamato intorno a zia Tatàna che curava il malato. Ella gli fece la solita domanda: «Che hai? Ti fa male il ventre?». «Sì, andiamo a casa.» Zia Tatàna capì che egli voleva dirle qualche cosa e lo accompagnò fuori. «Gesù, Gesù, Santa Caterina bella!», proruppe, appena seppe tutto. «In che mondo siamo noi! Anche gli uccelli, anche i pulcini dentro l'uovo commettono il male!» Anania non seppe mai come zia Tatàna avesse persuaso Bustianeddu a rimettere il denaro nel cassetto: però d'allora in poi i due amici si guardarono un po' in cagnesco, e per ogni piccola cosa si insultavano e venivano alle mani.

Iddio Signore non abbandona gli uccelli del nido.» «Che vento! Che vento!», si lamentò poi Olì. «Credete voi ai morti?» «Io?», disse la vedova, spegnendo la candela e riprendendo il fuso. «Io non credo né ai morti né ai vivi ... » Zuanne sollevò il capo, disse piano piano: «Io cì!» e nascose ancora il viso in grembo ad Olì. La vedova riprese i suoi racconti: «Io poi ebbi un altro figlio, che ora ha otto anni ed è già servetto in un ovile. Poi ebbi questo. Ah, siamo ben poveri adesso, sorella cara; mio marito non era un ladrone, no; viveva del suo e perciò dovemmo vendere tutto, tranne questa casa». «Come morì?», domandò la fanciulla, accarezzando la testa del bimbo che pareva addormentato. «Come morì? In un'impresa. Egli non stette mai in carcere», osservò con fierezza la vedova, «sebbene la giustizia lo ricercasse, come il cacciatore ricerca il cinghiale. Egli però sfuggiva abilmente ad ogni agguato, e mentre la giustizia lo cercava sui monti, egli passava la notte qui, sì, proprio qui, davanti a questo focolare, dove stai seduta tu ... » Il bimbo sollevò la testa, con le grandi orecchie improvvisamente accese, poi la riabbassò sul grembo di Olì. «Sì, proprio lì. Una volta, due anni or sono, seppe che una pattuglia doveva percorrere la montagna ricercandolo. Allora mi mandò a dire: "Mentre i dragoni mi ricercheranno, io prenderò parte ad una impresa; al ritorno passerò la notte in casa; mogliettina mia, aspettami". Io aspettai, aspettai, tre, quattro notti: filai un rotolo di lana nera.» «Dove era andato?» «Non te lo dissi? Ad una impresa, ad una bardana, ecco!» esclamò la vedova con una certa impazienza: poi riabbassò la voce: «Io aspettai quattro notti, ma ero triste: ogni passo che udivo mi faceva battere il cuore; e le notti passavano, il mio cuore si stringeva, si faceva piccolo come il seme d'una mandorla. Alla quarta notte udii battere alla porta e aprii. "Donna, non aspettare più", mi disse un uomo mascherato. E mi diede il gabbano di mio marito. Ah!». La vedova diede un sospiro che parve un grido, poi tacque; e Olì la fissò a lungo, ma ad un tratto il suo sguardo seguì lo sguardo atterrito di Zuanne. Le manine del bimbo, dure e brune come zampe d'uccello, si agitavano e additavano la parete. «Che hai? Che cosa vedi?» «Un motto ... », egli sussurrò. «Ma che morto! ... », ella disse ridendo, improvvisamente allegra. Ma quando fu a letto, sola, in una specie di soffitta grigia e fredda, sul cui tetto il vento urlava ancora più tonante, smuovendo e sbattendo le assi, ella ripensò ai racconti della vedova, all'uomo mascherato che le aveva detto: «donna, non aspettare più!», al lungo gabbano nero, al bimbo che vedeva i morti, agli uccellini nudi del nido abbandonato, ai suoi poveri fratellini, ai tesori di Anania, alla notte di San Giovanni, a sua madre morta; ed ebbe paura e si sentì triste, così triste che, sebbene si ritenesse dannata all'inferno, desiderò di morire.

Addio umili creature inconscie della propria sventura, vecchio zio Pera vizioso, Efes e Nanna disgraziati, Rebecca infelice, Maestro Pane stravagante, pazzi, mendicanti, delinquenti, fanciulle belle e inconsapevoli, bambini votati al dolore, gente tutta infelice o spregevole che Anania non ama ma sente attaccata alla sua esistenza come il musco alla pietra, gente tutta che egli abbandona con gioia e con dolore! E addio dolcezza e luce sopra tanti oscuri dolori, arcobaleno incurvato come cornice di perle sul quadro screpolato di una miseria antica ed eterna - Margherita, addio! Il giorno della partenza si avvicinava, Zia Tatàna preparava una infinità di cose, ed altre teneva pronte nella memoria: camicie, calze, dolci, frutta, focaccie lucide come avorio, pezze di formaggio, e un pollo e dodici uova col sale e vino e miele e uva passa, riempivano mano mano bisaccie, cestini e scatole. «Diavolo», osservava Anania, «pare debba partire un intero esercito.» «Silenzio, figlio mio! quando sarai là vedrai come tutto sarà necessario. Là nessuno penserà a te, poverino: ah, come farai tu?» «Non dubitate, ci penserò io.» Il mugnaio e sua moglie tenevano lunghi colloqui segreti, ed Anania ne indovinava il motivo; una sera poi li vide uscire assieme e attese ansioso il loro ritorno. Zia Tatàna rientrò sola. «Anania», disse, «dove dunque hai deciso di andare? A Cagliari o a Sassari?» Egli veramente aveva fino a quel momento accarezzato il sogno di attraversare il mare; ma dalle parole della donna capì che qualcuno aveva stabilito di non lasciarlo ancora andar oltre le coste sarde. «Siete stata dal signor Carboni?», chiese con fiera amarezza. «Non negate. C'è bisogno di far segreti con me? Io so tutto, io. Perché dunque non mi lascia partire pel Continente? Gli restituirò tutto, io!» «Bah! bah!», esclamò zia Tatàna, mortificata e addolorata dall'impeto di fierezza dello studente. «Santa Caterina mia, che cosa ti passa in mente, adesso?» Anania sbuffò, sospirò, curvò il viso su un libro senza vederne una parola. La donna gli si avvicinò e gli posò una mano sulla spalla. «Che cosa mi dici, dunque, figliuolo mio? Cagliari o Sassari? Non hai detto fino a ieri che volevi andare a Cagliari o a Sassari? Perché vuoi andare più in là? Gesù Maria, il mare è una brutta cosa: dicono che si soffre e che si può morire. E le tempeste poi? Non pensi alle tempeste?» «Voi non capite niente ... », disse Anania, irritato, guardando e svolgendo le pagine come se leggesse vertiginosamente. «Se l'hai detto tu! Che capricci son questi? Non si studia lo stesso tanto in Sardegna che in continente? Perché vuoi andare là? ... » Ah, perché voleva andare là? Che ne capivano loro? Era forse per studiare? Fin dal primo giorno, quel dolce giorno d'autunno, in cui Bustianeddu l'aveva condotto alla scuola nel convento, non aveva egli pensato ad un'altra cosa che non era lo studio? Le ragioni di zia Tatàna calmarono alquanto la sua impazienza. «Vedi dunque, tu sei ancora un bambino; a diciassette anni tu vuoi già correre solo pel mondo? Vuoi morire in mare, solo, lontano da tutti, o vuoi smarrirti in una città che tu stesso dici grande come una foresta? Va dunque a Cagliari, adesso: il signor Carboni ti darà tante lettere di raccomandazione: egli conosce tutta Cagliari: anche un marchese conosce. Ebbene, abbi pazienza. Santa Caterina mia! Andrai, andrai anche là, quando sarai più grande. Tu ora sei come la lepre appena slattata: ecco che essa lascia il covo e fa un piccolo giro fino al muro della tanca: poi torna, cresce, poi s'arrischia più in là, più in là ancora, guarda dove deve andare, vede la via da percorrere. Abbi pazienza. Pensa che siamo vicini, pensa che potrai tornare con più facilità ad ogni occorrenza. Nelle vacanze di Natale potrai tornare ... » «Vado dunque a Cagliari!», decise Anania, rasserenato. L'indomani cominciò a far le visite di congedo. Andò dal direttore del Ginnasio, da un canonico amico di zia Tatàna, dal medico, dal deputato, ed infine dal sarto, dal pasticciere e dal calzolaio Franziscu Carchide, il bel giovinotto che un tempo frequentava il molino. Ora il Carchide aveva fatto fortuna, non si sapeva né come né perché; possedeva una bella bottega, con cinque o sei lavoranti, vestiva in borghese, parlava affettato, e si permetteva di fare il galante con le signorine che serviva! «Addio», disse Anania entrando nella bottega, «posdomani parto per Cagliari: desideri qualche cosa?» «Sì,» rispose uno dei giovani, sollevando il volto sorridente, «mandagli un anello col diamante, perché egli deve sposarsi con la figlia del sindaco!» «E perché no?» esclamò boriosamente il