Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Milano in ombra - Abissi Plebi

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Corio, Ludovico 2 occorrenze

Abbandonato a sè nella solitaria cella (nota Carlo Cattaneo), a prima giunta per lo più si abbandona al furore, agita pensieri di vendetta, e sfoga la sua rabbia in maledizioni. Ma alla violenza succede l'esaurimento e la stanchezza; il silenzio che segue ai vani suoi clamori, a poco a poco gli fa intendere quanto siano infruttuosi e insensati; egli vede tutta la sua impotenza e la sua nullità in faccia alla legge che senza percosse, senza catene, senza insulti, con mano invisibile lo assedia e lo stringe. L'idea della sua colpa, ch'egli fuggiva, ch'egli sommergeva nel tumulto della vita e delle passioni gli s'affaccia da ogni parte, e a poco a poco si allarga nel suo pensiero, e dilegua tutte le vanità che lo ingombravano. Tra il rimorso e l'impazienza e il tedio, per sottrarsi agli odiosi pensieri e dissiparsi pure in qualunque modo che gli è possibile, egli afferra rabbiosamente la proposta d'un qualsiasi lavoro. Ben pochi hanno la forza di resistere a quattro o tutt'al più ad otto giorni di forzata inazione. E lavoro non viene inflitto come un supplicio, nè imposto col bastone o colla fame; ma vien concesso come un'indulgenza, come un ristoro, che solo può rendere sopportabile quella noiosa vita. La disciplina non è sollecita di comandarlo: essa aspetta tranquilla il prigioniero, ben certa che tosto o tardi s'arrenderà. I signori De Tocqueville e De Beaumont dicono: Visitando il Penitenziale di Filadelfia ci siamo trattenuti con tutti i singoli carcerati; nessun d'essi che non parlasse del lavoro quasi con riconoscenza e non palesasse la persuasione, che, senza il conforto di una continua occupazione, non avrebbe potuto resistere al peso della vita. Che avverrebbe del prigioniero nelle lunghe ore di solitudine, se, senza questo rifugio, fosse lasciato a' suoi rimorsi, ed ai terrori della sua mente? Il lavoro dà interesse alla solinga cella; affatica il corpo ma conforta la mente. È singolare che costoro, giunti al delitto per la via della dissipazione e dell'ozio, siano ridotti ad abbracciare come unica loro consolazione la fatica; e costretti a sentire tutto il peso dell'ozio, imparino ad aborrire quella primiera causa d'ogni loro calamità. Il confronto tra il lavoro e l'inazione ha tanta forza, che molti di quei meschini dissero, che la domenica era per loro insopportabilmente lunga e che non avrebbero potuto vivere senza lavoro. Questo bisogno si palesa in tal modo, che non avvenne mai di doverlo imporre colla forza. Il condannato, intento al suo lavoro, respira dal tedio, dalla oppressiva idea della passata vita, e con ardor quasi puerile non ha per qualche tempo altro oggetto alla sua mente; e vi si dedica con solerzia e con amore, perchè gli è una difesa dai pensieri che gli rodono l' anima. L'imperturbato raccoglimento e la dura necessità gli aprono la mente ad imparare; l'istruttore, che viene a interrompere la sua solitudine con modi placidi e caritatevoli non può a lungo riuscirgli sospetto ed odioso. Le parole che questi prudentemente lascia cadere tratto, rammentate poi nel silenzio, quando l'uniformità del lavoro lascia errar la mente, penetrano l'anima più rozza e selvaggia. La profonda monotonia della cella dà peso e consistenza ad ogni giusto pensiero che fortuitamente si svegli. E una volta che il prigioniero ha potuto rivolgersi sopra di sè, il lavoro non arresta più la sua riflessione. E spesso, una repentina visita lo sorprese immobile sul suo lavoro, tutto chiuso nel profondo della sua memoria, pensando forse alla carriera perduta, alla casa, ai congiunti, ai genitori afflitti e disonorati, alla moglie, ai bambini lasciati nell'abbandono e nell' abbiezione. I più sciagurati che non hanno affetti, che sono intrisi di sangue, che nulla hanno in cuore che non sia tristo e perverso, nella mollezza di quella vita reclusa, tra il lungo silenzio e le parole caritatevoli, e la coscienza che ricalcitra e si spaventa, a poco a poco sentono venir meno l'antica ferocia. E non v'è a lato del prigioniero alcun essere malvagio, che ostenti una atroce indifferenza, o lo guardi con ironia, e con osceni e atroci scherni rimescoli la feccia delle sue passioni. Tutto ciò che lo circonda gli rammenta il suo delitto. Non v'è intorno a lui nemmeno il fremito d'un' industria comune, nè l'affacendata disciplina d'un carcere popoloso: il rumore stesso delle battiture e delle catene gli risonerebbe gradito in quella vita di sepolcro. Il lavoro delle sue mani gli allevia bensì il tedio e il rimorso e lo rattiene sull'orlo dell'avvilimento, e della disperazione; ma non basta a dividerlo affatto dai suoi pensieri e fermare la corsa fatale che lo trascina verso il pentimento. Nel silenzio degli uomini e nel senno delle passioni, i consigli tante volte derisi, le parole che sembravano non aver toccata la sua memoria, i terrori religiosi, tutte le imagini e tutte le rimembranze del bene e del male, risorgono innanzi alla colpevole coscienza, e si fanno ogni giorno più potenti e irresistibili. Tutte le illusioni sono sparite; in faccia a una triste e severa realtà, nel profondo d'un silenzio di morte, dove nessuno lo vede e lo ascolta, una sola parola viva gli suona all'orecchio, ed è una parola di verità, che va dritta e irresistibile al secreto della sua coscienza. Il momento giunge alfine, in cui l'anima già nauseata dell'ozio, si nausea pure della durezza e dell'importanza, e si sente in balia d'insolite emozioni. Allora le alte verità della morale, insinuate con religioso affetto, possono ritemprare e rifondere l'anima più ostinata; i sentimenti dei pentito sono come un metallo squagliato, che scorre dovunque un'arte salutare lo guida. Chi passò per una siffatta prova, potrà, ritornato alla vita libera, precipitarsi in nuovi traviamenti; ma porta nel cuore una tale debolezza, che il solo nome del carcer basta a fermarlo ed avvilirlo in mezzo all'ebbrezza del delitto. La fiera domata non è più la fiera selvatica. E quella stessa potenza che arresta le ricadute nel liberato, annunciata e divulgata da loro alla moltitudine dei malvagi, potrà render terribile anche l'idea d'una prima colpa e formidabile la minaccia della legge. La prigione non sarà più per essa un piccolo mondo, dove se vi sono i dolori della reclusione e dei flagelli, vi sono anche i piaceri della compagnevole fratellanza e le distrazioni d'una disciplina spettacolosa; il carcere solitario è più disgustoso e amaro per essi, quanto più assidua e profonda è la sua calma. Pur troppo le incompiute riforme che introdusse nel carcere la moderna umanità, avevano tolto a questo unico strumento di pena ogni terrore. Il malvagio scioperato vi trovava ricovero e letto, e pane certo, e lavoro mite, e compagnia quale egli poteva desiderarla: e a