Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbandona

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IL MAESTRO DI SETTICLAVIO

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Boito, Camillo 1 occorrenze

"Anche lei, maestro, è contro di me" mormorava "anche lei mi abbandona. Non mi resta più nulla, nulla, nemmeno la mia cara idea, per la quale avrei saputo morire!". Si udì un grido acuto, straziante. Il vecchio aprì l'uscio, precipitò nella stanza vicina, traversò l'altra correndo, entrò nella camera di Nene, che era morta, guardò il viso bianco e cadde a terra privo di sensi. Era il tocco dopo la mezzanotte quando lo Zen, che aveva vagato per le vie senza saper dove andasse, giunse, guidato dall'abitudine, al Caffè della Gloria A un tavolino quattro sensali giuoca- vano alle carte. Uno di essi, appena vide lo Zen, gli gridò: "Ehi, maestro, l'abbiamo fatta grossa questa volta. È stato qui dal padrone" e il padrone russava dietro il banco "l'usciere del tribu- nale, l'amico Toni, per intimarle di comparire domattina innanzi al giudice. Due truffe alla volta, niente di meno, maestro". Lo Zen sbarrò gli occhi; avrebbe voluto capire. Il sensale conti- nuò: "Non mi faccia lo scemo adesso. C'è di mezzo un pianoforte non suo, venduto ad un Tizio. E l'altra truffa che cosa è? Non me ne rammento". Il caffettiere, svegliatosi allora allora, intervenne, sbadigliando: "Si tratta di un libro, una strenna, credo, che questo buon galan- tuomo doveva far stampare; e si mangiò il danaro. Ma dove dia- volo li caccia i quattrini, che non ha mai un soldo per isfamarsi?". "Le donnette, le donnette" vociavano i sensali, sganasciandosi dalle risa. "E noi, che davamo da mangiare a questo bel mobile!". Lo Zen era già scappato lontano. Aveva un incendio nella testa: sentiva dentro nel cervello le fiamme che guizzavano, le case che rovinavano, i pompieri che distruggevano ogni cosa con i loro enormi picconi. Acqua ci voleva, acqua. Si gettò a capo fitto in un canale. Non poté annegare; aveva fatto una giravolta, e s'era tro- vato in piedi sul fondo, col capo fuori. Non gridava, non si curava di accostarsi alla riva; anzi il fresco dell'acqua doveva essergli gradito. All'alba due muratori, che passavano in un battello, l'alza- rono su e lo condussero all'ospedale, ove fu posto nella sale d'os- servazione. Due giorni appresso, chiuso nella camicia di forza, fu condotto al manicomio nell'isola di San Servilio. Lì a poco a poco riacquistò le maniere schiette di prima, il suo buon umore e la vecchia pas- sione del setticlavio. Era incanutito, ma ingrassava. I medici e gli infermieri gli volevano bene; le suore ne' giorni di magro gli face- vano preparare, arrostita sulla gratella, un'aringa salata, e gli dava- no un bicchiere di vin buono. Aveva scelto fra i suoi compagni, tutti tranquilli, i meno malinconici, e s'affaccendava nell'insegnar loro a solfeggiare e a cantare. Le sale, i corridoi e il giardino echeggiavano spesso di voci, che ripetevano per ore ed ore: Do Re, Do Mi, Do Fa, Do Sol, Do La, Do Si Il maestro con lo scartafaccio del suo Trattato sul setticlavio batteva il tempo; e ne- gli urli dei nuovi scolari udiva le più soavi armonie, i più stupendi cori, le più perfette fughe, una musica da paradiso. Non c'era uo- mo più felice di lui.

Madamine

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Borghi 1 occorrenze

Ma il sogno del lusso non le abbandona che all'ultimo: l'hanno troppo rasentato , sono entrate ne' suoi penetrali, l'hanno toccato con le loro mani! E sogni e desiderî, guizzan loro dagli occhi, quando, a sera, sotto la luce torbida del gas, a una, a due, a frotte tornano dalla scuola ai loro poveri quartieri. I carri scarichi salgono lentamente verso le porte : i manovali tornano, fischiando e cantacchiando, ai sobborghi; gli omnibus si strascinano coi cavalli zoppicanti, che hanno nel passo rassegnato la speranza dell'ultimo viaggio; la macellaia ben pasciuta fa somme, il fornaio chiacchiera seduto placidamente sui sacchi, le cortine rosse trasparenti dei mercanti di vino parlano di delizie. E dinanzi alle vetrine passano, in una fantasmagoria avvicendata di luce e d'ombra, schiere di cappellini, di veli, di scialli, di ciocche svolazzanti, tra una folla di gingilloni che le attendono al varco e ne raccolgono mille impressioni diverse - dallo sguardo timido, di sott'insù, delle fanciulle sole, alle occhiate lunghe, provocanti delle giovinette, all'indifferenza affettata delle adulte, all'avido muover d'occhi delle veterane. E la lunga processione s'assottiglia a poco a poco, si sbriciola, dilegua, e le regine scompaiono dentro quelle porte buie, dove qualche uomo ben vestito aspetta quasi sempre nell'ombra dei lunghi androni, su per quelle grommose scale, dove c' è sempre qualche bisbiglio negli angoli dei pianerottoli oscuri.

Il Marchese di Roccaverdina

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Capuana, Luigi 2 occorrenze

«Ci abbandona così, nelle peste! Dovreste persuaderlo voi», egli disse, rivolgendosi alla marchesa e giungendo le mani in atto di preghiera. «Le donne fanno miracoli, se vogliono.» «Lo avete sentito: "Quando ho detto di no, è no!". E poi ... Lo conoscete meglio di me.» «Pur troppo, è un Roccaverdina ... Preso un dirizzone, non c'è verso di stornarnelo. Bisogna lasciarlo stancare. Ora è tutto oli e vini; non gli si può ragionare d'altro. Probabilmente, tra un anno o due, butterà per aria macchine, botti, coppi! Con quella donna - ve ne parlo perché è cosa già passata da un pezzo - ha fatto pure così. Sembrava che, dopo dieci anni, dovesse commettere la corbelleria di sposarla ... e un bel giorno la dà in moglie a Rocco Criscione. Gliel'ha data lui, gliel'ha imposta quasi ... Rocco non poteva dirgli di no; si sarebbe fatto squartare pel suo padrone ... Era sua moglie e non era sua moglie, dicevano le male lingue ... E quando Rocco fu ammazzato, tutti credevano: ora la Solmo ritorna al padrone. Che! ... Ve l'ho nominata per questo; non potete essere gelosa. Se mai, ora, delle macchine e della Società Agricola ... In quanto a donne, egli è uscito di razza. Tutti i Roccaverdina sono stati famosi donnaioli: il marchese grande , il padre del cugino, anche vecchio ... È vero che, dopo, aveva la scusa della paralisi della moglie ... Povera zia! Bocconi amari ne ha inghiottiti parecchi ... Ed era bellissima ... L'avete conosciuta? No, non potete averla conosciuta. E per le elezioni comunali? Un altro dirizzone; ma si è stancato subito ... Fate il miracolo, cugina! Dobbiamo abbandonare il Comune in mano a certa gentaccia? Che penseranno? Che il marchese di Roccaverdina ha avuto paura! Non è vero; ma così penseranno e lo diranno! ... Mi mordo le mani! ... Bella figura facciamo col Sottoprefetto! Egli lo ha proposto, sicuro che il marchese avrebbe accettato la nomina. Abbiamo lavorato tanto! Fate il miracolo! ... » Ah, ella avrebbe voluto fare ben altro miracolo! Ma si sentiva impotente. E lo diceva quello stesso giorno alla sua mamma che insisteva presso di lei: «Che hai dunque? Che ti accade?». «Forse ho sbagliato, mamma!» «Perché?» «Mi sento sola sola, mamma!» «Che intendi dire?» «Ci siamo illusi, egli ed io. Il suo cuore è chiuso per me. Ha preso me come avrebbe preso qualunque altra ... Può darsi che il torto sia mio ... Non avrei dovuto entrare in questa casa ... C'è ancora il fantasma dell' altra. Lo sento, lo veggo ... » «Ma che cosa senti? Che cosa vedi?» «Niente! Non so ... Eppure sono certa di non ingannarmi.» «Vergine benedetta! Che gusto tormentarsi così!» «Ah, mamma! Non avrei voluto parlartene per non angustiarti. Ma il cuore mi si schianterebbe se non potessi sfogarmi. Lasciami sfogare ... Mi ero rassegnata, da anni. Tu non hai saputo mai nulla fino a pochi mesi fa. Avevi dolori assai più grandi del mio; perché avrei dovuto confidartelo? E quando, tutt'a un tratto, quel che sembrava stoltezza sperare mi si presentò dinanzi come possibile, te ne rammenti? io esitai, a lungo esitai, temendo quel che, pur troppo, è avvenuto! Sì, mamma. Tra me e lui sta sempre quell' altra - ricordo vivo ... ! Non m'inganno. Sono forse una persona, sono un cuore qui? ... Sono un mobile.» «Che aberrazione, figlia mia! C'è un malinteso tra voi; dovreste spiegarvi. Marito e moglie debbono fare così, altrimenti le cose s'ingrandiscono. Ognuno immagina che sotto ci sia qualche cosa di grave ... E non c'è nulla!» «E se c'è peggio di quel che uno sospetta?» «Non può essere. Dopo sei soli mesi! Il marchese ha cento cose per la testa. Gli affari assorbono, danno tanti pensieri. Tu rimani a fantasticare, a roderti il fegato ... Che vuoi che ne sappia lui? Come pretendi che indovini?» «Gliel'ho detto: "Antonio, non mi sento amata da voi!". Gliel'ho detto singhiozzando ... » «Ebbene?» «Si è messo a ridere, mi ha risposto scherzando, ma rideva male, scherzava a stento.» «Ti è sembrato. Ha ragione. Gli uomini non possono intendere certe cose di noi donne, che non hanno importanza per loro. E intanto tu ti logori la salute; tu non ti accorgi che deperisci di giorno in giorno. Sei pallida ... Non sei mai stata così. Che credevi, sposando? Di non dover avere nessuna croce? È un carattere strano; sopportalo come è. Ho sopportato peggio io! Ho fatto la volontà del Signore, mi sono rassegnata sempre; lo hai visto! Di che sei gelosa?» «Del suo silenzio, mamma!» «Il marchese non è espansivo; è fatto così. Vorresti rifarlo?» «Che so? Certe volte rimane assorto, col viso scuro scuro; e allora, quando si riscote, mi guarda con occhi smarriti, quasi avesse paura che io indovinassi. E se gli domando: "Che pensate?", risponde, sfuggendomi: "Niente! Niente!".» «E sarà niente davvero. Vuoi che gliene parli io? Che gliene faccia parlare dalla baronessa?» «No. Può darsi che io abbia torto.» «Hai torto certamente.» «Sì, sì, mamma, ho torto; lo comprendo. Non affliggerti per me!» Andando via, il marchese le aveva detto: «Tornerò presto questa sera». Ma era già un'ora di notte, e la marchesa, affacciata al terrazzino a pian terreno allato al portoncino d'entrata, cominciava a impensierirsi del ritardo. Si atterrì vedendo arrivare soltanto Titta a cavallo d'una mula. «Il marchese?» «Non è niente, eccellenza.» Titta, saltato giù da cavallo, legata la mula a uno degli anelli di ferro confitti a posta nel muro ai due lati del portoncino, si affrettava ad entrare. Ella gli corse incontro nell'anticamera. «Stia tranquilla, voscenza . È accaduto ... » «Il marchese sta male?» «No, eccellenza. Devo andare dal pretore e dai carabinieri ... Si è impiccato uno a Margitello: compare Santi Dimauro.» «Oh, Dio! ... Perché? Come?» «È venuto a impiccarsi nel suo fondo venduto al marchese due anni fa. L'aveva detto tante volte: "Verrò a morirvi un giorno o l'altro!". E finalmente il disgraziato ha mantenuto la parola. Si era pentito di aver venduto quel fondo ... Di tanto in tanto lo trovavano là, nella carraia, coi gomiti su le ginocchia e la testa tra le mani. "Che fate qui, compare Santi?" "Guardo la mia terra, che non è più mia!" "Avete preso un sacco di quattrini!" "Sì, ma io vorrei la mia terra!"» «Perché l'ha venduta?» «Oh! Egli soleva raccontare una storia lunga. Pel processo di Rocco Criscione ... L'aveva col marchese, che non c'entrava ... Il giudice istruttore ... sa, voscenza ; quando si fa un processo si raccolgono tutte le voci ... E siccome il giudice istruttore ... Una storia lunga! ... Ma era venuto lui stesso a dire al marchese: " Voscenza vuole quel pezzo di terra? Se lo prenda". Era proprio nel cuore di Margitello, e di tratto in tratto il vecchio alterava il limite ... I contadini quando possono rubare un palmo di terreno, non hanno scrupoli. Compare Rocco, buon'anima, non era omo da lasciarlo fare, nell'interesse del padrone. "E il marchese non ne troverà un altro eguale, eccellenza!" Il vecchio si era dunque presentato dal marchese: " Voscenza vuole quel pezzo di terra? E se lo prenda!". Poi il vecchio si era pentito. Veniva a piangere là, quasi ci avesse un morto ... Che colpa n'aveva il padrone? E ora, per fargli dispetto, si è impiccato a un albero ... Chi se n'era accorto? Spenzolava davanti la casetta ... Le mule della carrozza - gli animali hanno il fiuto meglio di noi cristiani - non volevano andare né avanti né indietro. Io guardo attorno per veder di che cosa s'impaurissero le povere bestie ... Ah, Madonna santa! Salto giù di cassetta, scende di carrozza anche il marchese, tutti e due più pallidi del morto. Non lo dimenticherò finché campo! ... Pavonazzo, con gli occhi e la lingua di fuori ... Lo tocco; era freddo! ... Allora siamo tornati a Margitello ... Il marchese, sturbato, non poteva parlare ... Ha dovuto buttarsi sul letto. Ora sta meglio ... E mi ha mandato per avvertire voscenza . Devo andare dal pretore e dai carabinieri ... Il morto è là, che spenzola ancora ... Ha voluto dannarsi!» La marchesa era stata ad ascoltare senza interromperlo, corsa da brividi per tutta la persona, quasi avesse davanti il corpo del vecchio contadino col viso pavonazzo, con gli occhi e la lingua di fuori, che dondolava dal ramo dell'albero a cui disperatamente era andato a impiccarsi. «Il Signore lo avrà perdonato!», ella disse commossa. «Ma il marchese però non è tornato? Ditemi la verità, Titta: sta male?» «Eccellenza, no! Aspetta la giustizia coi carabinieri e i manovali che dovranno portar via il morto ... Mi ha mandato a posta ... E se voscenza permette ... » La marchesa quella notte ebbe paura di dormire sola in camera sua. Disse a mamma Grazia: «Recitiamo un rosario in suffragio del disgraziato». A metà del rosario, mamma Grazia era già addormentata su la poltrona dove la marchesa l'aveva fatta sedere; ed ella si buttò sul letto vestita, certa di non chiudere occhio, con nel cuore un'inesplicabile angoscia, un invincibile presentimento di tristissimi casi che sarebbero sopravvenuti, presto o tardi, per cattiva influenza di quel morto.