Carchide. «Accomodati, dunque.» Ma Anania, disgustato per lo scherzo che gli pareva un'ingiuria a Margherita, s'accomiatò subito. Uscendo incontrò sulla porta il giovinetto che la voce pubblica diceva figlio del Carboni; un ragazzo molto alto per la sua età, un po' curvo, pallido, con le mascelle sporgenti e gli occhi tristi e cerchiati, azzurri come quelli di Margherita. «Addio, Antonino», salutò lo studente, mentre l'altro lo guardava con un baleno d'odio nelle pupille melanconiche. Rientrato a casa Anania riferì ogni cosa a zia Tatàna, mentre la donna, seduta davanti a un braciere, preparava un dolce di scorze d'arancio, mandorle e miele, da portare in regalo ad un importante personaggio cagliaritano. «Sentite», disse Anania, «il vostro canonico mi ha regalato uno scudo, e due lire il medico. Io non volevo ... » «Ah, cattivo figliuolo! È uso, questo, di regalare denari agli studenti che partono la prima volta», osservò la donna, rimovendo e rimescolando delicatamente con due forchette i sottili fili della scorza d'arancio entro la lucida casseruola di stagno. Un acuto odore di miele bollente profumava la cucina tranquilla: qua e là facevano capolino i piccoli cestini gialli colmi di provviste per lo studente. Anania sedette presso la donna, prese il gatto sulle ginocchia e cominciò ad accarezzarlo. «Dove sarò tra otto giorni?», chiese pensieroso. «Sta fermo, Mussittu, giù la coda. Il vostro canonico mi ha fatto una lunga predica.» «E ti consigliò di confessarti e comunicarti prima di partire?» «Ciò si faceva venti anni fa, quando si partiva a cavallo per Cagliari, e s'impiegavano tre giorni per arrivarci. Adesso non si usa più», rispose maliziosamente Anania. «Cattivo figliuolo, tu non credi più in Dio!» «Col cuore, sì!» Queste parole consolarono alquanto la buona donna che gli narrò l'episodio biblico di Eli; dopo gli chiese: «Dove dunque sei stato?». Egli ricominciò a narrare: il gattino gli si era arrampicato sulle spalle e gli leccava le orecchie, dandogli un solletico strano che lo faceva, egli non sapeva perché, pensare a Margherita. Mentre raccontava il volgare scherzo del Carchide entrò Nanna, che zia Tatàna aveva mandata a comperare droghe e confetti per ornare il dolce: ella puzzava di vino, aveva le sottane lacere, in modo che le si scorgevano le gambe legnose e violacee, ed era ributtante più del solito. «Ecco qui», disse, estraendo dal seno i pacchettini delle droghe, e fermandosi ad ascoltare i discorsi di Anania. «Hai sentito?», esclamò ingenuamente zia Tatàna. «quell'immondezza di Franziscu Carchide vuole sposare Margherita Carboni.» «Non è così!», disse Anania, irritato. «Non capite niente!» «Sì,» disse Nanna, «io lo so; egli è pazzo. Ha chiesto la mano delle figlie del medico; voleva o l'una o l'altra! L'hanno cacciato via col manico della scopa. Ora vuole Margheritina, perché prendendole la misura delle scarpine le ha stretto il piede ... » «Doveva dargli un calcio!», gridò Anania, balzando in piedi, col gattino intorno al collo. «Un calcio sul viso!» Nanna lo guardò: i suoi piccoli occhi rifulgevano stranamente. «Ecco», disse, svolgendo i pacchettini con le mani tremolanti, «è quel che dissi io. Eppoi c'è anche un militare, un ufficiale o un generale, non so, che vuole sposare Margherita. Ma io dissi: no, ella è una rosa e deve sposare un garofano; freschi entrambi ... Prendine dunque uno ... » S'avvicinò ad Anania, porgendogli i confetti; ma egli balzò indietro gridando: «Puzzate come una botte! Lontana da me!». Nanna traballò; qualche confetto cadde e rotolò sul pavimento. «Il garofano mio!», diss'ella carezzevole, nonostante le cattive parole di Anania. «Sei tu il garofano di Margherita! Tu dunque parti? Va, studia, diventa dottore.» Anania si curvò, raccolse i confetti; poi rise e disse tutto felice: «Mi raccatteranno così, le ragazze: non è vero?». E si mise a ballare col gattino fra le braccia. Ma d'improvviso ridiventò cupo. Chi era il militare che voleva sposar Margherita? Forse quel capitano dal collo rosso, che a teatro gli aveva detto con disprezzo: «La finisca, dunque»? Improvvisamente gli balenò al pensiero una visione tormentosa: Margherita sposa d'un uomo giovane e ricco, Margherita perduta eternamente per lui! Depose il gattino per terra, e fuggì, si chiuse nella sua cameretta, s'affacciò alla finestra. Gli pareva di soffocare. Non era stato mai geloso, né aveva mai pensato che Margherita potesse sposarsi così presto. «No, no», pensava, stringendo e scuotendo la testa fra le mani, «non si deve sposare. Bisogna che aspetti, finché ... Ma perché dovrebbe aspettare? Io sono un bastardo, io sono il figlio d'una donna perduta. Io non ho altra missione che quella di cercare mia madre e di ritrarla dall'abisso del disonore ... Margherita non può abbassarsi a me; ma finché non avrò compiuto la mia missione ho bisogno di lei come di un faro. Dopo posso morire contento.» E non pensava che la sua missione poteva prolungarsi indeterminatamente e senza esito; e l'idea che rinunziando alla sua missione avrebbe potuto sperare nell'amore di Margherita gli sembrava mostruosa. Il pensiero di ritrovare sua madre cresceva e si sviluppava con lui, palpitava col suo cuore, vibrava coi suoi nervi, scorreva col suo sangue; solo la morte poteva sradicarlo, questo pensiero, ed appunto alla morte di sua madre egli pensava quando desiderava che il loro incontro non si avverasse; ma anche questa soluzione, o il desiderio di questa soluzione, gli sembrava una grande viltà. Più tardi egli si domandò se era stata la sua natura sentimentale a creargli il pensiero della sua missione, o se questo pensiero aveva formato la sua natura sentimentale: ma alla vigilia della sua partenza egli accettava ancora le sue sensazioni ed i suoi sentimenti senza analizzarli; ed accettandoli così, come da bambino, non faceva che meglio radicarli nella sua anima e nella sua carne, in modo che nessuna logica e nessun ragionamento cosciente avrebbero poi potuto strapparglieli. Passò una notte febbrile. Ah, era già lontano il tempo quando egli si contentava di veder Margherita nei piccoli viali dell'orto, senza badare al colore dei suoi capelli e alla forma del suo busto. Allora egli sognava cose fantastiche, rapimenti, incontri, fughe in luoghi misteriosi, magari nelle bianche pianure della luna; ma se gli avessero dato la notizia delle nozze di lei non avrebbe sofferto. Una volta aveva progettato di convincerla a seguirlo su una montagna; là si avvelenavano, d'un veleno che non deformava i cadaveri; si stendevano sulle roccie, fra l'edera ed i fiori, e morivano assieme: ed in questo sogno non s'era delineato neppure il desiderio di un bacio o di una stretta di mano. Ma dopo era venuto il sogno idilliaco della fontana di Fonni, il bacio, l'abbandono di Margherita; e durante la sera della rappresentazione, il profumo dei capelli di lei, lo splendore dei suoi occhi, il calore che pareva emanasse dalla sua persona fiorente gli avevano dato ebbrezze ineffabili. Ed ora soffriva al pensiero che ella potesse diventare d'altri; e nel sonno febbrile si affannava, sognando, a scriverle una lettera disperata, alla quale univa un sonetto, uno dei molti sonetti dialettali che egli aveva già composto per lei. Si svegliò, s'alzò ed aprì la finestra. L'alba gli parve vicina; il cielo era limpido, sopra una guglia nera dell'Orthobene tremolava una stella rossastra, simile ad una fiammella su un candelabro di pietra; i galli cantavano, rispondendosi l'un l'altro con una gara di gridi rauchi, e parevano indispettiti reciprocamente di ciò che gridavano e tutti contro la luce che non arrivava. Anania guardava il cielo e sbadigliava: ad un tratto un brivido di freddo lo investì dai piedi alla testa. Oh, Dio, che accadeva in lui? Gli pareva che qualche cosa volesse staccarglisi dall'anima, restare sotto quel cielo, davanti al monte selvaggio le cui creste servivano da candelabri alle stelle. Come il viandante oppresso da un carico troppo grave vuol liberarsene in parte onde poter continuare la sua strada, così egli sentiva il bisogno di lasciare un po' del suo segreto a Margherita. Chiuse la finestra e sedette davanti al tavolino, tremando e