molti onesti operai carichi di famiglia, a molti giornalieri scalzi e famelici in mezzo ad ubertose campagne, il soggiorno del carcere era pur troppo una seduzione. Ma posto il regime d'un severa segregazione quand'anche la cella sia spaziosa, netta, chiara, ventilata, riscaldata, provvista di tutto ciò che un modesto vivere richiede, il vero malfattore preferirà sempre il lezzo e il disagio d'un sotterraneo, il pavimento nudo, la catena, il bastone, poichè tutte queste cose non giungono a domargli l'animo, e gli lasciano il tranquillo possesso della sua scelleratezza. Quando le antiche leggi inventavano con atroce poesia ogni modo di strazii pel corpo umano, ommettevano, senza curarlo, un tormento più squisito e potente, che piomba con tutto il peso sull'animo. La solitaria riflessione, la quale allora si apprezzava così poco, che a richiesta d'un tutore impaziente o d'un padre iracondo, si applicava a' giovinetti svogliati o loquaci, si palesò una pena di tale intensità, che alcuni già la gridano soverchia a qualsiasi più nero misfatto e sproporzionato alle forze dell'umana ragione. Gli antichi avevano insegnato che il silenzio è fomite di sapienza e di virtù; ma non si sapeva che fosse un terribile punitore del delitto. Una filosofia severa che trae tutto dalla riflessione, trovò anche nella riflessione la forza penale, e con una vasta esperienza accertò la profonda sua induzione. Sdegnando il corpo del malfattore lasciandogli pure tutti gli agi della vita materiale, essa assale di fronte l'anima sua, la sua coscienza, il principio della vita. Il patibolo con tutto il sanguinoso suo fasto si spiritualizza nel silenzio della cella. Il mero dolore animale non è più la suprema difesa di una società minacciata e vessata, ma un dolore, ch'è tutto dell'uomo, anzi tutto dell'anima, una pena sociale per eccellenza, perchè consiste nel negare le dolcezze del consorzio sociale a coloro che ne turbarono la pace. Eppure in mezzo ad una irresistibile efficacia, questa pena così temuta dal malvagio non offende per nulla i diritti dell'umanità; essa non accorre ad ogni istante col ferro e col fuoco, nè contrista di dolorose strida, nè contamina di sangue la città. I custodi, sicuri di sè, non feroci, nè sospettosi, possono mostrar sempre tutti la calma e la dolcezza; il cordoglio, che abbatte il prigioniero, viene tutto dalla legge, non inasprito dalla loro collera, nè aggravato dal loro arbitrio. Egli soggiace da sè all'onnipotenza della legge, e riceve il trattamento che risponde a' tristi suoi meriti, perchè lo riceve dalle opere della sua coscienza. Gli ufficiali non appaiono mai al suo cospetto, se non per interrompere il cruccio della sua solitudine, e provvedere ai suoi bisogni, e dirgli quelle parole che lo riconciliano col misero suo stato, e lo preparano ad uscire da quel fatale recinto con altr'animo ch'egli non vi entrava. Il regime solitario si riduce a due fini : togliere il prigioniero dal dannoso consorzio dei suoi pari, e costringerlo a rientrare in sé, perchè l'esperienza dimostra, che senza questo ritorno, la pena s'infligge senza frutto e senza esempio. Non s'intende però che il prigioniero debba restar derelitto nella disperazione d'una tomba; poichè oltre alla caritatevole provvisione de' suoi bisogni fisici in una comoda cella, egli ottiene il conforto del lavoro, del consiglio, dell'istruzione e della lettura. Gli si interdice la compagnia de' malvagi; ma gli si concede quella d'uomini onorati e pietosi. Ed è un fatto che la disciplina isolante gravita tremendamente sul malfattore inferocito, ma quando il tempo, il silenzio e le ammonizioni hanno vinto la sua durezza e l'hanno, ridotto a sentire la stoltezza della passata sua vita, il tormento del suo carcere s'allevia e i suoi custodi e governatori trovano in lui una inattesa docilità e un assoluto abbandono. Dopo un primo doloroso intervallo, l'abitudine a poco a poco induce l'animo alla quiete ad alla pazienza; dimodochè , il malvivente, condannato a breve pena, ne sente tutta la gravezza e ne porta fuori un salutare spavento; ma il malfattore condannato a molti anni di solitudine, può comporsi gradatamente a quella tranquillità, che riduce a riflessione anche le anime più burrascose. Non vi è in quella disciplina alcun risalto, alcun arbitrio, alcuna acerbità che accenda le sue male passioni: l'odio, la vendetta. Quindi nessun pericolo che l'irritazione mentale sconvolga la ragione. Solo questi argomenti possono consigliare il regime segregante, il quale è però sempre una gravissima pena. A Torino nei primi mesi dell'attivazione del carcere cellulare, molti delinquenti volgari non ressero alla solitudine e si uccisero Si notò però che da quella città i ladruncoli emigrarono in massa, e sarebbe stato un bel vantaggio, se questo fatto si fosse verificato anche in Milano. Nella nostra città venne pure costrutto un grandioso carcere cellulare, che torreggia severamente entro la cerchia dei bastioni fra Porta Genova e Porta Magenta. Questo edificio, il disegno del quale devesi al compianto ingegnere Francesco Lucca, si eleva sopra un'area di metri quadrati 49,695, della forma di un pentagono, perfettamente isolato e chiuso da una grossa muraglia munita di cinque torri agli angoli, e del fabbricato di fronte della lunghezza di metri 204,50. Lo stile adottato fu quello del medio evo, che risponde assai all'indole della fabbrica, di carattere grave e solenne. Il muro di cinta porta alla sua sommità un ballatoio contenuto da parapetti di pietra per il servizio di guardia, facendo servire da garretta per le sentinelle le cinque torri. Il carcere è diviso in tre distinti corpi di fabbrica. Il corpo anteriore; la cui fronte è disposta sul lato del muro di cinta, che prospetta il Macello, quantunque faccia parte dello stabilimento, non è considerato come carcere essendo destinato agli uffici, alle abitazioni, al corpo di guardia, al servizio di magazzino e ad altri scopi. Esso ha l'aspetto di un castello severo, le cui parti centrale e laterali sono munite di merlatura. Il secondo corpo di fabbrica, parallelo a questo è distante venti metri dal precedente e collegato col medesimo a mezzo di un andito a semplice piano terreno in continuazione al vestibolo d'ingresso. È elevato a due piani fuori terra, meno un breve tratto dove si praticò un ammezzato che soverchia il tetto. Questo si suddivide in due parti, ciascuna fornita di uno spazioso cortile; la destra costituisce il comparto riservato alle donne carcerate ed è diviso in sessanta celle, più quattordici altri locali di maggior ambiente per servizio d'infermeria. Nella parte sinistra a terreno si trovano i locali per le guardie, il parlatorio speciale pei detenuti di passaggio, per quelli appena entrati nel carcere, i bagni, i locali destinati alla visita ed alla iscrizione dei detenuti al loro entrare nel carcere, i locali per la disinfezione degli abiti