PROFUMO

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

Racconti 1

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Capuana, Luigi 2 occorrenze
  • 1877
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Vai in America: abbandona questa vecchia Europa che casca a pezzi da ogni parte. Vai in America. Buon viaggio! Lí potrai presto rifarti il cuore. Buon viaggio! ... Ma è triste doversi dire addio forse per sempre! - Ed ecco il motivo della mia visita - disse William molto commosso. - Questo plico sigillato contiene alcune carte importanti e le mie ultime volontà. - Le tue ultime volontà? - Riguardo a quel che lascio in Europa - soggiunse l'Usinger sorridendo. - Per l'esecuzione del mio testamento non bisogna aspettare la mia morte. Appena imbarcato, intendo non esser piú vivo per nessuno di qui, cioè fra tre o quattro giorni. Non ammattirai; te lo avverto perché tu non stia in pensiero. Ho venduto tutto. Questo plico contiene, in biglietti, in obbligazioni, in cambiali, quas'intiera la somma che ne ho ricavata. - E pel tuo viaggio? Pel tuo avvenire? - Non dubitare, ci ho pensato. Accetti? - Ma di cuore! - Hermann aveva le lagrime agli occhi. William, pallidissimo, faceva grandi sforzi per contenersi. - Hermann - disse l'Usinger dopo alcuni momenti di silenzio; - promettimi di non aprire questo plico prima di quando ti ho detto! - Anche piú tardi, mio caro, se cosí ti fa piacere. Io già l'ho con me che non tento di distoglierti dalla tua trista risoluzione. Trattienti almeno un paio di giorni! - Non posso, ho molte faccende da sbrigare. Volevo anzi, per far piú presto, spedirti il plico colla posta; ma poi mutai pensiero. Ho voluto abbracciarti prima di lasciare l'Europa. - Grazie, caro William! Mi hai fatto proprio piacere. Dove sei tu alloggiato? - Alla Blauen Stern. - Verrò a trovarti. Staremo insieme fino a stasera -. Quando Hermann Strauss rimase solo, accese la sua grande pipa, si calcò sulla fronte il berretto di pelle di volpe, incrociò le braccia e stette assorto, lungamente, cogli occhi fissi sul busto di Hegel collocato lí in faccia. A un tratto si riscosse, si precipitò sul plico, ne ruppe i sigilli, prese il solo foglio scritto ch'esso conteneva, e, prima di averne letto mezza pagina, cacciò un urlo. - Che io arrivi a tempo! Che io arrivi a tempo! - balbettava scappando fuori di casa. La Blauen Stern era situata al punto opposto della città. Hermann attraversò una viuzza, svoltò una cantonata, sboccò in una piazzetta, infilò due altre straducole contorte ed oscure, uscí nella via principale, e poi tirò diritto, correndo affannosamente, senza curarsi che la gente si fermasse a guardarlo. Giungendo al portone dell'albergo non avea piú fiato. - William Usinger? - domandò al portinaio mezzo appisolato nel suo stambugino. Il portinaio si scosse, si strofinò gli occhi e, guardatolo in viso, chiamò: - Resi! Comparve una donna sui trent'anni, una vera paesana, grassa, bionda, untuosa. Il portinaio accennò ad Hermann che parlasse con lei. - William Usinger è in casa? - replicò Hermann che sembrava sui carboni accesi. - Glielo dirò subito -. E sparí dietro l'uscio da cui era sbucata. Quei minuti di aspettazione parvero un secolo ad Hermann. Finalmente la Resi venne a dire che l'Usinger era andato fuori di buona ora e non era piú tornato. - Le sue valigie son ancora qui? - domandò Hermann agitatissimo. - Non ha valigie. - Dovrà pagare il suo conto ... - L'ha saldato. - Dove poteva trovarlo? Come raggiungerlo a tempo? Hermann pestava coi piedi, si strizzava le mani, bestemmiava, guardando indeciso di qua e di là; quando eccoti l'Usinger. - Ah! - urlò Hermann, correndogli addosso come se quello avesse tentato di scappare. - Hai aperto la busta! - disse William, con piglio severo. - Sí! Hermann per precauzione lo teneva sempre pel vestito. Montarono le scale, silenziosi. Entrati in camera, William buttò in un canto il suo berretto da viaggio e si lasciò cadere sopra una poltrona. Hermann rimase in piedi innanzi a lui. - Aveva perduto il cervello? Lo rimproverava affettuosamente. - Poteva darsi. Ma cosí che credeva di fare? - Il suo dovere d'amico. - Un dovere inutile. - William! - Voleva persuaderlo di amare la vita dopo tutto quello che lui sapeva? C'era forse il mezzo di strapparsi il cuore dal petto e non morire? Aveva lui il modo di renderlo freddo e insensibile come il marmo? - Sí! sí! - esclamò Hermann. A quelle ultime parole dell'Usinger gli era balenata nella mente una luce improvvisa; perciò lo abbracciava con effusione. William stava a guardarlo stupito. - Il cervello del suo amico aveva dato la volta? - Ma Hermann sorrideva, si fregava le mani dalla gioia: - Gli bastava l'animo di sostenere una dolorosa operazione chirurgica? William fece una mossa di offesa. - Lo prendeva per un bimbo? - Si sentiva l'animo di sostenere una dolorosa operazione chirurgica? - Glielo domandava seriamente. - Perché? - Per diventare freddo e insensibile come il marmo. Gli bastava l'animo? - Rispondesse. - Oh, sí! - disse William. - Ma questo è impossibile. - Meno di quel che supponi. Tu conosci certamente, almeno di fama, il dottore Franz Cymbalus, uno dei piú grandi, anzi forse il piú grande dei fisiologi viventi. Le sue scoperte sul sistema nervoso sono le conquiste piú straordinarie della scienza moderna. È stato mio maestro e mi vuol bene. Anderemo a trovarlo. Il dottor Cymbalus ti salverà. - È dunque un Dio cotest'uomo? - Uno scienziato; val quasi lo stesso. - Non credere che io m'illuda - disse l'Usinger. - Se acconsento a venir da lui, è solamente per contentarti. Abita lontano? - In una sua villetta, a poche miglia dalla città. - Su, andiamo! - E l'Usinger rispose con un'incredula scrollata di spalle al gran respiro di soddisfazione cacciato fuori da Hermann. Il dottor Cymbalus era seduto sopra una panca di legno con due bimbi sulle ginocchia. Sorrideva, li accarezzava e rispondeva bonariamente alle vivaci domande di quelle due bionde testoline. - Domine, bona dies - disse Hermann dietro il cancello, togliendosi di capo il berretto. Il dottore lo riconobbe, mise a terra i due bimbi che si perdettero pei viali, e andò ad aprire facendo colla mano un affettuoso saluto. - Amico mio! - disse, introducendo i due arrivati. - Sono lietissimo di rivedervi. Signore, vorrei poter soggiungere altrettanto di voi; ma, se la memoria non m'inganna, non credo d'avervi veduto un'altra volta. Per questo non siete meno il ben venuto in casa mia. - William Usinger - disse Hermann. William fece un profondo inchino. Il dottor Cymbalus gli stese la mano. - Maestro, il mio amico ha bisogno della sua scienza - disse Hermann sorridendo all'Usinger. - È ammalato? - Piú che ammalato: è deciso di ammazzarsi. - Cosí giovane? - Sí, maestro, cosí giovane! - Non viene certamente da me perché gliene fornisca il mezzo - disse il dottore. - Ma entriamo in casa. Ragioneremo con piú comodo -. Il dottore condusse i due ospiti nel suo gabinetto di studio, un caos di libri, di carte, di mappe, di strumenti, di boccette, di vasi, di cranii, di preparati anatomici, di scheletri umani. L'Usinger, entrando, sentí dei brividi per la schiena. Il dottore sedette sulla poltrona dietro il suo tavolino. I due amici gli sedettero di faccia. Quella figura di vecchio scienzato era dolce e serena. La sua fronte spaziosa e solcata da rughe profonde, il suo occhio vivo e scintillante malgrado le veglie sostenute per mezzo secolo in pro della scienza e dell'umanità, il suo labbro quasi sempre sorridente, la posatezza delle sue maniere, la bontà della sua parola, tutto rivelava in lui una natura elevata; di quelle che dal sapersi piú grandi delle altre attingono la virtú dell'umiltà che le fa venerande. - Voi dunque volete morire? - disse il dottor Cymbalus con un accento di paterna ironia. - Sí, o signore - rispose l'Usinger freddamente. Mentre Hermann raccontava, a grandi tratti, la dolorosa storia di William, il dottor Cymbalus teneva bassa la testa e gli occhi socchiusi; le sue labbra erano atteggiate a commiserazione profonda. - Io non posso approvare la vostra risoluzione - egli disse all'Usinger quando Hermann ebbe finito. - I miei studi m'ispirano un immenso orrore per l'opera di rovina che voi meditate; forse, perché mi trovo, piú d'ogni altro, nel caso di misurarne la gravità. La mia vecchiezza e i miei studi mi autorizzano a tenervi questo linguaggio. Le vostre sventure sono grandi; però voi dimenticate che la natura non toglie nulla senza dar dei compensi. Nel mondo vi sono molti esseri che paiono condannati alla perpetua servitú di altri esseri superiori; nascono, vivono, muoiono senz'un loro apparente profitto. Fra gli uomini, nella vita civile e in quella dell'intelligenza, succede lo stesso. Il genio potrebbe dirsi una tremenda schiavitú; la scienza, un'orribile catena. Tutta la gloria e tutte le ricchezze di questo mondo non valgono a compensare la piú piccola parte dei dolori che l'artista e lo scienziato provano nella creazione delle loro opere e nella ricerca della verità, che è una creazione anch'essa. Voi dite di v oler morire perché vi è mancata la consolazione degli affetti domestici; ma chi vi dice che la natura non v'abbia destinato ad esercitare le forze del vostro cuore e del vostro intelletto in una sfera assai piú larga di quella della famiglia? La società si compone di tanti cerchi concentrici. La famiglia occupa il posto di mezzo; l'umanità l'ultimo, almeno nel mondo che noi abitiamo. Piú in là della famiglia vi è la città; piú in là di questa, la nazione; piú in là ancora, le nazioni; un campo immenso, feco ndissimo, ove quella piena d'affetto che vi tumultua nel cuore potrebbe trovare mille sfoghi. Quante vie non sono aperte alla vostra attività nell'istruzione, nella politica, nella milizia, nel commercio, nelle arti, nelle industrie, nelle scienze, perfino nelle occupazioni piú spregevoli? Per una sublime fatalità, ogni minima influenza del minimo atomo contribuisce, coi suoi mezzi, al grande edificio del progresso. La materia si trasforma e trasforma, alla sua volta, quello che noi chiamiamo spirito, pensiero. Vi siete mai reso conto della benefica legge del lavoro, la piú perfetta esplicazione dell'amore? No, certamente. Per vostra mala sorte vi siete invece concentrato in voi stesso; avete aumentato con crudele compiacenza la forza del male; avete già iniziato, isolandovi, quell'inconsider ata opera di distruzione che ora intendete di compire. Forse non avete mai provato la consolazione di beneficare i vostri simili ... - Sí - lo interruppe l'Usinger. - Ma sopratutto (può darsi ch'io sia un grande egoista) ho sempre pensato a me stesso. Io ammiro la grandezza delle cose da lei dette, e mi addoloro di trovarle indifferenti per me, cioè, troppo elevate pel mio cuore, per la mia indole, fors'anche per la mia stessa volontà. Ma se la sua scienza, o signore, non ha altri mezzi per giovarmi, mi affretto a chiederle scusa di questi momenti di noia. Li deve al mio buon amico Strauss; ma li perdoni a tutti e due. - Maestro! - disse Hermann, stendendo le mani verso il dottore in atto di preghiera. - Maestro, bisogna salvare ad ogni costo quest'infermo di mente. L'ho qui condotto colla fiducia che lei lo avrebbe salvato. - Ma in che maniera, caro Strauss? - domandò il dottore. - Mi son ricordato a un tratto di quella sua straordinaria scoperta, della quale lei diceva di sentirsi atterrito; di quella scoperta che lei vuole portar con sé nella tomba, per non mettere nelle mani della fanciulla umanità un'arma cosí terribile e di cosí facile abuso. Ebbene, Maestro, quella scoperta può strappare alla distruzione una vita vigorosa, un'intelligenza potente. Non vorrà lei stender la mano per salvare metà d'una creatura già decisa di perdersi intiera? - Il dottor Cymbalus guardava William fissamente. Questi aspettava con calma la risoluzione dello scienziato. - E s'io vi rispondessi che non posso far nulla? - Mi ammazzerei. - Ma voi ignorate senza dubbio quello che Hermann mi chiede! - No, signore. So che si tratta d'un'operazione colla quale rimarrei freddo e insensibile come un uomo senza cuore. - È un'operazione che qualunque vecchio barbiere sarebbe capace di fare. Ma io provo ribrezzo a stender la mano sopra una creatura perfetta per guastarla senza riparo! Non vo' commettere un sacrilegio. Un ago, una lancetta basterebbero per turbare la meravigliosa armonia del vostro organismo. Qualcosa di voi perirebbe, come per incanto. Diverreste un uomo nuovo, una creatura senz'affetti ... - Non desidero altro - interruppe l'Usinger. - Le mie sventure provengono dal cuore. S'io fossi insensibile, se ... - Ah, ma un giorno voi potreste amaramente rimpiangere quello di cui ora volete disfarvi! - No, non è possibile; soffro troppo. - Badate! La scienza sarà impotente a darvi il minimo aiuto. È la sua inferiorità di faccia alla natura, è la sua miseria attuale. Per dispetto, come l'ebreo della leggenda, voi potreste buttar nell'oceano la preziosissima gemma del vostro sentimento. Ma nessuno, badate! Ripeto, nessuno potrebbe piú ripescarvela. Persistete ancora nella vostra risoluzione? - Piú che mai, mio signore! - Il dottor Cymbalus appoggiò i gomiti sul tavolino, mise la testa fra le mani e stette a riflettere per due minuti. Hermann guardava il suo maestro trattenendo il respiro. William aspettava, tranquillo, facendo girare tra le dita gli orli del suo berretto da viaggio. - Avrei amato - disse il dottore - che piú della mia scienza vi giovassero i miei consigli. La vita è una bella cosa; credetelo a un vecchio che non può star molto a lasciarla. Dite di no? Dio faccia che un giorno non mi abbiate a dar ragione! - Il dottor Cymbalus scrisse una prescrizione sur un foglietto di carta e la porse ad Hermann: - Dopo sei giorni di questa cura, tornate qui. Tenteremo -. Hermann si precipitò sulla mano del maestro e la coperse di baci. William si sentiva stranamente commosso. Una settimana dopo, Hermann e William picchiavano al cancello della villetta. In un angolo della camera larga ed ariosa era preparato il letto pel paziente. Sopra il tavolino rotondo posto nel centro, vedevansi due boccette con liquidi rossi e nerastri, fasce ripiegate, filacce e una piccola borsa chirurgica. William guardò questi apparati con occhio indifferente. Il dottor Cymbalus gli ordinò di mettersi a letto, poi gli somministrò il cloroformio. Mentre Hermann, aiutato dal servo del dottore, rivoltava bocconi il suo povero William reso insensibile, il dottore cavava fuori dalla borsina due aghi e una lancetta, preparava due fasce e stendeva sopra cuscinetti di filacce un po' di quei liquidi rossi e nerastri delle boccette, che subito si rapprendevano. Era sopra pensiero. - Lasciatemi solo - egli disse; - e non entrate prima che io suoni -. Trascorsero dieci minuti; durante i quali Hermann, che origliava dietro l'uscio, non sentí altro nella camera che il passo affrettato del dottore dal letto al tavolino e dal tavolino al letto. Benché non dubitasse menomamente della riuscita, era agitatissimo, tremava, non vedeva l'ora che l'uscio della stanza di William fosse stato aperto. Il dottore suonò. - Tenetevi pronti - disse, vedendo entrare Hermann e il servitore. - Appena si sveglierà, le sue convulsioni saranno tremende -. Un lento mugolio annunziava da lí a poco il ritorno ai sensi dell'Usinger. Le filacce, trattenute da due fasce nel mezzo della spina dorsale e all'occipite, indicavano il posto dove l'operazione aveva avuto luogo. Non vi si scorgeva traccia di sangue. William stirava le braccia con moto convulsivo, poi le lasciava cadere come sfinite. Tentò svoltarsi, ma non riuscí. Lo lasciarono fare. Il dottore aveva raccomandato intervenissero soltanto nel caso che quello cercasse di strapparsi le fasce. Il mugolio diventava a poco a poco un urlo prolungato. William mordeva i cuscini, tormentava con le mani le lenzuola e le materasse, si agitava con tutta la persona, e urlava: - Ahi! ahi! La morte! La morte! Ahi! Ahi! - Quando videro che tentava di strapparsi la fasce, Hermann e il servo lo afferrarono ai polsi. Era livido, colla fisonomia contratta, cogli occhi terribilmente spalancati. - Ahi! ahi! - continuava ad urlare. - La morte! La morte! - Vi è da temere, maestro? - domandò Hermann ansioso. - Tutto va bene - rispondeva il dottore colla soddisfazione dello scienziato che ha ottenuto una vittoria. William restò per alcuni minuti come un corpo inerte. Il dottor Cymbalus gli tastava il polso. - Le convulsioni ricominciano; saranno le ultime, ma piú violente -. L'accesso riprese appena il dottore aveva terminato di parlare, ma non durò molto. William ricadde spossato. - Lasciamolo riposare - disse il dottor Cymbalus -. Già si sviluppa la febbre. È la natura che si solleva contro la violazione delle sue leggi! - William dormí tranquillamente quattr'ore di fila. Quando svegliossi, i suoi occhi smarriti si fissavano sulle persone e sugli oggetti intentamente, come per riconoscerli bene; poi passavan via, senza lasciar capire se gli avesse o no riconosciuti. Le sue mani brancicavano nel vuoto, sfregavano le coperte; poi si tastava il viso, il petto, lo stomaco, e tornava a b rancicare qualcosa invisibile. La sua voce era un lamentio basso, interrotto, una specie di singhiozzo. Durò cosí due giorni. Al terzo riconobbe Hermann e gli strinse la mano: sorrise al dottore. - Soffro molto - diceva; - soffro molto qui -. E gl'indicava il petto. - Non è nulla - rispondeva il dottor Cymbalus. - Passerà -. Quando questi gli tolse le fasce, Hermann vide sulla spina dorsale e sull'occipite di William due piccolissime cicatrici, due graffiaturine nere; niente altro. William si sentiva uscire a poco a poco da un profondo sbalordimento. Le idee gli erravano per la mente, gli sfuggivano, gli tornavano innanzi come nuvoloni sballottati da un temporale; poi cominciavano ad ordinarsi simili a una folla di persone entrate confusamente in una sala che riescono infine a trovar tutte il lor posto. Capiva che doveva essere accaduto qualcosa di straordinario dentro di lui; provava un vuoto immenso e un benessere ineffabile, ma non si ricordava bene: credeva d'aver sognato. - Hermann, il dottor Cymbalus, il letto, la stanza, l'operazione subita non erano fantasmi creati dalla sua fantasia delirante? Si era forse ucciso, e quello stato di calma era la sua nuova esistenza in un mondo migliore? Finalmente ebbe la certezza della realtà. - Consummatum est! - gli disse il dottor Cymbalus scotendo la testa tristamente. - Ella è il genio del bene! - rispose William. - Dite piuttosto il genio del male, capace di distruggere e non di edificare! - Ah, dottore, come son lieto di non aver ascoltato i suoi consigli! Io gusto una pace, una felicità che non credevo possibili sulla terra! - Infatti era una felicità vera. All'eccessivo tumulto dei suoi affetti succedeva un silenzio completo. I suoni gli aliavano intorno alle orecchie, sussurrandovi le loro note senza decidersi ad entrarvi. I colori venivano a posarglisi sulla retina colla delicata precauzione di chi non vorrebbe farsi scorgere. Quella parola misteriosa della malinconia dei tramonti, del mormorio delle acque, del profumo dei fiori, delle linee della campagna, della serenità dei laghi, dell'altero slanciarsi dei monti al cielo, del mesto sprofondarsi delle vallate; quella parola misteriosa che tutti cerchiamo, che tutti ci sforziamo a riprodurre poeti, romanzieri, pittori, scultori, maestri di musica, quella viva ed eterna parola dell'universa natura, lui non la sentiva piú o non la intendeva. Viveva come circondato da un'immensa so litudine, fra le vaste ruine d'un mondo una volta animato. E si sentiva felice, e s'inorgogliva di se stesso. - Come era superiore a quanto gli stava attorno! Nulla giungeva piú a fare nessun'impressione su lui! - Ricordava sua madre, ricordava Ida Blumer, le sole creature ch'egli avesse immensamente amate e per le quali il suo cuore aveva tanto sofferto; ma non provava piú né commozione, né rimpianto: - Era vendicato di esse! - Gioiva del suo trionfo. Durante questo tempo, avvenimenti inaspettati mettevano sossopra il palazzo della contessa K***. La sventura avea spetrato quel cuore di madre, e il pentimento e il rimorso la conducevano alla casa del figliuolo cosí spietatamente abbandonato e, una volta, fatto scacciare dai suoi servitori. William abitava insieme ad Hermann. Quella stessa vecchia che un giorno lo introdusse nella stanza di studio del suo amico gli annunciò la visita d'una gran dama. - Passi - rispose smettendo di lavorare. Una signora vestita a lutto, con un fitto velo sugli occhi si presentava sulla soglia. Esitava ad inoltrarsi. William le era andato incontro. Allora quella signora avea sollevato il suo velo ed era rimasta a testa bassa innanzi a lui. - Mia madre -. William non si era scomposto. Ma la signora, fulminata da quella freddezza, lo fissò in volto. Non vi traspariva nessun indizio di commozione repressa. Suo figlio la guardava attentamente, ma con impassibile tranquillità. Al grido straziante della contessa, e al vederla fuggire inorridita, William avea alzate le spalle ed era tornato al tavolino, a disegnare figure di geometria. Otto giorni dopo, passando davanti la casa dove si espongono i cadaveri non riconosciuti delle persone perite di morte improvvisa o violenta, avea veduto molta gente affollarsi sull'uscio. La curiosità lo avea spinto ad entrarvi. Sopra una bara giaceva il cadavere d'una giovane dai diciotto ai vent'anni. Bella, vestita con eleganza, aveva i capelli rappresi sulla fronte e sul collo; gli abiti ancora bagnati indicavano il genere di morte scelto dalla infelice per finire i suoi giorni. - È Ida Blümer - egli disse; - la riconosco -. Condotto davanti al commissario, vi fece la sua deposizione. La vista di quel cadavere lo aveva lasciato indifferente. Eran passati sei anni. - Che cosa voleva dire quella stanchezza vaga, indefinibile che cominciava ad insinuarsi nella sua vita regolare e monotona? Quei confronti del passato col presente, che gli erano stati cagione di tanta allegrezza, perché ora prendevano un accento di lieve rimprovero? - Fu spaurito di questi sintomi e cercò di svagarsi. Ma come sfuggire la memoria? Si vedeva perseguitato da essa perfino nei sogni. Giorno per giorno, ora per ora, minuto per minuto, la stanchezza e la noia aumentavano. Non poteva far nulla per arrestarle; si sentiva inetto a resistere. - La gran legge del lavoro! - Aveva un bel ricordarsene; non gli riusciva di lavorare. Si stancava, si annoiava subito. Gli mancava qualcosa che gli rendesse caro il lavoro. La sua solitudine gli faceva spavento. I momenti piú tristi della sua vita gli parvero preferibili, immensamente, a quella calma di morte che l'operazione del dottor Cymbalus gli avea procurata. - Mamma! Ida! Mamma! Ida! - chiamava ad alta voce, chiuso nella sua stanza, senza voler vedere nessuno. Tentava di riscuotersi con quei nomi dal torpore che lo teneva incatenato fra i suoi terribili nodi. - Ma nulla! - Quelle parole: "Mamma, Ida" gli risuonavano nell'orecchio come due voci che non avessero mai avuto alcun senso per lui. - Ah! Quell'ore di pianto, di disperazione, di strazio mortale passate a guardar da lontano le finestre del palazzo K*** nelle notti d'inverno! Ah! quell'ore d'agonia, quando si struggeva di abbracciare sua madre che perduta tra le feste e i conviti piú non si ricordava di lui! Quelle erano state ore! E quando i furori della gelosia, i folli propositi di vendetta gli avevano sconvolto il cervello, al tradimento di Ida Blümer? Che emozioni! Che divini dolori! ... Ed ora piú nulla! Nulla! Un giorno corse d a sua madre. La contessa K*** si preparava per un viaggio lontano. Nel momento che William saliva le scale del palazzo ricordando la trista scena di parecchi anni fa, essa trovavasi nel suo elegante salotto, abbandonata su una poltrona, col viso fra le mani, piangente. Una cameriera levava della roba da un mobile antico incrostato di avorio e di madreperla, e nominato un oggetto, aspettava che la sua signora le rispondesse sí o no con un cenno del capo. William irrompeva nella stanza. La contessa pareva ammattita dalla gioia. Rideva, piangeva, lo abbracciava, lo carezzava, tornava ad abbracciarlo. William non rifiniva dal baciarla: - Il contatto di quelle labbra dovea fargli rivivere il cuore! Chiamami figlio! Chiamami figlio! - Figliuolo, figliuolo mio! - ripeteva la contessa. Il rimorso, il pentimento, la gioia rendevano sublime l'accento di lei. William smaniava; si scioglieva dalle braccia di sua madre, le metteva una mano sulla fronte per tenerle sollevato il volto: - Voleva contemplarlo bene e assorbire tutti gli splendori di quegli occhi! Qui le tue mani, sul mio cuore! ... Premi forte! ... Ancora piú forte! Ma no! No! Quel terribile gelo non voleva fondersi. Il suo cuore era morto per sempre! Non un palpito! Non una leggiera emozione! Baciava forse una statua? Era un'infamia! Oh, maledetta quella scienza che lo aveva cosí ridotto! - La mattina dopo, senza dir nulla al suo amico, William Usinger prese la strada che conduceva alla villetta del dottor Cymbalus. Era giorno di festa. Allegre brigate di uomini e di donne, sparse pei prati che fiancheggiavano la strada, conversavano allegramente o ballavano al suono del violino e del contrabasso. William si fermava a guardare quelle persone felici; ma non capiva piú nulla di quella loro musica, e di quelle loro canzoni. Quei visi sorridenti gli sembravano atteggiati a scherno o a disprezzo per lui. Il dottor Cymbalus lo ricevette colla sua solita cordialità. William gli espose quel che provava. - Io non v'ingannavo, figliuolo mio! - gli disse il dottore diventato tristo e meditabondo. - Forse sarebbe stato meglio vi avessi lasciato mettere in atto la vostra disperata risoluzione! Non credete per questo che vi fossi indotto da una vanità di scienziato, per tentar l'esperimento delle mie scoperte. Voi calunniereste il mio cuore d'onest'uomo che la scienza fa palpitare vivamente per qualunque creatura che soffre. Fui sedotto da una speranza: osai sperare che la natura non sarebbe stata inesorabile. E ravate cosí giovane! Avevate tanto sofferto! Ma la natura non muta le sue ineluttabili leggi. - Addio, dottore! - disse William. - Abbiate coraggio, abbiate coraggio! - Avrò coraggio -. Il dottor Cymbalus dalla finestra del suo studio seguí coll'occhio il giovane che s'allontanava a capo chino. Lo vide fermarsi per consegnar qualcosa al servo poi sparire nel campo vicino, dietro un folto gruppo di alberi. S'udí un'esplosione d'arma da fuoco. Il dottore corse in fretta, accompagnato dal servo, verso il punto dove l'Usinger era scomparso. William giaceva a terra immerso in un lago di sangue, col petto squarciato da una terribile ferita. Quando il servo consegnò al dottore il foglio ricevuto alcuni momenti prima, il vecchio scienziato lo aperse tremando dalla commozione, colle lacrime agli occhi. Esso conteneva queste brevi parole: "Lascio tutto il mio patrimonio al dottor Franz Cymbalus ed al mio amico Hermann Strauss perché con esso istituiscano una scuola gratuita dove si insegni ad Amare!" Firenze, settembre 1865@. 1865.