sbadigliando. «Che freddo!», disse a voce alta. Il sonetto che egli voleva mandare a Margherita era già copiato a stampatello, su un foglio di carta rosea rigata traversalmente di viola: eccone la traduzione in prosa: «Una bellissima margherita cresceva in un verde prato. Tutti i fiori l'ammiravano, ma specialmente un ranuncolo pallido ed umile, cresciutole accanto, moriva di amore per lei. Ed ecco, in una splendida giornata di primavera, una bellissima fanciulla andava a passeggiare nel prato, coglieva la margherita, la baciava, la poneva sul morbido seno, mentre senza avvedersene schiacciava l'infelice ranuncolo che, d'altronde, privato dell'adorata vicina, si sentiva beato di morire». Rileggendo i versi il poeta provò una tristezza dispettosa; vedeva, al posto della simbolica fanciulla, un capitano dei carabinieri dai baffi provocanti; ripiegò il foglio, ma restò a lungo indeciso se doveva chiuderlo o no nella busta. Che avrebbe pensato Margherita? Avrebbe ricevuto lei il sonetto? Sì, perché quando il postino batteva al portone tre colpi terribili che parevano picchiati dalla ferrea mano del destino, Margherita correva lei a ricever la posta. Bisognava però che ella fosse in casa nelle ore in cui passava il postino, cioè verso mezzogiorno ed a sera. A mezzogiorno ella certamente era in casa; occorreva dunque impostar subito il sonetto. Un'agitazione febbrile invase Anania; senza esitare oltre uscì e camminò come un sonnambulo per le straducole buie e deserte. Dietro i muri dei cortili, nelle rozze tettoie delle case paesane, i galli continuavano i loro canti dispettosi; l'aria umida odorava di stoppia; una povera infornatrice di pane d'orzo, che tornava dal compiere il suo faticoso mestiere, attraversò una viuzza; il passo di due alti carabinieri risuonò sinistramente sul lastrico del Corso: poi più nessuno, più nulla. Anania rasentava i muri, pauroso d'esser riconosciuto nonostante il buio, e appena impostata la lettera si mise a correre. Ma non poté rientrare in casa; gli pareva di soffocare, aveva bisogno d'aria, di immensità. Scese verso lo stradale di Orosei, risalì il ciglione, e solo quando si trovò ai piedi dell'Orthobene respirò, aprendo le narici come un puledro sfuggito al laccio. Avrebbe voluto gridare di gioia e di spasimo. Albeggiava; tenui veli azzurrognoli coprivano le grandi valli umide, le ultime stelle svanivano. Non sapeva perché, Anania ripeteva i versi: Care stelle dell'Orsa, io non credea ... e cercava di ricacciare da sé il pensiero di ciò che aveva fatto, mentre se ne sentiva felice fino allo spasimo. Prese a salire l'Orthobene, strappando fronde, ciuffi d'erba, lanciando pietre e ridendo; pareva pazzo. I cespugli odoravano, il cielo dietro l'enorme scoglio cerulo di monte Albo diventava in color di ciclamino; Anania si fermò su una roccia, guardò l'immensa chiostra azzurra delle montagne lontane battute dal riflesso delicato dell'aurora, e ridiventò pensieroso. Addio! Domani egli sarebbe al di là delle montagne, e Margherita penserebbe invano all'ignoto ranuncolo che l'amava e che era lui. Ed ecco, una cinzia cantò nel suo nido selvaggio, nel cuore d'un elce, e nella sua nota tremolò tutta la poesia del luogo solitario; Anania ricordò allora il canto di un altro uccellino entro l'umido fogliame d'un castagno, in una lontana mattina d'autunno, lassù, lassù, in una di quelle montagne dell'orizzonte, e rivide un bimbo che scendeva lieto la china, ignaro del proprio triste destino. «Anche adesso», pensò rattristandosi, «anche adesso sono lieto di partire, e chissà invece che cosa mi aspetta!» Rientrò a casa pallido e triste. «Ma dove sei stato, galanu meu? Perche sei uscito prima dell'alba?», chiese zia Tatàna. «Datemi il caffè!», diss'egli, aspro. «Ecco il caffè, ma che cosa hai, cuoricino amato? Sei pallido; rimettiti, riprendi colore prima di recarti dal padrino. Come? Scuoti il capo? Non andrai stamattina dal padrino? Cosa guardi? C'è qualche formica nel caffè?» Egli guardava fisso la piccola scodella rossa filettata d'oro, che serviva esclusivamente per lui: addio piccola scodella; ancora domani e poi addio. Le lagrime gli salivano agli occhi. «Andrò più tardi dal padrino; ora finisco di preparare la roba», disse piano piano, come parlando alla scodella. «E se non ci rivedessimo più?», chiese poi alla donna. «S'io dovessi morire prima del ritorno? E forse sarebbe meglio ... Perché dobbiamo vivere a lungo? Giacché si deve morire è meglio morir presto.» Zia Tatàna lo guardò; fece un segno di croce per aria, e disse: «Tu hai fatto cattivi sogni, stanotte? Perché parli così, agnellino senza lana? Ti fa male il capo?». «Voi non capite niente!», proruppe egli, balzando in piedi. Entrò nella sua cameretta e cominciò a riporre in una piccola valigia i libri e gli oggetti più cari; e di tanto in tanto volgeva gli occhi alla finestra aperta, nel cui sfondo si scorgeva un lembo di cielo autunnale che pareva una tela graziosamente dipinta: una pianura bianchiccia con un laghetto azzurro. Che avrebbe egli veduto dalla finestra della cameretta che l'aspettava a Cagliari? Il mare? Il mare vero, le lontananze infinite dell'acqua azzurra sotto le infinite lontananze del cielo azzurro? Tutto quell'azzurro, veduto e desiderato, lo rasserenò: si pentì d'aver contristato zia Tatàna, ma che poteva farci? Sì, egli sentiva d'essere ingrato, ma i nervi son nervi e non si può loro comandare. Però egli non vuole essere completamente ingrato, no! Lascia la valigia, i libri, le scatole, si precipita in cucina, dove la buona donna scopa con aria tra melanconica e filosofica, forse pensando alle parole funebri dell'«agnellino senza lana», le va sopra, stringe lei e la scopa in uno stesso abbraccio, e le trascina in un giro vorticoso di ballo. «Ah, cattiva lana, che cosa c'è?», grida la vecchia, palpitando di gioia; ma sul più bello Anania scappa, correndo e imitando lo sbuffare del treno. Chiusa la valigia egli andò a congedarsi dai vicini di casa, cominciando da Maestro Pane. La bottega del vecchio falegname, di solito piena di gente, era deserta, e lo studente dovette attendere alquanto, seduto sullo scalino interno della porta, coi piedi fra gli abbondanti trucioli che coprivano il pavimento. Un leggero soffio di vento entrava per la porta, agitando le grandi ragnatele del tetto, cosparse di fili di segatura. Finalmente Maestro Pane arrivò: indossava una vecchia tunica da soldato, della quale curava molto i bottoni lucidissimi, e sorrise con infantile compiacenza quando Anania gli disse che sembrava un generale. «Ho anche il kepì!», disse con serietà. «Vorrei metterlo, ma i ragazzi ridono. E così tu parti, caro bambino? Dio ti accompagni e ti aiuti. Io non ho niente da regalarti!» «Ma vi pare, Maestro Pane?» «Il cuore non manca, ma il cuore non basta! Ebbene, io ti farò una scrivania quando sarai dottore: ho già il modello, vedi?» Cercò un catalogo di mobili, gelosamente nascosto sotto il banco, e fece vedere allo studente una splendida scrivania a colonnine e trafori. «Ti pare impossibile?», disse, risentito, accorgendosi che Anania sorrideva. «Tu non conosci Maestro Pane! Io non ho mai lavorato mobili preziosi e fini perché non avevo fondi, ma sarei buono ... » «Lo credo, lo credo, Maestro Pà! Ed io, quando sarò dottore e ricco, vi farò eseguire tutti i mobili del mio palazzo ... » «Davvero? e quanti anni ci vorranno ancora?» «Eh, chi lo sa? Dieci, quindici ... » «Troppo! Sarò in cielo, allora, nella bottega di San Giuseppe glorioso» (nonostante lo scherzo si fece devotamente il segno della croce). «E, dimmi», riprese, fissando una pagina del catalogo, «cosa vuol dire mobili al-la-Lui-gi-de-ci- mo-quin-to?» «Era un re ... », cominciò Anania. «Questo lo so», rispose vivacemente Maestro Pane, con un malizioso sorriso sulla gran bocca sdentata, «era un re al quale piacevano le ragazzine ... » «Maestro Pane», gridò Anania, strabiliato, «come sapete ciò?» Il vecchietto cominciò a ridere, togliendosi la giubba e piegandola accuratamente. «Ebbene», disse, fingendo un ingenuo stupore per non turbare oltre l'innocenza di Anania, «perché siamo ignoranti non dobbiamo saper nulla? A quel re piaceva giocare e