e pei guardiani. Al primo piano nel lato verso oriente v'ha un portico di disimpegno di vari locali che potrebbero essere destinati ai condannati ad una pena di breve durata; al lato meridionale vi è un corridoio centrale con doppio ordine di celle in numero di venti. Ad occidente il cortile, un altro portico di disimpegno e dall'opposta parte altri locali di servizio. Nel secondo piano sono notevoli due celle per quei reclusi che danno o simulano segni di pazzia. Queste celle sono disposte in modo che per appositi spiragli abilmente mascherati, praticati nella vôlta e nelle pareti, un guardiano può, non veduto, vigilare il detenuto. Il terzo corpo di fabbrica ha nel suo centro una grande rotonda, da cui si diramano sei braccia equidistanti fra loro; ognuna di esse è costituita di un grande corridoio centrale che si eleva senz'alcuna divisione dal piano terreno sino al tetto; lateralmente sono disposti tre ordini di celle, disimpegnati da ballatoi che corrono lungo i lati dei vasto corritoio. La lunghezza di ciascun braccio di fabbrica è di metri 62,50 a partire dalla periferia interna della rotonda. A ciascun lato di tali braccia e per ogni piano sono disposte sedici celle, per cui si hanno novantasei celle per ogni braccio e quindi i sei raggi daranno complessivamente il numero di 576 celle, senza contare ventiquattro celle di punizione, cioè quattro per ogni braccio. Le celle dell'altro corpo di fabbricato sono larghe metri 2,40, lunghe metri 4, alte metri 3,40 circa; quelle del fabbricato a raggi misurano la larghezza di metri 2,20 per 4,30 di lunghezza e 3 di altezza. Si accede alle celle per una piccola porta munita di un apposito spiatoio, affine di poter invigilare il detenuto, senza ch'egli se n'avveda. A tale scopo lo spiatoio è mascherato da un vetro colorato e si apre e si rinchiude a mezzo di un movimento a vite silenzioso. Tutte le celle sono fornite di un richiamo ad un campanello elettrico, come ve ne sono alcune provvedute di un apparecchio per l'illuminazione a gas. Mediante il campanello ogni detenuto può, in caso di urgente bisogno, chiamare un guardiano, e perciò mediante un semplicissimo congegno, mentre suona il campanello discende davanti alla porta della cella una piccola bandiera in ferro, che indica esservi in quella cella il prigioniero che ha chiamato. Il mobilio delle celle, secondo venne stabilito dal Ministero, è costituito da un letto, il quale di notte è spiegato trasversalmente alla cella e di giorno trovasi arrotolato; di due ripiani piani o sgabelli situati in uno degli angoli della cella e di un ripostiglio. Serve di tavola il ripiano infisso nel muro e da sedile lo sgabello mobile. Affinchè i guardiani possano durante la notte, portarsi ad ispezionare le inferriate, fu proposto dal Ministero di infliggere nel muro una manetta, appoggiandosi alla quale può il guardiano far entrare una gamba nello spazio che si lascia, dalla parte de' piedi, tra la estremità della branda distesa ed il muro e passare all'altro lato della cella. Ogni cella oltre all'avere un cesso inodoro è eziandio provvisto d'acqua a sufficienza. Questa viene fornita da serbatoi collocati nei sottotetti e che vengono giornalmente riempiuti col mezzo di semplici pompe a mano. Da questi serbatoi si diramano dei tubi, che vanno a riempiere tanti recipienti, della capacità ciascuno di litri sei, quante sono le celle. Tali i recipienti sono posti tra i rinfianchi del nascimento di ciascuna vôlta e specialmente nelle praticate smussature degli angoli delle celle, e conformati in modo che nel mentre si riempiono con un tubo comune, sono però gli uni dagli altri indipendenti, sicchè quando un detenuto per inavvertenza o studiatamente lasciasse aperto il suo rubinetto in modo da disperdere tutta l'acqua del recipiente a lui destinato, ciò non vada a scapito di altri detenuti e perciò si castiga esso stesso col privarsi per quel giorno del beneficio dell'acqua, oltre a che mette in avvertenza il guardiano, coll'effettuato disperdimento dell'acqua per la cella, in una quantità però che non può mai riuscire a danno del fabbricato, essendo appunto limitata a sei litri, ma bastante per farlo punire. Stannovi apposite bacinelle per ricevere l'acqua da ogni rubinetto, e che ponno servire per far rinnovare da ogni detenuto l'acqua nel sifone della latrina dopo essersene servito per la propria pulizia. Le finestre che danno aria e luce alle celle sono fatte a strombo e disposte in modo, che, mentre queste restano sufficientemente illuminate e che il detenuto può godere della vista del cielo, egli non può vedere di fronte in linea orizzontale, essendo il piano del parapetto all'esterno più alto di quattro centimetri della parte inferiore del volto verso l'interno della cella. Inoltre, affinchè i detenuti possano giornalmente respirare aria più libera e passeggiare, pur mantenendosi la più severa segregazione, si disposero otto passeggi. Essi sono formati da tanti piccoli scomparti raggiali divisi da muricciuoli alti metri 2,40, disposti secondo la direzione del raggio e fanno prendere allo scomparto stesso la forma trapezia. La parte centrale si eleva su tutto il resto, ed è disposta a terrazzo coperto, dal quale il guardiano può con facilità invigilare i detenuti in tutti gli scomparti che sono interamente scoperti; meno per un breve tratto in aderenza alla parte centrale, ricoperta da un piccolo tetto, affine di difendere il detenuto dalla pioggia e dai cocenti raggi solari. Infine, la disposizione poligonale e sporgente data alla estremità di ogni tramezza, impedisce che i detenuti possano, allungando le braccia fra i vani del cancello, comunicare fra loro, come pure l'essere tutti questi passeggi coperti da una sottile rete di ferro, toglierà il pericolo che i detenuti possano gettarsi l'un l'altro degli scritti. Il numero totale delle celle a carcere è di 762. Al quale aggiungendo i locali destinati a infermerie, si ha una capacità totale di celle per 800 detenuti. Eccovi descritto il carcere cellulare che la città nostra con grande dispendio ha innalzato. Se esso era davvero un bisogno universalmente sentito, rimarrà come monumento delle deplorevoli condizioni morali di Milano a' giorni nostri. Stringiamo i conti. Una pulitissima cella, fresca d'estate, riscaldata d'inverno, con un letto discreto, sei litri d'acqua al giorno, vitto, bucato, servizio, tutto ciò si dà a chi commette un delitto; mentre il povero che voglia vivere da galantuomo è costretto ad abitare una stamberga fredda d'inverno, calda e soffocante d'estate, mangiare peggio di moltissimi cani, infine stentare la vita. È proprio scabra ed ingombra di spine la via del Paradiso, .... fin troppo. Appio Claudio, irridendo alla miseria della plebe romana, disse che il carcere è l'albergo della plebe. Or bene, per costrurre un tale albergo che i lôcch già battezzarono per Grand Hôtel Roncoroni o anche Pio Albergo