Prima tradí il marito; ora abbandona l'amante, e non ha aspettato neppur molto! Cosí direbbero, cosí. È orribile! Dunque una persona buona e onesta può diventar cattiva e miserabile anche quand'ella non vuole? E c'è chi grida: "La ragione! La ragione! ..." A che giova, a che mai, se non è buona a salvarci dall'improvviso accecamento d'un dispetto, se ci lascia addentare e stritolare da una circostanza che deci de, senza rimedio, dell'avvenire d'una vita? - E trambasciava al ricordo di quei baci, come a rinnovantesi offesa. - Che posso piú farci? ... È inevitabile. In un pazzo impeto, non son venuta a dirgli: "Mi accusano d'essere la vostra amante; e sia, almeno; eccomi qui!" Ah! Si era figurata che bastasse soltanto dir ciò, per diventare amante come tant'altre. Invece, la gentile raffinatezza dell'uomo innamorato che le stava attorno senza chieder nulla, appagandosi di poco, aspettando, paziente ... forse perché era sicuro; invece, quella gentile raffinatezza si mutava in martirio per lei. - Oggi andremo fuori insieme - egli le disse una mattina. - Cercheremo il vostro nido. Mi è stato indicato un bel posto. - Grazie. Voi pensate a tutto - rispose Giustina, sorridendo tristamente. - È per vedervi meno seria ... Mi sembrate cangiata. Dov'è andata la vostra bella serenità? Dove la tranquilla dolcezza del vostro sguardo? ... Non lo negate: siete cangiata. - Come potrei essere la stessa? - Non osavo dirvelo; per non importunarvi; ma io vi vorrei come prima. Vi ho amata a quel modo e, sí, vi voglio a quel modo! - Scendiamo -. Il cocchiere, per isbaglio, li menava lungo una strada di campagna, inoltrandosi verso Porta a Pinti senza ch'essi vi badassero. Quell'aria tiepida, smagliante di luce; quel rigoglio di fronde che traboccava fuor dei muri di cinta con lieta foga primaverile; quel cinguettio di uccellini nidificanti tra le siepi o inseguentisi su pei rami, pigolando d'amore; quella gioconda fioritura di erbe e di piante selvatiche che profondeva sui cigli e lungo i lati della strada tesori di ciocche pavonazze, di bocci ross i e bianchi, di calici gialli, violetti, sanguigni, turchini, aperti e tremolanti su gli steli o mezzi nascosti tra le foglie; quella gran pace sorridente all'ombra degli alberi o al sole, su i vigneti, sugli orti umidicci, su i seminati dalle spighe quasi bionde; ... oh, quel magnifico spettacolo essi non se l'aspettavano punto! E continuando a tenersi per mano, tacevano, distratti. - Via Lungo il San Gervasio? - domandò il cocchiere a un contadino. Bisognava tornar indietro. Fasciotti rise del contrattempo e disse: - Indovinate che pensavo? - Se fossi stata indovina! - ella rispose. - Pensavo ... No, non voglio dirvelo -. Giustina tacque. Le parve di veder lampeggiare in quegli occhi un affettuoso rimprovero meritato, e non volle mentire per iscusarsi. Le parve di veder lampeggiare in quegli occhi anche un'improvvisa fierezza d'amante risoluto di trionfare, come trionfava lí attorno tutta quell'irrompente forza di amor vegetale, ed ebbe paura di provocarla. - Siete muta oggi - egli le disse, vedendo che lo lasciava parlare senza interromperlo, o gli rispondeva con monosillabi. - Vi ascolto. Dite tante belle cose! - Ma il suo accento era triste. E al ritorno, scendendo l'ariosa via tracciata dalla nuova Firenze a piè dei colli fiesolani, sentendolo ragionare allegramente del grazioso nido trovato per lei nella palazzina al numero venti di via Lungo il S. Gervasio, sentiva un grande accoramento: - Quella carezzante allegria non era forse un'insidia? - Piuttosto avrebbe preferito ch'egli avesse adoprato la forza: - Cosí sarebbe finita! - E nelle notti insonni, ripassando a una a una le mute sollecitazioni indovinate in un bacio piú caldo o piú lungo, in un'occhiata, in una reticenza, ella s'incoraggiava. Chi sa? Quell'illogica repugnanza del suo corpo si attutirebbe nel possesso; sarebbe forse vinta; chi sa? ... Oh, non voleva piú avere l'apparenza d'un'ingrata! Sentendolo ritornare a casa, dopo una giornata di servizio alla Fortezza, gli uscí incontro sul pianerottolo. E la stessa rassegnata dolcezza che pietosamente le sorrideva negli occhi, le tremava anche nella mano stesa a dargli la buona sera. - Che ore eterne per me! - egli le diceva in camera, accarezzandole i capelli e dandole dei bacettini su la fronte mentr'ella tentava di sfibbiargli dal fianco il cinto argentato della sciabola. Le parve piú bello in quel punto, stretto nella divisa, con le spalline e i bottoni che luccicavano, e il maschio volto, dai baffi neri fieramente rilevati, rizzato sul collo chiuso nel goletto bianchissimo; e fece uno sforzo e gli tese le braccia teneramente. Ma nelle ombre della sera che invadevano la camera silenziosa, al mormorio di quelle affettuose parole che le sfioravano la guancia, calde del fiato di lui, la riluttanza le si ridestava già e piú brusca, piú forte, quasi i nervi e il sangue, ribellati all'impero della volontà, la spingessero a gridare: "No, non dev'essere! ..." mentre avrebbe voluto dire il contrario. Egli lo capí, da quel lieve tremito che l'agitava, da quelle labbra ghiacciate che non rendevano i baci: - Voi non mi amate ancora! L'ho sospettato. - No, Emilio, t'amo! T'amo! - ella mentí, disperatamente, ingannando anche se medesima. E poco dopo, mentre colui la ringraziava sotto voce, grato del possesso vittorioso, ella diceva internamente: - Almeno m'ha creduto! - E gli si abbandonava tra le braccia, scossa da un gran convulso di ribrezzo. - Devi annoiarti in questa solitudine. - Ho pianoforte, musica, libri! ... E poi, mi dai tu forse tempo? - Faccio quel che posso. - Fai troppo. Non è un divertimento salire cosí spesso fin quassú. - Non è neppure una marcia. In quei primi mesi discorrevano talvolta cosí, alla finestra del salottino di via Lungo il San Gervasio, intanto ch'egli fumava, un po' impensierito di quella specie di stanchezza della voce di lei; e Giustina, co' gomiti appuntati sul cuscino del davanzale, continuava a rispondergli guardando ora il bel panorama di Firenze che rizzava laggiú, nella pianura, la cupola di Brunellesco, il campanile di Giotto e la guglia merlata di Palazzo Vecchio torreggiante sui tetti; ora il piazzale Michelangelo che pareva là, a due passi, col David che quasi si poteva toccare stendendo il braccio; ora monte Morello e gli appennini di Pracchia, sfumati fra i vapori, lontano. - Ti annoi; perché negarlo? - Ti dico di no. - Tanto meglio -. Quella volta, verso le sette di sera, presero una strada di campagna, poi svoltarono per una viottola solitaria, serpeggiante su la collina. - Che bella veduta! - ella disse. - Bellissima! - E si sedettero sulla spalletta rustica d'un ponticello, simili a innamorati che abbiano ancora mille cosine da confidarsi. Infatti egli le confidava la sua speranza d'un prossimo avanzamento di grado; s'era già preparato a un esame. - Quando saremo maggiore, - aggiunse scherzando - avremo piú autorità. Ordineremo: "Cara signora, vogliateci un po' piú di bene." E la signora - la disciplina soprattutto! - ci vorrà un po' piú di bene. Con un maggiore non si canzona. Giustina sorrideva: ma in quei grandi occhi tranquilli e su quelle grosse labbra colorite, il sorriso prendeva un'indefinibile espressione di dolorosa tristezza. Il ragionare, dietro una cosa e l'altra, era cascato intorno all'amore. - Perché m'ami? - gli domandò improvvisamente Giustina. - Non sono bella, tutt'altro; non sono capricciosa ... - Che ne so io? Sei qualcosa di meglio; lo giudico dagli effetti. - Non hai detto la stessa cosa a tant'altre? Sinceramente, s'intende. - Oh! Io credo che si possa aver amato cento volte e non aver mai provato una passione. - Non lo capisco. - Lo capisco ben io. Tu m'ami; mi vuoi certamente bene, ma ... - Quando una donna ha già dato all'uomo tutta se stessa ... Gli uomini non possono figurarsi, neppure dalla lontana, che cosa significhi: darsi! - Vi date forse? Vi lasciate prendere. - Povere donne! E ne menate anche vanto. - Ma lasciarvi prendere è la vostra forza. Nella guerra di amore, qualunque vittoria risulta sempre al rovescio. Chi capitola detta i patti e le condizioni. - Come s'indovinerebbe il militare, anche senza la divisa! - Ecco, per esempio, questo bacio qui ... - Emilio! - ... parrebbe, a prima vista, una violenza. Ma potevo non dartelo? La violenza l'ho sofferta io, da questi occhi, da questa bocca, da questa personcina che s'appoggia trionfante al mio braccio, e quasi mi sgrida ... per un bacio! - Emilio! - Gli ulivi stormivano attorno, nel gran silenzio della sera. - Faremo tardi, - ella disse dopo breve pausa. - Avremo la "celeste paolotta ..." E additava, ridendo, la luna montante, rossa e grande, su le colline scure, nel cielo a pecorelle: - Pare che salga di fretta dietro le nuvolette biancastre. - - Di notte, la campagna mi fa paura - rispose Giustina. - Anche quando l'esercito marcia in armi al tuo fianco? - In verità ella aveva assai piú paura di quell'allegra eccitazione rivelata dalle parole, dagli slanci improvvisi, dal tono stesso della voce. Scendevano silenziosi, a passi corti e lesti, per la viottola deserta, mentre i grilli trillavano al lume di luna, e i "chiú" di due assioli si rispondevano, distanti, a intervalli, e il gracidio delle rane dal vicino Mugnone saliva, quasi coro, monotono e solenne. Egli andava accarezzando sul suo braccio la mano di lei. E a quella carezza insistente che le produceva su la pelle delicata un sottile bruciore, Giustina sentiva riempirsi il cuore d'immensa commiserazione di sé. La vita le sarebbe parsa quasi f elice, se tutto si fosse limitato a quella dolce intimità piú dello spirito che del corpo. Perché a lui non bastava? E il ricordo della terribile sensazione di ribrezzo che la frequenza, ahimè!, non attutiva e che l'illuso orgoglio dell'amante scambiava per tutt'altro, le faceva correre un brivido freddo per la persona e le inumidiva le palpebre. - Ecco un fanale; sei contenta? - egli le disse. - Siamo quasi in città ... Ma che hai? - soggiunse subito, vedendole inaspettatamente portare agli occhi il fazzoletto. - Sciocchezza! ... Pensavo ... a quella bambina di cui ti parlai l'altra volta. Povera creatura! ... Mi è venuta in mente tutt'a un tratto, con quel visino magro e palliduccio che sparisce tra i folti capelli castagni ... Quando s'affaccia alla finestra dirimpetto, raccolta nello scialletto anche in agosto, e mi guarda, e mi guarda intentamente ... mi fa quasi male. E nel pensare a lei ... che sciocchezza! Parlava affrettata, come chi vuole ingannare, con un misto di pianto e di riso che l e tremolava nella voce; e intanto si asciugava gli occhi. - Via - disse Fasciotti, senza sospettare niente - quando ne avremo una anche noi ... - No, no! - ella lo interruppe. Aveva dovuto mentire. Il bambino suo, il caro bambino suo le era venuto in mente in quel momento, quasi il venticello che faceva stormire gli ulivi le avesse portato all'improvviso qualche profumo della villa Rosati, situata in mezzo al ristretto parco, presso lo Scrivia, dov'ella passava l'estate col figlio e il marito, lieta della fresca serenità di tutto quel verde e di tutta quell'ombra, tra i gridi allegri e i colpi dei cacciatori risuonanti dalle macchie a piè del colle. E cosí mentiva tutti i giorni, ora che il rimpianto del passato tornava a riprenderla, ora che la sua ragione non dava piú torto a quegli altri che l'avevano spinta nell'abisso. Non provava piú contro di essi il cieco sdegno di prima; non ne parlava piú con quell'accento duro e sbalzante, vibrato come guizzo di frusta dalle sue labbra convulse, nei giorni seguiti all'arrivo di Giulia da lei richiamata. - Tu che sai! ... - le aveva ripetuto interrottamente. E il cuore le si era vuotato d'ogni resto di fiele. Era stata ingiusta, al pari degli altri, forse piú; lo riconosceva. Le apparenze non stavano tutte, tutte!, contro di lei? Qual testimone poteva ella invocare per giustificarsi pienamente davanti a suo marito e a suo padre? ... E non aveva, con quel colpo di pazzia, dato ragione all'accusa? Si strizzava le mani, si mordeva il labbro, aggirandosi smaniante pel salotto, quando non le riusciva di co ntinuare a leggere perché i caratteri le si confondevano sotto gli occhi turbati e il pensiero andava via via, lontano, quasi a piangere dietro il portone della casa di suo marito, dietro il cancello della villa in mezzo al parco presso lo Scrivia, dietro l'uscio della casa paterna; a piangere e a domandar l'elemosina d'un perdono ch'ella sentiva di meritare e che sapeva, pur troppo!, non le verrebbe mai accordato. E il pianoforte gridava allora, ripeteva la sua confessione, domandava perdono in nome di lei con le dolenti melodie dello Schumann e dello Chopin, con le divine suonate del Beethoven, con le rubeste sinfonie del Wagner e del Listz, che chiamavano alle finestre dirimpetto e a quelle del primo piano della casa i visi attenti e maravigliati di parecchi inquilini; e tutti gli amati fantasmi della sua vita le sorridevano attorno in quei momenti, la colmavano di carezze e la lasciavano commossa e spossata tosto che si dileguavano lontano, lontano, piú lontano della stessa infanzia, quasi in un'altra esistenza! ... - Ah, il mio bambino! ... Ah, il mio caro bambino! - sospirava con le lagrime agli occhi, vedendo quel visino affilato di creaturina malaticcia che ella trovava sempre alla finestra dirimpetto, ogni volta che, terminato di suonare, s'affacciava a cercare con la faccia ardente la fresca impressione dell'aria aperta. Un giorno la bambina le sorrise. - Come stai, carina? - ella le domandò. E la tenerezza di mamma desolata le addolciva la voce. La bambina non rispose, e continuò a sorriderle timida. - Che fai lí? - Mi diverto a sentirla suonare. - Vieni qui, col permesso della tua mamma; suonerò a posta per te -. Non le era parso vero d'aver potuto attirarsela in casa. Fasciotti la trovò agitata, rimescolata, con quella magra creaturina seduta su le ginocchia, stretta tra le braccia, e che aveva negli occhi la meraviglia di tutte quelle carezze inattese. - Se tu sentissi che vocina! Pare un flauto - ella gli disse. - Cosí, con lei, non ti annoierai in questa settimana di mia lontananza. - Vai via? ... Per l'esame? - Questa sera, coll'ultimo treno. - Signor maggiore, buon viaggio! - Era anche allegra in quel momento. Ci voleva tanto poco per renderla quasi felice. Appena però gli lesse in viso il malumore per la presenza della bambina, non ebbe piú coraggio d'accarezzarla, di baciarla, e la mise a terra, con cuore soffocato. - Vo a casa - disse la bambina. Giustina non osò trattenerla; e l'accompagnò fino all'uscio, facendosi promettere piú volte che sarebbe tornata - Verrai tutti i giorni, è vero? - Se la mamma vorrà. - Perché non dee volere? - E riprese a baciarla, indugiando. Un dubbio la tenne su la corda: - Sospettava egli qualcosa? - Era partito evidentemente malcontento dell'insolita resistenza di lei la sera del commiato. E per calmarlo, per scancellargli la brutta impressione, per cacciargli di mente ogni sospetto, gli aveva scritto parecchie lettere lunghe, affettuosissime. - Mentiva forse scrivendogli cosí? No. Gli era grata di quella passione che pareva moltiplicasse la sua delicatezza e la sua forza nella crescente intimità della loro vita; e lo amava, sebbene in modo diverso, con grande slancio dell'anima ... Che poteva farci se il suo corpo resisteva? ... Ah, se ella avesse avuto un po' piú di coraggio! Se avesse potuto essere sincera e dirgli ... Come dirglielo? Era impossibile. Gli dovea questo gran sacrifizio, dopo che quegli per poco non le aveva sacrificato anche la vita. E quand'egli le rispose: "Tu m'ami meglio da lontano. Scherzi a parte, nelle tue lettere mi sembri un'altra. Strana creatura! Una frase, una sola frase di queste trovate ora, come tu dici, in fondo al cuore, pronunziata dalla tua bocca, mi avrebbe fatto salire ai sette cieli. Ed hai taciuto, cattiva! ... Mille baci sui ditini che hanno tenuto la penna"; quand'egli le rispose cosí, il foglio le cascò di mano, e il subito lentore dello scoramento la fece anche impallidire. - È suo marito che le scrive? Tornerà presto? - disse la bambina, raccattando il foglio. Essa trasalí, ammutolita. I signori Castrucci, andati a farle una visita di ringraziamento per le tante cortesie verso la loro bambina, l'avevano fatta trasalire allo stesso modo, due giorni avanti, domandandole: - Suo marito sta bene? - Grazie - ella aveva risposto. La signora Castrucci, che ciarlava volentieri, si era messa a compatire le povere mogli degli ufficiali: - Dev'essere una vitaccia! ... Ora qua, ora là, come gli zingari. Le spalline e la sciabola, sí, fanno un cert'effetto; ma un cantuccio di terra ben ferma sotto i piedi ... Suo marito è capitano? - Capitano -. E se la conversazione si fosse prolungata un tantino di piú, i Castrucci l'avrebbero vista tramortire a quel: "Suo marito, suo marito" che le andavano ripetendo con l'idea di farle cosa grata. Ah, la terribile logica d'un passo falso! ... Non era mai giunta a persuadersi come si potesse mentire ... ed anche quest'altra volta aveva dovuto, stando zitta, mentire! Sí, il vero marito ella non se lo sentiva piú solamente dentro la testa, ma nel sangue, nei nervi, in tutto il corpo, incancellabile marchio di possesso fino a quel punto non avvertito! E il ribrezzo, il terribile ribrezzo che ogni volta quasi l'annientava, era appunto la sorda protesta di quel possesso, il rifiorire di quel marchio. Lo comprendeva finalmente, ora che la sua ragione vedeva chiaro, ora che poteva misurare dalla profondità del proprio abisso l'altezza da cui era precipitata in un momento di p azzia. - Si sente male? - le domandò la bambina. Ella la prese tra le braccia, coprendola tutta di baci. Ah, quelle gotine magre e palliducce non erano le gote piene e rosee della sua creatura lontana! Voleva però illudersi, voleva stordirsi; voleva, soprattutto, vincere il terrore che già la invadeva all'annunzio del ritorno del maggiore che quella lettera aveva recato. E il martirio stava per ricominciare! La giornata era grigia, come l'anima sua; l'aria afosa e pesante. Piú tardi, l'umidore della pioggiolina - che gettava un gran velo cinericcio su la pianura, sui colli attorno, su le montagne lontane - la penetrava fino al midollo, le si mutava addosso in tedio spossante, in torpida oppressione. Tuttavia ella ritornava spesso a osservare il tempo dietro i vetri della finestra, e rimaneva là con gli occhi fissi, quasi con l'orecchio teso ad ascoltare il lontanissimo fischio della vaporiera che in quel moment o doveva forse montare su pei fianchi degli Appennini, divorando la strada, infilando le gallerie, spuntando gioiosamente all'aria aperta sull'orlo degli abissi e attraverso le fosche vallate, com'ella si rammentava d'averlo visto una volta, in un'altra giornata di pioggia, col sole che si affacciava di tanto in tanto dalle nuvole squarciate e faceva sorridere ogni cosa. E il treno correva, correva, serpeggiando, arrampicandosi; le parea proprio di vederlo. E vedeva anche lui, in un angolo di vagone, sdraia to, con gli occhi socchiusi, sorridente alle visioni della prossima felicità che gl'ingannavano l'impazienza dell'interminabile viaggio. Ma il cuore le rimaneva triste, quantunque il cielo già si rischiarasse al soffio del vento che spazzava le nuvole verso monte Morello e verso Pracchia, gettando incontro al treno che veniva a gran velocità - le pareva ancora di vederlo - quello sprazzo d'oro risplendente su la campagna lavata allora allora dalla pioggia. - Signora, c'è l'uomo coi fiori - disse Giulia sull'uscio. - Sono le cinque? Aveva ordinato quei fiori per le cinque di sera, e la giornata era trascorsa cosí rapidamente ch'ella ne provava stupore. - Il pranzo è per le sette e mezzo? - Sí. Giustina andava disponendo quei fiori un po' da per tutto, con arte gentile, scegliendoli dal gran canestro che Giulia le portava dietro. Giulia, di tratto in tratto, arrischiava qualche parola: - Il signor capitano ... il signor maggiore - ora bisogna dirgli cosí, è vero? - chi sa come sarà contento! ... Dovrà fare una bella figura a cavallo; andremo a vederlo a le riviste ... - Giustina non rispondeva, e spargeva sul tappeto gli ultimi fiori rimasti, lasciandoseli cader di mano lentamente, preoccupata. L'odore delle rose, dei ciclamini e dei giacinti tuberosi riempiva il salotto. - E il martirio stava per ricominciare! - Ogni minuto che passava era un precipitarsi verso il fatale momento dell'arrivo. Colui tornava piú innamorato, piú illuso di prima. Vi aveva contribuito ella medesima; vi contribuiva ancora, abbigliandosi come per una festa, scancellando dal suo volto ogni traccia di sofferenza, tentando di farsi una maschera per continuare ad illuderlo ... - Poiché questa illusione lo rende felice! ... Non sarebbe assai peggio se dovessimo soffrire tutti e due? - E lo guardava quasi contenta, quasi illusa nei primi momenti, lasciandosi baciare una mano in ringraziamento delle bellissime lettere lette e rilette, e imparate a memoria ... - E tutti questi fiori? - Non hanno nulla di guerresco - ella rispose. - Decorazione sbagliata. Dimenticavo la marcia! - Suonate però poche battute della marcia del Tannhäuser, si levò dal pianoforte. La musica la eccitava, e non ne aveva punto bisogno. - Raccontami, raccontami tutti i particolari dell'esame. - Chi se ne rammenta piú? E poi ... lascia andare!. - Irrequietamente Giustina si levava da sedere col pretesto d'aggiustare un mazzo di fiori, di moderare la fiamma d'un lume, di spostare senza un perché qualche gingillo; e tornava a sederglisi allato, ripetendo: - Raccontami, raccontami - con tremito della voce che si comunicava a quella di lui. - Che vuoi che ti racconti? La cosa piú bella, piú deliziosa del mio viaggio è stato - occorre dirlo? - il ritorno; sono questi momenti, sono questi ... Giustina tentava di schermirsi: - Può venire Giulia lascia andare -. Tenendola stretta stretta tra le braccia, egli intanto le ripeteva nell'orecchio una frase dell'ultima lettera: - E hai taciuto! ... Cattiva! - Bevevano il caffè. Seduto presso il tavolino, sorridendo, tra un sorso e l'altro, Fasciotti spingeva verso di lei boccatine di fumo, come altrettanti colpi d'incensiere: - Non sei il mio idolo? Giustina, in piedi, assaporando lentamente col cucchiaino la calda bevanda e aspirandone il profumo, lo ringraziava con accenni del capo e degli occhi, ridiventata seria in quell'intimità del salotto che l'ora tarda e il paralume rosso, a testa di gufo, rendevano piú raccolta del solito. Nel punto che Giustina posava la tazza, egli la prese per la mano - Vieni, siedi qui -. E le passava un braccio attorno alla vita e le teneva stretti i ginocchi sui suoi ginocchi. - Voglio sentirti accosto, cosí. Fino a due settimane addietro, nel venire quassú, facevo la strada simile a un sonnambulo, dubitando sempre che e tu e questa palazzina e questo salotto e la nostra vita di amanti non avessero a sfumarmi dinanzi con lo svanire d'un sogno durato apparentemente sette mesi e in realtà qualche minuto. E quando penso che c'è stato un tempo in cui tutto questo non poteva avere per me neppure la fluida apparenza d'un sogno! ... Ti vedevo di rado; tu mi evitavi. Se potevo passart i accanto e sentire il suono della tua voce ... Ricordi? ... Ricordi? Parlava sommesso, come in un soliloquio, tenendo gli occhi socchiusi fissi in un punto della parete dirimpetto, dove quelle visioni del passato gli apparivano e sparivano, dissolvendosi nella rapidità dello sfogo: - Ricordi? ... Ricordi? - E Giustina gli rispondeva di sí, di sí, con lieve movimento della testa abbassata, stringendosi forte le mani perché egli non avvertisse come il cuore le spasimasse all'incosciente crudeltà di quell'effusione che continuava a sfiorarle il collo, verso la nuca, riandando i terrori, i dolori degli ultimi mesi, quando la sicurezza dell'amante felice traballava davanti a un ostacolo impalpabile e invisibile - non se n'era accorta? - che gli pareva si frapponesse a un tratto fra loro e li tenesse divisi, in dist anza, a dispetto dei corpi che s'allacciavano, delle labbra che confondevano i respiri ... - Non te ne sei accorta? No? Terrori e dolori d'un secondo; non lasciavano traccia; ma cosí intensi!, cosí intensi! ... Se tu avessi parlato prima! In quelle tue lettere, sí, c'era il suono, c'era l'accento della tua voce. Se tu avessi parlato prima! ... Ci voleva la lontananza - non ti pare cosa strana? - per legarci piú intimamente. Oh! Io credo all'amore, sai? La sola sensazione non mi basta. Son rimasto un tantino collegiale, come mi canzonano i miei amici. Peggio per loro, se non sapranno mai que l che valgano questi divini momenti. Mi sembra che noi stiamo ricominciando da capo, quasi io avessi avuto finora soltanto metà di te ... Ed ora tutta, tutta, tutta! È vero? - Ella seguiva a dir di sí con la testa, macchinalmente, nell'indistinta percezione del suono di quella voce diventata mormorio sommesso di baci parlanti o di parole bacianti, non lo capiva bene; zufolio agli orecchi; rimescolamento di tutta la persona; gran male; dove? Nel cervello o nel cuore, non lo capiva bene egualmente. E non s'opponeva all'improvviso movimento con cui egli sollevatala su le braccia, la portava di là, in camera, delicatamente, quasi temesse di svegliare una persona addormentata. Respira va appena, nella estrema prostrazione della volontà e di tutte le forze vitali, sotto l'aggravarsi d'un incubo che le impediva di fare la minima resistenza all'irrequieto agitarsi delle dita che le sfibiavano il vestito, le tiravano le maniche e la spogliavano senza scosse, con perizia femminile ... Ma appena, nel levar via il busto, le dita le sfiorarono, per caso, le vive carni del seno, Giustina scattò in piedi, appuntandogli le braccia contro il petto, con gli occhi smarriti: - Per pietà, no! ... Per pietà! - E, nascondendo il viso tra le mani cadeva di fianco su la sponda del letto, scossa da un tremito violento, in singhiozzi: - Per pietà! - Ella sentí, per qualche istante, un respiro grosso e frequente, quasi rantolo soffocato; e si restrinse tutta, aspettando il terribile scoppio di quel furore d'amante. - Non vi accadrà piú, ve lo giuro! - disse una voce irriconoscibile. E Fasciotti fece per uscire. Giustina gli si gettò a traverso, delirante: - Emilio! ... Emilio! ... - Senza rispondere, egli tentava di svincolarsi da quelle mani che lo brancicavano e lo afferravano e tornavano a brancicarlo. - Emilio, siate generoso! ... Fatemi male quanto volete ... Ah! - Aveva dovuto gridare; quegli le stritolava le mani, senza avvedersene, dalla rabbia di sentirsi ridicolo, sul punto di piangere come un bambino, con gli occhi che vedevano una pioggia di fiammelle attorno, e il cuore che gli scoppiava. Fu un baleno. - Perdonatemi ... il torto è mio. Entrate in letto ... vi ammalerete ... Te ne prego, entra in letto - soggiunse con l'apparenza d'un sorriso. Le ravviava le coperte, le aggiustava i guanciali sotto il capo: - Il torto è mio ... Avrei dovuto avvedermene -. E si buttò su la seggiola a piè del letto, molle d'un sudorino ghiaccio, quasi il rovescione che in quel punto riprendeva a sbattere furiosamente su i vetri della finestra lo avesse inzuppato da capo a piedi. La pioggia continuava, fra gli urli del vento che pareva si raggirasse attorno alla palazzina per sradicarla dalle fondamenta. Che gliene sarebbe importato? Un piú orrendo colpo aveva distrutto in un istante il superbo edificio della sua felicità ... e per sempre. Giustina non osava guardarlo, né rivolgergli la parola, cosí sbalordita dell'accaduto da non accorgersi ch'egli stava là, rattrappito su la seggiola, da piú d'un'ora, e non poteva passare la nottata a quel modo. Non se n'accorgea neppure lui. Finalmente si rizzò, scuotendo il capo, strizzando gli occhi; e visto che Giustina si levava anche lei e si metteva a sedere sul letto tenendogli le mani in atto supplichevole, le disse con voce alquanto calma: - Vado di là, un momentino. - Perché? - Ho bisogno d'aria ... - Aprite pure quella finestra ... Emilio, siate generoso! - ella ripeté, alla mossa di risposta sfuggitagli suo malgrado. - Oh, non dubitate! ... So il mio dovere -. Tornato a sedersi, con le braccia sui ginocchi, le mani intrecciate, curvo, abbattuto dall'incredibile disinganno, egli ruminava - Perché dunque è venuta da me? ... "M'accusano d'essere la vostra amante, e sia! ..." Chi l'ha forzata? Non lo sapeva forse che non avrebbe potuto amarmi? - Giustina, tenendo la faccia tra le palme, riprendeva a singhiozzare - Che ho mai fatto! ... Che ho mai fatto! - La pietà di lui, il terrore delle conseguenze di quella rottura - rottura irrimediabile, non poteva illudersi, con quel carattere - la inchiodavano lí, raggomitolata, quasi il mondo stesse per crollare ed ella attendesse di minuto in minuto il crollo finale: - Che ho mai fatto! - La pioggia sbatteva furiosa su i vetri, il vento urlava e fischiava. - Quanto mi ero ingannata! È stato assai piú generoso ch'io non osassi sperare -. E quei mesi d'autunno le parvero un paradiso, con le tiepide giornate, gli splendidi tramonti, le belle serate che in quel posto, tra la campagna e la città, le producevano una soave sensazione di pace e di benessere in armonia con la pace e il benessere della sua vita, ora ch'egli continuava a visitarla non piú da amante ma da amico, e come se niente di nuovo fosse avvenuto tra loro. Lo avrebbe voluto, è vero, un po' meno serio, un po' meno freddo; si vedeva, forse, in quella sua indifferenza un tantino d' ostentazione, una lieve ombra di vendetta ... - Ma, povero cuore!, deve costargli un gran sacrifizio mantenere le apparenze. Gli son grata infinitamente di questo contegno. Neppure Giulia, ch'è in casa, s'è accorta di nulla -. Ella si sentiva felice di poterlo amare a quel modo, come avrebbe voluto amarlo anche prima, come avrebbe voluto essere amata anche prima. - Ma allora, Dio mio, non poteva essere! Mi ero illusa io pure, un istante -. Ora respirava a pieni polmoni la libertà del proprio corpo in cui tutto era stato scancellato dalla purificazione del gran pianto. Delle atroci sofferenze dei mesi scorsi le rimaneva un'idea lontana, incerta, simile a ricordo di cattivo sogno; e in quanto all'avvenire, oh!, viveva perfettamente rassicurata. Ne aveva avuto parecchie prove. Una sera, verso le dieci e mezzo, appena i Castrucci erano andati via con la bambina che cascava dal sonno, Fasciotti, acceso un sigaro, s'era messo a leggere il "Fanfulla", senza dire una parola, senza voltarsi un momento verso di lei che lavorava con l'uncinetto nervosamente, a testa bassa, nell'ansia angosciosa d'un'apprensione ... - Assurda, ne conveniva. Ma ... che voleva egli insomma? Aveva già letto, da cima a fondo, il giornale; e intanto restava là, col sigaro spento tra le labbra, muto, mezzo imbroncito! - L'orologio a pendolo, dalla mensola del caminetto, suonò le undici e tre quarti. Fasciotti si scosse. Giustina, vistogli posare il giornale, riaccendere il sigaro e lisciarsi i baffi, aspettava, impaziente, ch'egli parlasse. Dopo quella trista nottata, non erano mai rimasti cosí a lungo da solo a solo. Convinti tutti e due dell'inutilità e del pericolo d'una spiegazione qualunque, in quelle prime settimane l'avevano prudentemente evitata ... - Ora, forse? ... - Agitatissima, Giustina stava per lasciarsi scappare una domanda trattenuta a stento su la punta della lingua da un quarto d'ora, quand'egli la prevenne: - Se volete andare a letto ... Io resterò qui un altro poco ... per Giulia, capite? Mandate a letto anche lei. Uscirò senza far rumore. È meglio che nessuno sappia ... Giulia sopra tutti. - Come vi piace. Buona notte -. Giustina, improvvisamente commossa, non aveva saputo rispondere altro, stendendogli la mano. - Buona notte -. E Fasciotti gliela strinse leggermente. Ma un'altra volta egli avea fatto di piú. Andata a letto per non contraddirlo, Giustina non poteva chiuder occhio, aspettando di sentirlo partire. Quell'incredibile prova di delicatezza e di riguardo le produceva una specie di contrazione alla bocca dello stomaco ... - Fino a che ora rimarrà in salotto? - Alle due era ancora là. Ella però non osava muoversi, temendo appunto che in quella circostanza, contro ogni proponimento, una parola non li trascinasse alla dolorosa spiegazione evitata. Quante ore erano passate? Non lo sapeva precisamente. S'era forse appisolata; non aveva inteso nessun rumore all'uscio di casa né al portone. E trepidante era saltata giú dal letto per accertarsi, con cautela, se c'era lume in salotto. E che respirone a quel silenzio e a quel buio! La mattina dopo, molto tardi, Giulia le domandava: - Signora, si sente male? - No, perché? - Il signor maggiore, prendendo il caffè, mi ha raccomandato d'aspettare che lei avesse sonato. - Ah! ... Gli occhi, tutt'a a un tratto, le si erano ripieni di lagrime. Dimenticava però ogni cosa per la beata certezza di sapersi amata tuttavia. Le apparenze non potevano ingannarla. E, in ricambio, il suo cuore gli si dava tutto, senza restrizioni, pieno di confidenza nelle promesse che leggevagli in viso vedendolo diventare di giorno in giorno meno riserbato, meno freddo, vedendogli smettere a poco a poco quell'aria diffidente e guardinga contro di lei e di se stesso, che aveva reso cosí penose le prime settimane della crisi; allora pareva che l'amico non potesse punto ada ttarsi a sostituire l'amante, e che sul capo di tutti e due pendesse la minaccia di crisi peggiore. La sua vita aveva già ripreso il tranquillo andamento d'una volta. Poco, quasi nulla le mancava per sentirsi nuovamente cullata nella lieta pace domestica, per tornare a rannicchiarsi nell'ingenuo egoismo d'indolente felice. Se lo rimproverava in certi momenti. Quella bambina malaticcia, ma buona e intelligente, che veniva a tenerle compagnia da mattina a sera e ch'ella conduceva attorno nelle frequenti corse per le gallerie, pei musei, pei negozi e nelle passeggiate alle Cascine, al giardino di Boboli, o lungo il Viale dei Colli, non usurpava lentamente l'affetto materno, a danno della creatura delle sue viscere ... alla quale forse avevano fatto credere che la mamma era morta? E le teneva un po' di broncio, per qualche ora, per mezza giornata, broncio di cui la bambina non s'accorgeva. - Oh, Dio! ... Come difendersi da quel naturale sentimento d'egoismo, ora che poteva finalmente riposarsi dopo tanti atroci dolori? Ora che almeno, a intervalli, le riusciva di sopire dentro di sé ogni ricordo del passato? - Quella pace interiore le fioriva fuori, sul volto, in piú sorridente vivacità degli occhi, in piú facile zampillo della parola che riprendeva la gentile festività nelle conversazioni serali, quando Fasciotti veniva lassú accompagnato da due o tre ufficiali del suo reggimento, ed ella - dopo il the - cedeva di buona voglia all'invito di suonare qualche pezzo della solita musica indiavolata, come diceva il tenente Gusmano che in fatto di musica capiva soltanto quella del suo compatriotta Bellini: - Il Dio della musica! ... E Dio ce n'è uno solo! - Les dieux s'en vont - gli rispondeva Giustina, ridendo. E per fargli dispetto si metteva a strapazzare un'aria della Norma, o una cavatina della Sonnambula: - Tralalalliero, tralalalà! - Né finiva il pezzo, ma attaccava subito, vigorosamente, la sinfonia del Vascello fantasma, un coro del Lohengrin, o qualcosa di simile. - Bum! Bum! Bum! Bum! - replicava Gusmano - È musica questa? - E Fasciotti rideva insieme con altri, dando ragione alla signora. Rovistando le carte di musica, il tenente Gusmano avea tirato fuori quella fatale sonata del Berlioz che rimaneva da un pezzo sepolta sotto un mucchio di fascicoli. - Ah! La signora ci nasconde le sonate. Berlioz ... È un tedesco? - domandò Gusmano - No? Dunque questa dev'essere una cosa assai bella. La signora, per gastigo, viene pregata di sonarla -. Gli occhi di lei s'erano subito rivolti verso Fasciotti, indecisi. - Sí, Giustina, suonatela - egli disse con un che d'ironia. - Vo' persuadermi se gli effetti di questa sonata non provengano, in gran parte, dallo stato dell'animo di chi la sente. Rischio di perdere qualche illusione. - Allora, no! - ella rispose. - Dunque non m'ama piú! ... Soltanto per pietosa generosità di gentiluomo egli fa il sacrifizio di continuare a venire da me. Sí, sí; lo vorrei detto piú chiaramente? ... Non m'ama piú! Non mi ama piú! Sul primo aveva sentito una leggera mortificazione d'amor proprio, lieve puntura di spillo al cuore, graffiatura a fior di pelle; nella nottata però non poté conciliar sonno, irrequieta sotto le coperte, con stupore e sbalordimento che aumentavano di mano in mano: - Non m'ama piú? - Le pareva impossibile. Fra le tante supposizioni fatte, il caso che Fasciotti potesse cessare d'amarla non le era mai passato per la mente. Doveva discutere un'assurdità? Lo stimava tale. - Infine, che deve importartene? - si diceva da sé. - Non è anzi meglio? - Non ne restava convinta. Si sentiva già venir meno la piú valida forza che le rendeva tollerabile quella vita d'isolamento e di sacrifizio a cui s'era volontariamente condannata. La sua pace, la sua tranquillità, dopo tante lagrime e tanti strazi, stavan per essere nuovamente distrutte? ... - E se m'abbandona col cuore, col piú terribile degli abbandoni, che sarà di me? - Tortura di nuovo genere. Come rifiatare? Come lagnarsi di lui? ... Quella settimana le parve un secolo. Ogni parola, ogni gesto di Fasciotti serviva a rischiararle, a confermarle la crudele certezza della scoperta. L'orgoglioso ritegno non le aveva impedito di mostrarsi piú cordiale del consueto con lui, d'umiliarsegli dinanzi con sfoggio di sottintesi imploranti misericordia. - Sentite - aveva osato poi dirgli - questa vostra affezione d'amico è l'unico soffio che mi tiene in vita. Se venisse a mancarmi ... - Che fareste? - Non lo so -. Fasciotti, guardatala un momentino attentamente, colpito della insolita stranezza di quell'accento, aveva soggiunto - Non vi è venuta meno finora. Il mio dovere ... - Disgraziatamente il cuore umano non conosce doveri. E poi, non si tratta di doveri. - Me lo dite voi? - Giustina non aggiunse parola. Credeva aver detto troppo; avea capito anche troppo. E appena fu sola, pianse. - Non m'ama piú! ... Ma perché non m'ama piú? Perché? A questo grido del cuore che le parve uscisse dalla bocca d'un'altra persona nascosta dentro di sé, rimase come fulminata. - Come? ... Lui mi tradisce cosí? Lui! ... E perché non mi ama piú? Perché? - Un atroce dolore alla nuca e alle tempie la distese per tutta la giornata sul canapè della camera e ve la tenne inchiodata fino a tardi. Giulia, sentendola lamentare, era entrata piú volte, domandando - Signora, debbo chiamare il dottore? - No. - Che si sente, signora? - Qualcosa qui ... Non è nulla -. E, all'arrivo di Fasciotti, trovò tanta forza da levarsi, da nascondergli il gran male che le spaccava la testa. - Dunque andrete a Pisa? - Per un'ispezione; due, tre giorni. - Mi scriverete? - La mia lettera arriverebbe insieme con me. Ella girava gli occhi attorno, con aria insospettita, cercando, annusando l'aria ... - Questo profumo ... L'avete addosso voi? - Io? - ... Mi va al capo, mi stordisce. Sí, l'avete addosso voi. - Ah, è vero! - egli rispose, ridendo con qualche impaccio. - Per fortuna non siete nel caso di diventare gelosa. - Oh, no ... per fortuna! - balbettò Giustina, pallidissima. - Vi fa proprio male? - Sí, molto! - Allora vado via; scusatemi. - A rivederci -. Si sentiva morire. Due giorni di stupore e di delirio, sotto il tremendo colpo della meningite. Giulia, atterrita, aveva telegrafato a Pisa: "La signora è in pericolo di morte." Fasciotti, credendo quel telegramma esagerazione di cameriera affezionata, non s'era affrettato ad accorrere. Non tornava il giorno dopo? La signora Castrucci, però, capita, dal continuo vaniloquio dell'ammalata, la vera condizione di Giustina, aveva detto a Giulia: - Bisogna telegrafare anche al marito e alla famiglia di lei. Non vorranno mica lasciarla morire abbandonata cosí -. Fu telegrafato. Nessuno rispose. La poverina, con la faccia congestionata, le labbra tumide e pavonazze, sfigurita, aveva appena forza di balbettare delirando: - Enrico! ..., Te lo ... giuro! Babbo! ... Sono innocente! ... Credimi almeno tu ... tu solo! ... - La suora di Carità, in piedi presso il capezzale, le passava spessissimo un po' di ghiaccio su le labbra infocate, poi rimaneva immobile, con le mani dentro le larghe maniche dell'abito grigio, mormorando preghiere. Sollevata una mano gonfia e contratta, Giustina cominciò ad accennare, quasi chiamasse qualcuno che credeva di vedere a piè del letto: - Enrico! ... Enrico! ... - Ah, il torto è tutto di suo marito! - disse Giulia alla suora che a quel nome aveva abbassato gli occhi. Giustina rantolava, continuando sempre ad accennare a piè del letto con la mano gonfia e contratta: - Enrico! ... Perdonami! ... En ... rico! ... - Povera signora! ... Se avesse saputo che, quando gli uomini non perdonano, c'è sempre Dio che perdona! - disse la suora. E inginocchiatasi, a mani giunte, cominciò a recitare: - De profundis! ... - Mineo, 25@ 25 marzo 1885@. 1885.