divertirsi coi bambini, come alla regina Ester piaceva andar pei campi a cogliere spighe, ed a Vittorio Emanuele zappare l'orto ... » Ma Anania la sapeva più lunga di Maestro Pane, e chiese anche lui con finta ingenuità: «Avete dunque studiato, voi?». «Io? Avrei voluto, ma non ho potuto; fiore mio, non tutti nascono sotto una buona stella come te.» «E dunque, come sapete queste storie?» «Si raccontano, diavolo! La storia della Regina Ester l'ho udita da tua madre, e quella del Re da Pera Sa Gattu ... » Anania andò via inorridito, ricordando una storiella raccontata molti anni prima da Nanna, una sera d'inverno, nel molino delle olive ... Bussò alla porticina chiusa di Nanna, ma il vecchio pazzo, seduto su una pietra, disse che la donna non c'era. «L'aspetto anch'io», aggiunse, «perché Gesù Cristo ieri sera mi disse che ha bisogno d'una serva.» «Dove l'avete incontrato?» «Nel viottolo ... laggiù», indicò il pazzo; «aveva un cappotto lungo e le scarpe rotte. Ebbene, perché tu non mi dai un paio di scarpe vecchie, Anania Atonzu?» «Vi starebbero strette», disse lo studente, guardandosi i piedi. «E perché non vai scalzo, che una palla ti trapassi la milza?», chiese minaccioso il pazzo, corrugando le irte sopracciglia grigie. «Addio», disse Anania, senza rispondere alla minacciosa domanda, «io parto per gli studi.» Gli occhioni azzurri del vecchio presero una espressione maliziosa. «Tu vai ad Iglesias?» «No, a Cagliari.» «Ad Iglesias ci sono i vampiri e le faine. Addio, dunque: toccami la mano. Così, bravo; non aver paura, non ti mangio. E tua madre dove si trova ora?» «Addio, state bene», disse Anania, ritirando la sua piccola mano dalla manaccia dura del pazzo. «Anch'io devo partire», annunziò il vecchio. «Andrò in un luogo dove si mangiano sempre cose buone: fave, lardo, lenticchie, viscere di pecora.» «Buon pro vi faccia!» «Eh!», gridò il pazzo, quando lo studente si fu allontanato. «Bada alle coreggie gialle! E scrivimi.» Anania si congedò dagli altri vicini, ed anche dalla donna mendicante, che lo ricevette in una cameretta discretamente pulita e gli offrì una tazza di buonissimo caffè. «Tu andrai anche da Rebecca?», gli domandò, con invidia, «quella stupida si è data a mendicare, adesso! Non è una vergogna, una ragazza come lei? Diglielo, dunque!» «È piagata! può appena camminare ... » «No, è guarita. Cosa guardi lassù? È una falce da mietitore.» «Perché sta appesa sulla porta?» «Per il vampiro, che quando penetra di notte nella camera si ferma a contare i denti della falce, e siccome non arriva che al sette ricomincia sempre. Così arriva l'alba, e appena vede la luce il vampiro fugge. Tu ridi? Eppure è vero. Che Dio ti benedica», disse poi la mendicante, accompagnandolo fin sulla strada. «Buon viaggio; e fa onore al vicinato.» Anania entrò da Rebecca: ella pareva ancora una bambina, sebbene avesse più di venti anni, livida, calva, accoccolata nel suo buco nero come una fiera malata nella sua tana. Vedendo lo studente arrossì, e tutta tremante gli offrì, su un primitivo vassoio di sughero, un grappolo d'uva nera. «Lo prenda, dunque ... », balbettò. «Non ho altro ... » «E dammi dunque del tu!», esclamò Anania, strappando un acino dal grappolo. «Non ne sono degna! Io non sono Margherita Carboni; sono una povera immondezza!», rispose animandosi la fanciulla. «Lo prenda dunque questo grappolo! È pulito; io non l'ho neppure toccato! Me lo portò zio Pera Sa Gattu.» «Zio Pera?», chiese Anania, ricordando con disgusto la storiella di Maestro Pane. «Sì, poveretto! Egli si ricorda sempre di me, e tutti i giorni mi porta qualche cosa: il mese scorso sono stata malata perché mi si sono riaperte le piaghe, e zio Pera fece venire il medico e portò le medicine. Ah, egli fa per me ciò che farebbe mio padre se ... Ma egli mi ha abbandonata! Basta!» disse poi Rebecca, accorgendosi di aver toccato un tasto doloroso per Anania. «Lei dunque non vuole il grappolo? È pulito, però.» «E dallo qui! Ma dove lo metto? Aspetta: lo avvolgo in questo giornale. Io dunque parto, sai. Vado a Cagliari per gli studi. Arrivederci; sta bene e curati.» «Addio!», diss'ella, con gli occhi pieni di lagrime. «Anch'io vorrei partire!» Anania uscì e vedendo sulla porta della bettola la bella Agata si avvicinò per congedarsi anche da lei. Appena lo scorse, la ragazza cominciò a sorridergli, con gli occhioni lucenti, ed a fargli segni d'addio con la mano. «Tu facevi all'amore con quel mucchietto di marcia!», chiese accennando Rebecca affacciatasi alla porta. «Allontanati, che puzzi orribilmente.» Anania fece un gesto di raccapriccio, pensando istintivamente a Margherita. «Eppure», proseguì l'altra, ridendo e guardandolo languidamente, «essa è gelosa di me. Osserva come guarda! Stupida! Ella pensa sempre a te perché l'ultima notte dell'anno scorso, quando sorteggiammo gli innamorati, il tuo nome venne fuori assieme col suo!» «Lo so, dunque! Finiscila!», diss'egli infastidito. «Io parto domani; addio. Desideri qualche cosa?» «Prendimi con te!», ella propose con ardore. Un pastore, che aveva finito di sorseggiare un calice d'acquavite, uscì dalla bettola e pizzicò la fanciulla. «Sas manos siccas, lepre pelata!», gridò Agata; poi attirò Anania entro la bettola e gli chiese che cosa desiderava bere. «Niente, addio, addio.» Ma Agata gli versò un calice di vino bianco, e mentre egli beveva, ella, appoggiatasi languidamente al banco, guardava fuori e diceva: «Anch'io verrò presto a Cagliari; appena avrò un costume nuovo e i bottoni d'oro per la camicia, verrò a Cagliari e cercherò servizio. Così ci rivedremo ... Oh, diavolo, ecco che viene Antonino; egli mi vuole in isposa ed è molto geloso di te. Ah, gioiello mio, addio, vattene ... ». Dicendo così si gettò su lui con uno slancio felino e lo baciò sulla bocca; poi lo spinse ad uscire, ed egli andò via sbalordito e turbato; e incontrando Antonino capì finalmente perché costui lo guardava con odio. Per qualche minuto camminò senza avvedersi dove andava: gli pareva d'aver baciato Margherita e il desiderio di vederla lo rendeva fremente. «Ah», gridò ad un tratto, trovandosi fra le braccia d'una donna. «Figliuolino del mio cuore», disse Nanna, piangendo comicamente e porgendogli un involtino, «tu dunque parti? Il Signore ti accompagni e ti benedica come benedice la spiga del frumento. Noi ci rivedremo ancora, ma intanto ecco ... non rifiutare, sai, perché io ne morrei di dolore ... » Per impedire la morte di Nanna egli prese l'involtino; poi trasalì sentendo sulla sua guancia qualcosa di viscido e un pestilenziale soffio di acquavite. «Ebbene», balbettò Nanna, dopo averlo baciato, «non ho potuto resistere. Pulisciti la guancia: no, essa non deve restar macchiata pei baci odorosi come garofani, delle fanciulle d'oro che ti raccatteranno come un confetto.» Anania non protestò, ma quel terribile urto con la realtà lo rimise in equilibrio, cancellando la sensazione ardente del bacio d'Agata. Rientrato a casa svolse l'involtino e trovò tredici soldi che cominciò a far risonare fra le mani. «Sei stato dal padrino?», chiese zia Tatàna. «Andrò fra poco, dopo mangiato.» Ma appena mangiato uscì nel cortile e si sdraiò sopra una stuoia, sotto il sambuco. L'aria era tiepida; attraverso i rami Anania vedeva grandi nuvole bianche passare sul cielo turchino; egli guardava e sentiva una dolcezza infinita calare da quelle nuvole; pareva una pioggia di latte tiepido. Ricordi lontani, erranti e cangianti come le nuvole, gli sfioravano la mente, confusi con le impressioni recenti. Ecco, egli rivede il paesaggio melanconico vigilato dai pini sonori, dove suo padre ara la terra per seminare il frumento del padrone. I pini hanno un rombo che pare la voce del mare; il cielo è profondamente e tristemente azzurro. Anania ricorda due versi ... «I suoi occhi sono azzurri, vuoti e profondi come il cielo.» Gli occhi di Margherita? No; egli offende Margherita pensando così; ma intanto è felice di ripetere versi così originali ... «I suoi occhi sono azzurri, profondi e vuoti come il cielo.» Chi passa dietro il pino? Il portalettere dai baffi rossi: una cornacchia, con le ali aperte, batte forte il becco sulla fronte del povero uomo. Dun, dun, dun! Margherita