Roncoron (dal nome di un formidato Ispettore di Pubblica Sicurezza poscia divenuto Questore), in Milano si sono spese due milioni e centoventitrè mila lire. Aggiungansi i denari che si pagano per gli stipendii del personale direttivo e di custodia, per il mantenimento dei carcerati, e poi dicasi che la società non si prende cura della plebe. Chi però mi saprebbe dire quanto spende la società per migliorare la plebe? per prevenire certe cadute morali, per le quali un uomo onesto od una donna onesta trovansi precipitati in cotesto abisso senza uscita? Eppure questo carcere segna un gran progresso in confronto di quello a sistema di famiglia. In quest'ultimo la sopraeccitazione dello spettacolo impedisce la riflessione e quindi la riabilitazione morale dell'individuo. Eccovi un giovinetto operaio arrestato, mentre nell'impeto dell'ira ha ferito un suo compagno. Vien tratto al carcere e consegnato al custode ed ai guardiani. Lo sdegno ed il dispetto ancora lo agitano, risponde con poca buona grazia alle interrogazioni del capo guardiano, il quale per punirlo della sua sgarbatezza lo fa mettere dove stanno i ribaldi più facinorosi. Appena il giovanetto pone il piede sulla soglia del carcere, tosto l'uscio gli si richiude alle spalle, ed egli si sente soffocare sotto una coperta e si trova gettato a terra. E perchè? mi domanderà il lettore. È una brutta consuetudine, che ebbe sempre vigore nelle nostre prigioni, e che non si è potuto far scomparire, se non colla abolizione del carcere a sistema di famiglia. Quel giovanetto è stato atterrato dai corsari. Sì, signori, vi erano i corsari nelle nostre carceri, e vi sono ancora dove non fu ancora applicato il sistema cellulare. Sono questi due prigionieri incaricati dal capo-stanza (che è il più anziano tra i rinchiusi in una stessa camera, e bene spesso il più ribaldo e il più manesco) a fare gli onori del ricevimento al nuovo venuto. Al suo ingresso, tutti si radunano nell'angolo della stanza il più lontano dall' entrata, tranne i due corsari, che sì mettono l'uno da una parte e l'altro dall'altra della porta, tenendo distesa una coperta di lana, colla quale imbaccuccano il poveretto che entra, e lo trascinano a terra. Allora tutti gli corrono addosso e chi gli toglie il moccicchino, chi il cappello, infine, quanto ha di meglio sopra di sè, tutto gli vien portato via. La preda si consegna al capo della cella, il quale pensa a farne spiccioli. Immaginiamo alcune di queste scene nelle carceri soppresse di San Vittore. Il derubato si rialza infuriato se è coraggioso, avvilito se è timido; in quest'ultimo caso va a rannicchiarsi in un angolo della cella in mezzo alle più sconcie risate dei concaptivi, nell'altro invece s'avventa alla cieca sul primo che incontra, e, mentre con costui sta per venire alle prese, gli saltano addosso gli altri a trattenerlo, finchè interviene colla propria autorità il capo-stanza a sedare il tumulto e a ristabilire l'ordine. Intanto questi ha già pensato a fa foraggià la scelpa ossia a far scomparire la preda. Nel carcere di San Vittore il negozio si conchiudeva tra le due celle attigue, separate dal muro, che le divideva imperfettamente, giacchè non raggiungeva la volta. Il commercio si fa tra i due capi-stanza. Il venditore prende un pezzetto di carta, vi scrive sopra la proposta di vendita, poi mette in uno zoccolo il vigliettino che in gergo è detto lasagnin al plurale lasagnitt), si pianta nel mezzo della prigione e grida: Casci? Si ode una voce che risponde dall'altra cella: Cascia Allora il venditore lancia lo zoccolo, che supera il muro e va a cadere nell'altra cella. Ma come ha potuto colui scrivere il bigliettino? Un pezzettino di carta e un piccolissimo pezzetto di matita posseggono tutti i frequentatori delle carceri, nè v'ha occhio per quanto esperto che giunga a scoprire i mille nascondigli, che sa trovare o creare intorno a sè il prigioniero. Intanto l'altro capo-stanza ha radunato i carcerati, che hanno con sè denaro o ne hanno depositato presso il guardiano per fondo di sussidio, e ha esibita la merce. Se v'è alcuno, che si offre di comperarla, il capo-stanza rimanda la risposta. La merce insieme colla domanda viene spedita sempre per la stessa via. La si esamina si tira il prezzo, infine s'impiega una intiera giornata per concludere un affare di due lire. È questa una gradita occupazione per chi è condannato all'ozio. Se il compratore ha seco il denaro, questo viene dato al capo della cella, il quale lo spedisce al venditore detraendone una parte per tassa di mediazione. Se poi il compratore ha il denaro depositato per fondo di sussidio, allora l'affare si fa diversamente. Allora è necessaria la girata delle parti.Il compratore chiama un guardiano; questi apre el sfiandrin finestretta tagliata nella porta stessa della carcere; il compratore gli ordina di porre a credito del capo dell'attigua cella la somma stabilita, sulla quale il mediatore ha sempre diritto di prelevare a proprio vantaggio una parte determinata. In altre carceri gli affari si fanno mediante la colomba, pezzo di cordicella, della quale si servono i prigionieri di una cella per comunicare con quelli d'un'altra. Nessuno dei concaptivi s'attenterebbe di impedire o di porre ostacolo a siffatte comunicazioni, quando non avvengono per conto proprio, anzi sono in ciò d'un mirabile accordo e con gran premura si prestano talora a mettere fra loro in comunicazione due individui l'uno dall'altro discostissimi. Fa passà el bastiment è la frase tecnica che significa partecipare una notizia. E questo si fa, quando è possibile, in gergo, oppure battendo colla nocca delle dita, contro la parete del carcere vicino, un certo numero di colpi, che qualcuno s'incarica di ripetere sul muro opposto e così via, finchè il rumore giunge all'orecchio di chi capisce il segnale e che risponde. E così rifanno la stessa strada i rintocchi di risposta con una scrupolosa esattezza e con una premurosa prontezza. Nelle carceri di Cherry-Hill per evitare questo ultimo modo di comunicazione, si è pensato a dividere le celle mediante due tramezzi, in modo che il suono s'ammorza e si perde nel vano delle pareti. E dal fondo del carcere si commettono le più orribili ingiustizie, le più nefande sevizie, coll'audacia e la brutalità che solo può ispirare la sicurezza del silenzio della vittima. Non solo i più poveri sono condannati dal capostanza a fare i servizi i più umilianti del carcere, ma i più giovani sono talora trascelti a sfogo di sozze passioni. Nè giova che uno per sottrarsi mantenga un contegno severo. Nei primi giorni vien lasciato a sè, e schernito con semplici appellativi, poi qualcuno lo punzecchia con parole di famigliare scherzo ma dette in tono benevolo, e quando l'altro annoiato della sua volontaria solitudine sente il bisogno di parlare, attratto dal vortice dell'allegria chiassosa, che regna in un carcere a sistema dì