Racconti 2

662713
Capuana, Luigi 2 occorrenze
  • 1894
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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"Abbandona costei alla sua sorte!" "No!" Era geloso che altri potesse possederla. E, un giorno, mi condusse a casa sua. Non ho mai assistito a spettacolo piú spaventevole e piú triste. La bella creatura era già ridotta di nuovo forma vaporosa, evanescente. Tutte le supreme angosce dell'agonia ne scomponevano il bellissimo viso; gli occhi smorti nuotavano già nell'ultimo sonno, sotto l'influsso di un potere omicida altrettanto forte quanto quello che l'aveva evocata alla vita. Enrico Strizzi - entrato in un convento di frati trappisti - vi medita ancora, nel silenzio, la vanità della scienza e attende, espiando, la morte!

Forse ella si abbandona a lui, follemente! O, forse lo fa soffrire al pari di me, assaporando il maligno godimento della sua potenza di nuocere ... !" Suonai violentemente. Il campanello ondulò a lungo per l'andito, mentre io mi pentivo di essermi annunziato a quel modo; e il ritardo del servitore che doveva venir ad aprire mi faceva imaginare che ella avesse ordinato di fingere che nessuno era in casa. Invece ella mi accolse con aria lieta. "Oh! ... E venite qui cosí fosco?" "L'unico mezzo di farmi accorrere raggiante di felicità, voi lo sapete, è in mano vostra". "Non posso adoperarlo. Una fatalità mi perseguita ... " "Siete voi, voi, la terribile fatalità!" "È vero! E non so piú attristarmene, né commovermene. Contro l'ineluttabile non si combatte". La sua fisonomia aveva mutato espressione; la qual cosa mi faceva pensare che l'aria lieta con cui ella mi aveva accolto non fosse stata sincera. "Eravate ... sola?" "Sola ... coi miei pensieri, come dicono i personaggi di certi drammi". Voleva riapparir gaia ... E anche questo mi mise in sospetto. Guardavo attorno, se mai scoprissi nel salotto un indizio di disordine, nelle seggiole, nelle poltrone, non potuto riparare per la fretta ... Niente! "Che cercate con quegli occhi gelosi? Il vostro preteso rivale?" E, dopo una breve pausa, soggiunse: "Si è ucciso ieri; per me, ha lasciato scritto. Che pazzia! ... Voi non ne commettereste una simile ... " "Forse! ... " risposi cupamente. E la lasciai. Mi era parsa coperta dal sangue del misero che si era ucciso per lei. E non aveva nell'accento nessun fremito di compassione! Non una lagrima negli occhi azzurri limpidi, impassibili! Che terribile creatura era ella dunque? Aveva bisogno di sangue umano per le sue orrende incantagioni? "Forse!" mi era sfuggito. Ma sentivo che mi spingeva furiosamente verso l'abisso, verso la morte. Chi sa di quanti altri disastri era colpevole! ... Ed io non volevo morire! Amarla, possederla volevo, sentirla tremare sotto la forza della mia volontà, domarla ... annullarla, volevo! Annullarla! Per parecchi giorni fui sotto l'ossessione di questa idea! Vendicare gli altri e me, impedirle di esercitare sopra nuove innocenti creature la sua malefica influenza! Nello stesso tempo, mi sembrava di compire un gran sacrilegio attentando soltanto col pensiero alla sua perfetta bellezza. Chi ero io da pretendere di essere riamato da lei? Non era anche troppo ch'ella mi avesse permesso di continuare ad amarla e di ripeterglielo quante volte mi fosse piaciuto? "Può arrivare un giorno, un momento! ... " Non significava: "Sperate?" Cercai nei giornali la notizia di quel suicidio; nessuno ne faceva cenno. Aveva ella mentito? ... Riflettei che non mi aveva detto che colui si fosse ammazzato a Firenze o in qualche altra città italiana. Era tornato, probabilmente a Pietroburgo, lusingandosi di sfuggire al letale potere di lei ... Ma inutilmente! Ella aveva reciso il filo di quella vita come una inesorabile parca, da lontano! ... Neppure io avrei potuto evitarla, se tardavo ancora, se non mi decidevo ... E mi decisi, una no tte, dopo lungo dibattermi tra le smanie dell'insonnia e della passione che piú non distinguevo se fosse amore o odio, o l'uno e l'altro insieme. E mi immersi subito in un sonno cosí profondo da impensierire le persone dell'albergo. Quando risolsero di accertarsi se stavo male, erano le due pomeridiane. Mi sentivo calmo, e non me ne maravigliavo. Il mio primo pensiero, appena scosso dalla voce del cameriere, era stato: "Annullarla!" Certamente il mio spirito aveva continuato durante il sonno l'intenso lavorio della giornata precedente, e aveva maturato e rafforzato la mia decisione. Io non so qual uso voi farete della rivelazione che sto per farvi. Se la vostra professione di dottore v'impone dei doveri, adempiteli senza esitare. Ho preveduto questo caso. Qualunque cosa sia per accadere, non potrà mai raggiungere quel che dovrei continuare a soffrire tacendo ... Notate: ho la visione netta, evidentissima della terribile scena, come se fosse accaduta poche ore fa. Ciò non ostante ... Oh! È spaventevole, dottore! Aveva ella qualche tristo presentimento? Non si sedette accanto a me al solito posto, ma dietro al tavolino con la scusa di accendere una sigaretta. Io rifiutai quella che mi era stata offerta, sottilissima, troppo profumata pel mio gusto. "Non dite nulla? Che guardate? Questo spillone?" "Sembra un pugnaletto". "È un ornamento femminile di certe regioni del Caucaso." "D'argento?" "Di acciaio, e ben temprato". Tirò due o tre boccate di fumo, socchiudendo gli occhi deliziata, poi soggiunse: "Vi do una notizia che vi farà gran piacere". "Finalmente!" "Non quella che voi imaginate. Parto". Balzai in piedi, sbarrando gli occhi. "Non è vero!" balbettai. "Poiché ve lo dico!" "E io? ... " Ogni possibilità mi era passata per la mente all'infuori di questa ch'ella partisse, che si sottraesse cosí alla mia vendetta! ... Credetti che me lo annunziasse quasi ad irrisione, per sfida, mentre io non avrei potuto mai levarmi di addosso il funesto dominio del suo filtro, del suo misterioso potere, che forse avrebbe operato piú terribilmente da lontano ... Infatti, se ella mi avesse detto in quel momento, invece di: "Parto!" "Domani non spunterà piú il sole, tutto rimarrà sepolto in tenebra ete rna! ... " anche credendole, ne sarei stato assai meno atterrito. "E io? Io? ... " replicai. "Che volete che ne sappia? Farete quel che vi piacerà ... Mi dimenticherete, innanzi tutto". "Fatemi prima dimenticare! Datemi qualche vostra magica bevanda di oblio!" "Si dimentica cosí facilmente!" "Non quando si ama come io vi amo! Neppure in questo momento mi credete? E mi vedete agonizzare!" Parlavo a stento, ansavo; sentivo gorgogliarmi nel petto un rantolo di morte; gli occhi mi si erano annebbiati, un lentore mi invadeva. Dovetti appoggiarmi al tavolinetto per non cadere. "Ho visto uno dei vostri grandi attori fare qualche cosa di simile. Siete inarrivabili voialtri italiani nella espressione di certi stati d'animo". Era come dirmi: "Commediante!" Afferrai lo spillone, lo brandii minacciosamente. "Bravo! - esclamò - Ferite!" E si rizzò e mi offerse il seno coperto di trine. Ebbi la forza di sorridere, di rispondere con profonda dissimulazione "Sapete bene che non posso! ... Ah, Kitty!" "Non mi amate fino al delitto? Misero amore, il vostro!" Mi provocava, mi aizzava ... Era proprio sicura che non avrei potuto colpirla? Con una mano si tolse la sigaretta di bocca, esalò lentamente con voluttuosissimo godimento il fumo dalle labbra ristrette e dalle rosee narici, e aperse le braccia, ripetendo: "Ferite!" "Sí, è vero - dissi -. Se vi amassi in modo estremo ... " Mi accostai, scartai con una mano la trina, appuntai lo spillone in direzione del cuore ... " ... farei ... cosí!" Lo spillone era penetrato senza nessuna resistenza fino alla capocchia ... Non diè un grido ... Travolse gli occhi e mi si rovesciò addosso, con un lieve sussulto per tutto il corpo. Che cosa io abbia fatto dopo non so. Ricordo soltanto che passai la nottata presso San Domenico su la strada di Fiesole, seduto su un muricciolo, e che la luna inondava la campagna col suo pieno lume sereno, e che i grilli zirlavano? tra le erbe dei prati attorno e che un cane abbaiava, a intervalli, lontano. Ricordo che, a giorno alto, tornai a Firenze e che dovetti mettermi a letto con la febbre ... Volli leggere i giornali ... E vidi con stupore che nessuno di essi parlava dell'assassinio della bella signora russa in via Enrico Poggi. Tre giorni dopo, non interamente guarito, mi levai da letto, e mi feci condurre colà da un fiacchere, senza dare indicazione precisa ... La via era silenziosa, come al solito; tutti i portoncini chiusi; tutte le persiane delle finestre o chiuse o socchiuse ... Ne ssun indizio che in quella via, in quella nota casa fosse avvenuta qualche cosa di straordinario. Sapevo che gli assassini sentono una irresistibile attrazione verso i luoghi dov'essi hanno commesso un delitto, e pensavo: "È vero! È vero!" giacché un vivo impulso mi dominava, un'imperativo suggerimento mi diceva: "Scendi dal legno! ... Domanda a qualcuno ... Saprai!" E il terrore che mi invadeva non era quello di ottenere la certezza del mio delitto, ma l'opposto. Suonai replicatamente al portoncino. Nessuno venne ad aprirmi. Una donna che usciva dalla casa accanto si fermò a guardarmi esitante, poi mi disse: "Sa? Non c'è nessuno". "Abitava qui ... una signora ... " "È partita, da un pezzo. L'appartamento è sfitto". "Da un pezzo?" domandai stupito. "Eh! Da tre settimane, almeno". Mi sentii dare un tuffo al sangue ... E da quell'istante ho questo cerchio, qui, attorno alla fronte, e questi chiodi confitti nelle tempie ... Com'era possibile! Non l'avevo uccisa giorni addietro? Partita da tre settimane! ... O dunque? In che modo io sono vissuto questi ultimi due mesi? In che modo tutto quel che vi ho narrato si è andato formando nella mia mente con la suprema evidenza della realtà? Io la ho vista ... le ho parlato, ho udito la sua voce. È certo che ella abitava colà, in quel villino di via Enrico Poggi. È certo che io sono stato piú volte in quel salottino azzurro ... Visitai la casa, col pretesto di prenderla in a ffitto ... Non c'erano piú i mobili, niente; le nude pareti ... E c'era tuttavia il suo profumo, il profumo acutissimo di quelle sue sigarette ... Se non fossi stato colà altre volte, avrei potuto riconoscerlo? Il guasto è qui, nel mio cervello ... Dottore, liberatemi da questo cerchio alla fronte! ... Strappatemi questi chiodi dalle tempie! ... Non voglio impazzire! ... È orribile! ... Se non è morta, se ha potuto sopravvivere al colpo dello spillone conficcatole nel seno ... è lei, la maga, che continua a tormentarmi! ... Non crollate la testa ... È lei! ... Che male le ho fatto? L'amavo! ... Oh! Immensamente! ...

Milano in ombra - Abissi Plebi

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Corio, Ludovico 2 occorrenze