corre ad aprire, prende la lettera rosea a fili verdi, e comincia a volare. Anania vorrebbe seguirla, ma non può: non può muoversi, non può parlare; ecco però il portalettere che si avvicina e lo scuote ... «Sono le tre, figlio mio; quando dunque andrai dal padrino?», chiese zia Tatàna, scuotendolo. Egli balzò in piedi con un occhio chiuso e l'altro aperto, una guancia pallida e rossa l'altra. «Che sonno!», disse stirandosi. «È che stanotte non ho dormito per niente. Ora vado.» Andò a lavarsi, si pettinò, perdette mezz'ora a farsi la scriminatura da una parte, poi nel mezzo, poi a farla scomparire del tutto. Il cuore gli batteva con angoscia. «Che è questo? Che diavolo ho?», pensava, e voleva dominarsi ma non ci riusciva. «Sei ancora lì? quando dunque andrai?», gridò la vecchia dal cortile. Egli si affacciò alla finestra. «Cosa dunque gli dirò!» «Che parti domani; che farai da bravo; che sarai sempre un figlio rispettoso.» «Amen! E lui cosa mi dirà?» «Ti darà dei buoni consigli.» «Non mi parlerà di quella cosa ... » «Di quale cosa?» «Dei denari!», diss'egli, abbassando la voce e portandosi le mani alla bocca. «Oh, benedetto!», rispose la vecchia sollevando le braccia. «Che ci hai da veder tu? Tu non sai nulla!» «E allora vado ... » Ma invece andò da Bustianeddu, poi nell'orto per congedarsi da zio Pera ed anche dai fichi d'India, dai cardi, dal panorama, dall'orizzonte ... Trovò il vecchio sdraiato sull'erba col randello posato anch'esso sull'erba con attitudine di riposo. «Dunque parto zio Pera, addio: state bene e divertitevi!» «Eh?», chiese il vecchio, che diventava sordo e cieco. «Parto!», gridò Anania. «Vado a Cagliari per studiare ... » «Il mare? Sì, a Cagliari c'è il mare. Dio ti accompagni e ti benedica, figlio mio. Il vecchio zio Pera non ha nulla da darti, ma pregherà per te ... » «Avete niente da comandarmi?», chiese Anania, curvandosi, con le mani sulle ginocchia. Il vecchio si sollevò, lo guardò fisso e sorrise: «Che vuoi che ti comandi? Anch'io devo partire!». «Anche voi?», esclamò lo studente, sorridendo per la smania che tutti, anche i vecchi decrepiti, avevano di partire. «Anch'io.» «E per dove, zio Pera?» «Ah, per un paese lontano!», disse il vecchio stendendo la mano verso l'orizzonte. «Per l'Eternità!» Soltanto sul tardi, dopo esser passato e ripassato sotto le finestre di Margherita senza poter scorgere la fanciulla, Anania entrò e chiese del padrino. «Non c'è nessuno in casa. Se attendi rientreranno fra poco», disse la serva con arroganza. «Perché non sei venuto prima?» «Perché faccio quel che mi pare e piace», diss'egli entrando. «È giusto, meglio perdere il tempo con quella schifosa d'Agata che venire a riverire i benefattori.» «Auff!», egli sbuffò, appoggiandosi alla finestra dello studio. Ah, la serva lo umiliava come in quella notte lontana quando egli con Bustianeddu eran venuti per chiedere una scodella di brodo: nulla era cambiato; egli era sempre un servo, un beneficato. Lagrime di rabbia gli inumidirono gli occhi. «Ma io sono un uomo!», pensò. «Posso rinunziare a tutto, lavorare la terra, fare il soldato, ma non esser vile. Ora me ne vado.» E si staccò dalla finestra, ma sfiorando la scrivania già illuminata dalla luna, scorse fra le carte buttate su alla rinfusa una busta rosea a righe verdi. Il sangue gli salì al capo; le orecchie gli arsero, percosse da una vibrazione metallica; incoscientemente si curvò e prese la busta. Sì, era quella, squarciata e vuota. Gli parve di toccare la spoglia di una cosa per lui sacra, ch'era stata violata; ah, tutto, tutto era finito per lui, l'anima sua era vuota e sbranata come quella busta. D'un tratto una viva luce inondò la stanza; egli vide Margherita entrare, ed ebbe appena il tempo di lasciar cadere la busta, ma si accorse che la fanciulla aveva indovinato il suo atto, ed una viva vergogna si unì al suo dolore. «Buona sera», disse Margherita deponendo il lume sulla scrivania, «ti hanno lasciato al buio.» «Buona sera», egli mormorò, deciso a spiegarsi e poi fuggire e non lasciarsi vedere mai più. «Siedi.» Egli la fissava con occhi attoniti; sì, quella era Margherita, ma in quel momento egli la odiava. «Scusa», cominciò a balbettare. «Non l'ho fatto apposta, non sono un vile, io, ma ho veduta quella ... questa busta», la toccò col dito, «e non ho potuto ... L'ho guardata ... » «È tua?» «È mia.» Margherita arrossì e si confuse, mentre Anania, come liberato da un peso, cominciava a distinguere le cose e a ragionare. Il suo orgoglio, offeso dalla vergogna patita, lo consigliava a dire che l'invio del sonetto era stato uno scherzo; ma Margherita, nel suo vestito da passeggio, con la vita stretta da un nastro verde lucente, era così bella e pura che mentire con lei sarebbe stato come mentire con un angelo! Anania avrebbe voluto spegnere il lume e restare al chiaro di luna, solo con lei, e caderle ai piedi, e chiamarla coi più dolci nomi; ma non poteva, non poteva, sebbene s'accorgesse che anche lei sollevava e abbassava gli occhi con delizioso terrore, in attesa del suo grido d'amore. «Ha letto, tuo padre?», egli chiese a bassa voce. «Sì, ha letto; e rideva», ella rispose, commossa. «Rideva?» «Sì, rideva. Alla fine mi diede il foglio e disse: "Chi diavolo sarà?".» «E tu? E tu?» «Ed io ... » Essi parlavano piano, ansiosi, già avviluppati dal mistero di una complicità deliziosa; ma improvvisamente Margherita cambiò voce ed aspetto. «Oh, ecco papà. C'è Anania!», esclamò correndo verso l'uscio; e uscì rapidamente, mentre Anania ricadeva nel massimo turbamento. Egli sentì la mano calda e molle del padrino stringere la sua, e vide gli occhi azzurri e la catena d'oro scintillare, ma non ricordò mai precisamente i buoni consigli e le barzellette che il padre di Margherita quella sera gli prodigò. Un dubbio amaro lo tormentava. Aveva o no capito Margherita il vero significato del sonetto? E che ne pensava? Ella non aveva detto nulla a proposito, nei preziosi istanti che egli s'era così stupidamente lasciato sfuggire. L'aspetto turbato di lei non gli bastava; no; ed egli voleva sapere di più, voleva sapere tutto ... «Che cosa?», si domandò con tristezza. Niente. Era tutto inutile. Anche se ella aveva capito, anche se ella gli voleva bene ... Ma questa era una stupidaggine. Eppoi tutto era inutile! Un vuoto immenso lo circondava, e in questo vuoto la voce del signor Carboni si perdeva senza essere ascoltata, come in un abisso deserto. «Sta lieto e non pensare ad altro che a studiare!», concluse il padrino, vedendo che Anania sospirava. «Allegro dunque! Sii uomo e fatti onore!» Margherita rientrò accompagnata dalla madre, che prodigò allo studente la sua parte di consigli e d'incoraggiamenti. La fanciulla andava e veniva per la stanza; s'era ravviata i capelli in modo civettuolo, lasciando un ciuffetto sulla tempia sinistra, e, quel che più importa, s'era incipriata. I suoi occhi scintillavano; era bellissima, ed Anania la seguiva con uno sguardo delirante, ripensando al bacio di Agata. Come attirata dal fascino di quello sguardo, quando egli andò via ella lo seguì e lo accompagnò fino al portone. La luna illuminava il cortile, come in quella sera lontana, quando la visione altera eppur soave di lei aveva destato nel bimbo la coscienza del dovere: anche adesso ella appariva altera e soave, e camminava leggera, con un fruscìo d'ali, pronta a volare: ed Anania credeva ancora di sognare, di vederla sollevarsi davvero e sparire nell'infinito, e di non poterla raggiungere mai più; e il desiderio di stringerle la vita sottile, cinta dal nastro lucente, gli dava le vertigini. «Non la vedrò più! Cadrò morto appena ella avrà chiuso il portone», pensò, quando giunsero al limite fatale. Margherita tirò il catenaccio, poi si volse e porse la mano allo studente. Era pallidissima. «Addio ... Ti scriverò ... Anania ... » «Addio», egli disse, tremando di gioia; ma invece di andarsene si ritrasse nell'ombra e attirò a sé Margherita. E parve ad entrambi che il contatto delle loro labbra facesse scoppiare qualche cosa di terribile e di grandioso nell'aria, perché, mentre si baciavano perdutamente, sentirono come il rombo e l'ardore e la luce del fulmine.