famiglia, allora è costretto a prendere parte ai giuochi che vi si fanno, ed egli è quasi sempre la vittima degli scherzi più umilianti e atrocemente vergognosi. Il giuoco del sarto, del ladro, del soldato, sono tali oscenità, che non mi è lecito neppure il descrivere. La narrazione vicendevole delle proprie gesta serve a compiere l'educazione del prigioniero, il quale se ha posto il piede nel carcere, traviato da una malvagia tendenza, ne esce corrotto nel fondo dell' anima, abbiettamente cinico e pressochè abbrutito dai vizii. A petto delle gravissime colpe, di cui ode il racconto, il suo piccolo fallo gli appare meschino e ridicolo, sente il bisogno di elevarsi fino al livello de' suoi compagni, e, come un poeta cerca di emulare i grandi poeti, ed un negoziante cerca di gareggiare co' suoi colleghi, nè questi pensa punto di acquistare stima tra quelli, nè il poeta si sogna di agognare al credito di negoziante, così anche il lôcch non aspira alla fama di galantuomo, ma si sforza di guadagnarsi tra' suoi nomea di briccone matricolato. L'ambiente, in cui vive, lo costringe a ciò, nè può sottrarsi alla dura necessità che lo trascina. Quando uno non è affatto furfante, simula di essere tale per guadagnarsi il rispetto degli altri concaptivi, o almeno per evitare le loro derisioni; e quando esce dal carcere, siccome non può aspirare a ritornare tra galantuomini, così la compagnia ch'ebbe là dentro, diventa la sua necessaria compagnia, alla quale lo avvince un tacito obbligo di solidarietà nel delitto. Quand'ei volesse, uscito di carcere, abbandonare i suoi compagni, non rispondere più al loro saluto, egli si buscherebbe il titolo di aristocratico e peggio di tira, che in gergo significa spia, o peggio ancora gli toccherebbero delle busse, perchè tutti i bricconi di questo mondo hanno per propria divisa, che chi non è con loro è contro di loro. Si consideri ora quale debba essere l'angoscia d'un poveretto, che, accomunato per molto tempo con siffatta genìa, venga liberato per sentenza dei tribunali con dichiarazione d'innocenza. Nè questo caso avviene raramente, perchè la giustizia umana è pur troppo spesse volte fallace. Questo per quanto risguarda le carceri dove s'accolgono gli uomini. Nè minore corruzione riscontrasi nelle carceri delle donne, ove gli amori e le gelosie tra esse fornirebbero il tema a migliaia di romanzi, del genere di quello del Belot, Mademoiselle Giraud ma femme. Il chiasso e il ciarlìo in un carcere a sistema di famiglia, è, come ognuno può argomentare, grandissimo, ma su d'una sola cosa si serba da tutti il più geloso silenzio. Nessuno parla della colpa, per cui venne l'ultima volta arrestato. Se pende la procedura, un gran lavoro mentale pel prigioniero è quello di prepararsi agli interrogatorii, e siccome è tradizionale nel carcere il dubbio di poter aver a fianco dei tira, che rivelino ai giudici i discorsi, così ciascun carcerato è su questo proposito d'una eccessiva, ma non irragionevole diffidenza. Ad una domanda anche innocente, ma un cotal poco indiscreta vien subito risposto secco secco: Ogni detenuu el tira el so d'on carr Tra i coimputati vi è un grande studio a non contraddirsi vicendevolmente, a non ismentirsi, a non iscoprirsi e vi sono non iscarsi esempi di uomini, che affrontarono la galera, piuttosto che pronunciare una parola che poteva valere a propria discolpa, ma che sarebbe stata un'accusa pel proprio compagno, la condizione del quale sarebbesi naturalmente peggiorata. Ma se v'è in moltissimi questo generoso coraggio del silenzio, manca però in tutti il coraggio di accusarsi, e nessuno si farebbe innanzi ad assumersi la responsabilità di un delitto, di cui è realmente colpevole per salvare anche il più caro amico. La perdita della libertà è per tutti troppo dolorosa e tutti cercano di evitarla. Quando il compagno, punito invece d'un altro, rimproverasse a quest'ultimo d'essersi sottratto alla meritata pena e d'aver lasciato lui nei guai, il compagno risponderebbegli domandando: Te me disarisset on stuped? A cui l'altro dopo breve riflessione aggiungerebbe: Te ghe reson. Incoeu a mì diman a tì. Paghen on mezz e che la sia fenida. Evviva nun e porchi i sciori, che è il brindisi con cui i lôcch risugellano la loro amicizia. Ma questa solidarietà va scomparendo a poco a poco tra' detenuti. Una volta questi si soccorrevano l'un l'altro, si assistevano fraternamente se malati, si scambiavano gli abiti affine di recarsi decentemente vestiti dinanzi ai magistrati, per gl'interrogatorii o pel dibattimento finale. Oggi, tranne i vecchi frequentatori del carcere, che ancora mutuamente si sostengono, i giovani sono egoisti, e l'uno verso l'altro indifferenti; sono capaci di rubarsi tra loro il pane, il che avviene spesso, e si diedero persino casi, in cui detenuti vecchi, avendo prestati a detenuti giovani i pagn de libertaa affinchè non si presentassero ai giudici coi pagn del loeugh, essendo stati assolti o rimandati per, mancanza di prove, non restituirono gli abiti avuti in prestito; nè li tennero neppure per ritornare nel mondo, ma appena liberi li scambiarono con altri cenciosi e logori per ricavarne tanto da bere qualche decilitro d'acquarzente. A tanto può giungere la depravazione morale in siffatta gente, quantunque anche tra coloro, che si chiamano comunemente galantuomini, lo sconfessare od il tradire un benefattore non sia cosa tanto rara, che faccia inarcare le ciglia per istupore. Però alcuni frequentatori del carcere in mezzo al rumore dei compagni pigliano sul serio il vivere in prigione e si danno a lavori, che pur troppo non sono da essi continuati, quando vengono restituiti a libertà. Abbiamo visto dei magnifici lavori a maglia fatti con cannuccie da granata in luogo di ferri da calze, e quei lavori eseguiti secondo un disegno capriccioso a trafori, ci parvero degni veramente di lode, anzi di ammirazione. Da un carcerato ci venne mostrato un lavoro plastico fatto colla mollica di pane. Era un gruppetto di tre individui, un uomo, una donna e un bambino negri posti su uno scoglio all'ombra di una palma che intendevano gli sguardi nell'orizzonte, per iscorgervi lontano lontano la patria perduta. V'era in quel gruppo tanto sentimento artistico, tanta verità e tanta poesia, che profondamente ci commosse. Ma questi tentativi isolati vengono dai prigionieri fatti per passare la noia. Un lavoro serio, utile, intelligente, era stato organizzato nelle carceri giudiziarie di Milano dall' ex direttore delle carceri stesse Pietro Fassa. Egli invitò e poscia incoraggiò alcuni intraprenditori, perchè volessero istituire degli opifici nelle carceri. Abbiamo visitate (era il 1873) l'officina da fabbro ferraio e la rilegatoria di libri nelle carceri di San Vittore, abbiamo veduta la calzoleria delle carceri di Sant' Antonio, ma l'officina che ci maravigliò più di tutte le altre fu quella di stipettaio esistente nelle carceri del