Abbandonato a sè nella solitaria cella (nota Carlo Cattaneo), a prima giunta per lo più si abbandona al furore, agita pensieri di vendetta, e sfoga la sua rabbia in maledizioni. Ma alla violenza succede l'esaurimento e la stanchezza; il silenzio che segue ai vani suoi clamori, a poco a poco gli fa intendere quanto siano infruttuosi e insensati; egli vede tutta la sua impotenza e la sua nullità in faccia alla legge che senza percosse, senza catene, senza insulti, con mano invisibile lo assedia e lo stringe. L'idea della sua colpa, ch'egli fuggiva, ch'egli sommergeva nel tumulto della vita e delle passioni gli s'affaccia da ogni parte, e a poco a poco si allarga nel suo pensiero, e dilegua tutte le vanità che lo ingombravano. Tra il rimorso e l'impazienza e il tedio, per sottrarsi agli odiosi pensieri e dissiparsi pure in qualunque modo che gli è possibile, egli afferra rabbiosamente la proposta d'un qualsiasi lavoro. Ben pochi hanno la forza di resistere a quattro o tutt'al più ad otto giorni di forzata inazione. E lavoro non viene inflitto come un supplicio, nè imposto col bastone o colla fame; ma vien concesso come un'indulgenza, come un ristoro, che solo può rendere sopportabile quella noiosa vita. La disciplina non è sollecita di comandarlo: essa aspetta tranquilla il prigioniero, ben certa che tosto o tardi s'arrenderà. I signori De Tocqueville e De Beaumont dicono: Visitando il Penitenziale di Filadelfia ci siamo trattenuti con tutti i singoli carcerati; nessun d'essi che non parlasse del lavoro quasi con riconoscenza e non palesasse la persuasione, che, senza il conforto di una continua occupazione, non avrebbe potuto resistere al peso della vita. Che avverrebbe del prigioniero nelle lunghe ore di solitudine, se, senza questo rifugio, fosse lasciato a' suoi rimorsi, ed ai terrori della sua mente? Il lavoro dà interesse alla solinga cella; affatica il corpo ma conforta la mente. È singolare che costoro, giunti al delitto per la via della dissipazione e dell'ozio, siano ridotti ad abbracciare come unica loro consolazione la fatica; e costretti a sentire tutto il peso dell'ozio, imparino ad aborrire quella primiera causa d'ogni loro calamità. Il confronto tra il lavoro e l'inazione ha tanta forza, che molti di quei meschini dissero, che la domenica era per loro insopportabilmente lunga e che non avrebbero potuto vivere senza lavoro. Questo bisogno si palesa in tal modo, che non avvenne mai di doverlo imporre colla forza. Il condannato, intento al suo lavoro, respira dal tedio, dalla oppressiva idea della passata vita, e con ardor quasi puerile non ha per qualche tempo altro oggetto alla sua mente; e vi si dedica con solerzia e con amore, perchè gli è una difesa dai pensieri che gli rodono l' anima. L'imperturbato raccoglimento e la dura necessità gli aprono la mente ad imparare; l'istruttore, che viene a interrompere la sua solitudine con modi placidi e caritatevoli non può a lungo riuscirgli sospetto ed odioso. Le parole che questi prudentemente lascia cadere tratto, rammentate poi nel silenzio, quando l'uniformità del lavoro lascia errar la mente, penetrano l'anima più rozza e selvaggia. La profonda monotonia della cella dà peso e consistenza ad ogni giusto pensiero che fortuitamente si svegli. E una volta che il prigioniero ha potuto rivolgersi sopra di sè, il lavoro non arresta più la sua riflessione. E spesso, una repentina visita lo sorprese immobile sul suo lavoro, tutto chiuso nel profondo della sua memoria, pensando forse alla carriera perduta, alla casa, ai congiunti, ai genitori afflitti e disonorati, alla moglie, ai bambini lasciati nell'abbandono e nell' abbiezione. I più sciagurati che non hanno affetti, che sono intrisi di sangue, che nulla hanno in cuore che non sia tristo e perverso, nella mollezza di quella vita reclusa, tra il lungo silenzio e le parole caritatevoli, e la coscienza che ricalcitra e si spaventa, a poco a poco sentono venir meno l'antica ferocia. E non v'è a lato del prigioniero alcun essere malvagio, che ostenti una atroce indifferenza, o lo guardi con ironia, e con osceni e atroci scherni rimescoli la feccia delle sue passioni. Tutto ciò che lo circonda gli rammenta il suo delitto. Non v'è intorno a lui nemmeno il fremito d'un' industria comune, nè l'affacendata disciplina d'un carcere popoloso: il rumore stesso delle battiture e delle catene gli risonerebbe gradito in quella vita di sepolcro. Il lavoro delle sue mani gli allevia bensì il tedio e il rimorso e lo rattiene sull'orlo dell'avvilimento, e della disperazione; ma non basta a dividerlo affatto dai suoi pensieri e fermare la corsa fatale che lo trascina verso il pentimento. Nel silenzio degli uomini e nel senno delle passioni, i consigli tante volte derisi, le parole che sembravano non aver toccata la sua memoria, i terrori religiosi, tutte le imagini e tutte le rimembranze del bene e del male, risorgono innanzi alla colpevole coscienza, e si fanno ogni giorno più potenti e irresistibili. Tutte le illusioni sono sparite; in faccia a una triste e severa realtà, nel profondo d'un silenzio di morte, dove nessuno lo vede e lo ascolta, una sola parola viva gli suona all'orecchio, ed è una parola di verità, che va dritta e irresistibile al secreto della sua coscienza. Il momento giunge alfine, in cui l'anima già nauseata dell'ozio, si nausea pure della durezza e dell'importanza, e si sente in balia d'insolite emozioni. Allora le alte verità della morale, insinuate con religioso affetto, possono ritemprare e rifondere l'anima più ostinata; i sentimenti dei pentito sono come un metallo squagliato, che scorre dovunque un'arte salutare lo guida. Chi passò per una siffatta prova, potrà, ritornato alla vita libera, precipitarsi in nuovi traviamenti; ma porta nel cuore una tale debolezza, che il solo nome del carcer basta a fermarlo ed avvilirlo in mezzo all'ebbrezza del delitto. La fiera domata non è più la fiera selvatica. E quella stessa potenza che arresta le ricadute nel liberato, annunciata e divulgata da loro alla moltitudine dei malvagi, potrà render terribile anche l'idea d'una prima colpa e formidabile la minaccia della legge. La prigione non sarà più per essa un piccolo mondo, dove se vi sono i dolori della reclusione e dei flagelli, vi sono anche i piaceri della compagnevole fratellanza e le distrazioni d'una disciplina spettacolosa; il carcere solitario è più disgustoso e amaro per essi, quanto più assidua e profonda è la sua calma. Pur troppo le incompiute riforme che introdusse nel carcere la moderna umanità, avevano tolto a questo unico strumento di pena ogni terrore. Il malvagio scioperato vi trovava ricovero e letto, e pane certo, e lavoro mite, e compagnia quale egli poteva desiderarla: e a molti onesti operai carichi di famiglia, a molti giornalieri scalzi e famelici in mezzo ad ubertose campagne, il soggiorno del carcere era pur troppo una seduzione. Ma posto il regime d'un severa segregazione quand'anche la cella sia spaziosa, netta, chiara, ventilata, riscaldata, provvista di tutto ciò che un modesto vivere richiede, il vero malfattore preferirà sempre il lezzo e il disagio d'un sotterraneo, il pavimento nudo, la catena, il bastone, poichè tutte queste cose non giungono a domargli l'animo, e gli lasciano il tranquillo possesso della sua scelleratezza. Quando le antiche leggi inventavano con atroce poesia ogni modo di strazii pel corpo umano, ommettevano, senza curarlo, un tormento più squisito e potente, che piomba con tutto il peso sull'animo. La solitaria riflessione, la quale allora si apprezzava così poco, che a richiesta d'un tutore impaziente o d'un padre iracondo, si applicava a' giovinetti svogliati o loquaci, si palesò una pena di tale intensità, che alcuni già la gridano soverchia a qualsiasi più nero misfatto e sproporzionato alle forze dell'umana ragione. Gli antichi avevano insegnato che il silenzio è fomite di sapienza e di virtù; ma non si sapeva che fosse un terribile punitore del delitto. Una filosofia severa che trae tutto dalla riflessione, trovò anche nella riflessione la forza penale, e con una vasta esperienza accertò la profonda sua induzione. Sdegnando il corpo del malfattore lasciandogli pure tutti gli agi della vita materiale, essa assale di fronte l'anima sua, la sua coscienza, il principio della vita. Il patibolo con tutto il sanguinoso suo fasto si spiritualizza nel silenzio della cella. Il mero dolore animale non è più la suprema difesa di una società minacciata e vessata, ma un dolore, ch'è tutto dell'uomo, anzi tutto dell'anima, una pena sociale per eccellenza, perchè consiste nel negare le dolcezze del consorzio sociale a coloro che ne turbarono la pace. Eppure in mezzo ad una irresistibile efficacia, questa pena così temuta dal malvagio non offende per nulla i diritti dell'umanità; essa non accorre ad ogni istante col ferro e col fuoco, nè contrista di dolorose strida, nè contamina di sangue la città. I custodi, sicuri di sè, non feroci, nè sospettosi, possono mostrar sempre tutti la calma e la dolcezza; il cordoglio, che abbatte il prigioniero, viene tutto dalla legge, non inasprito dalla loro collera, nè aggravato dal loro arbitrio. Egli soggiace da sè all'onnipotenza della legge, e riceve il trattamento che risponde a' tristi suoi meriti, perchè lo riceve dalle opere della sua coscienza. Gli ufficiali non appaiono mai al suo cospetto, se non per interrompere il cruccio della sua solitudine, e provvedere ai suoi bisogni, e dirgli quelle parole che lo riconciliano col misero suo stato, e lo preparano ad uscire da quel fatale recinto con altr'animo ch'egli non vi entrava. Il regime solitario si riduce a due fini : togliere il prigioniero dal dannoso consorzio dei suoi pari, e costringerlo a rientrare in sé, perchè l'esperienza dimostra, che senza questo ritorno, la pena s'infligge senza frutto e senza esempio. Non s'intende però che il prigioniero debba restar derelitto nella disperazione d'una tomba; poichè oltre alla caritatevole provvisione de' suoi bisogni fisici in una comoda cella, egli ottiene il conforto del lavoro, del consiglio, dell'istruzione e della lettura. Gli si interdice la compagnia de' malvagi; ma gli si concede quella d'uomini onorati e pietosi. Ed è un fatto che la disciplina isolante gravita tremendamente sul malfattore inferocito, ma quando il tempo, il silenzio e le ammonizioni hanno vinto la sua durezza e l'hanno, ridotto a sentire la stoltezza della passata sua vita, il tormento del suo carcere s'allevia e i suoi custodi e governatori trovano in lui una inattesa docilità e un assoluto abbandono. Dopo un primo doloroso intervallo, l'abitudine a poco a poco induce l'animo alla quiete ad alla pazienza; dimodochè , il malvivente, condannato a breve pena, ne sente tutta la gravezza e ne porta fuori un salutare spavento; ma il malfattore condannato a molti anni di solitudine, può comporsi gradatamente a quella tranquillità, che riduce a riflessione anche le anime più burrascose. Non vi è in quella disciplina alcun risalto, alcun arbitrio, alcuna acerbità che accenda le sue male passioni: l'odio, la vendetta. Quindi nessun pericolo che l'irritazione mentale sconvolga la ragione. Solo questi argomenti possono consigliare il regime segregante, il quale è però sempre una gravissima pena. A Torino nei primi mesi dell'attivazione del carcere cellulare, molti delinquenti volgari non ressero alla solitudine e si uccisero Si notò però che da quella città i ladruncoli emigrarono in massa, e sarebbe stato un bel vantaggio, se questo fatto si fosse verificato anche in Milano. Nella nostra città venne pure costrutto un grandioso carcere cellulare, che torreggia severamente entro la cerchia dei bastioni fra Porta Genova e Porta Magenta. Questo edificio, il disegno del quale devesi al compianto ingegnere Francesco Lucca, si eleva sopra un'area di metri quadrati 49,695, della forma di un pentagono, perfettamente isolato e chiuso da una grossa muraglia munita di cinque torri agli angoli, e del fabbricato di fronte della lunghezza di metri 204,50. Lo stile adottato fu quello del medio evo, che risponde assai all'indole della fabbrica, di carattere grave e solenne. Il muro di cinta porta alla sua sommità un ballatoio contenuto da parapetti di pietra per il servizio di guardia, facendo servire da garretta per le sentinelle le cinque torri. Il carcere è diviso in tre distinti corpi di fabbrica. Il corpo anteriore; la cui fronte è disposta sul lato del muro di cinta, che prospetta il Macello, quantunque faccia parte dello stabilimento, non è considerato come carcere essendo destinato agli uffici, alle abitazioni, al corpo di guardia, al servizio di magazzino e ad altri scopi. Esso ha l'aspetto di un castello severo, le cui parti centrale e laterali sono munite di merlatura. Il secondo corpo di fabbrica, parallelo a questo è distante venti metri dal precedente e collegato col medesimo a mezzo di un andito a semplice piano terreno in continuazione al vestibolo d'ingresso. È elevato a due piani fuori terra, meno un breve tratto dove si praticò un ammezzato che soverchia il tetto. Questo si suddivide in due parti, ciascuna fornita di uno spazioso cortile; la destra costituisce il comparto riservato alle donne carcerate ed è diviso in sessanta celle, più quattordici altri locali di maggior ambiente per servizio d'infermeria. Nella parte sinistra a terreno si trovano i locali per le guardie, il parlatorio speciale pei detenuti di passaggio, per quelli appena entrati nel carcere, i bagni, i locali destinati alla visita ed alla iscrizione dei detenuti al loro entrare nel carcere, i locali per la disinfezione degli abiti e pei guardiani. Al primo piano nel lato verso oriente v'ha un portico di disimpegno di vari locali che potrebbero essere destinati ai condannati ad una pena di breve durata; al lato meridionale vi è un corridoio centrale con doppio ordine di celle in numero di venti. Ad occidente il cortile, un altro portico di disimpegno e dall'opposta parte altri locali di servizio. Nel secondo piano sono notevoli due celle per quei reclusi che danno o simulano segni di pazzia. Queste celle sono disposte in modo che per appositi spiragli abilmente mascherati, praticati nella vôlta e nelle pareti, un guardiano può, non veduto, vigilare il detenuto. Il terzo corpo di fabbrica ha nel suo centro una grande rotonda, da cui si diramano sei braccia equidistanti fra loro; ognuna di esse è costituita di un grande corridoio centrale che si eleva senz'alcuna divisione dal piano terreno sino al tetto; lateralmente sono disposti tre ordini di celle, disimpegnati da ballatoi che corrono lungo i lati dei vasto corritoio. La lunghezza di ciascun braccio di fabbrica è di metri 62,50 a partire dalla periferia interna della rotonda. A ciascun lato di tali braccia e per ogni piano sono disposte sedici celle, per cui si hanno novantasei celle per ogni braccio e quindi i sei raggi daranno complessivamente il numero di 576 celle, senza contare ventiquattro celle di punizione, cioè quattro per ogni braccio. Le celle dell'altro corpo di fabbricato sono larghe metri 2,40, lunghe metri 4, alte metri 3,40 circa; quelle del fabbricato a raggi misurano la larghezza di metri 2,20 per 4,30 di lunghezza e 3 di altezza. Si accede alle celle per una piccola porta munita di un apposito spiatoio, affine di poter invigilare il detenuto, senza ch'egli se n'avveda. A tale scopo lo spiatoio è mascherato da un vetro colorato e si apre e si rinchiude a mezzo di un movimento a vite silenzioso. Tutte le celle sono fornite di un richiamo ad un campanello elettrico, come ve ne sono alcune provvedute di un apparecchio per l'illuminazione a gas. Mediante il campanello ogni detenuto può, in caso di urgente bisogno, chiamare un guardiano, e perciò mediante un semplicissimo congegno, mentre suona il campanello discende davanti alla porta della cella una piccola bandiera in ferro, che indica esservi in quella cella il prigioniero che ha chiamato. Il mobilio delle celle, secondo venne stabilito dal Ministero, è costituito da un letto, il quale di notte è spiegato trasversalmente alla cella e di giorno trovasi arrotolato; di due ripiani piani o sgabelli situati in uno degli angoli della cella e di un ripostiglio. Serve di tavola il ripiano infisso nel muro e da sedile lo sgabello mobile. Affinchè i guardiani possano durante la notte, portarsi ad ispezionare le inferriate, fu proposto dal Ministero di infliggere nel muro una manetta, appoggiandosi alla quale può il guardiano far entrare una gamba nello spazio che si lascia, dalla parte de' piedi, tra la estremità della branda distesa ed il muro e passare all'altro lato della cella. Ogni cella oltre all'avere un cesso inodoro è eziandio provvisto d'acqua a sufficienza. Questa viene fornita da serbatoi collocati nei sottotetti e che vengono giornalmente riempiuti col mezzo di semplici pompe a mano. Da questi serbatoi si diramano dei tubi, che vanno a riempiere tanti recipienti, della capacità ciascuno di litri sei, quante sono le celle. Tali i recipienti sono posti tra i rinfianchi del nascimento di ciascuna vôlta e specialmente nelle praticate smussature degli angoli delle celle, e conformati in modo che nel mentre si riempiono con un tubo comune, sono però gli uni dagli altri indipendenti, sicchè quando un detenuto per inavvertenza o studiatamente lasciasse aperto il suo rubinetto in modo da disperdere tutta l'acqua del recipiente a lui destinato, ciò non vada a scapito di altri detenuti e perciò si castiga esso stesso col privarsi per quel giorno del beneficio dell'acqua, oltre a che mette in avvertenza il guardiano, coll'effettuato disperdimento dell'acqua per la cella, in una quantità però che non può mai riuscire a danno del fabbricato, essendo appunto limitata a sei litri, ma bastante per farlo punire. Stannovi apposite bacinelle per ricevere l'acqua da ogni rubinetto, e che ponno servire per far rinnovare da ogni detenuto l'acqua nel sifone della latrina dopo essersene servito per la propria pulizia. Le finestre che danno aria e luce alle celle sono fatte a strombo e disposte in modo, che, mentre queste restano sufficientemente illuminate e che il detenuto può godere della vista del cielo, egli non può vedere di fronte in linea orizzontale, essendo il piano del parapetto all'esterno più alto di quattro centimetri della parte inferiore del volto verso l'interno della cella. Inoltre, affinchè i detenuti possano giornalmente respirare aria più libera e passeggiare, pur mantenendosi la più severa segregazione, si disposero otto passeggi. Essi sono formati da tanti piccoli scomparti raggiali divisi da muricciuoli alti metri 2,40, disposti secondo la direzione del raggio e fanno prendere allo scomparto stesso la forma trapezia. La parte centrale si eleva su tutto il resto, ed è disposta a terrazzo coperto, dal quale il guardiano può con facilità invigilare i detenuti in tutti gli scomparti che sono interamente scoperti; meno per un breve tratto in aderenza alla parte centrale, ricoperta da un piccolo tetto, affine di difendere il detenuto dalla pioggia e dai cocenti raggi solari. Infine, la disposizione poligonale e sporgente data alla estremità di ogni tramezza, impedisce che i detenuti possano, allungando le braccia fra i vani del cancello, comunicare fra loro, come pure l'essere tutti questi passeggi coperti da una sottile rete di ferro, toglierà il pericolo che i detenuti possano gettarsi l'un l'altro degli scritti. Il numero totale delle celle a carcere è di 762. Al quale aggiungendo i locali destinati a infermerie, si ha una capacità totale di celle per 800 detenuti. Eccovi descritto il carcere cellulare che la città nostra con grande dispendio ha innalzato. Se esso era davvero un bisogno universalmente sentito, rimarrà come monumento delle deplorevoli condizioni morali di Milano a' giorni nostri. Stringiamo i conti. Una pulitissima cella, fresca d'estate, riscaldata d'inverno, con un letto discreto, sei litri d'acqua al giorno, vitto, bucato, servizio, tutto ciò si dà a chi commette un delitto; mentre il povero che voglia vivere da galantuomo è costretto ad abitare una stamberga fredda d'inverno, calda e soffocante d'estate, mangiare peggio di moltissimi cani, infine stentare la vita. È proprio scabra ed ingombra di spine la via del Paradiso, .... fin troppo. Appio Claudio, irridendo alla miseria della plebe romana, disse che il carcere è l'albergo della plebe. Or bene, per costrurre un tale albergo che i lôcch già battezzarono per Grand Hôtel Roncoroni o anche Pio Albergo Roncoron (dal nome di un formidato Ispettore di Pubblica Sicurezza poscia divenuto Questore), in Milano si sono spese due milioni e centoventitrè mila lire. Aggiungansi i denari che si pagano per gli stipendii del personale direttivo e di custodia, per il mantenimento dei carcerati, e poi dicasi che la società non si prende cura della plebe. Chi però mi saprebbe dire quanto spende la società per migliorare la plebe? per prevenire certe cadute morali, per le quali un uomo onesto od una donna onesta trovansi precipitati in cotesto abisso senza uscita? Eppure questo carcere segna un gran progresso in confronto di quello a sistema di famiglia. In quest'ultimo la sopraeccitazione dello spettacolo impedisce la riflessione e quindi la riabilitazione morale dell'individuo. Eccovi un giovinetto operaio arrestato, mentre nell'impeto dell'ira ha ferito un suo compagno. Vien tratto al carcere e consegnato al custode ed ai guardiani. Lo sdegno ed il dispetto ancora lo agitano, risponde con poca buona grazia alle interrogazioni del capo guardiano, il quale per punirlo della sua sgarbatezza lo fa mettere dove stanno i ribaldi più facinorosi. Appena il giovanetto pone il piede sulla soglia del carcere, tosto l'uscio gli si richiude alle spalle, ed egli si sente soffocare sotto una coperta e si trova gettato a terra. E perchè? mi domanderà il lettore. È una brutta consuetudine, che ebbe sempre vigore nelle nostre prigioni, e che non si è potuto far scomparire, se non colla abolizione del carcere a sistema di famiglia. Quel giovanetto è stato atterrato dai corsari. Sì, signori, vi erano i corsari nelle nostre carceri, e vi sono ancora dove non fu ancora applicato il sistema cellulare. Sono questi due prigionieri incaricati dal capo-stanza (che è il più anziano tra i rinchiusi in una stessa camera, e bene spesso il più ribaldo e il più manesco) a fare gli onori del ricevimento al nuovo venuto. Al suo ingresso, tutti si radunano nell'angolo della stanza il più lontano dall' entrata, tranne i due corsari, che sì mettono l'uno da una parte e l'altro dall'altra della porta, tenendo distesa una coperta di lana, colla quale imbaccuccano il poveretto che entra, e lo trascinano a terra. Allora tutti gli corrono addosso e chi gli toglie il moccicchino, chi il cappello, infine, quanto ha di meglio sopra di sè, tutto gli vien portato via. La preda si consegna al capo della cella, il quale pensa a farne spiccioli. Immaginiamo alcune di queste scene nelle carceri soppresse di San Vittore. Il derubato si rialza infuriato se è coraggioso, avvilito se è timido; in quest'ultimo caso va a rannicchiarsi in un angolo della cella in mezzo alle più sconcie risate dei concaptivi, nell'altro invece s'avventa alla cieca sul primo che incontra, e, mentre con costui sta per venire alle prese, gli saltano addosso gli altri a trattenerlo, finchè interviene colla propria autorità il capo-stanza a sedare il tumulto e a ristabilire l'ordine. Intanto questi ha già pensato a fa foraggià la scelpa ossia a far scomparire la preda. Nel carcere di San Vittore il negozio si conchiudeva tra le due celle attigue, separate dal muro, che le divideva imperfettamente, giacchè non raggiungeva la volta. Il commercio si fa tra i due capi-stanza. Il venditore prende un pezzetto di carta, vi scrive sopra la proposta di vendita, poi mette in uno zoccolo il vigliettino che in gergo è detto lasagnin al plurale lasagnitt), si pianta nel mezzo della prigione e grida: Casci? Si ode una voce che risponde dall'altra cella: Cascia Allora il venditore lancia lo zoccolo, che supera il muro e va a cadere nell'altra cella. Ma come ha potuto colui scrivere il bigliettino? Un pezzettino di carta e un piccolissimo pezzetto di matita posseggono tutti i frequentatori delle carceri, nè v'ha occhio per quanto esperto che giunga a scoprire i mille nascondigli, che sa trovare o creare intorno a sè il prigioniero. Intanto l'altro capo-stanza ha radunato i carcerati, che hanno con sè denaro o ne hanno depositato presso il guardiano per fondo di sussidio, e ha esibita la merce. Se v'è alcuno, che si offre di comperarla, il capo-stanza rimanda la risposta. La merce insieme colla domanda viene spedita sempre per la stessa via. La si esamina si tira il prezzo, infine s'impiega una intiera giornata per concludere un affare di due lire. È questa una gradita occupazione per chi è condannato all'ozio. Se il compratore ha seco il denaro, questo viene dato al capo della cella, il quale lo spedisce al venditore detraendone una parte per tassa di mediazione. Se poi il compratore ha il denaro depositato per fondo di sussidio, allora l'affare si fa diversamente. Allora è necessaria la girata delle parti.Il compratore chiama un guardiano; questi apre el sfiandrin finestretta tagliata nella porta stessa della carcere; il compratore gli ordina di porre a credito del capo dell'attigua cella la somma stabilita, sulla quale il mediatore ha sempre diritto di prelevare a proprio vantaggio una parte determinata. In altre carceri gli affari si fanno mediante la colomba, pezzo di cordicella, della quale si servono i prigionieri di una cella per comunicare con quelli d'un'altra. Nessuno dei concaptivi s'attenterebbe di impedire o di porre ostacolo a siffatte comunicazioni, quando non avvengono per conto proprio, anzi sono in ciò d'un mirabile accordo e con gran premura si prestano talora a mettere fra loro in comunicazione due individui l'uno dall'altro discostissimi. Fa passà el bastiment è la frase tecnica che significa partecipare una notizia. E questo si fa, quando è possibile, in gergo, oppure battendo colla nocca delle dita, contro la parete del carcere vicino, un certo numero di colpi, che qualcuno s'incarica di ripetere sul muro opposto e così via, finchè il rumore giunge all'orecchio di chi capisce il segnale e che risponde. E così rifanno la stessa strada i rintocchi di risposta con una scrupolosa esattezza e con una premurosa prontezza. Nelle carceri di Cherry-Hill per evitare questo ultimo modo di comunicazione, si è pensato a dividere le celle mediante due tramezzi, in modo che il suono s'ammorza e si perde nel vano delle pareti. E dal fondo del carcere si commettono le più orribili ingiustizie, le più nefande sevizie, coll'audacia e la brutalità che solo può ispirare la sicurezza del silenzio della vittima. Non solo i più poveri sono condannati dal capostanza a fare i servizi i più umilianti del carcere, ma i più giovani sono talora trascelti a sfogo di sozze passioni. Nè giova che uno per sottrarsi mantenga un contegno severo. Nei primi giorni vien lasciato a sè, e schernito con semplici appellativi, poi qualcuno lo punzecchia con parole di famigliare scherzo ma dette in tono benevolo, e quando l'altro annoiato della sua volontaria solitudine sente il bisogno di parlare, attratto dal vortice dell'allegria chiassosa, che regna in un carcere a sistema dì famiglia, allora è costretto a prendere parte ai giuochi che vi si fanno, ed egli è quasi sempre la vittima degli scherzi più umilianti e atrocemente vergognosi. Il giuoco del sarto, del ladro, del soldato, sono tali oscenità, che non mi è lecito neppure il descrivere. La narrazione vicendevole delle proprie gesta serve a compiere l'educazione del prigioniero, il quale se ha posto il piede nel carcere, traviato da una malvagia tendenza, ne esce corrotto nel fondo dell' anima, abbiettamente cinico e pressochè abbrutito dai vizii. A petto delle gravissime colpe, di cui ode il racconto, il suo piccolo fallo gli appare meschino e ridicolo, sente il bisogno di elevarsi fino al livello de' suoi compagni, e, come un poeta cerca di emulare i grandi poeti, ed un negoziante cerca di gareggiare co' suoi colleghi, nè questi pensa punto di acquistare stima tra quelli, nè il poeta si sogna di agognare al credito di negoziante, così anche il lôcch non aspira alla fama di galantuomo, ma si sforza di guadagnarsi tra' suoi nomea di briccone matricolato. L'ambiente, in cui vive, lo costringe a ciò, nè può sottrarsi alla dura necessità che lo trascina. Quando uno non è affatto furfante, simula di essere tale per guadagnarsi il rispetto degli altri concaptivi, o almeno per evitare le loro derisioni; e quando esce dal carcere, siccome non può aspirare a ritornare tra galantuomini, così la compagnia ch'ebbe là dentro, diventa la sua necessaria compagnia, alla quale lo avvince un tacito obbligo di solidarietà nel delitto. Quand'ei volesse, uscito di carcere, abbandonare i suoi compagni, non rispondere più al loro saluto, egli si buscherebbe il titolo di aristocratico e peggio di tira, che in gergo significa spia, o peggio ancora gli toccherebbero delle busse, perchè tutti i bricconi di questo mondo hanno per propria divisa, che chi non è con loro è contro di loro. Si consideri ora quale debba essere l'angoscia d'un poveretto, che, accomunato per molto tempo con siffatta genìa, venga liberato per sentenza dei tribunali con dichiarazione d'innocenza. Nè questo caso avviene raramente, perchè la giustizia umana è pur troppo spesse volte fallace. Questo per quanto risguarda le carceri dove s'accolgono gli uomini. Nè minore corruzione riscontrasi nelle carceri delle donne, ove gli amori e le gelosie tra esse fornirebbero il tema a migliaia di romanzi, del genere di quello del Belot, Mademoiselle Giraud ma femme. Il chiasso e il ciarlìo in un carcere a sistema di famiglia, è, come ognuno può argomentare, grandissimo, ma su d'una sola cosa si serba da tutti il più geloso silenzio. Nessuno parla della colpa, per cui venne l'ultima volta arrestato. Se pende la procedura, un gran lavoro mentale pel prigioniero è quello di prepararsi agli interrogatorii, e siccome è tradizionale nel carcere il dubbio di poter aver a fianco dei tira, che rivelino ai giudici i discorsi, così ciascun carcerato è su questo proposito d'una eccessiva, ma non irragionevole diffidenza. Ad una domanda anche innocente, ma un cotal poco indiscreta vien subito risposto secco secco: Ogni detenuu el tira el so d'on carr Tra i coimputati vi è un grande studio a non contraddirsi vicendevolmente, a non ismentirsi, a non iscoprirsi e vi sono non iscarsi esempi di uomini, che affrontarono la galera, piuttosto che pronunciare una parola che poteva valere a propria discolpa, ma che sarebbe stata un'accusa pel proprio compagno, la condizione del quale sarebbesi naturalmente peggiorata. Ma se v'è in moltissimi questo generoso coraggio del silenzio, manca però in tutti il coraggio di accusarsi, e nessuno si farebbe innanzi ad assumersi la responsabilità di un delitto, di cui è realmente colpevole per salvare anche il più caro amico. La perdita della libertà è per tutti troppo dolorosa e tutti cercano di evitarla. Quando il compagno, punito invece d'un altro, rimproverasse a quest'ultimo d'essersi sottratto alla meritata pena e d'aver lasciato lui nei guai, il compagno risponderebbegli domandando: Te me disarisset on stuped? A cui l'altro dopo breve riflessione aggiungerebbe: Te ghe reson. Incoeu a mì diman a tì. Paghen on mezz e che la sia fenida. Evviva nun e porchi i sciori, che è il brindisi con cui i lôcch risugellano la loro amicizia. Ma questa solidarietà va scomparendo a poco a poco tra' detenuti. Una volta questi si soccorrevano l'un l'altro, si assistevano fraternamente se malati, si scambiavano gli abiti affine di recarsi decentemente vestiti dinanzi ai magistrati, per gl'interrogatorii o pel dibattimento finale. Oggi, tranne i vecchi frequentatori del carcere, che ancora mutuamente si sostengono, i giovani sono egoisti, e l'uno verso l'altro indifferenti; sono capaci di rubarsi tra loro il pane, il che avviene spesso, e si diedero persino casi, in cui detenuti vecchi, avendo prestati a detenuti giovani i pagn de libertaa affinchè non si presentassero ai giudici coi pagn del loeugh, essendo stati assolti o rimandati per, mancanza di prove, non restituirono gli abiti avuti in prestito; nè li tennero neppure per ritornare nel mondo, ma appena liberi li scambiarono con altri cenciosi e logori per ricavarne tanto da bere qualche decilitro d'acquarzente. A tanto può giungere la depravazione morale in siffatta gente, quantunque anche tra coloro, che si chiamano comunemente galantuomini, lo sconfessare od il tradire un benefattore non sia cosa tanto rara, che faccia inarcare le ciglia per istupore. Però alcuni frequentatori del carcere in mezzo al rumore dei compagni pigliano sul serio il vivere in prigione e si danno a lavori, che pur troppo non sono da essi continuati, quando vengono restituiti a libertà. Abbiamo visto dei magnifici lavori a maglia fatti con cannuccie da granata in luogo di ferri da calze, e quei lavori eseguiti secondo un disegno capriccioso a trafori, ci parvero degni veramente di lode, anzi di ammirazione. Da un carcerato ci venne mostrato un lavoro plastico fatto colla mollica di pane. Era un gruppetto di tre individui, un uomo, una donna e un bambino negri posti su uno scoglio all'ombra di una palma che intendevano gli sguardi nell'orizzonte, per iscorgervi lontano lontano la patria perduta. V'era in quel gruppo tanto sentimento artistico, tanta verità e tanta poesia, che profondamente ci commosse. Ma questi tentativi isolati vengono dai prigionieri fatti per passare la noia. Un lavoro serio, utile, intelligente, era stato organizzato nelle carceri giudiziarie di Milano dall' ex direttore delle carceri stesse Pietro Fassa. Egli invitò e poscia incoraggiò alcuni intraprenditori, perchè volessero istituire degli opifici nelle carceri. Abbiamo visitate (era il 1873) l'officina da fabbro ferraio e la rilegatoria di libri nelle carceri di San Vittore, abbiamo veduta la calzoleria delle carceri di Sant' Antonio, ma l'officina che ci maravigliò più di tutte le altre fu quella di stipettaio esistente nelle carceri del Palazzo di Giustizia. Abbiamo osservati i lavori d'intaglio per la fabbricazione di mobili di lusso e ci sorprese la precisione, la finezza, il buon gusto, con cui quei lavori erano eseguiti. Non è un lavoro rozzo e materiale cotesto e perciò diverte e nobilita lo sventurato che a tale lavoro si dedica; e infatti in quelle carceri abbiamo notato fronti, sulle quali il vizio e la colpa avevano impresse rughe profonde, spianarsi, e diremmo quasi rasserenarsi a un raggio di speranza nell'udire le parche lodi, che loro dava l'egregio signor Leonardo Virillio, allora vice direttore delle carceri di Milano, promosso poscia a direttore di quelle di Messina, il quale ci fu cortesissima guida in questa nostra escursione. I lavori che si facevano in quelle carceri oltre al vantaggio morale, che arrecano al prigioniero, gli porgono un utile materiale e arrecano non picciola utilità e all'imprenditore, e al compratore, ed infine allo stabilimento carcerario istesso. Peccato che molti all'uscire di carcere non continuino le abitudini acquistatesi; e si diano invece nuovamente al mal fare (1). E nelle carceri il Fassa aveva istituito pure una biblioteca educativa e morale, ed oltreché eranvi maestri che pazientemente istruivano gli analfabeti, e i cappellani che vi diffondevano massime di religiosa pietà, le commissioni per la visita dei carcerati porgevano a costoro sussidi e conforti. (1) Giova però tener conto che alcuni liberati, i quali non vogliono o non possono entrare nel Patronato, trovansi ancora a contatto coi tristi loro compagni, che li trascinano al male; alcuni poi vengono respinti dai capi fabbrica non senza ragione diffidenti, e trovansi costretti a commettere cattive azioni per vivere, ed infine altri diconsi impediti dalla sorveglianza della Pubblica Sicurezza troppo gravosa e, alcuna volte, per parte di certi esecutori, un pochino vessatoria. Però taluni membri di queste commissioni, per eccessivo amore del bene e per eccessiva filantropia, prodigano siffattamente la loro protezione ai carcerati da rendere difficile ed odioso l'ufficio di chi è deputato a mantenere tra essi la disciplina ed il buon ordine, sicchè i detenuti bene spesso abusano delle loro benefiche parole e giuocano l'uno contro l'altro, l'autorità della Commissione e quella de'guardiani, ridendosi dell'indulgenza soverchia dei signori che compongono quella, e ribellandosi alla legittima vigilanza di questi. Abbiamo sentito da alcuni carcerati a deridere l'operato della Commissione e a dire che i membri di essa prestano l'opera loro per pura vanità, per far parte dell'autorità ed essere menzionati con parole di lode nei diarii e negli annuarii. Ed uno conchiuse con queste parole: « Questi signori ci schiverebbero domani, quando ci vedessero liberi per le strade, ci scaccerebbero se ci presentassimo a domandar loro del lavoro, come un ricco industriale scacciò me dalla sua fabbrica la prima volta che mi vi recai ubbriaco. Sorreggere e non rialzare, questo è il dovere dei signori, tener buoni i buoni operai, e di noi caduti lasciare la cura alla Provvidenza ». Queste parole d'amara censura contengono tanta parte di una dura, ma pur troppo importantissima verità, che non abbiamo creduto doversi passare sotto silenzio. Non crediamo neppure inutile di dire che vi fu eziandio un editore filantropo, che pensò alla pubblicazione di un giornale pe' carcerati, giornale che morì nascendo, ma che trovò scrittori, scrittrici, lodatori e lodatrici. E mentre si fa tutto questo pe' carcerati, non possiamo tralasciare di ripetere che nulla si fa per coloro che appena si reggono barcollando sul sentiero della virtù; per quelli gli agi, i sussidi, i conforti, l'istruzione, per questi la miseria, il disprezzo, l'abbandono, l'ignoranza. Quanti operai, non ci stancheremo di ripetere, desidererebbero avere a un prezzo modesto una cella del carcere cellulare ben illuminata, asciutta, ariosa nell'estate, riscaldata nell'inverno, mentre invece sono costretti a rifugiarsi nelle locande tra il lezzo, i cenci e il sudiciume? Quanti galantuomini desidererebbero in compenso del proprio lavoro aver assicurato giornalmente per sè e per la propria famiglia la minestra e il pane che quotidianamente si distribuisce ai prigionieri? Invece tutti questi agi non si possono acquistare col lavoro onesto, bisogna guadagnarseli col delitto. Eppure la libertà fa parere meno triste la paglia trita e infestata dagl'insetti, su cui il miserabile riposa la notte, meno duro il tozzo di pane di granoturco che gli serve di nutrimento, del pulito saccone e del cibo igienico che si danno al carcerato. Il lôcch suoi definire con un tragico motto la vita del carcere. La paia la mangia la carna ci dice, volendo con ciò significare che il carcere distrugge la vita. Così pure dice che la giura la sgonfia cioè che la minestra dei carcere gonfia; satolla cioè ma non nutre. Egli distingue inoltre con diverso nome il pane della prigione dal pane di libertà e chiama quello marocch o con vocabolo del gergo ungherese chigna e questo denomina boffettôs. Curiose e degne di nota sono certe abitudini speciali al vecchio detenuto. Egli ha cura che la cella sia sempre pulita, ma prima di scopare adacqua il suolo, affinchè la polvere non si sollevi. La polvere, egli dice, smangia i polmoni, il qual detto fa risovvenire la polvere rodente dell'ottimo Parini. Il vecchio detenuto fuma, quando può, perchè a suo dire, il fumare leva l'umidità Un'altra sua abitudine è quella di coricarsi presto e di alzarsi prestissimo, e quantunque, procuri sempre di cenare un paio d'ore almeno prima di coricarsi, pure egli va facilissimamente soggetto a sogni per il desiderio, da cui è posseduto o di essere condannato a breve tempo, o di andarne in libertà, od anche per la speranza che il processo prenda quell'indirizzo, che a lui possa essere più favorevole, Epperò qualunque sogno ha pel prigioniero un significato o riferentesi direttamente al sognatore o a qualcuno di coloro, che gli sono compagni di sventura nell'istessa camera. Ecco l'interpretazione di alcuni sogni, quale un detenuto ce l'ha fornita. « Sognare orologi ha significato di movimento: il che nel gergo dei detenuti significa essere chiamato ad esame, o a dibattimento, oppure essere restituito a libertà, se il sogno vien fatto la notte precedente all'udienza finale. Sognare carta; se è scritta, significa citazione ad esame o lettera in arrivo se bianca, soccorso di biancheria. Sognare maschere vuol dire subire confronti nel processo Sognare penne, cioè uccelli o pollame, significa condanna. Notisi che in dialetto milanese penn plurale di penna, e penn plurale di pena si pronuncia allo stesso modo. Sognare uova indica essere condannati a tanti anni pari al numero delle uova sognate. Sognare denti significa disgrazia domestica. Sognare di riversare olio o sale presagisce pure disgrazia. Sognare d'un cavallo nero vale novità. Sognare d'un cavallo bianco vale notizia triste Sognare d' un soldato che fa fuoco indica buona nuova Sognare di escrementi, d'uva nera oppure di vino è presagio di prossimo soccorso Sognare oro od uva bianca significa rabbia o tristezza. Sognare argento dinota allegria. Sognare pezze di lino significa soccorso in denari Sognare pane vale dover esercitare la pazienza. Sognare scarpe predice vicino un viaggio». E il detenuto che ci fornì tali dati aggiunse queste testuali parole: « Ed è tanta la convinzione che il prigioniero ha della veridicità dei sogni, che ci crede fermamente; e bisogna pur dirlo, che se il più delle volte si avvera la profezia, è perchè questa è in correlazione coll'esito che, malgrado gli sforzi che fa per illudersi, il detenuto stesso sa che devo avere la procedura contro di lui incoata ». Un altro presagio i prigionieri traggono pure dalla minestra. Quando vien loro presentato il piatto, che la contiene, tosto la rimescolano per vedere se v'è qualche pezzettino di lardo. Dicono essi che ogni pezzetto di lardo, che si trova nella minestra, significa un anno di cattività da subire. Quale può essere la ragione,di questa credenza? Può essere ironia, può essere astuzia. Ironia, se colui che prima divulgò siffatta opinione, voleva accennare allo scarso condimento che si mette nella minestra del prigioniero; e voleva significare che è sì difficile trovare un pezzetto di lardo in quella minestra, che chi ve lo trovasse poteva di buon grado sottomettersi alla pena d'un anno di carcere, tanto tale cosa gli pareva miracolosa e quasi impossibile. Astuzia, se, chi fu l'autore di tale sentenza, approfittando della superstizione, mirò collo spauracchio d'un triste presagio a porre un freno alla ghiottornia del capo-stanza, il quale ripartisce la minestra fra i detenuti della propria cella. Vogliasi o non vogliasi un pezzetto di lardo nella minestra di un prigioniero è sempre qualcosa di ghiotto, e il capo-stanza s'impadronirebbe senz'altro di tutti i pezzetti di lardo nuotanti nella broda, senza l'incubo del triste augurio che il soddisfacimento della propria golosità trarrebbe seco; tanto la prima che la seconda interpretazione, ci conducono a ritenere un uomo di spirito chi imaginò e primo divulgò siffatta diceria. Un ultimo pronostico. Se alcuno degli effetti di vestiario del detenuto, appesi alle pareti, senza causa visibile cade a terra, si presagisce da questo fatto la libertà per qualcuno, dei reclusi in quella camera e di ciò si suole menare gran festa. Ma vien finalmente il sospirato giorno della libertà. Colui che deve andare in libertà ed ha denari sul fondo di sussidio, li fa dal guardiano convertire in vino, che beve co' suoi camerata. È il bicchiere della staffa, nè un detenuto di qualche conto vorrebbe privarsi del piacere di festeggiare la propria uscita dal carcere. Un bel mattino si schiude l'uscio della segreta, si chiama quel detenuto, che deve essere rilasciato, tutti gli si fanno attorno a pregarlo di commissioni di ambasciate; egli esce, adempie ad alcune formalità, poi se non deve ricevere ammonizioni dall'autorità di pubblica sicurezza, gli si apre il cancello della guardinna ed eccolo libero. Mi diceva un truffatore avvezzo ad uscire dal carcere per rientrarvi poco appresso: « È però sempre una bella emozione. A me fa un certo effetto ... Quando sono in istrada mi pare di essere piccino piccino ... ». Un altro dello stesso stampo mi diceva invece: « In generale nel primo giorno di libertà non si conclude mai nulla. Si va a zonzo, si guarda in aria, si cercano le piazze più larghe per respirare a pieni polmoni, poi si eseguiscono le commissioni date dai camerata, perchè bisogna fare agli altri quello che piacerebbe che gli altri facessero a noi ... poi si va a trovare l'amante ...». « Ma perchè non correte prima a rivedere la vostra famiglia? » l'interruppi io. « Perchè alcuni di noi non ne hanno mai avuta, altri l'ebbero per loro danno, perchè in famiglia trovarono i primi cattivi esempi, i primi eccitamenti al male, altri perchè le loro famiglie, chiuderebbero loro l'uscio in faccia ». « E l'amante? « L'amante nostra, che in generale è una femmina da conio, ci ama centuplicatamente quando siamo in carcere, e se anche fosse capace di farci qualche torto, non ce lo farebbe per tutto l'oro del mondo durante la nostra prigionia. Sono le amanti che si ricordano di noi, e mettono tutta la loro compiacenza nel venirci a trovare, portandoci un abbondante soccorso. Andà a fà visita col brasc tiraa è la frase di cui si servono le nostre amanti per significare « visitare l'amante prigioniero e portargli dei copiosi soccorsi in vivande, biancherie e denari ». Dei resto mi si disse, e facilmente prestai fede, non esservi gerarchia, determinata dalla maggiore o minore gravità del delitto, ed inoltre potei constatare che detenuti vecchi rimproverarono dei giovinetti caduti in colpa per la prima volta e perciò stati arrestati. « È una vergogna, diceva un vecchio peccatore ad un ragazzotto arrestato per vagabondaggio, tu sei giovane e puoi lavorare e l'ozio non ti ha ancora affatto guasto. Se incomincerai a rubare, non potrai più correggerti; e poi, notato per ladro una volta, sarai ladro per tutta la vita. S'io potessi tornare della tua età!... ». Questi consigli vengono però dati una volta, sola, nè vengono ripetuti mai più per lo stesso, individuo, quand'anche ritornasse cento volte tra piedi a quel genio del buon consiglio incarnato in un veterano della colpa. Un'ultima osservazione. La statistica c'insegna che le classi più corrotte della nostra popolazione sono i manovali, i camerieri, i prestinai, i gridatori di giornali, i facchini, i quali forniscono il maggior contingente alle prigioni. La media delle colpe contemplate dalla legge che vengono denunciate ogni giorno è di trenta per ciascun giorno. I reati più in voga in Milano sono la truffa e l'appropriazione indebita; vengono in seguito in ordine di frequenza il ferimento, il furto, il borseggio, i reati contro il buon costume. I delitti, che vanno diminuendo continuamente. sono le aggressioni e le rapine. Rarissimi sono tra noi i casi di ricatto e di estorsione. Ci siamo dilungati assai su questo tema, perchè ci parve che ne valesse la pena. Infatti il carcere in Italia inghiotte annualmente una grandissima quantità di gente, di cui la società s'impadronisce e che rinserra fra quattro mura; ma essa non pensa in nessun modo a migliorarla o almeno a prevenirne le cadute. Per non essere tacciati di esagerazione, diamo la statistica del movimento delle carceri italiane nell'anno 1871: EntratiUscitiNelle carceri giudiziarie342,476337,328Nelle case di pena5,1444.960Nei Bagni di pena3,6622,633Nelle case di custodia661617Negli Istituti di ricovero1,054641 In statistiche più recenti queste cifre sono aumentate notevolmente. Quante vittime dell'imprevidenza sociale! Asili notturni.