Egli andò, raccontò la gita, si abbandonò alle carezze di lei come un viandante stanco si abbandona alle carezze del vento, all'ombra d'un albero, sull'orlo della via; ma non poté dire una sola parola sul cupo segreto che lo divorava. 18 settembre, ore due di notte Margherita, Sono rientrato a casa adesso, dopo aver pazzamente errato per le strade. Mi pare d'impazzire da un momento all'altro ed è anche questa paura che mi spinge a confidarti, - dopo una lunga inenarrabile indecisione, - il dolore che mi uccide. Ma voglio esser breve. Margherita, tu sai chi io sono: figlio della colpa, abbandonato da una madre più disgraziata che colpevole, io sono nato sotto un astro terribile e devo espiare delitti non miei. Inconsapevole del mio triste destino, spinto dalla fatalità, io ho trascinato con me, nell'abisso dal quale io non potrò mai uscire, la creatura che ho amato sopra tutte le creature della terra. Te, Margherita ... Perdonami, perdonami! Questo è il mio più immenso dolore, il rimorso terribile che mi strazierà per tutto il resto della vita, se pure vivrò ... Senti. Mia madre è viva: dopo una esistenza di colpe e di dolori, ella è risorta davanti a me come un fantasma. Essa è miserabile, malata, invecchiata dal dolore e dalle privazioni. Il mio dovere, tu stessa lo dici a te stessa in questo momento, è di redimerla. Ho deciso di riunirmi con lei, di lavorare per sostenerla, di sacrificare la vita stessa, se occorre, per compiere il mio dovere. Margherita, che dirti altro? Mai come in questo momento ho sentito il bisogno di aprirti tutta l'anima mia, simile ad un mare in tempesta, e mai ho sentito mancarmi le parole come mi mancano in quest'ora decisiva della mia vita. La ragione stessa mi manca; ho ancora sulle labbra il profumo dei tuoi baci e tremo di passione e di angoscia ... Margherita, Margherita, la mia vita è nelle tue mani! Abbi pietà di me ed anche di te. Sii buona come io ti ho sempre sognata! Pensa che la vita è breve, e che la sola realtà della vita è l'amore, e che nessun uomo della terra ti amerà come ti amo e ti amerò io. Non calpestare la nostra felicità per i pregiudizi umani, i pregiudizi che gli uomini invidiosi inventarono per rendersi scambievolmente infelici. Tu sei buona, sei superiore: dimmi almeno una parola di speranza per l'avvenire. Ma che dico? Io divento pazzo; perdonami, e ricordati che, qualunque cosa accada, io sarò sempre tuo per l'eternità. Scrivimi subito ... A. 19 settembre Anania, La tua lettera mi sembra un orrendo sogno. Anch'io non trovo parole per esprimermi. Vieni stanotte, alla solita ora, e decideremo assieme il nostro destino. Sono io che devo dire: la mia vita è nelle tue mani. Vieni, ti aspetto ansiosamente ... M. 19 settembre Margherita, Il tuo bigliettino mi ha gelato il cuore; sento che il mio destino è già deciso, ma un filo di speranza mi guida ancora. No, non posso venire; anche volendolo non potrei venire. Non verrò se tu non mi dirai prima una parola di speranza. Allora correrò a te per inginocchiarmi ai tuoi piedi e per ringraziarti e adorarti come una santa. Ma ora no, non posso, e non voglio. Quanto ti scrissi la notte scorsa è la mia irrevocabile decisione; scrivimi, non farmi morire in questa attesa terribile. Il tuo infelicissimo A. 19 settembre, mezzanotte Anania, Nino mio, Ti ho aspettato fino a questo momento, palpitante di dolore e di amore, ma tu non sei venuto, tu forse non verrai mai più, ed io ti scrivo, in quest'ora soave dei nostri convegni, con la morte nel cuore e le lagrime negli occhi non ancora stanchi di piangere. La luna smorta cala sul cielo velato, la notte è melanconica e quasi lugubre e mi pare che tutto il creato si rattristi per la sventura che opprime il nostro amore. Anania, perché mi hai tu ingannato? Io sapevo sì, come tu dici, quello che tu sei, e ti amai appunto perché sono superiore ai pregiudizi umani, perché volevo ricompensarti delle ingiustizie che la sorte aveva tramato a tuo danno, e sopratutto perché credevo che anche tu, anche tu fossi superiore ai pregiudizi, e avessi riposto in me, come io avevo riposto in te, tutta la tua vita. Invece mi sono ingannata; o meglio sei stato tu ad ingannarmi, tacendomi i tuoi veri sentimenti. Ho sempre creduto che tu sapessi che tua madre viveva, e dove si trovava, e la vita che conduceva; ma ero certa che tu, vilmente abbandonato da lei, non facessi più caso d'una madre snaturata, tua sventura e disonore, e la ritenessi come morta per te e per tutti ... Non solo, ma ero certa che se ella osava presentarsi a te, come pur troppo é accaduto, tu non ti saresti degnato neppure di guardarla ... E invece, invece! Invece tu ora scacci chi ti ha lungamente amato e ti amerà sempre, per sacrificare la tua vita e il tuo onore a chi ti ha abbandonato, bambino inconsapevole; a chi ti avrebbe ucciso o lasciato in un bosco, in un deserto, pur di liberarsi di te. Ma è inutile che io ti scriva queste cose, perché tu certamente le capisci meglio di me; ed è inutile che tu continui ad illudermi e ad invocare sentimenti che io non posso avere dal momento che neppure tu li hai. Perché, vedi, io capisco benissimo che tu vuoi sacrificarti non per affetto, e neppure per generosità, - perché probabilmente tu odii giustamente la donna che fu la tua rovina, - ma spinto da quei pregiudizi umani inventati dagli uomini per rendersi scambievolmente infelici. Sì, sì: tu vuoi sacrificarti per il mondo; tu vuoi rovinarti e rovinare chi ti ama, solo per la vanità di sentir dire: "hai fatto il tuo dovere!". Tu sei un fanciullo, e il tuo è un sogno pericoloso ma anche, permettimi di dirtelo, anche ridicolo. La gente, sapendolo, ti loderà, sì, ma in fondo riderà della tua semplicità. Anania, torna in te, sii buono, con te e con me, come tu dici, e sopratutto sii uomo. No, io non dico di abbandonare tua madre, debole e infelice, come essa ti ha abbandonato: no, noi l'aiuteremo, noi lavoreremo per lei, se occorre, ma che essa stia lontana da noi, che essa non venga a mettersi fra noi, a turbare la nostra vita con la sua presenza. Mai! mai! Perché dovrei ingannarti, Anania? Io non posso neppure lontanamente ammettere la possibilità di vivere assieme con lei ... Ah, no! Sarebbe una vita orrenda, una continua tragedia; meglio morire una buona volta che morire lentamente di rancore e di disgusto. Io non ho mai amato quella disgraziata; ora ne sento pietà, ma non posso amarla; e ti scongiuro di non insistere nel tuo pazzo progetto, se non vuoi farmela nuovamente odiare mille volte più di prima. Questa la mia ultima decisione; sì, aiutarla, ma tenerla lontana, che io non la veda mai, che possibilmente il mondo dove vivremo noi ignori che ella esiste. Pensa che anche lei, forse, sarà più contenta di vivere lontana da te, la cui presenza le causerebbe un continuo rimorso. Tu dici che é invecchiata dal dolore, dalle privazioni, miserabile e malata; ma di chi la colpa se non sua? Per te, ed anche per lei, è meglio che ella si trovi in quello stato; così cesserà di vagabondare, e, non ti disonorerà più; ma che ella, dopo averti oltraggiato quando era sana e giovane, non si faccia un'arma della miseria e della debolezza per richiedere il sacrifizio della tua felicità! ... Ah, questo no, non devi permetterlo mai! No, non è possibile che tu compia una aberrazione fatale! A meno che tu non mi ami più e colga l'occasione per ... Ma no, no, no! Neppure voglio dubitare di te, della tua lealtà e del tuo amore! Anania, ritorna in te, ti ripeto, non essere malvagio e crudele con me, che ti diedi tutti i miei sogni, tutta la mia giovinezza, tutto il mio avvenire, mentre vuoi essere generoso