Palazzo di Giustizia. Abbiamo osservati i lavori d'intaglio per la fabbricazione di mobili di lusso e ci sorprese la precisione, la finezza, il buon gusto, con cui quei lavori erano eseguiti. Non è un lavoro rozzo e materiale cotesto e perciò diverte e nobilita lo sventurato che a tale lavoro si dedica; e infatti in quelle carceri abbiamo notato fronti, sulle quali il vizio e la colpa avevano impresse rughe profonde, spianarsi, e diremmo quasi rasserenarsi a un raggio di speranza nell'udire le parche lodi, che loro dava l'egregio signor Leonardo Virillio, allora vice direttore delle carceri di Milano, promosso poscia a direttore di quelle di Messina, il quale ci fu cortesissima guida in questa nostra escursione. I lavori che si facevano in quelle carceri oltre al vantaggio morale, che arrecano al prigioniero, gli porgono un utile materiale e arrecano non picciola utilità e all'imprenditore, e al compratore, ed infine allo stabilimento carcerario istesso. Peccato che molti all'uscire di carcere non continuino le abitudini acquistatesi; e si diano invece nuovamente al mal fare (1). E nelle carceri il Fassa aveva istituito pure una biblioteca educativa e morale, ed oltreché eranvi maestri che pazientemente istruivano gli analfabeti, e i cappellani che vi diffondevano massime di religiosa pietà, le commissioni per la visita dei carcerati porgevano a costoro sussidi e conforti. (1) Giova però tener conto che alcuni liberati, i quali non vogliono o non possono entrare nel Patronato, trovansi ancora a contatto coi tristi loro compagni, che li trascinano al male; alcuni poi vengono respinti dai capi fabbrica non senza ragione diffidenti, e trovansi costretti a commettere cattive azioni per vivere, ed infine altri diconsi impediti dalla sorveglianza della Pubblica Sicurezza troppo gravosa e, alcuna volte, per parte di certi esecutori, un pochino vessatoria. Però taluni membri di queste commissioni, per eccessivo amore del bene e per eccessiva filantropia, prodigano siffattamente la loro protezione ai carcerati da rendere difficile ed odioso l'ufficio di chi è deputato a mantenere tra essi la disciplina ed il buon ordine, sicchè i detenuti bene spesso abusano delle loro benefiche parole e giuocano l'uno contro l'altro, l'autorità della Commissione e quella de'guardiani, ridendosi dell'indulgenza soverchia dei signori che compongono quella, e ribellandosi alla legittima vigilanza di questi. Abbiamo sentito da alcuni carcerati a deridere l'operato della Commissione e a dire che i membri di essa prestano l'opera loro per pura vanità, per far parte dell'autorità ed essere menzionati con parole di lode nei diarii e negli annuarii. Ed uno conchiuse con queste parole: « Questi signori ci schiverebbero domani, quando ci vedessero liberi per le strade, ci scaccerebbero se ci presentassimo a domandar loro del lavoro, come un ricco industriale scacciò me dalla sua fabbrica la prima volta che mi vi recai ubbriaco. Sorreggere e non rialzare, questo è il dovere dei signori, tener buoni i buoni operai, e di noi caduti lasciare la cura alla Provvidenza ». Queste parole d'amara censura contengono tanta parte di una dura, ma pur troppo importantissima verità, che non abbiamo creduto doversi passare sotto silenzio. Non crediamo neppure inutile di dire che vi fu eziandio un editore filantropo, che pensò alla pubblicazione di un giornale pe' carcerati, giornale che morì nascendo, ma che trovò scrittori, scrittrici, lodatori e lodatrici. E mentre si fa tutto questo pe' carcerati, non possiamo tralasciare di ripetere che nulla si fa per coloro che appena si reggono barcollando sul sentiero della virtù; per quelli gli agi, i sussidi, i conforti, l'istruzione, per questi la miseria, il disprezzo, l'abbandono, l'ignoranza. Quanti operai, non ci stancheremo di ripetere, desidererebbero avere a un prezzo modesto una cella del carcere cellulare ben illuminata, asciutta, ariosa nell'estate, riscaldata nell'inverno, mentre invece sono costretti a rifugiarsi nelle locande tra il lezzo, i cenci e il sudiciume? Quanti galantuomini desidererebbero in compenso del proprio lavoro aver assicurato giornalmente per sè e per la propria famiglia la minestra e il pane che quotidianamente si distribuisce ai prigionieri? Invece tutti questi agi non si possono acquistare col lavoro onesto, bisogna guadagnarseli col delitto. Eppure la libertà fa parere meno triste la paglia trita e infestata dagl'insetti, su cui il miserabile riposa la notte, meno duro il tozzo di pane di granoturco che gli serve di nutrimento, del pulito saccone e del cibo igienico che si danno al carcerato. Il lôcch suoi definire con un tragico motto la vita del carcere. La paia la mangia la carna ci dice, volendo con ciò significare che il carcere distrugge la vita. Così pure dice che la giura la sgonfia cioè che la minestra dei carcere gonfia; satolla cioè ma non nutre. Egli distingue inoltre con diverso nome il pane della prigione dal pane di libertà e chiama quello marocch o con vocabolo del gergo ungherese chigna e questo denomina boffettôs. Curiose e degne di nota sono certe abitudini speciali al vecchio detenuto. Egli ha cura che la cella sia sempre pulita, ma prima di scopare adacqua il suolo, affinchè la polvere non si sollevi. La polvere, egli dice, smangia i polmoni, il qual detto fa risovvenire la polvere rodente dell'ottimo Parini. Il vecchio detenuto fuma, quando può, perchè a suo dire, il fumare leva l'umidità Un'altra sua abitudine è quella di coricarsi presto e di alzarsi prestissimo, e quantunque, procuri sempre di cenare un paio d'ore almeno prima di coricarsi, pure egli va facilissimamente soggetto a sogni per il desiderio, da cui è posseduto o di essere condannato a breve tempo, o di andarne in libertà, od anche per la speranza che il processo prenda quell'indirizzo, che a lui possa essere più favorevole, Epperò qualunque sogno ha pel prigioniero un significato o riferentesi direttamente al sognatore o a qualcuno di coloro, che gli sono compagni di sventura nell'istessa camera. Ecco l'interpretazione di alcuni sogni, quale un detenuto ce l'ha fornita. « Sognare orologi ha significato di movimento: il che nel gergo dei detenuti significa essere chiamato ad esame, o a dibattimento, oppure essere restituito a libertà, se il sogno vien fatto la notte precedente all'udienza finale. Sognare carta; se è scritta, significa citazione ad esame o lettera in arrivo se bianca, soccorso di biancheria. Sognare maschere vuol dire subire confronti nel processo Sognare penne, cioè uccelli o pollame, significa condanna. Notisi che in dialetto milanese penn plurale di penna, e penn plurale di pena si pronuncia allo stesso modo. Sognare uova indica essere condannati a tanti anni pari al numero delle uova sognate. Sognare denti significa disgrazia domestica. Sognare di riversare olio o sale presagisce pure disgrazia. Sognare d'un cavallo nero vale