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Come si può crescere buoni e affezionati alla Società, se vostro padre, se la vostra madre stessa vi rifiuta e vi abbandona non appena avete schiuso gli occhi al dolore? Eccovi soli, con un cognome convenzionale, non corrispondente a quello di nessuna persona che v'ami, e che vi fu dato capricciosamente da un impiegato, il quale non si è preoccupato d'altro se non di questo che il vostro cognome incominci per la stessa lettera del nome che da una suora vi è stato imposto al fonte, ove foste fatti cattolici non uomini. Imperocchè la Società, la Società civile, la Società progredita e progressiva, la Società magnanima vi stampa in fronte il qualificativo di bastardo, che vi fa vivere spregiati e tuttavia poco curanti di questo ingiusto disprezzo, ma inquieti tra il desiderio e la tema di conoscere gli autori dei vostri giorni. Potrebbero infatti essere ricchi o poveri, onesti o vituperevoli, potrebbero essere una benedizione o una maledizione per voi, Ma che monta? Non pochi di coloro che creano siffatti sventurati compongono la cosi detta buona società e se conoscono gli allevatori dei loro bambini si recano da essi con istrani infingimenti per portar ai figli abbandonati qualche dolciume: ma la loro riputazione non dev'essere offuscata, ma la loro tranquillità domestica non dev'essere turbata ... guai se il padre, la madre, lo zio, la zia risapessero questo errore, sarebbero capaci di diseredare chi l'ha commesso, e allora! Epperò voi, poveri bambini, soffrite, crescete incolpevolmente spregiati e quando la negligenza sociale e la snaturatezza dei vostri genitori vi hanno indirizzati e quasi dannati al male, allora soltanto la società vi teme, lo statista vi scerne fra la turba multiforme dei delinquenti e nota: "Pur troppo anche in questo anno dei condannati per delitti comuni il maggiore contingente è fornito dai trovatelli. È questa una piaga alla quale conviene che la società ponga un rimedio provvidenziale ed efficace." Ma intanto chi soffre e lo statista volta la pagina per fare altri calcoli. La sua voce est tamquam vox clamantis in deserto. Qualche volta il gettatello si vendica dei suoi snaturati genitori a misura di carbone. Allorchè dopo aver composte le cose loro secondo le ipocrite norme delle convenienze sociali, il padre o la madre, ricordandosi di aver fatto consegnare il proprio figlio al Brefotrofio ne fanno ricerca, il figlio al vedere i proprii genitori, vinto dalla gratitudine per chi l'ha allevato, rifiuta e il nuovo nome e la nuova condizione che gli viene offerta, protestando che giacchè è rimasto per anni molti senza che da' suoi sia stato riconosciuto, oggi si crede in diritto di non voler egli riconoscere i suoi. Atroce eppure nobile vendetta che priva il padre e la madre dell'affetto de' proprii figliuoli. Ma non è qui il luogo di far degli sfoghi siano pure ragionevoli contro una Società generalmente corrotta e senza cuore. Ripigliamo in quella vece la nostra archeologia statistica, la quale ci può insegnare ancora oggi qualche cosa. Nel giorno del censimento del 1871 i bambini illegittimi nati vivi furono 1105, dei quali 224 videro la luce nel Brefotrofio provinciale, istituto che nel solo 1874 accolse 2375 infanti. Questa numerosa famiglia darà più tardi i 350 giovanetti da ricoverarsi nel Riformatorio di Parabiago, i 150 adulti da rifugiare nell'ospizio del Patronato, e la maggior parte di coloro che popoleranno le 762 segrete del carcere cellulare. Sono dati vecchi, ai quali gioverà contrapporre i recentissimi pubblicati al pari di quelli dal dottor Romolo Griffini, direttore del Brefotrofio di Milano. "Nell'anno 1881, scrive il Griffini in una sua accurata relazione, si raccolsero nel Brefotrofio 1408 infanti di primo ingresso, contro 1389 entrati nel 1880. Ne risultò pel 1881 un aumento di 19 infanti. Quanto al sesso, i nuovi entrati si distinguono in 728 maschi e 680 femmine. Prevale, come generalmente suole, il sesso forte, e quest'anno in ambe le categorie dei legittimi, e degli illegittimi, poichè sopra 354 legittimi si hanno 185 maschi e 169 femmine, e sopra 1051 illegittimi, 543 maschi e 511 femmine." E volete sapere quanti erano nel 1881 i disgraziati componenti la famiglia a cui l'Ospizio provinciale di Milano ha dovuto provvedere? 8439. Quanti dolori! C'è da inorridire. E siamo sull'aumentare. Come si provveda poi a questi infelici è bello tacere. Nessuno ne ha colpa, poichè la istituzione del Brefotrofio è organizzata, retta da norme non facilmente mutabili e da consuetudini che tengono veci di leggi. E poi la burocrazia non è la Provvidenza. Gli esposti vengono quasi tutti affidati ad allevatori abitanti in campagna. Si conta un po' sulla moralità e sul buon cuore dei campagnuoli. E anche per vero dire molti di questi hanno meno pregiudizii dei cittadini. Nel bambino quelli non vedono il bastardo, vedono il disgraziato e se lo tengono caro. È una specie di buon augurio per la famiglia che lo ricetta e lo nutre. Il compenso che paga l'Ospizio non è sempre allettamento sufficiente per indurre una famiglia ad assumersi la cura di allevare un figliuolo che sul fiore dell' età può essere richiesto e portato via da chi l'ha messo al mondo. Vi sono pure dei bambini che per la loro bellezza attraggono gli allevatori, ma ve ne sono di quelli che sono male aggraziati, o brutti, o infermicci, o colle membra contorte e rattrappite e, poveretti, non sono voluti da nessuno. Fino a pochi anni or sono per una vecchia consuetudine si provvedeva al loro collocamento in questo deplorevole modo. Quando la Direzione dell'Ospizio da sicure informazioni era fatta certa che in un determinato circondario di campagna v'erano parecchie famiglie, che avrebbero assunto l'allevamento di alcuni trovatelli ne caricava qualche dozzina sopra un carretto e li inviava al comune indicato. All'arrivo dell'infelice convoglio si dava nella nota campana esattoriale; i terrieri convenivano sulla piazza e incominciava la scelta dei bambini. Tolti i più belli o i meno brutti restavano coloro, ai quali insieme colle altre sventure toccava pure l'umiliazione d'essere rifiutati. Chi ha appena un po' di cuore pensi quali sentimenti in quel punto dovevano germinare negli animi di quei disgraziati fanciulli. Allora l'agente dell'Ospizio, che voleva ritornarsene col carro vuoto, andava sollecitando or l'uno or l'altro dei contadini presenti a prendersi o questo o quel bambino quantunque storpio o deforme, chè l'Ospizio provvedeva per essi al pagamento di una ragguardevole ricompensa all'allevatore. E così a stento e a fatica tutti i bambini venivano accolti nelle case dei contadini e quindi dopo un secondo rifiuto s'affacciavano alla vita di famiglia paurosi, sapendo di esservi appena tollerati. Altro che notare nelle statistiche penali che il numero maggiore dei delinquenti è fornito dagli Esposti! Non è loro colpa se questi bambini crescono male. L'illustre prof. Dott. Edoardo Porro nel suo lavoro che risguarda ??il biennio 1869-70 alla maternità di Milano a pagina 266, parla della sorte che attende gl'infelici che hanno culla nell'Ospizio, " i quali sovente hanno per sopraggiunta la sventura di perdere nascendo la propria madre. La quale nell'istante di dare alla luce il suo bambino è tormentata da gravi dolori non solo fisici, ma anche morali; pensando, come dice il Porro, che la sua creatura troverassi isolata e reietta dalla società, dannata ad un Brefotrofio e ad un allevamento poco dissimile da quello dei bruti. Chi ha pratica delle maternità, ed in ispecie di quella di Milano, non troverà esagerate queste parole. " Oggi le condizioni dei ricoverati da quest'Istituto debbono essere un cotal poco mutate, grazie alla benefica influenza delle persone che ora lo dirigono. Un forte sentimento di pietà si ridesta in ogni animo bennato alla vista di un povero gettatello. E il Giusti, descrivendo scherzosamente un suo viaggio a Montecatini, osservando uno di questi sventurati bambini, sente dentro il suo cuore vibrare a un tratto la corda del dolore e però esce in un volo lirico, degno d'essere riletto. Accanto a me dal lato delle brenne, Una povera donna montanina, Lieta recava al petto un trovatello. Preso là nel buglione, ove s'insacca Dal matrimonio e dallo stupro a gara O legittima o no l'umana carne. Oh benedetta, miseri innocenti, La pubblica pietà che vi ricovra Nudi, piangenti, abbandonati! A voi il casto grembo della cara madre. E del tetto paterno il santo asilo, Che dà l'essere intero, e dolcemente L'animo leva a dignità di vita, Error, vergogna delitto e miseria Chiuse per sempre! Crescerete soli, Soli all'affetto e mal securi in terra; Al disonor di genitori ignoti, Come la pianta che non ha radice, Maledicendo ....... Poveretti, quant'era meglio per essi il non nascere!

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CENERE

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Deledda, Grazia 4 occorrenze

«Ed ora anche Bustianeddu mi abbandona e va via solo! Ed io, quando potrò partire io? Quando potrò ricercarla? Quando sarò grande!», rispose a se stesso, rianimandosi. «Ora non m'importa.» Tuttavia, appena consegnò la scodella a zia Tatàna, corse al finestruolo della stalla. Silenzio. Non si vedeva nessuno, non s'udiva nulla nel grande orto umido e chiaro sotto la luna. Le montagne si delineavano azzurre sullo sfondo vaporoso del cielo; tutto era silenzio e pace. Ad un tratto giunse dal molino la voce di Bustianeddu. «Egli non ha ripreso i denari?», pensò Anania. «Non è entrato nell'orto. Se andassi io?» Ma ebbe paura; rientrò nel molino e cominciò ad aggirarsi come un gattino affamato intorno a zia Tatàna che curava il malato. Ella gli fece la solita domanda: «Che hai? Ti fa male il ventre?». «Sì, andiamo a casa.» Zia Tatàna capì che egli voleva dirle qualche cosa e lo accompagnò fuori. «Gesù, Gesù, Santa Caterina bella!», proruppe, appena seppe tutto. «In che mondo siamo noi! Anche gli uccelli, anche i pulcini dentro l'uovo commettono il male!» Anania non seppe mai come zia Tatàna avesse persuaso Bustianeddu a rimettere il denaro nel cassetto: però d'allora in poi i due amici si guardarono un po' in cagnesco, e per ogni piccola cosa si insultavano e venivano alle mani.

Iddio Signore non abbandona gli uccelli del nido.» «Che vento! Che vento!», si lamentò poi Olì. «Credete voi ai morti?» «Io?», disse la vedova, spegnendo la candela e riprendendo il fuso. «Io non credo né ai morti né ai vivi ... » Zuanne sollevò il capo, disse piano piano: «Io cì!» e nascose ancora il viso in grembo ad Olì. La vedova riprese i suoi racconti: «Io poi ebbi un altro figlio, che ora ha otto anni ed è già servetto in un ovile. Poi ebbi questo. Ah, siamo ben poveri adesso, sorella cara; mio marito non era un ladrone, no; viveva del suo e perciò dovemmo vendere tutto, tranne questa casa». «Come morì?», domandò la fanciulla, accarezzando la testa del bimbo che pareva addormentato. «Come morì? In un'impresa. Egli non stette mai in carcere», osservò con fierezza la vedova, «sebbene la giustizia lo ricercasse, come il cacciatore ricerca il cinghiale. Egli però sfuggiva abilmente ad ogni agguato, e mentre la giustizia lo cercava sui monti, egli passava la notte qui, sì, proprio qui, davanti a questo focolare, dove stai seduta tu ... » Il bimbo sollevò la testa, con le grandi orecchie improvvisamente accese, poi la riabbassò sul grembo di Olì. «Sì, proprio lì. Una volta, due anni or sono, seppe che una pattuglia doveva percorrere la montagna ricercandolo. Allora mi mandò a dire: "Mentre i dragoni mi ricercheranno, io prenderò parte ad una impresa; al ritorno passerò la notte in casa; mogliettina mia, aspettami". Io aspettai, aspettai, tre, quattro notti: filai un rotolo di lana nera.» «Dove era andato?» «Non te lo dissi? Ad una impresa, ad una bardana, ecco!» esclamò la vedova con una certa impazienza: poi riabbassò la voce: «Io aspettai quattro notti, ma ero triste: ogni passo che udivo mi faceva battere il cuore; e le notti passavano, il mio cuore si stringeva, si faceva piccolo come il seme d'una mandorla. Alla quarta notte udii battere alla porta e aprii. "Donna, non aspettare più", mi disse un uomo mascherato. E mi diede il gabbano di mio marito. Ah!». La vedova diede un sospiro che parve un grido, poi tacque; e Olì la fissò a lungo, ma ad un tratto il suo sguardo seguì lo sguardo atterrito di Zuanne. Le manine del bimbo, dure e brune come zampe d'uccello, si agitavano e additavano la parete. «Che hai? Che cosa vedi?» «Un motto ... », egli sussurrò. «Ma che morto! ... », ella disse ridendo, improvvisamente allegra. Ma quando fu a letto, sola, in una specie di soffitta grigia e fredda, sul cui tetto il vento urlava ancora più tonante, smuovendo e sbattendo le assi, ella ripensò ai racconti della vedova, all'uomo mascherato che le aveva detto: «donna, non aspettare più!», al lungo gabbano nero, al bimbo che vedeva i morti, agli uccellini nudi del nido abbandonato, ai suoi poveri fratellini, ai tesori di Anania, alla notte di San Giovanni, a sua madre morta; ed ebbe paura e si sentì triste, così triste che, sebbene si ritenesse dannata all'inferno, desiderò di morire.