verso chi ti ha odiato e rovinato. Abbi pietà ... vedi ... io piango, io ti imploro, anche per te, che vorrei veder felice come sempre sognai ... Ricordati tutto il nostro amore, il nostro primo bacio, i giuramenti, i sogni, i progetti, tutto, tutto ricorda! Fa che tutto non si risolva in un pugno di cenere; fa che io non muoia di dolore; fa che tu stesso non abbi a pentirti del tuo pazzo procedere. Se non vuoi dar retta ai miei consigli interroga persone serie, persone di Dio, e vedrai che tutti ti diranno qual è il tuo vero dovere, che tutti ti diranno di non essere ingrato, né malvagio. Ricorda, Anania, ricorda! Anche ieri notte mi dicevi che dalla vetta del Gennargentu gridasti il tuo amore, proclamandolo eterno. Dunque mentivi; anche ieri notte mentivi? E perché? ... Perché mi tratti così! Che ho fatto io per meritarmi tanto dolore? Possibile che tu non ricordi come ti ho sempre amato? Ricordi una sera che io stavo alla finestra e tu mi buttasti un fiore, dopo averlo baciato? Io conservo quel fiore per ornarne il mio vestito da sposa; e dico conservo perché son certa che tu sarai il mio sposo diletto, che tu non vorrai far morire la tua Margherita (e il tuo sonetto lo ricordi?), che saremo tanto felici, nella nostra casetta, soli soli col nostro amore ed il nostro dovere. Sono io che aspetto da te, subito, una parola di speranza. Dimmi che tutto fu un sogno tormentoso; dimmi che la ragione è ritornata in te, e che ti penti d'avermi fatto soffrire. Domani notte, o meglio stanotte, perché è già passata la una, ti aspetto; non mancare; vieni, adorato, vieni, diletto mio, mio amato sposo, vieni: io ti aspetterò come il fiore aspetta la rugiada dopo una giornata di sole ardente; vieni, fammi rivivere, fammi dimenticare; vieni, adorato, le mie labbra, ora bagnate d'amaro pianto, si poseranno sulla tua bocca amata come ... «No! no! no!», disse convulso Anania, torcendo la lettera senza leggerne le ultime righe. «Non verrò! Sei vile, vile, vile! Morrò ma non mi vedrai mai più.» Coi fogli stretti nel pugno si gettò sul letto, e nascose il viso sul guanciale, mordendolo, comprimendo i singhiozzi che gli gonfiavano la gola. Un fremito di passione lo percorreva tutto, dai piedi alla nuca; le invocazioni di Margherita gli davano un desiderio cupo dei baci di lei, e a lungo lottò acerbamente contro il folle bisogno di rileggere la lettera sino in fondo. Ma a poco a poco riprese coscienza di sé e di ciò che provava. Gli parve di aver veduto Margherita nuda, e di sentire per lei un amore delirante e un disgusto così profondo che annientava lo stesso amore. Come ella era vile! Vile sino alla spudoratezza. Vile e coscientemente vile. La Dea ammantata di maestà e di bontà aveva sciolto i suoi veli aurei ed appariva ignuda, impastata d'egoismo e di crudeltà; la Minerva taciturna apriva le labbra per bestemmiare; il simbolo s'apriva, si spaccava come un frutto, roseo al di fuori, nero e velenoso all'interno. Ella era la Donna, completa, con tutte le sue feroci astuzie. Ma il maggior tormento di Anania era il pensare che ella indovinava i suoi più segreti sentimenti e che aveva ragione: sopratutto ragione di rimproverargli l'inganno usatole, e di pretendere da lui il compimento dei suoi doveri di gratitudine e d'amore. «È finita!», pensò. «Doveva finire così.» Si rialzò e rilesse la lettera: ogni parola lo offendeva, lo disgustava e lo umiliava. Margherita dunque lo aveva amato per compassione, pur credendolo vile come era vile lei. Ella forse aveva sperato di farsi di lui un servo compiacente, un marito umile; o forse non aveva pensato a nulla di tutto questo; ma lo aveva amato solo per istinto, perché era stato il primo a baciarla, il solo a parlarle d'amore. «Ella non ha anima!», pensò il disgraziato. «Quando io deliravo, quando io salivo alle stelle e mi esaltavo per sentimenti sovrumani, ella taceva perché nella sua anima era il vuoto, ed io adoravo il suo silenzio che mi sembrava divino; ella ha parlato solo quando si destarono i suoi sensi, e parla ora che la minaccia il pericolo volgare del mio abbandono. Non ha anima né cuore. Non una parola di pietà: non il pudore di mascherare almeno il suo egoismo. Eppoi come è astuta! La sua lettera è copiata e ricopiata, sebbene riveli la grossolana ignoranza di lei: quanti "che", ci sono! Mi sembrano martelli, pronti a fracassarmi il cranio. Le ultime righe, poi, sono un capolavoro ... ella sapeva già, prima di scriverle, l'effetto che dovevano produrre ... ella è più vecchia di me ... ella mi conosce perfettamente, mentre io comincio appena adesso a conoscerla ... ella vuole attirarmi al convegno perché è sicura che se io ci vado mi inebrio e divento vile ... Inganno! inganno! inganno! Come la disprezzo ora! Non una parola buona, non uno slancio generoso, niente, niente! Ah, che rabbia!» (torse di nuovo la lettera) «Vi odio tutti; vi odierò sempre! Voglio essere cattivo anch'io; voglio farvi soffrire, schiantare, morire ... Cominciamo!» Prese il sacchettino ancora avvolto nel fazzoletto di colore, e poco dopo lo mandò a zia Grathia. «Tutto è finito!», ripeteva ogni momento. E gli pareva di camminare nel vuoto, fra nuvole fredde, come sul Gennargentu; ma adesso invano guardava sotto, intorno a sé: non via di scampo; tutto nebbia, vertigine, orrore. Durante la giornata pensò cento volte al suicidio; s'informò se poteva presentarsi subito agli esami per maestro elementare o per segretario comunale; andò nella bettola e presa fra le braccia la bella Agata (già fidanzata con Antonino), la baciò sulle labbra. Turbini di odio e di amore per Margherita gli attraversavano l'anima; più rileggeva la lettera più ella gli sembrava perfida; più sentiva d'allontanarsele più l'amava e la desiderava. Baciando Agata ricordava l'impressione violenta che il bacio della bella paesana gli aveva destato un giorno; anche allora Margherita era tanto lontana da lui, un mondo di poesia e di mistero li divideva; e questo stesso mondo, crollato, li divideva ancora. «Che hai?», gli chiese Agata, lasciandosi baciare. «Vi siete bisticciati, con lei? Perché mi baci?» «Perché mi piaci ... Perché sei puzzolente ... » «Tu hai bevuto», diss'ella, ridendo. «Se ti piacciono le donne così, puoi andare da Rebecca ... Se però Margherita viene a saperlo!» «Taci!», diss'egli, adirandosi. «Non pronunziar neppure il suo nome ... » «Perché?», chiese Agata, freddamente maligna. «Non diverrà mia cognata? È forse diversa da noi? È una donna come noi. Perché noi siamo povere? Chissà poi se anch'ella sarà ricca! Se fosse stata certa di ciò, forse ti avrebbe tenuto sempre a bada finché trovava un partito migliore di te!» «Se non la finisci ti batto ... », diss'egli furibondo. Ma l'insinuazione di Agata accrebbe i suoi sentimenti: oramai egli riteneva Margherita capace di tutto. Verso sera si mise a letto, con la febbre, deciso a non alzarsi, l'indomani, affinché Margherita venisse a sapere ch'egli era malato, e ne soffrisse. Giunse ad immaginarsi una segreta visita di lei; e pensando alla scena che ne sarebbe seguita, tremava di dolcezza. Ma ad un tratto questo sogno gli apparve qual era, puerilmente sentimentale, e ne provò vergogna. Si alzò ed uscì. Alla solita ora si trovò davanti al portone di Margherita. Ella stessa aprì. Si abbracciarono e si misero entrambi a piangere; ma appena Margherita cominciò a parlare, egli sentì un invincibile disgusto per lei, poi un senso di gelo. No, egli non l'amava più, non la desiderava più. Si alzò e andò via senza pronunziar parola. Giunto in fondo alla strada tornò indietro, s'appoggiò al portone e chiamò: «Margherita!». Ma il portone rimase chiuso.