novità. Sognare d'un cavallo bianco vale notizia triste Sognare d' un soldato che fa fuoco indica buona nuova Sognare di escrementi, d'uva nera oppure di vino è presagio di prossimo soccorso Sognare oro od uva bianca significa rabbia o tristezza. Sognare argento dinota allegria. Sognare pezze di lino significa soccorso in denari Sognare pane vale dover esercitare la pazienza. Sognare scarpe predice vicino un viaggio». E il detenuto che ci fornì tali dati aggiunse queste testuali parole: « Ed è tanta la convinzione che il prigioniero ha della veridicità dei sogni, che ci crede fermamente; e bisogna pur dirlo, che se il più delle volte si avvera la profezia, è perchè questa è in correlazione coll'esito che, malgrado gli sforzi che fa per illudersi, il detenuto stesso sa che devo avere la procedura contro di lui incoata ». Un altro presagio i prigionieri traggono pure dalla minestra. Quando vien loro presentato il piatto, che la contiene, tosto la rimescolano per vedere se v'è qualche pezzettino di lardo. Dicono essi che ogni pezzetto di lardo, che si trova nella minestra, significa un anno di cattività da subire. Quale può essere la ragione,di questa credenza? Può essere ironia, può essere astuzia. Ironia, se colui che prima divulgò siffatta opinione, voleva accennare allo scarso condimento che si mette nella minestra del prigioniero; e voleva significare che è sì difficile trovare un pezzetto di lardo in quella minestra, che chi ve lo trovasse poteva di buon grado sottomettersi alla pena d'un anno di carcere, tanto tale cosa gli pareva miracolosa e quasi impossibile. Astuzia, se, chi fu l'autore di tale sentenza, approfittando della superstizione, mirò collo spauracchio d'un triste presagio a porre un freno alla ghiottornia del capo-stanza, il quale ripartisce la minestra fra i detenuti della propria cella. Vogliasi o non vogliasi un pezzetto di lardo nella minestra di un prigioniero è sempre qualcosa di ghiotto, e il capo-stanza s'impadronirebbe senz'altro di tutti i pezzetti di lardo nuotanti nella broda, senza l'incubo del triste augurio che il soddisfacimento della propria golosità trarrebbe seco; tanto la prima che la seconda interpretazione, ci conducono a ritenere un uomo di spirito chi imaginò e primo divulgò siffatta diceria. Un ultimo pronostico. Se alcuno degli effetti di vestiario del detenuto, appesi alle pareti, senza causa visibile cade a terra, si presagisce da questo fatto la libertà per qualcuno, dei reclusi in quella camera e di ciò si suole menare gran festa. Ma vien finalmente il sospirato giorno della libertà. Colui che deve andare in libertà ed ha denari sul fondo di sussidio, li fa dal guardiano convertire in vino, che beve co' suoi camerata. È il bicchiere della staffa, nè un detenuto di qualche conto vorrebbe privarsi del piacere di festeggiare la propria uscita dal carcere. Un bel mattino si schiude l'uscio della segreta, si chiama quel detenuto, che deve essere rilasciato, tutti gli si fanno attorno a pregarlo di commissioni di ambasciate; egli esce, adempie ad alcune formalità, poi se non deve ricevere ammonizioni dall'autorità di pubblica sicurezza, gli si apre il cancello della guardinna ed eccolo libero. Mi diceva un truffatore avvezzo ad uscire dal carcere per rientrarvi poco appresso: « È però sempre una bella emozione. A me fa un certo effetto ... Quando sono in istrada mi pare di essere piccino piccino ... ». Un altro dello stesso stampo mi diceva invece: « In generale nel primo giorno di libertà non si conclude mai nulla. Si va a zonzo, si guarda in aria, si cercano le piazze più larghe per respirare a pieni polmoni, poi si eseguiscono le commissioni date dai camerata, perchè bisogna fare agli altri quello che piacerebbe che gli altri facessero a noi ... poi si va a trovare l'amante ...». « Ma perchè non correte prima a rivedere la vostra famiglia? » l'interruppi io. « Perchè alcuni di noi non ne hanno mai avuta, altri l'ebbero per loro danno, perchè in famiglia trovarono i primi cattivi esempi, i primi eccitamenti al male, altri perchè le loro famiglie, chiuderebbero loro l'uscio in faccia ». « E l'amante? « L'amante nostra, che in generale è una femmina da conio, ci ama centuplicatamente quando siamo in carcere, e se anche fosse capace di farci qualche torto, non ce lo farebbe per tutto l'oro del mondo durante la nostra prigionia. Sono le amanti che si ricordano di noi, e mettono tutta la loro compiacenza nel venirci a trovare, portandoci un abbondante soccorso. Andà a fà visita col brasc tiraa è la frase di cui si servono le nostre amanti per significare « visitare l'amante prigioniero e portargli dei copiosi soccorsi in vivande, biancherie e denari ». Dei resto mi si disse, e facilmente prestai fede, non esservi gerarchia, determinata dalla maggiore o minore gravità del delitto, ed inoltre potei constatare che detenuti vecchi rimproverarono dei giovinetti caduti in colpa per la prima volta e perciò stati arrestati. « È una vergogna, diceva un vecchio peccatore ad un ragazzotto arrestato per vagabondaggio, tu sei giovane e puoi lavorare e l'ozio non ti ha ancora affatto guasto. Se incomincerai a rubare, non potrai più correggerti; e poi, notato per ladro una volta, sarai ladro per tutta la vita. S'io potessi tornare della tua età!... ». Questi consigli vengono però dati una volta, sola, nè vengono ripetuti mai più per lo stesso, individuo, quand'anche ritornasse cento volte tra piedi a quel genio del buon consiglio incarnato in un veterano della colpa. Un'ultima osservazione. La statistica c'insegna che le classi più corrotte della nostra popolazione sono i manovali, i camerieri, i prestinai, i gridatori di giornali, i facchini, i quali forniscono il maggior contingente alle prigioni. La media delle colpe contemplate dalla legge che vengono denunciate ogni giorno è di trenta per ciascun giorno. I reati più in voga in Milano sono la truffa e l'appropriazione indebita; vengono in seguito in ordine di frequenza il ferimento, il furto, il borseggio, i reati contro il buon costume. I delitti, che vanno diminuendo continuamente. sono le aggressioni e le rapine. Rarissimi sono tra noi i casi di ricatto e di estorsione. Ci siamo dilungati assai su questo tema, perchè ci parve che ne valesse la pena. Infatti il carcere in Italia inghiotte annualmente una grandissima quantità di gente, di cui la società s'impadronisce e che rinserra fra quattro mura; ma essa non pensa in nessun modo a migliorarla o almeno a prevenirne le cadute. Per non essere tacciati di esagerazione, diamo la statistica del movimento delle carceri italiane nell'anno 1871: EntratiUscitiNelle carceri giudiziarie342,476337,328Nelle case di pena5,1444.960Nei Bagni di pena3,6622,633Nelle case di custodia661617Negli Istituti di ricovero1,054641 In statistiche più recenti queste cifre sono aumentate notevolmente. Quante vittime dell'imprevidenza sociale! Asili notturni.