Addio umili creature inconscie della propria sventura, vecchio zio Pera vizioso, Efes e Nanna disgraziati, Rebecca infelice, Maestro Pane stravagante, pazzi, mendicanti, delinquenti, fanciulle belle e inconsapevoli, bambini votati al dolore, gente tutta infelice o spregevole che Anania non ama ma sente attaccata alla sua esistenza come il musco alla pietra, gente tutta che egli abbandona con gioia e con dolore! E addio dolcezza e luce sopra tanti oscuri dolori, arcobaleno incurvato come cornice di perle sul quadro screpolato di una miseria antica ed eterna - Margherita, addio! Il giorno della partenza si avvicinava, Zia Tatàna preparava una infinità di cose, ed altre teneva pronte nella memoria: camicie, calze, dolci, frutta, focaccie lucide come avorio, pezze di formaggio, e un pollo e dodici uova col sale e vino e miele e uva passa, riempivano mano mano bisaccie, cestini e scatole. «Diavolo», osservava Anania, «pare debba partire un intero esercito.» «Silenzio, figlio mio! quando sarai là vedrai come tutto sarà necessario. Là nessuno penserà a te, poverino: ah, come farai tu?» «Non dubitate, ci penserò io.» Il mugnaio e sua moglie tenevano lunghi colloqui segreti, ed Anania ne indovinava il motivo; una sera poi li vide uscire assieme e attese ansioso il loro ritorno. Zia Tatàna rientrò sola. «Anania», disse, «dove dunque hai deciso di andare? A Cagliari o a Sassari?» Egli veramente aveva fino a quel momento accarezzato il sogno di attraversare il mare; ma dalle parole della donna capì che qualcuno aveva stabilito di non lasciarlo ancora andar oltre le coste sarde. «Siete stata dal signor Carboni?», chiese con fiera amarezza. «Non negate. C'è bisogno di far segreti con me? Io so tutto, io. Perché dunque non mi lascia partire pel Continente? Gli restituirò tutto, io!» «Bah! bah!», esclamò zia Tatàna, mortificata e addolorata dall'impeto di fierezza dello studente. «Santa Caterina mia, che cosa ti passa in mente, adesso?» Anania sbuffò, sospirò, curvò il viso su un libro senza vederne una parola. La donna gli si avvicinò e gli posò una mano sulla spalla. «Che cosa mi dici, dunque, figliuolo mio? Cagliari o Sassari? Non hai detto fino a ieri che volevi andare a Cagliari o a Sassari? Perché vuoi andare più in là? Gesù Maria, il mare è una brutta cosa: dicono che si soffre e che si può morire. E le tempeste poi? Non pensi alle tempeste?» «Voi non capite niente ... », disse Anania, irritato, guardando e svolgendo le pagine come se leggesse vertiginosamente. «Se l'hai detto tu! Che capricci son questi? Non si studia lo stesso tanto in Sardegna che in continente? Perché vuoi andare là? ... » Ah, perché voleva andare là? Che ne capivano loro? Era forse per studiare? Fin dal primo giorno, quel dolce giorno d'autunno, in cui Bustianeddu l'aveva condotto alla scuola nel convento, non aveva egli pensato ad un'altra cosa che non era lo studio? Le ragioni di zia Tatàna calmarono alquanto la sua impazienza. «Vedi dunque, tu sei ancora un bambino; a diciassette anni tu vuoi già correre solo pel mondo? Vuoi morire in mare, solo, lontano da tutti, o vuoi smarrirti in una città che tu stesso dici grande come una foresta? Va dunque a Cagliari, adesso: il signor Carboni ti darà tante lettere di raccomandazione: egli conosce tutta Cagliari: anche un marchese conosce. Ebbene, abbi pazienza. Santa Caterina mia! Andrai, andrai anche là, quando sarai più grande. Tu ora sei come la lepre appena slattata: ecco che essa lascia il covo e fa un piccolo giro fino al muro della tanca: poi torna, cresce, poi s'arrischia più in là, più in là ancora, guarda dove deve andare, vede la via da percorrere. Abbi pazienza. Pensa che siamo vicini, pensa che potrai tornare con più facilità ad ogni occorrenza. Nelle vacanze di Natale potrai tornare ... » «Vado dunque a Cagliari!», decise Anania, rasserenato. L'indomani cominciò a far le visite di congedo. Andò dal direttore del Ginnasio, da un canonico amico di zia Tatàna, dal medico, dal deputato, ed infine dal sarto, dal pasticciere e dal calzolaio Franziscu Carchide, il bel giovinotto che un tempo frequentava il molino. Ora il Carchide aveva fatto fortuna, non si sapeva né come né perché; possedeva una bella bottega, con cinque o sei lavoranti, vestiva in borghese, parlava affettato, e si permetteva di fare il galante con le signorine che serviva! «Addio», disse Anania entrando nella bottega, «posdomani parto per Cagliari: desideri qualche cosa?» «Sì,» rispose uno dei giovani, sollevando il volto sorridente, «mandagli un anello col diamante, perché egli deve sposarsi con la figlia del sindaco!» «E perché no?» esclamò boriosamente il Carchide. «Accomodati, dunque.» Ma Anania, disgustato per lo scherzo che gli pareva un'ingiuria a Margherita, s'accomiatò subito. Uscendo incontrò sulla porta il giovinetto che la voce pubblica diceva figlio del Carboni; un ragazzo molto alto per la sua età, un po' curvo, pallido, con le mascelle sporgenti e gli occhi tristi e cerchiati, azzurri come quelli di Margherita. «Addio, Antonino», salutò lo studente, mentre l'altro lo guardava con un baleno d'odio nelle pupille melanconiche. Rientrato a casa Anania riferì ogni cosa a zia Tatàna, mentre la donna, seduta davanti a un braciere, preparava un dolce di scorze d'arancio, mandorle e miele, da portare in regalo ad un importante personaggio cagliaritano. «Sentite», disse Anania, «il vostro canonico mi ha regalato uno scudo, e due lire il medico. Io non volevo ... » «Ah, cattivo figliuolo! È uso, questo, di regalare denari agli studenti che partono la prima volta», osservò la donna, rimovendo e rimescolando delicatamente con due forchette i sottili fili della scorza d'arancio entro la lucida casseruola di stagno. Un acuto odore di miele bollente profumava la cucina tranquilla: qua e là facevano capolino i piccoli cestini gialli colmi di provviste per lo studente. Anania sedette presso la donna, prese il gatto sulle ginocchia e cominciò ad accarezzarlo. «Dove sarò tra otto giorni?», chiese pensieroso. «Sta fermo, Mussittu, giù la coda. Il vostro canonico mi ha fatto una lunga predica.» «E ti consigliò di confessarti e comunicarti prima di partire?» «Ciò si faceva venti anni fa, quando si partiva a cavallo per Cagliari, e s'impiegavano tre giorni per arrivarci. Adesso non si usa più», rispose maliziosamente Anania. «Cattivo figliuolo, tu non credi più in Dio!» «Col cuore, sì!» Queste parole consolarono alquanto la buona donna che gli narrò l'episodio biblico di Eli; dopo gli chiese: «Dove dunque sei stato?». Egli ricominciò a narrare: il gattino gli si era arrampicato sulle spalle e gli leccava le orecchie, dandogli un solletico strano che lo faceva, egli non sapeva perché, pensare a Margherita. Mentre raccontava il volgare scherzo del Carchide entrò Nanna, che zia Tatàna aveva mandata a comperare droghe e confetti per ornare il dolce: ella puzzava di vino, aveva le sottane lacere, in modo che le si scorgevano le gambe legnose e violacee, ed era ributtante più del solito. «Ecco qui», disse, estraendo dal seno i pacchettini delle droghe, e fermandosi ad ascoltare i discorsi di Anania. «Hai sentito?», esclamò ingenuamente zia Tatàna. «quell'immondezza di Franziscu Carchide vuole sposare Margherita Carboni.» «Non è così!», disse Anania, irritato. «Non capite niente!» «Sì,» disse Nanna, «io lo so; egli è pazzo. Ha chiesto la mano delle figlie del medico; voleva o l'una o l'altra! L'hanno cacciato via col manico della scopa. Ora vuole Margheritina, perché prendendole la misura delle scarpine le ha stretto il piede ... » «Doveva dargli un calcio!», gridò Anania, balzando in piedi, col gattino intorno al collo. «Un calcio sul viso!» Nanna lo guardò: i suoi piccoli occhi rifulgevano stranamente. «Ecco», disse, svolgendo i pacchettini con le mani tremolanti, «è quel che dissi io. Eppoi c'è anche un militare, un ufficiale o un generale, non so, che vuole sposare Margherita. Ma io dissi: no, ella è una rosa e deve sposare un garofano; freschi entrambi ... Prendine dunque uno ... » S'avvicinò ad Anania, porgendogli i confetti; ma egli balzò indietro gridando: «Puzzate come una botte! Lontana da me!». Nanna traballò; qualche confetto cadde e rotolò sul pavimento. «Il garofano mio!», diss'ella carezzevole, nonostante le cattive parole di Anania. «Sei tu il garofano di Margherita! Tu dunque parti? Va, studia, diventa dottore.» Anania si curvò, raccolse i confetti; poi rise e disse tutto felice: «Mi raccatteranno così, le ragazze: non è vero?». E si mise a ballare col gattino fra le braccia. Ma d'improvviso ridiventò cupo. Chi era il militare che voleva sposar Margherita? Forse quel capitano dal collo rosso, che a teatro gli aveva detto con disprezzo: «La finisca, dunque»? Improvvisamente gli balenò al pensiero una visione tormentosa: Margherita sposa d'un uomo giovane e ricco, Margherita perduta eternamente per lui! Depose il gattino per terra, e fuggì, si chiuse nella sua cameretta, s'affacciò alla finestra. Gli pareva di soffocare. Non era stato mai geloso, né aveva mai pensato che Margherita potesse sposarsi così presto. «No, no», pensava, stringendo e scuotendo la testa fra le mani, «non si deve sposare. Bisogna che aspetti, finché ... Ma perché dovrebbe aspettare? Io sono un bastardo, io sono il figlio d'una donna perduta. Io non ho altra missione che quella di cercare mia madre e di ritrarla dall'abisso del disonore ... Margherita non può abbassarsi a me; ma finché non avrò compiuto la mia missione ho bisogno di lei come di un faro. Dopo posso morire contento.» E non pensava che la sua missione poteva prolungarsi indeterminatamente e senza esito; e l'idea che rinunziando alla sua missione avrebbe potuto sperare nell'amore di Margherita gli sembrava mostruosa. Il pensiero di ritrovare sua madre cresceva e si sviluppava con lui, palpitava col suo cuore, vibrava coi suoi nervi, scorreva col suo sangue; solo la morte poteva sradicarlo, questo pensiero, ed appunto alla morte di sua madre egli pensava quando desiderava che il loro incontro non si avverasse; ma anche questa soluzione, o il desiderio di questa soluzione, gli sembrava una grande viltà. Più tardi egli si domandò se era stata la sua natura sentimentale a creargli il pensiero della sua missione, o se questo pensiero aveva formato la sua natura sentimentale: ma alla vigilia della sua partenza egli accettava ancora le sue sensazioni ed i suoi sentimenti senza analizzarli; ed accettandoli così, come da bambino, non faceva che meglio radicarli nella sua anima e nella sua carne, in modo che nessuna logica e nessun ragionamento cosciente avrebbero poi potuto strapparglieli. Passò una notte febbrile. Ah, era già lontano il tempo quando egli si contentava di veder Margherita nei piccoli viali dell'orto, senza badare al colore dei suoi capelli e alla forma del suo busto. Allora egli sognava cose fantastiche, rapimenti, incontri, fughe in luoghi misteriosi, magari nelle bianche pianure della luna; ma se gli avessero dato la notizia delle nozze di lei non avrebbe sofferto. Una volta aveva progettato di convincerla a seguirlo su una montagna; là si avvelenavano, d'un veleno che non deformava i cadaveri; si stendevano sulle roccie, fra l'edera ed i fiori, e morivano assieme: ed in questo sogno non s'era delineato neppure il desiderio di un bacio o di una stretta di mano. Ma dopo era venuto il sogno idilliaco della fontana di Fonni, il bacio, l'abbandono di Margherita; e durante la sera della rappresentazione, il profumo dei capelli di lei, lo splendore dei suoi occhi, il calore che pareva emanasse dalla sua persona fiorente gli avevano dato ebbrezze ineffabili. Ed ora soffriva al pensiero che ella potesse diventare d'altri; e nel sonno febbrile si affannava, sognando, a scriverle una lettera disperata, alla quale univa un sonetto, uno dei molti sonetti dialettali che egli aveva già composto per lei. Si svegliò, s'alzò ed aprì la finestra. L'alba gli parve vicina; il cielo era limpido, sopra una guglia nera dell'Orthobene tremolava una stella rossastra, simile ad una fiammella su un candelabro di pietra; i galli cantavano, rispondendosi l'un l'altro con una gara di gridi rauchi, e parevano indispettiti reciprocamente di ciò che gridavano e tutti contro la luce che non arrivava. Anania guardava il cielo e sbadigliava: ad un tratto un brivido di freddo lo investì dai piedi alla testa. Oh, Dio, che accadeva in lui? Gli pareva che qualche cosa volesse staccarglisi dall'anima, restare sotto quel cielo, davanti al monte selvaggio le cui creste servivano da candelabri alle stelle. Come il viandante oppresso da un carico troppo grave vuol liberarsene in parte onde poter continuare la sua strada, così egli sentiva il bisogno di lasciare un po' del suo segreto a Margherita. Chiuse la finestra e sedette davanti al tavolino, tremando e sbadigliando. «Che freddo!», disse a voce alta. Il sonetto che egli voleva mandare a Margherita era già copiato a stampatello, su un foglio di carta rosea rigata traversalmente di viola: eccone la traduzione in prosa: «Una bellissima margherita cresceva in un verde prato. Tutti i fiori l'ammiravano, ma specialmente un ranuncolo pallido ed umile, cresciutole accanto, moriva di amore per lei. Ed ecco, in una splendida giornata di primavera, una bellissima fanciulla andava a passeggiare nel prato, coglieva la margherita, la baciava, la poneva sul morbido seno, mentre senza avvedersene schiacciava l'infelice ranuncolo che, d'altronde, privato dell'adorata vicina, si sentiva beato di morire». Rileggendo i versi il poeta provò una tristezza dispettosa; vedeva, al posto della simbolica fanciulla, un capitano dei carabinieri dai baffi provocanti; ripiegò il foglio, ma restò a lungo indeciso se doveva chiuderlo o no nella busta. Che avrebbe pensato Margherita? Avrebbe ricevuto lei il sonetto? Sì, perché quando il postino batteva al portone tre colpi terribili che parevano picchiati dalla ferrea mano del destino, Margherita correva lei a ricever la posta. Bisognava però che ella fosse in casa nelle ore in cui passava il postino, cioè verso mezzogiorno ed a sera. A mezzogiorno ella certamente era in casa; occorreva dunque impostar subito il sonetto. Un'agitazione febbrile invase Anania; senza esitare oltre uscì e camminò come un sonnambulo per le straducole buie e deserte. Dietro i muri dei cortili, nelle rozze tettoie delle case paesane, i galli continuavano i loro canti dispettosi; l'aria umida odorava di stoppia; una povera infornatrice di pane d'orzo, che tornava dal compiere il suo faticoso mestiere, attraversò una viuzza; il passo di due alti carabinieri risuonò sinistramente sul lastrico del Corso: poi più nessuno, più nulla. Anania rasentava i muri, pauroso d'esser riconosciuto nonostante il buio, e appena impostata la lettera si mise a correre. Ma non poté rientrare in casa; gli pareva di soffocare, aveva bisogno d'aria, di immensità. Scese verso lo stradale di Orosei, risalì il ciglione, e solo quando si trovò ai piedi dell'Orthobene respirò, aprendo le narici come un puledro sfuggito al laccio. Avrebbe voluto gridare di gioia e di spasimo. Albeggiava; tenui veli azzurrognoli coprivano le grandi valli umide, le ultime stelle svanivano. Non sapeva perché, Anania ripeteva i versi: Care stelle dell'Orsa, io non credea ... e cercava di ricacciare da sé il pensiero di ciò che aveva fatto, mentre se ne sentiva felice fino allo spasimo. Prese a salire l'Orthobene, strappando fronde, ciuffi d'erba, lanciando pietre e ridendo; pareva pazzo. I cespugli odoravano, il cielo dietro l'enorme scoglio cerulo di monte Albo diventava in color di ciclamino; Anania si fermò su una roccia, guardò l'immensa chiostra azzurra delle montagne lontane battute dal riflesso delicato dell'aurora, e ridiventò pensieroso. Addio! Domani egli sarebbe al di là delle montagne, e Margherita penserebbe invano all'ignoto ranuncolo che l'amava e che era lui. Ed ecco, una cinzia cantò nel suo nido selvaggio, nel cuore d'un elce, e nella sua nota tremolò tutta la poesia del luogo solitario; Anania ricordò allora il canto di un altro uccellino entro l'umido fogliame d'un castagno, in una lontana mattina d'autunno, lassù, lassù, in una di quelle montagne dell'orizzonte, e rivide un bimbo che scendeva lieto la china, ignaro del proprio triste destino. «Anche adesso», pensò rattristandosi, «anche adesso sono lieto di partire, e chissà invece che cosa mi aspetta!» Rientrò a casa pallido e triste. «Ma dove sei stato, galanu meu? Perche sei uscito prima dell'alba?», chiese zia Tatàna. «Datemi il caffè!», diss'egli, aspro. «Ecco il caffè, ma che cosa hai, cuoricino amato? Sei pallido; rimettiti, riprendi colore prima di recarti dal padrino. Come? Scuoti il capo? Non andrai stamattina dal padrino? Cosa guardi? C'è qualche formica nel caffè?» Egli guardava fisso la piccola scodella rossa filettata d'oro, che serviva esclusivamente per lui: addio piccola scodella; ancora domani e poi addio. Le lagrime gli salivano agli occhi. «Andrò più tardi dal padrino; ora finisco di preparare la roba», disse piano piano, come parlando alla scodella. «E se non ci rivedessimo più?», chiese poi alla donna. «S'io dovessi morire prima del ritorno? E forse sarebbe meglio ... Perché dobbiamo vivere a lungo? Giacché si deve morire è meglio morir presto.» Zia Tatàna lo guardò; fece un segno di croce per aria, e disse: «Tu hai fatto cattivi sogni, stanotte? Perché parli così, agnellino senza lana? Ti fa male il capo?». «Voi non capite niente!», proruppe egli, balzando in piedi. Entrò nella sua cameretta e cominciò a riporre in una piccola valigia i libri e gli oggetti più cari; e di tanto in tanto volgeva gli occhi alla finestra aperta, nel cui sfondo si scorgeva un lembo di cielo autunnale che pareva una tela graziosamente dipinta: una pianura bianchiccia con un laghetto azzurro. Che avrebbe egli veduto dalla finestra della cameretta che l'aspettava a Cagliari? Il mare? Il mare vero, le lontananze infinite dell'acqua azzurra sotto le infinite lontananze del cielo azzurro? Tutto quell'azzurro, veduto e desiderato, lo rasserenò: si pentì d'aver contristato zia Tatàna, ma che poteva farci? Sì, egli sentiva d'essere ingrato, ma i nervi son nervi e non si può loro comandare. Però egli non vuole essere completamente ingrato, no! Lascia la valigia, i libri, le scatole, si precipita in cucina, dove la buona donna scopa con aria tra melanconica e filosofica, forse pensando alle parole funebri dell'«agnellino senza lana», le va sopra, stringe lei e la scopa in uno stesso abbraccio, e le trascina in un giro vorticoso di ballo. «Ah, cattiva lana, che cosa c'è?», grida la vecchia, palpitando di gioia; ma sul più bello Anania scappa, correndo e imitando lo sbuffare del treno. Chiusa la valigia egli andò a congedarsi dai vicini di casa, cominciando da Maestro Pane. La bottega del vecchio falegname, di solito piena di gente, era deserta, e lo studente dovette attendere alquanto, seduto sullo scalino interno della porta, coi piedi fra gli abbondanti trucioli che coprivano il pavimento. Un leggero soffio di vento entrava per la porta, agitando le grandi ragnatele del tetto, cosparse di fili di segatura. Finalmente Maestro Pane arrivò: indossava una vecchia tunica da soldato, della quale curava molto i bottoni lucidissimi, e sorrise con infantile compiacenza quando Anania gli disse che sembrava un generale. «Ho anche il kepì!», disse con serietà. «Vorrei metterlo, ma i ragazzi ridono. E così tu parti, caro bambino? Dio ti accompagni e ti aiuti. Io non ho niente da regalarti!» «Ma vi pare, Maestro Pane?» «Il cuore non manca, ma il cuore non basta! Ebbene, io ti farò una scrivania quando sarai dottore: ho già il modello, vedi?» Cercò un catalogo di mobili, gelosamente nascosto sotto il banco, e fece vedere allo studente una splendida scrivania a colonnine e trafori. «Ti pare impossibile?», disse, risentito, accorgendosi che Anania sorrideva. «Tu non conosci Maestro Pane! Io non ho mai lavorato mobili preziosi e fini perché non avevo fondi, ma sarei buono ... » «Lo credo, lo credo, Maestro Pà! Ed io, quando sarò dottore e ricco, vi farò eseguire tutti i mobili del mio palazzo ... » «Davvero? e quanti anni ci vorranno ancora?» «Eh, chi lo sa? Dieci, quindici ... » «Troppo! Sarò in cielo, allora, nella bottega di San Giuseppe glorioso» (nonostante lo scherzo si fece devotamente il segno della croce). «E, dimmi», riprese, fissando una pagina del catalogo, «cosa vuol dire mobili al-la-Lui-gi-de-ci- mo-quin-to?» «Era un re ... », cominciò Anania. «Questo lo so», rispose vivacemente Maestro Pane, con un malizioso sorriso sulla gran bocca sdentata, «era un re al quale piacevano le ragazzine ... » «Maestro Pane», gridò Anania, strabiliato, «come sapete ciò?» Il vecchietto cominciò a ridere, togliendosi la giubba e piegandola accuratamente. «Ebbene», disse, fingendo un ingenuo stupore per non turbare oltre l'innocenza di Anania, «perché siamo ignoranti non dobbiamo saper nulla? A quel re piaceva giocare e divertirsi coi bambini, come alla regina Ester piaceva andar pei campi a cogliere spighe, ed a Vittorio Emanuele zappare l'orto ... » Ma Anania la sapeva più lunga di Maestro Pane, e chiese anche lui con finta ingenuità: «Avete dunque studiato, voi?». «Io? Avrei voluto, ma non ho potuto; fiore mio, non tutti nascono sotto una buona stella come te.» «E dunque, come sapete queste storie?» «Si raccontano, diavolo! La storia della Regina Ester l'ho udita da tua madre, e quella del Re da Pera Sa Gattu ... » Anania andò via inorridito, ricordando una storiella raccontata molti anni prima da Nanna, una sera d'inverno, nel molino delle olive ... Bussò alla porticina chiusa di Nanna, ma il vecchio pazzo, seduto su una pietra, disse che la donna non c'era. «L'aspetto anch'io», aggiunse, «perché Gesù Cristo ieri sera mi disse che ha bisogno d'una serva.» «Dove l'avete incontrato?» «Nel viottolo ... laggiù», indicò il pazzo; «aveva un cappotto lungo e le scarpe rotte. Ebbene, perché tu non mi dai un paio di scarpe vecchie, Anania Atonzu?» «Vi starebbero strette», disse lo studente, guardandosi i piedi. «E perché non vai scalzo, che una palla ti trapassi la milza?», chiese minaccioso il pazzo, corrugando le irte sopracciglia grigie. «Addio», disse Anania, senza rispondere alla minacciosa domanda, «io parto per gli studi.» Gli occhioni azzurri del vecchio presero una espressione maliziosa. «Tu vai ad Iglesias?» «No, a Cagliari.» «Ad Iglesias ci sono i vampiri e le faine. Addio, dunque: toccami la mano. Così, bravo; non aver paura, non ti mangio. E tua madre dove si trova ora?» «Addio, state bene», disse Anania, ritirando la sua piccola mano dalla manaccia dura del pazzo. «Anch'io devo partire», annunziò il vecchio. «Andrò in un luogo dove si mangiano sempre cose buone: fave, lardo, lenticchie, viscere di pecora.» «Buon pro vi faccia!» «Eh!», gridò il pazzo, quando lo studente si fu allontanato. «Bada alle coreggie gialle! E scrivimi.» Anania si congedò dagli altri vicini, ed anche dalla donna mendicante, che lo ricevette in una cameretta discretamente pulita e gli offrì una tazza di buonissimo caffè. «Tu andrai anche da Rebecca?», gli domandò, con invidia, «quella stupida si è data a mendicare, adesso! Non è una vergogna, una ragazza come lei? Diglielo, dunque!» «È piagata! può appena camminare ... » «No, è guarita. Cosa guardi lassù? È una falce da mietitore.» «Perché sta appesa sulla porta?» «Per il vampiro, che quando penetra di notte nella camera si ferma a contare i denti della falce, e siccome non arriva che al sette ricomincia sempre. Così arriva l'alba, e appena vede la luce il vampiro fugge. Tu ridi? Eppure è vero. Che Dio ti benedica», disse poi la mendicante, accompagnandolo fin sulla strada. «Buon viaggio; e fa onore al vicinato.» Anania entrò da Rebecca: ella pareva ancora una bambina, sebbene avesse più di venti anni, livida, calva, accoccolata nel suo buco nero come una fiera malata nella sua tana. Vedendo lo studente arrossì, e tutta tremante gli offrì, su un primitivo vassoio di sughero, un grappolo d'uva nera. «Lo prenda, dunque ... », balbettò. «Non ho altro ... » «E dammi dunque del tu!», esclamò Anania, strappando un acino dal grappolo. «Non ne sono degna! Io non sono Margherita Carboni; sono una povera immondezza!», rispose animandosi la fanciulla. «Lo prenda dunque questo grappolo! È pulito; io non l'ho neppure toccato! Me lo portò zio Pera Sa Gattu.» «Zio Pera?», chiese Anania, ricordando con disgusto la storiella di Maestro Pane. «Sì, poveretto! Egli si ricorda sempre di me, e tutti i giorni mi porta qualche cosa: il mese scorso sono stata malata perché mi si sono riaperte le piaghe, e zio Pera fece venire il medico e portò le medicine. Ah, egli fa per me ciò che farebbe mio padre se ... Ma egli mi ha abbandonata! Basta!» disse poi Rebecca, accorgendosi di aver toccato un tasto doloroso per Anania. «Lei dunque non vuole il grappolo? È pulito, però.» «E dallo qui! Ma dove lo metto? Aspetta: lo avvolgo in questo giornale. Io dunque parto, sai. Vado a Cagliari per gli studi. Arrivederci; sta bene e curati.» «Addio!», diss'ella, con gli occhi pieni di lagrime. «Anch'io vorrei partire!» Anania uscì e vedendo sulla porta della bettola la bella Agata si avvicinò per congedarsi anche da lei. Appena lo scorse, la ragazza cominciò a sorridergli, con gli occhioni lucenti, ed a fargli segni d'addio con la mano. «Tu facevi all'amore con quel mucchietto di marcia!», chiese accennando Rebecca affacciatasi alla porta. «Allontanati, che puzzi orribilmente.» Anania fece un gesto di raccapriccio, pensando istintivamente a Margherita. «Eppure», proseguì l'altra, ridendo e guardandolo languidamente, «essa è gelosa di me. Osserva come guarda! Stupida! Ella pensa sempre a te perché l'ultima notte dell'anno scorso, quando sorteggiammo gli innamorati, il tuo nome venne fuori assieme col suo!» «Lo so, dunque! Finiscila!», diss'egli infastidito. «Io parto domani; addio. Desideri qualche cosa?» «Prendimi con te!», ella propose con ardore. Un pastore, che aveva finito di sorseggiare un calice d'acquavite, uscì dalla bettola e pizzicò la fanciulla. «Sas manos siccas, lepre pelata!», gridò Agata; poi attirò Anania entro la bettola e gli chiese che cosa desiderava bere. «Niente, addio, addio.» Ma Agata gli versò un calice di vino bianco, e mentre egli beveva, ella, appoggiatasi languidamente al banco, guardava fuori e diceva: «Anch'io verrò presto a Cagliari; appena avrò un costume nuovo e i bottoni d'oro per la camicia, verrò a Cagliari e cercherò servizio. Così ci rivedremo ... Oh, diavolo, ecco che viene Antonino; egli mi vuole in isposa ed è molto geloso di te. Ah, gioiello mio, addio, vattene ... ». Dicendo così si gettò su lui con uno slancio felino e lo baciò sulla bocca; poi lo spinse ad uscire, ed egli andò via sbalordito e turbato; e incontrando Antonino capì finalmente perché costui lo guardava con odio. Per qualche minuto camminò senza avvedersi dove andava: gli pareva d'aver baciato Margherita e il desiderio di vederla lo rendeva fremente. «Ah», gridò ad un tratto, trovandosi fra le braccia d'una donna. «Figliuolino del mio cuore», disse Nanna, piangendo comicamente e porgendogli un involtino, «tu dunque parti? Il Signore ti accompagni e ti benedica come benedice la spiga del frumento. Noi ci rivedremo ancora, ma intanto ecco ... non rifiutare, sai, perché io ne morrei di dolore ... » Per impedire la morte di Nanna egli prese l'involtino; poi trasalì sentendo sulla sua guancia qualcosa di viscido e un pestilenziale soffio di acquavite. «Ebbene», balbettò Nanna, dopo averlo baciato, «non ho potuto resistere. Pulisciti la guancia: no, essa non deve restar macchiata pei baci odorosi come garofani, delle fanciulle d'oro che ti raccatteranno come un confetto.» Anania non protestò, ma quel terribile urto con la realtà lo rimise in equilibrio, cancellando la sensazione ardente del bacio d'Agata. Rientrato a casa svolse l'involtino e trovò tredici soldi che cominciò a far risonare fra le mani. «Sei stato dal padrino?», chiese zia Tatàna. «Andrò fra poco, dopo mangiato.» Ma appena mangiato uscì nel cortile e si sdraiò sopra una stuoia, sotto il sambuco. L'aria era tiepida; attraverso i rami Anania vedeva grandi nuvole bianche passare sul cielo turchino; egli guardava e sentiva una dolcezza infinita calare da quelle nuvole; pareva una pioggia di latte tiepido. Ricordi lontani, erranti e cangianti come le nuvole, gli sfioravano la mente, confusi con le impressioni recenti. Ecco, egli rivede il paesaggio melanconico vigilato dai pini sonori, dove suo padre ara la terra per seminare il frumento del padrone. I pini hanno un rombo che pare la voce del mare; il cielo è profondamente e tristemente azzurro. Anania ricorda due versi ... «I suoi occhi sono azzurri, vuoti e profondi come il cielo.» Gli occhi di Margherita? No; egli offende Margherita pensando così; ma intanto è felice di ripetere versi così originali ... «I suoi occhi sono azzurri, profondi e vuoti come il cielo.» Chi passa dietro il pino? Il portalettere dai baffi rossi: una cornacchia, con le ali aperte, batte forte il becco sulla fronte del povero uomo. Dun, dun, dun! Margherita corre ad aprire, prende la lettera rosea a fili verdi, e comincia a volare. Anania vorrebbe seguirla, ma non può: non può muoversi, non può parlare; ecco però il portalettere che si avvicina e lo scuote ... «Sono le tre, figlio mio; quando dunque andrai dal padrino?», chiese zia Tatàna, scuotendolo. Egli balzò in piedi con un occhio chiuso e l'altro aperto, una guancia pallida e rossa l'altra. «Che sonno!», disse stirandosi. «È che stanotte non ho dormito per niente. Ora vado.» Andò a lavarsi, si pettinò, perdette mezz'ora a farsi la scriminatura da una parte, poi nel mezzo, poi a farla scomparire del tutto. Il cuore gli batteva con angoscia. «Che è questo? Che diavolo ho?», pensava, e voleva dominarsi ma non ci riusciva. «Sei ancora lì? quando dunque andrai?», gridò la vecchia dal cortile. Egli si affacciò alla finestra. «Cosa dunque gli dirò!» «Che parti domani; che farai da bravo; che sarai sempre un figlio rispettoso.» «Amen! E lui cosa mi dirà?» «Ti darà dei buoni consigli.» «Non mi parlerà di quella cosa ... » «Di quale cosa?» «Dei denari!», diss'egli, abbassando la voce e portandosi le mani alla bocca. «Oh, benedetto!», rispose la vecchia sollevando le braccia. «Che ci hai da veder tu? Tu non sai nulla!» «E allora vado ... » Ma invece andò da Bustianeddu, poi nell'orto per congedarsi da zio Pera ed anche dai fichi d'India, dai cardi, dal panorama, dall'orizzonte ... Trovò il vecchio sdraiato sull'erba col randello posato anch'esso sull'erba con attitudine di riposo. «Dunque parto zio Pera, addio: state bene e divertitevi!» «Eh?», chiese il vecchio, che diventava sordo e cieco. «Parto!», gridò Anania. «Vado a Cagliari per studiare ... » «Il mare? Sì, a Cagliari c'è il mare. Dio ti accompagni e ti benedica, figlio mio. Il vecchio zio Pera non ha nulla da darti, ma pregherà per te ... » «Avete niente da comandarmi?», chiese Anania, curvandosi, con le mani sulle ginocchia. Il vecchio si sollevò, lo guardò fisso e sorrise: «Che vuoi che ti comandi? Anch'io devo partire!». «Anche voi?», esclamò lo studente, sorridendo per la smania che tutti, anche i vecchi decrepiti, avevano di partire. «Anch'io.» «E per dove, zio Pera?» «Ah, per un paese lontano!», disse il vecchio stendendo la mano verso l'orizzonte. «Per l'Eternità!» Soltanto sul tardi, dopo esser passato e ripassato sotto le finestre di Margherita senza poter scorgere la fanciulla, Anania entrò e chiese del padrino. «Non c'è nessuno in casa. Se attendi rientreranno fra poco», disse la serva con arroganza. «Perché non sei venuto prima?» «Perché faccio quel che mi pare e piace», diss'egli entrando. «È giusto, meglio perdere il tempo con quella schifosa d'Agata che venire a riverire i benefattori.» «Auff!», egli sbuffò, appoggiandosi alla finestra dello studio. Ah, la serva lo umiliava come in quella notte lontana quando egli con Bustianeddu eran venuti per chiedere una scodella di brodo: nulla era cambiato; egli era sempre un servo, un beneficato. Lagrime di rabbia gli inumidirono gli occhi. «Ma io sono un uomo!», pensò. «Posso rinunziare a tutto, lavorare la terra, fare il soldato, ma non esser vile. Ora me ne vado.» E si staccò dalla finestra, ma sfiorando la scrivania già illuminata dalla luna, scorse fra le carte buttate su alla rinfusa una busta rosea a righe verdi. Il sangue gli salì al capo; le orecchie gli arsero, percosse da una vibrazione metallica; incoscientemente si curvò e prese la busta. Sì, era quella, squarciata e vuota. Gli parve di toccare la spoglia di una cosa per lui sacra, ch'era stata violata; ah, tutto, tutto era finito per lui, l'anima sua era vuota e sbranata come quella busta. D'un tratto una viva luce inondò la stanza; egli vide Margherita entrare, ed ebbe appena il tempo di lasciar cadere la busta, ma si accorse che la fanciulla aveva indovinato il suo atto, ed una viva vergogna si unì al suo dolore. «Buona sera», disse Margherita deponendo il lume sulla scrivania, «ti hanno lasciato al buio.» «Buona sera», egli mormorò, deciso a spiegarsi e poi fuggire e non lasciarsi vedere mai più. «Siedi.» Egli la fissava con occhi attoniti; sì, quella era Margherita, ma in quel momento egli la odiava. «Scusa», cominciò a balbettare. «Non l'ho fatto apposta, non sono un vile, io, ma ho veduta quella ... questa busta», la toccò col dito, «e non ho potuto ... L'ho guardata ... » «È tua?» «È mia.» Margherita arrossì e si confuse, mentre Anania, come liberato da un peso, cominciava a distinguere le cose e a ragionare. Il suo orgoglio, offeso dalla vergogna patita, lo consigliava a dire che l'invio del sonetto era stato uno scherzo; ma Margherita, nel suo vestito da passeggio, con la vita stretta da un nastro verde lucente, era così bella e pura che mentire con lei sarebbe stato come mentire con un angelo! Anania avrebbe voluto spegnere il lume e restare al chiaro di luna, solo con lei, e caderle ai piedi, e chiamarla coi più dolci nomi; ma non poteva, non poteva, sebbene s'accorgesse che anche lei sollevava e abbassava gli occhi con delizioso terrore, in attesa del suo grido d'amore. «Ha letto, tuo padre?», egli chiese a bassa voce. «Sì, ha letto; e rideva», ella rispose, commossa. «Rideva?» «Sì, rideva. Alla fine mi diede il foglio e disse: "Chi diavolo sarà?".» «E tu? E tu?» «Ed io ... » Essi parlavano piano, ansiosi, già avviluppati dal mistero di una complicità deliziosa; ma improvvisamente Margherita cambiò voce ed aspetto. «Oh, ecco papà. C'è Anania!», esclamò correndo verso l'uscio; e uscì rapidamente, mentre Anania ricadeva nel massimo turbamento. Egli sentì la mano calda e molle del padrino stringere la sua, e vide gli occhi azzurri e la catena d'oro scintillare, ma non ricordò mai precisamente i buoni consigli e le barzellette che il padre di Margherita quella sera gli prodigò. Un dubbio amaro lo tormentava. Aveva o no capito Margherita il vero significato del sonetto? E che ne pensava? Ella non aveva detto nulla a proposito, nei preziosi istanti che egli s'era così stupidamente lasciato sfuggire. L'aspetto turbato di lei non gli bastava; no; ed egli voleva sapere di più, voleva sapere tutto ... «Che cosa?», si domandò con tristezza. Niente. Era tutto inutile. Anche se ella aveva capito, anche se ella gli voleva bene ... Ma questa era una stupidaggine. Eppoi tutto era inutile! Un vuoto immenso lo circondava, e in questo vuoto la voce del signor Carboni si perdeva senza essere ascoltata, come in un abisso deserto. «Sta lieto e non pensare ad altro che a studiare!», concluse il padrino, vedendo che Anania sospirava. «Allegro dunque! Sii uomo e fatti onore!» Margherita rientrò accompagnata dalla madre, che prodigò allo studente la sua parte di consigli e d'incoraggiamenti. La fanciulla andava e veniva per la stanza; s'era ravviata i capelli in modo civettuolo, lasciando un ciuffetto sulla tempia sinistra, e, quel che più importa, s'era incipriata. I suoi occhi scintillavano; era bellissima, ed Anania la seguiva con uno sguardo delirante, ripensando al bacio di Agata. Come attirata dal fascino di quello sguardo, quando egli andò via ella lo seguì e lo accompagnò fino al portone. La luna illuminava il cortile, come in quella sera lontana, quando la visione altera eppur soave di lei aveva destato nel bimbo la coscienza del dovere: anche adesso ella appariva altera e soave, e camminava leggera, con un fruscìo d'ali, pronta a volare: ed Anania credeva ancora di sognare, di vederla sollevarsi davvero e sparire nell'infinito, e di non poterla raggiungere mai più; e il desiderio di stringerle la vita sottile, cinta dal nastro lucente, gli dava le vertigini. «Non la vedrò più! Cadrò morto appena ella avrà chiuso il portone», pensò, quando giunsero al limite fatale. Margherita tirò il catenaccio, poi si volse e porse la mano allo studente. Era pallidissima. «Addio ... Ti scriverò ... Anania ... » «Addio», egli disse, tremando di gioia; ma invece di andarsene si ritrasse nell'ombra e attirò a sé Margherita. E parve ad entrambi che il contatto delle loro labbra facesse scoppiare qualche cosa di terribile e di grandioso nell'aria, perché, mentre si baciavano perdutamente, sentirono come il rombo e l'ardore e la luce del fulmine.