Vita intima

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Vertua Gentile, Anna 1 occorrenze

La donna amata di amore dignitoso e elevato, stimata nel suo giusto valore, libera da l'oppressione che le imprigionava le facoltà giacenti inerti, indistinte, abbuiate, sente in tutta la sua forza la propria individualità, e l'anima sua, fatta di sentimento, al sentimento si abbandona. E il sentimento esige tenerezza più che ragionevolezza: una tenerezza spesso soverchia, che rallenta i freni nella mano educatrice. E l'uomo che quando stima e ama si lascia tanto facilmente influenzare fino a vedere e sentire con gli occhi e con il cuore della donna amata e stimata, finisce per lasciarsi a sua volta spadroneggiare dal sentimento, a scapito della ragione, e spesso soffoca nell' affetto, fatto di indulgenze, di paure vaghe e di pietà infinita, la sua autorità, il suo potere di padre; e diventa l'amico, il compagno, quasi l' uguale dei figli. E' quindi evidente che non si può dire a questi: « Fate questo , fate quest' altro perché io voglio così ». Non vi possono essere comandi fra uguali; non soffre violenza una volontà abituata ad agire per proprio impulso; non si piega a la cieca la ragione, che non fu mai offuscata da tirannia. Così, per educare volontà e ragione, è ora necessaria una influenza che non sia l'autorità d'altri tempi; la influenza d'una superiorità riconosciuta e di una specchiata virtù, congiunta con una voce cara e insinuante, che sappia trovare la via del cuore. Ed ecco perché la madre per riuscire nella educazione dei figli, ha bisogno di vegliare su le sue azioni, su le sue parole, in modo da essere una continua vivente lezione di moralità. La madre che educa con vera intelligenza d'amore i suoi figliuoli, è proprio del secolo XIX. In altri tempi, il rispetto esagerato, quasi pauroso e il sentimento di superiorità, staccavano, per così dire, i figli della madre, la quale — in generale — quando aveva loro insegnato a brontolare vecchie preghiere e a baciarle la mano mattina e sera, a parlare appena se interrogati , a tenersi ritti impettiti ed a seguire scrupolosamente i dettati del Galateo d'allora, credeva d'aver adempito a ogni suo dovere materno. Si deve dunque, io credo, a l'istruzione e a l'educazione femminile, la famiglia civile di oggi; la famiglia, ove la tenerezza avvicina e la mutua simpatia intellettuale interessa ed avvince; la famiglia retta e guidata dalla madre che può e vuole essere la prima educatrice dei figli suoi. La madre moderna — intendo quella che comprende il proprio dovere con saggezza — sente, che è suo diritto e suo dovere, di svegliare , e educare nel cuore e nella mente dei figli, la prima idea di Dio, dell'onestà, del bene, del bello, e il sentimento dell'individualità. Sente il dovere di fare in modo , che l' individualità non devii mutandosi in egoismo , in personalità invidiosa, in individualismo che isola dai proprii simili; ma che a poco a poco si trasformi nel sentimento intimo, profondo e santo, che fa che uno si senta qualcuno e voglia essere qualcuno. La madre intelligente sa che è guaio serio comprimere la individualità nell'animo dei fanciulli; sa che la depressione converte i deboli in ipocriti e i forti in ribelli; ma sa pur anche, che se non va compressa, l'individualità vuol essere educata, se non si vogliono crescere dei deboli , dei prepotenti , degli egoisti; e trova il modo di ben dirigere nei figli questa forza , insegnando loro la sana e forte dottrina, che è la compagna della libertà: la dottrina della responsabilità personale. Chi nel secolo XIX tanto fece e fa tuttora per la riforma femminile, non pensò certo di strappare la donna al suo centro naturale, che è quello degli affetti ; ma volle invece , renderla più conscia della grandezza morale della sua missione, quindi più degna di essa. Il titolo santo di madre di famiglia non dice solamente devozione, tenerezza, accortezza; dice anche e forse più, un lavorio continuo, incessante, faticoso; dice preoccupazioni, crucci, dolori, tutto un complesso di pene morali che però l' intima compiacenza e la soddisfazione generosa, acchetano e addolciscono. E più la donna è istruita, più sa e più ha l'animo temprato al coraggio, confortato dal pensiero di Dio, e meglio è compresa della sua alta, difficile missione, e la missione stessa le torna più delicata, più doverosa e santa. Il sentimento della famiglia si è fatto più delicato in quasi tutte le classi; ma forse non in tutte le classi si è rafforzato. Insieme con l'istruzione, elementare sì, ma sufficiente a stenebrare le menti sgombrandole dai pregiudizi e rendendo ognuno capace di comprendere il perché di quasi tutto quello che vede; insieme con un poco di educazione, che dirozza, nella casa dell' operaio del contadino, del lavoratore in genere, entrò il desiderio, anzi il bisogno della pulizia, dell'ordine, delle maniere meno grossolane, delle parole meno volgari, di un poco di affettuosità, quindi di gentilezza. Si è pensato e sentito, che il povero ha dei santi diritti nel punto di vista della morale pubblica; che la sua più grande disgrazia è la digradazione morale, che la miseria distrugge il rispetto personale, esaurisce lo spirito e influisce tristamente su le affezioni domestiche, spingendo, quasi a rifugio, verso gli abbietti piaceri; si è pensato e sentito, che l'anima per elevarsi, ha bisogno di mezzi accessibili al ricco come al povero; che la verità morale è il tesoro della intelligenza; che il germe delle grandi idee morali, è in tutti gli animi e che il povero può aspirare a l'educazione più elevata e raggiungerla. E si concluse, che nell'interesse di tutti, era logico e giusto riconoscere una sola casta morale; quella dell'umanità. Tutti uguali, non solo davanti a Dio, non solo davanti a la legge , ma nella coscienza di ciascuno; nella coscienza pubblica. *** Un'uguaglianza, non materiale, che non può esistere nell'umanità come non esiste in natura, che è delicato e soave sogno di pochi, o esigenza di prepotenti; ma la santa uguaglianza, che sta nell'elevatezza morale; la persuasione che ogni uomo può cercare in se stesso forza e felicità e che deve domandare l'una e l'altra a l'amore del dovere, a l'energia della volontà , a la coltura dello spirito. La persuasione che di queste virtù si può arricchire chiunque voglia, purché voglia seriamente rafforzare il pensiero per mezzo della riflessione e della sana lettura e fortificare il carattere con il lavoro e la pratica del bene. Solo in questa via feconda si trova la pace dell'anima e il sentimento della propria dignità e della propria forza; solo camminando coraggiosamente e liberamente in questa via, si può trovare il proprio bene insieme con quello della società; si può acquistare la certezza , che la più grande forza dell'universo è lo spirito, non già la forza bruta e materiale ; che il potere dell'uomo è fatto di energia morale e intellettuale e che è lo spirito che ha conquistato la materia. Tutto ciò si senti e si pensò nel secolo XIX; e con queste idee nella mente, con questi sentimenti nel cuore, si finì, per la maggiore, a sentire l'uguaglianza, la fratellanza santa, comandata da Dio, necessaria a la ragione, indispensabile a la generosità. Tutti fratelli; quindi disposti al reciproco rispetto, al mutuo soccorso. E il povero fu aiutato, rialzato, reso capace di riconoscere nel suo io , a creatura pensante e ragionante, che ha sacri doveri da compiere e sacri diritti da esigere. Ora, il sentimento ben chiaro e profondo dei doveri e dei diritti, dovrebbe essere fiaccola sempre accesa, che illumina di vivida luce, onestà e gentili costumi, e a quella e a questi invita e attrae. L'aura di civiltà e di progresso, spirante miglioramento , penetrò nelle famiglie di tutte le classi, nel secolo XIX e vi portò una certa dignità materiale; ma forse, più materiale che morale. Il luridume, lo sconcio e immorale agglomeramento di uomini, donne fanciulli, raccolti insieme in chiatte, schifose stanze, quasi tane, è immondo spettacolo, che ora di rado, affligge occhio e sentimento. Ed è, generalmente, triste ricovero di oziosi, viziosi e peggio, rifuggenti dai pubblici asili aperti dalla beneficenza; classe di disgraziati , che civiltà e progresso riusciranno a diminuire ma non a sopprimere, come la mano esperta dell'agricoltore riesce a scemare le male erbe nei campi e nei prati , ma non certo a toglierle del tutto. Più non si incontrano, o assai di rado, contadini e specialmente operai sudici e strappati, dalle maniere e parole grossolane e triviali. Cosa che allontanava le così dette persone educate, causando due mali; l'orgoglio e il dispregio da una parte, l'avvilimento, la persuasione d'inferiorità e spesso la ribellione, dall'altra. Adesso, grazie, principalmente alle scuole, aperte nei più umili e remoti villaggi, il povero si è dirozzato; si esprime benino; ha modi abbastanza urbani, capisce. La distanza fra lui e chi a lui è superiore per istruzione e educazione, è diminuita. Sono smantellati i castelli feudali; le distanze sociali vanno scomparendo; il passato è morto. E' spento il vecchio prestigio; le vecchie idee più non esistono. Più non vi sono classi che si lasciano opprimere e avvilire; la società è fatta di tutti, e tutti vogliono avervi e sentirvi la propria parte. L'operaio, il contadino, tutti o quasi tutti, adesso pensano; vogliono sapere la ragione di ciò che fanno, di ciò che credono, per fino delle loro sofferenze. Si direbbe che chiedano un compenso del passato. A l'inerzia d'ogni nobile desiderio, è successa la sete della verità; a l'accasciamento morale, è successo il sentimento ben chiaro e forte della giustizia. Le creature davvero superiori, le quali sono schiettamente convinte che il miglioramento della società, più tosto che con fieri, sanguinosi strappi, si ottiene gradatamente, per mezzo della sana, vigorosa educazione morale, plaudiscono a questo primo risveglio voluto dal progresso; risveglio, che se lascia ancora molto e molto a desiderare, è però sempre un passo verso il meglio. Ma come nei bambini è previdente e saggio guidare al bene le buone disposizioni , così , chi desidera con sincerità il bene di tutti , trova previdente e saggio fare in maniera , che nei cuori e nelle menti di ognuno, i desideri sieno onestamente guidati al possibile, le aspirazioni a l'arrivabile, e che l'anima accolga il sentimento d'un ideale non offuscato da sragionevolezze, da folli prepotenze. Le creature superiori , che vogliono per davvero il bene della società , sanno che, se si vuole migliorare una generazione, è necessario comprendere la ragione dell' umano vivere , guardare al punto ove hanno origine i beni ed i mali e le norme del volere, e farne oggetto di applicazione la famiglia; prendere per mano i fanciulli e gli ignoranti, indirizzarli con amore e intelligenza alle verità morali per mezzo delle scuole, dei libri e sopratutto dei costumi. Questo si è cercato di fare nel secolo XIX, a vantaggio della famiglia, quindi della società e della patria. Pur troppo manca ancora molto a raggiungere l'ideale, e taluni vedono in questo risveglio d'ogni classe, in questo spesso focoso desiderio di miglioramento , un male piuttosto che un bene ; e i pessimisti scettici guardano, con sorriso dubitoso, a l'inquietudine morale vasta e profonda, e a le corruttrici bramosie di godimento che accompagnano il progresso. Ma chi puó dire a che possa portare il disordine o l'apparenza del disordine ? ... « ... né l'acqua iraconda che scende a ruina la valle — dice Fogazzaro — nè la frana di macigni e di selve capovolte che trabocca dall' alto a romperle il corso , sanno che nel luogo del loro incontro , una lama d' acqua pura si alzerà con sorriso ubbediente a rispecchiare il cielo pago e sereno ».

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