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Come si può crescere buoni e affezionati alla Società, se vostro padre, se la vostra madre stessa vi rifiuta e vi abbandona non appena avete schiuso gli occhi al dolore? Eccovi soli, con un cognome convenzionale, non corrispondente a quello di nessuna persona che v'ami, e che vi fu dato capricciosamente da un impiegato, il quale non si è preoccupato d'altro se non di questo che il vostro cognome incominci per la stessa lettera del nome che da una suora vi è stato imposto al fonte, ove foste fatti cattolici non uomini. Imperocchè la Società, la Società civile, la Società progredita e progressiva, la Società magnanima vi stampa in fronte il qualificativo di bastardo, che vi fa vivere spregiati e tuttavia poco curanti di questo ingiusto disprezzo, ma inquieti tra il desiderio e la tema di conoscere gli autori dei vostri giorni. Potrebbero infatti essere ricchi o poveri, onesti o vituperevoli, potrebbero essere una benedizione o una maledizione per voi, Ma che monta? Non pochi di coloro che creano siffatti sventurati compongono la cosi detta buona società e se conoscono gli allevatori dei loro bambini si recano da essi con istrani infingimenti per portar ai figli abbandonati qualche dolciume: ma la loro riputazione non dev'essere offuscata, ma la loro tranquillità domestica non dev'essere turbata ... guai se il padre, la madre, lo zio, la zia risapessero questo errore, sarebbero capaci di diseredare chi l'ha commesso, e allora! Epperò voi, poveri bambini, soffrite, crescete incolpevolmente spregiati e quando la negligenza sociale e la snaturatezza dei vostri genitori vi hanno indirizzati e quasi dannati al male, allora soltanto la società vi teme, lo statista vi scerne fra la turba multiforme dei delinquenti e nota: "Pur troppo anche in questo anno dei condannati per delitti comuni il maggiore contingente è fornito dai trovatelli. È questa una piaga alla quale conviene che la società ponga un rimedio provvidenziale ed efficace." Ma intanto chi soffre e lo statista volta la pagina per fare altri calcoli. La sua voce est tamquam vox clamantis in deserto. Qualche volta il gettatello si vendica dei suoi snaturati genitori a misura di carbone. Allorchè dopo aver composte le cose loro secondo le ipocrite norme delle convenienze sociali, il padre o la madre, ricordandosi di aver fatto consegnare il proprio figlio al Brefotrofio ne fanno ricerca, il figlio al vedere i proprii genitori, vinto dalla gratitudine per chi l'ha allevato, rifiuta e il nuovo nome e la nuova condizione che gli viene offerta, protestando che giacchè è rimasto per anni molti senza che da' suoi sia stato riconosciuto, oggi si crede in diritto di non voler egli riconoscere i suoi. Atroce eppure nobile vendetta che priva il padre e la madre dell'affetto de' proprii figliuoli. Ma non è qui il luogo di far degli sfoghi siano pure ragionevoli contro una Società generalmente corrotta e senza cuore. Ripigliamo in quella vece la nostra archeologia statistica, la quale ci può insegnare ancora oggi qualche cosa. Nel giorno del censimento del 1871 i bambini illegittimi nati vivi furono 1105, dei quali 224 videro la luce nel Brefotrofio provinciale, istituto che nel solo 1874 accolse 2375 infanti. Questa numerosa famiglia darà più tardi i 350 giovanetti da ricoverarsi nel Riformatorio di Parabiago, i 150 adulti da rifugiare nell'ospizio del Patronato, e la maggior parte di coloro che popoleranno le 762 segrete del carcere cellulare. Sono dati vecchi, ai quali gioverà contrapporre i recentissimi pubblicati al pari di quelli dal dottor Romolo Griffini, direttore del Brefotrofio di Milano. "Nell'anno 1881, scrive il Griffini in una sua accurata relazione, si raccolsero nel Brefotrofio 1408 infanti di primo ingresso, contro 1389 entrati nel 1880. Ne risultò pel 1881 un aumento di 19 infanti. Quanto al sesso, i nuovi entrati si distinguono in 728 maschi e 680 femmine. Prevale, come generalmente suole, il sesso forte, e quest'anno in ambe le categorie dei legittimi, e degli illegittimi, poichè sopra 354 legittimi si hanno 185 maschi e 169 femmine, e sopra 1051 illegittimi, 543 maschi e 511 femmine." E volete sapere quanti erano nel 1881 i disgraziati componenti la famiglia a cui l'Ospizio provinciale di Milano ha dovuto provvedere? 8439. Quanti dolori! C'è da inorridire. E siamo sull'aumentare. Come si provveda poi a questi infelici è bello tacere. Nessuno ne ha colpa, poichè la istituzione del Brefotrofio è organizzata, retta da norme non facilmente mutabili e da consuetudini che tengono veci di leggi. E poi la burocrazia non è la Provvidenza. Gli esposti vengono quasi tutti affidati ad allevatori abitanti in campagna. Si conta un po' sulla moralità e sul buon cuore dei campagnuoli. E anche per vero dire molti di questi hanno meno pregiudizii dei cittadini. Nel bambino quelli non vedono il bastardo, vedono il disgraziato e se lo tengono caro. È una specie di buon augurio per la famiglia che lo ricetta e lo nutre. Il compenso che paga l'Ospizio non è sempre allettamento sufficiente per indurre una famiglia ad assumersi la cura di allevare un figliuolo che sul fiore dell' età può essere richiesto e portato via da chi l'ha messo al mondo. Vi sono pure dei bambini che per la loro bellezza attraggono gli allevatori, ma ve ne sono di quelli che sono male aggraziati, o brutti, o infermicci, o colle membra contorte e rattrappite e, poveretti, non sono voluti da nessuno. Fino a pochi anni or sono per una vecchia consuetudine si provvedeva al loro collocamento in questo deplorevole modo. Quando la Direzione dell'Ospizio da sicure informazioni era fatta certa che in un determinato circondario di campagna v'erano parecchie famiglie, che avrebbero assunto l'allevamento di alcuni trovatelli ne caricava qualche dozzina sopra un carretto e li inviava al comune indicato. All'arrivo dell'infelice convoglio si dava nella nota campana esattoriale; i terrieri convenivano sulla piazza e incominciava la scelta dei bambini. Tolti i più belli o i meno brutti restavano coloro, ai quali insieme colle altre sventure toccava pure l'umiliazione d'essere rifiutati. Chi ha appena un po' di cuore pensi quali sentimenti in quel punto dovevano germinare negli animi di quei disgraziati fanciulli. Allora l'agente dell'Ospizio, che voleva ritornarsene col carro vuoto, andava sollecitando or l'uno or l'altro dei contadini presenti a prendersi o questo o quel bambino quantunque storpio o deforme, chè l'Ospizio provvedeva per essi al pagamento di una ragguardevole ricompensa all'allevatore. E così a stento e a fatica tutti i bambini venivano accolti nelle case dei contadini e quindi dopo un secondo rifiuto s'affacciavano alla vita di famiglia paurosi, sapendo di esservi appena tollerati. Altro che notare nelle statistiche penali che il numero maggiore dei delinquenti è fornito dagli Esposti! Non è loro colpa se questi bambini crescono male. L'illustre prof. Dott. Edoardo Porro nel suo lavoro che risguarda ??il biennio 1869-70 alla maternità di Milano a pagina 266, parla della sorte che attende gl'infelici che hanno culla nell'Ospizio, " i quali sovente hanno per sopraggiunta la sventura di perdere nascendo la propria madre. La quale nell'istante di dare alla luce il suo bambino è tormentata da gravi dolori non solo fisici, ma anche morali; pensando, come dice il Porro, che la sua creatura troverassi isolata e reietta dalla società, dannata ad un Brefotrofio e ad un allevamento poco dissimile da quello dei bruti. Chi ha pratica delle maternità, ed in ispecie di quella di Milano, non troverà esagerate queste parole. " Oggi le condizioni dei ricoverati da quest'Istituto debbono essere un cotal poco mutate, grazie alla benefica influenza delle persone che ora lo dirigono. Un forte sentimento di pietà si ridesta in ogni animo bennato alla vista di un povero gettatello. E il Giusti, descrivendo scherzosamente un suo viaggio a Montecatini, osservando uno di questi sventurati bambini, sente dentro il suo cuore vibrare a un tratto la corda del dolore e però esce in un volo lirico, degno d'essere riletto. Accanto a me dal lato delle brenne, Una povera donna montanina, Lieta recava al petto un trovatello. Preso là nel buglione, ove s'insacca Dal matrimonio e dallo stupro a gara O legittima o no l'umana carne. Oh benedetta, miseri innocenti, La pubblica pietà che vi ricovra Nudi, piangenti, abbandonati! A voi il casto grembo della cara madre. E del tetto paterno il santo asilo, Che dà l'essere intero, e dolcemente L'animo leva a dignità di vita, Error, vergogna delitto e miseria Chiuse per sempre! Crescerete soli, Soli all'affetto e mal securi in terra; Al disonor di genitori ignoti, Come la pianta che non ha radice, Maledicendo ....... Poveretti, quant'era meglio per essi il non nascere!

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