Egli andò, raccontò la gita, si abbandonò alle carezze di lei come un viandante stanco si abbandona alle carezze del vento, all'ombra d'un albero, sull'orlo della via; ma non poté dire una sola parola sul cupo segreto che lo divorava. 18 settembre, ore due di notte Margherita, Sono rientrato a casa adesso, dopo aver pazzamente errato per le strade. Mi pare d'impazzire da un momento all'altro ed è anche questa paura che mi spinge a confidarti, - dopo una lunga inenarrabile indecisione, - il dolore che mi uccide. Ma voglio esser breve. Margherita, tu sai chi io sono: figlio della colpa, abbandonato da una madre più disgraziata che colpevole, io sono nato sotto un astro terribile e devo espiare delitti non miei. Inconsapevole del mio triste destino, spinto dalla fatalità, io ho trascinato con me, nell'abisso dal quale io non potrò mai uscire, la creatura che ho amato sopra tutte le creature della terra. Te, Margherita ... Perdonami, perdonami! Questo è il mio più immenso dolore, il rimorso terribile che mi strazierà per tutto il resto della vita, se pure vivrò ... Senti. Mia madre è viva: dopo una esistenza di colpe e di dolori, ella è risorta davanti a me come un fantasma. Essa è miserabile, malata, invecchiata dal dolore e dalle privazioni. Il mio dovere, tu stessa lo dici a te stessa in questo momento, è di redimerla. Ho deciso di riunirmi con lei, di lavorare per sostenerla, di sacrificare la vita stessa, se occorre, per compiere il mio dovere. Margherita, che dirti altro? Mai come in questo momento ho sentito il bisogno di aprirti tutta l'anima mia, simile ad un mare in tempesta, e mai ho sentito mancarmi le parole come mi mancano in quest'ora decisiva della mia vita. La ragione stessa mi manca; ho ancora sulle labbra il profumo dei tuoi baci e tremo di passione e di angoscia ... Margherita, Margherita, la mia vita è nelle tue mani! Abbi pietà di me ed anche di te. Sii buona come io ti ho sempre sognata! Pensa che la vita è breve, e che la sola realtà della vita è l'amore, e che nessun uomo della terra ti amerà come ti amo e ti amerò io. Non calpestare la nostra felicità per i pregiudizi umani, i pregiudizi che gli uomini invidiosi inventarono per rendersi scambievolmente infelici. Tu sei buona, sei superiore: dimmi almeno una parola di speranza per l'avvenire. Ma che dico? Io divento pazzo; perdonami, e ricordati che, qualunque cosa accada, io sarò sempre tuo per l'eternità. Scrivimi subito ... A. 19 settembre Anania, La tua lettera mi sembra un orrendo sogno. Anch'io non trovo parole per esprimermi. Vieni stanotte, alla solita ora, e decideremo assieme il nostro destino. Sono io che devo dire: la mia vita è nelle tue mani. Vieni, ti aspetto ansiosamente ... M. 19 settembre Margherita, Il tuo bigliettino mi ha gelato il cuore; sento che il mio destino è già deciso, ma un filo di speranza mi guida ancora. No, non posso venire; anche volendolo non potrei venire. Non verrò se tu non mi dirai prima una parola di speranza. Allora correrò a te per inginocchiarmi ai tuoi piedi e per ringraziarti e adorarti come una santa. Ma ora no, non posso, e non voglio. Quanto ti scrissi la notte scorsa è la mia irrevocabile decisione; scrivimi, non farmi morire in questa attesa terribile. Il tuo infelicissimo A. 19 settembre, mezzanotte Anania, Nino mio, Ti ho aspettato fino a questo momento, palpitante di dolore e di amore, ma tu non sei venuto, tu forse non verrai mai più, ed io ti scrivo, in quest'ora soave dei nostri convegni, con la morte nel cuore e le lagrime negli occhi non ancora stanchi di piangere. La luna smorta cala sul cielo velato, la notte è melanconica e quasi lugubre e mi pare che tutto il creato si rattristi per la sventura che opprime il nostro amore. Anania, perché mi hai tu ingannato? Io sapevo sì, come tu dici, quello che tu sei, e ti amai appunto perché sono superiore ai pregiudizi umani, perché volevo ricompensarti delle ingiustizie che la sorte aveva tramato a tuo danno, e sopratutto perché credevo che anche tu, anche tu fossi superiore ai pregiudizi, e avessi riposto in me, come io avevo riposto in te, tutta la tua vita. Invece mi sono ingannata; o meglio sei stato tu ad ingannarmi, tacendomi i tuoi veri sentimenti. Ho sempre creduto che tu sapessi che tua madre viveva, e dove si trovava, e la vita che conduceva; ma ero certa che tu, vilmente abbandonato da lei, non facessi più caso d'una madre snaturata, tua sventura e disonore, e la ritenessi come morta per te e per tutti ... Non solo, ma ero certa che se ella osava presentarsi a te, come pur troppo é accaduto, tu non ti saresti degnato neppure di guardarla ... E invece, invece! Invece tu ora scacci chi ti ha lungamente amato e ti amerà sempre, per sacrificare la tua vita e il tuo onore a chi ti ha abbandonato, bambino inconsapevole; a chi ti avrebbe ucciso o lasciato in un bosco, in un deserto, pur di liberarsi di te. Ma è inutile che io ti scriva queste cose, perché tu certamente le capisci meglio di me; ed è inutile che tu continui ad illudermi e ad invocare sentimenti che io non posso avere dal momento che neppure tu li hai. Perché, vedi, io capisco benissimo che tu vuoi sacrificarti non per affetto, e neppure per generosità, - perché probabilmente tu odii giustamente la donna che fu la tua rovina, - ma spinto da quei pregiudizi umani inventati dagli uomini per rendersi scambievolmente infelici. Sì, sì: tu vuoi sacrificarti per il mondo; tu vuoi rovinarti e rovinare chi ti ama, solo per la vanità di sentir dire: "hai fatto il tuo dovere!". Tu sei un fanciullo, e il tuo è un sogno pericoloso ma anche, permettimi di dirtelo, anche ridicolo. La gente, sapendolo, ti loderà, sì, ma in fondo riderà della tua semplicità. Anania, torna in te, sii buono, con te e con me, come tu dici, e sopratutto sii uomo. No, io non dico di abbandonare tua madre, debole e infelice, come essa ti ha abbandonato: no, noi l'aiuteremo, noi lavoreremo per lei, se occorre, ma che essa stia lontana da noi, che essa non venga a mettersi fra noi, a turbare la nostra vita con la sua presenza. Mai! mai! Perché dovrei ingannarti, Anania? Io non posso neppure lontanamente ammettere la possibilità di vivere assieme con lei ... Ah, no! Sarebbe una vita orrenda, una continua tragedia; meglio morire una buona volta che morire lentamente di rancore e di disgusto. Io non ho mai amato quella disgraziata; ora ne sento pietà, ma non posso amarla; e ti scongiuro di non insistere nel tuo pazzo progetto, se non vuoi farmela nuovamente odiare mille volte più di prima. Questa la mia ultima decisione; sì, aiutarla, ma tenerla lontana, che io non la veda mai, che possibilmente il mondo dove vivremo noi ignori che ella esiste. Pensa che anche lei, forse, sarà più contenta di vivere lontana da te, la cui presenza le causerebbe un continuo rimorso. Tu dici che é invecchiata dal dolore, dalle privazioni, miserabile e malata; ma di chi la colpa se non sua? Per te, ed anche per lei, è meglio che ella si trovi in quello stato; così cesserà di vagabondare, e, non ti disonorerà più; ma che ella, dopo averti oltraggiato quando era sana e giovane, non si faccia un'arma della miseria e della debolezza per richiedere il sacrifizio della tua felicità! ... Ah, questo no, non devi permetterlo mai! No, non è possibile che tu compia una aberrazione fatale! A meno che tu non mi ami più e colga l'occasione per ... Ma no, no, no! Neppure voglio dubitare di te, della tua lealtà e del tuo amore! Anania, ritorna in te, ti ripeto, non essere malvagio e crudele con me, che ti diedi tutti i miei sogni, tutta la mia giovinezza, tutto il mio avvenire, mentre vuoi essere generoso verso chi ti ha odiato e rovinato. Abbi pietà ... vedi ... io piango, io ti imploro, anche per te, che vorrei veder felice come sempre sognai ... Ricordati tutto il nostro amore, il nostro primo bacio, i giuramenti, i sogni, i progetti, tutto, tutto ricorda! Fa che tutto non si risolva in un pugno di cenere; fa che io non muoia di dolore; fa che tu stesso non abbi a pentirti del tuo pazzo procedere. Se non vuoi dar retta ai miei consigli interroga persone serie, persone di Dio, e vedrai che tutti ti diranno qual è il tuo vero dovere, che tutti ti diranno di non essere ingrato, né malvagio. Ricorda, Anania, ricorda! Anche ieri notte mi dicevi che dalla vetta del Gennargentu gridasti il tuo amore, proclamandolo eterno. Dunque mentivi; anche ieri notte mentivi? E perché? ... Perché mi tratti così! Che ho fatto io per meritarmi tanto dolore? Possibile che tu non ricordi come ti ho sempre amato? Ricordi una sera che io stavo alla finestra e tu mi buttasti un fiore, dopo averlo baciato? Io conservo quel fiore per ornarne il mio vestito da sposa; e dico conservo perché son certa che tu sarai il mio sposo diletto, che tu non vorrai far morire la tua Margherita (e il tuo sonetto lo ricordi?), che saremo tanto felici, nella nostra casetta, soli soli col nostro amore ed il nostro dovere. Sono io che aspetto da te, subito, una parola di speranza. Dimmi che tutto fu un sogno tormentoso; dimmi che la ragione è ritornata in te, e che ti penti d'avermi fatto soffrire. Domani notte, o meglio stanotte, perché è già passata la una, ti aspetto; non mancare; vieni, adorato, vieni, diletto mio, mio amato sposo, vieni: io ti aspetterò come il fiore aspetta la rugiada dopo una giornata di sole ardente; vieni, fammi rivivere, fammi dimenticare; vieni, adorato, le mie labbra, ora bagnate d'amaro pianto, si poseranno sulla tua bocca amata come ... «No! no! no!», disse convulso Anania, torcendo la lettera senza leggerne le ultime righe. «Non verrò! Sei vile, vile, vile! Morrò ma non mi vedrai mai più.» Coi fogli stretti nel pugno si gettò sul letto, e nascose il viso sul guanciale, mordendolo, comprimendo i singhiozzi che gli gonfiavano la gola. Un fremito di passione lo percorreva tutto, dai piedi alla nuca; le invocazioni di Margherita gli davano un desiderio cupo dei baci di lei, e a lungo lottò acerbamente contro il folle bisogno di rileggere la lettera sino in fondo. Ma a poco a poco riprese coscienza di sé e di ciò che provava. Gli parve di aver veduto Margherita nuda, e di sentire per lei un amore delirante e un disgusto così profondo che annientava lo stesso amore. Come ella era vile! Vile sino alla spudoratezza. Vile e coscientemente vile. La Dea ammantata di maestà e di bontà aveva sciolto i suoi veli aurei ed appariva ignuda, impastata d'egoismo e di crudeltà; la Minerva taciturna apriva le labbra per bestemmiare; il simbolo s'apriva, si spaccava come un frutto, roseo al di fuori, nero e velenoso all'interno. Ella era la Donna, completa, con tutte le sue feroci astuzie. Ma il maggior tormento di Anania era il pensare che ella indovinava i suoi più segreti sentimenti e che aveva ragione: sopratutto ragione di rimproverargli l'inganno usatole, e di pretendere da lui il compimento dei suoi doveri di gratitudine e d'amore. «È finita!», pensò. «Doveva finire così.» Si rialzò e rilesse la lettera: ogni parola lo offendeva, lo disgustava e lo umiliava. Margherita dunque lo aveva amato per compassione, pur credendolo vile come era vile lei. Ella forse aveva sperato di farsi di lui un servo compiacente, un marito umile; o forse non aveva pensato a nulla di tutto questo; ma lo aveva amato solo per istinto, perché era stato il primo a baciarla, il solo a parlarle d'amore. «Ella non ha anima!», pensò il disgraziato. «Quando io deliravo, quando io salivo alle stelle e mi esaltavo per sentimenti sovrumani, ella taceva perché nella sua anima era il vuoto, ed io adoravo il suo silenzio che mi sembrava divino; ella ha parlato solo quando si destarono i suoi sensi, e parla ora che la minaccia il pericolo volgare del mio abbandono. Non ha anima né cuore. Non una parola di pietà: non il pudore di mascherare almeno il suo egoismo. Eppoi come è astuta! La sua lettera è copiata e ricopiata, sebbene riveli la grossolana ignoranza di lei: quanti "che", ci sono! Mi sembrano martelli, pronti a fracassarmi il cranio. Le ultime righe, poi, sono un capolavoro ... ella sapeva già, prima di scriverle, l'effetto che dovevano produrre ... ella è più vecchia di me ... ella mi conosce perfettamente, mentre io comincio appena adesso a conoscerla ... ella vuole attirarmi al convegno perché è sicura che se io ci vado mi inebrio e divento vile ... Inganno! inganno! inganno! Come la disprezzo ora! Non una parola buona, non uno slancio generoso, niente, niente! Ah, che rabbia!» (torse di nuovo la lettera) «Vi odio tutti; vi odierò sempre! Voglio essere cattivo anch'io; voglio farvi soffrire, schiantare, morire ... Cominciamo!» Prese il sacchettino ancora avvolto nel fazzoletto di colore, e poco dopo lo mandò a zia Grathia. «Tutto è finito!», ripeteva ogni momento. E gli pareva di camminare nel vuoto, fra nuvole fredde, come sul Gennargentu; ma adesso invano guardava sotto, intorno a sé: non via di scampo; tutto nebbia, vertigine, orrore. Durante la giornata pensò cento volte al suicidio; s'informò se poteva presentarsi subito agli esami per maestro elementare o per segretario comunale; andò nella bettola e presa fra le braccia la bella Agata (già fidanzata con Antonino), la baciò sulle labbra. Turbini di odio e di amore per Margherita gli attraversavano l'anima; più rileggeva la lettera più ella gli sembrava perfida; più sentiva d'allontanarsele più l'amava e la desiderava. Baciando Agata ricordava l'impressione violenta che il bacio della bella paesana gli aveva destato un giorno; anche allora Margherita era tanto lontana da lui, un mondo di poesia e di mistero li divideva; e questo stesso mondo, crollato, li divideva ancora. «Che hai?», gli chiese Agata, lasciandosi baciare. «Vi siete bisticciati, con lei? Perché mi baci?» «Perché mi piaci ... Perché sei puzzolente ... » «Tu hai bevuto», diss'ella, ridendo. «Se ti piacciono le donne così, puoi andare da Rebecca ... Se però Margherita viene a saperlo!» «Taci!», diss'egli, adirandosi. «Non pronunziar neppure il suo nome ... » «Perché?», chiese Agata, freddamente maligna. «Non diverrà mia cognata? È forse diversa da noi? È una donna come noi. Perché noi siamo povere? Chissà poi se anch'ella sarà ricca! Se fosse stata certa di ciò, forse ti avrebbe tenuto sempre a bada finché trovava un partito migliore di te!» «Se non la finisci ti batto ... », diss'egli furibondo. Ma l'insinuazione di Agata accrebbe i suoi sentimenti: oramai egli riteneva Margherita capace di tutto. Verso sera si mise a letto, con la febbre, deciso a non alzarsi, l'indomani, affinché Margherita venisse a sapere ch'egli era malato, e ne soffrisse. Giunse ad immaginarsi una segreta visita di lei; e pensando alla scena che ne sarebbe seguita, tremava di dolcezza. Ma ad un tratto questo sogno gli apparve qual era, puerilmente sentimentale, e ne provò vergogna. Si alzò ed uscì. Alla solita ora si trovò davanti al portone di Margherita. Ella stessa aprì. Si abbracciarono e si misero entrambi a piangere; ma appena Margherita cominciò a parlare, egli sentì un invincibile disgusto per lei, poi un senso di gelo. No, egli non l'amava più, non la desiderava più. Si alzò e andò via senza pronunziar parola. Giunto in fondo alla strada tornò indietro, s'appoggiò al portone e chiamò: «Margherita!». Ma il portone rimase chiuso.

ARABELLA

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De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Dio forse mi punisce, o almeno mi abbandona. Il male è più forte del bene nel mondo, dove, per un cuore che si sacrifica in olocausto sull'altare della virtù, cento egoismi vigliacchi e potenti trionfano incoronati della loro sfrontatezza. Il bene è un sole luminoso ma troppo in alto, mentre di male è seminata la terra che non dà altro frutto e di questo bisogna mangiare per vivere. Mentre scrivo colla febbre indosso, mi pare che anche l'inchiostro abbia color di fango. Zio, o io sono per impazzire o sono molto malata. Non frapponga indugio: venga, non mi lasci naufragare in quest'oceano di amarezze... intendo di chiedere la separazione legale, subito, senza esitazioni, senza restrizioni. Intendo restituire a quella gente tutto ciò che potrò restituire e di partirmene più povera di prima. Nessuno compenserà il male che questa gente mi ha fatto, ma io perdonerò tutto, se ciò può muovere la misericordia di Dio ad aver compassione di me. La fede non basta, lei forse lo sa, che ha sofferto anche lei la sua parte nel mondo. Sopraggiungono pensieri che per poco non spingono alla disperazione. Venga subito a Milano, mio buon zio, e faccia valere per partir subito, la ragione che una sua povera nipote è sull'orlo del sepolcro. Più malata di me non si può essere e la morte dev'essere una cosa ben terribile, se per morire si deve soffrire di più. Mi telegrafi il suo arrivo qui a Milano in casa..." La mano fu arrestata nella ricerca d'un indirizzo. Arabella alzò la testa, come se si svegliasse da un lungo sonno, si guardò intorno con occhio smarrito, impaurendosi di trovarsi a un tratto sola, in casa altrui, di notte, ospite di gente quasi sconosciuta. Che cosa era venuta a fare in questa casa non sua? La Colomba, rotta dalla fatica, s'era addormentata col capo appoggiato al letto. Il suo respiro lungo e oppresso era l'unico rumore che rompesse il gelido silenzio della stanza, mentre di fuori la furia d'un vento primaverile faceva stormir la pianta. Qualche stella scintillava sul nero sfondo dei vetri. Sentì sonare alcune ore che il vento portò via senza lasciarle contare. Coi gomiti appoggiati al tavolino, reggendo la testa coi palmi, rabbrividendo ai soffi freddi che entravan per le fessure, Arabella si abbandonò alla vertigine de' suoi pensieri, che la travolsero di ombra in ombra fino all'orlo di un assopimento che ha del sonno tutti i fantasmi ma non l'oblio. E poiché tutti i dolori si conoscono tra loro, il suo patimento presente la menò a risentire le angoscie provate al letto del povero Bertino, a confondere nel rilassamento delle sensazioni se stessa col povero piccino agonizzante, a compassionare se stessa in lui, a combattere confusamente contro la morte, che voleva portarsi via il caro biondino. Rivide lo squallore delle Cascine, lo smarrimento della sua povera mamma divenuta vecchia vecchia. E allora cercava di dimostrarle che il malato non era il bimbo, ma un'altra creatura, che perdeva la vita col sangue negli spasimi mortali di un aborto: finché sopraggiungeva anche lo zio Demetrio a fare un discorso lungo e confuso sul conto del signor Tognino... Si risvegliò a una voce che chiamava lì presso. In principio credette che fosse ancora lo zio Demetrio, ma quando riconobbe il luogo, la scrivania, la lettera rimasta tronca, capì che aveva fatto un sogno. "Ho sete..." ripeté ancora la voce di poco prima, La Colomba dormiva pesantemente sdraiata sul tappetino. Arabella, riconosciuta la voce del malato, si alzò, pose la lucernetta sul cassettone e si mosse a dargli da bere. Ferruccio s'era un poco levato sul cuscino per togliersi il sacchetto del ghiaccio, che gli scivolava dietro il collo. Vedendo venire verso di lui la signora Arabella, socchiuse gli occhi e dondolò un poco la testa, come chi si accorge di vaneggiare sempre e mostra di compiangere se stesso. Arabella versò dell'acqua nella tazza e l'accostò alla bocca del malato, che riaprì gli occhi e bevette quasi fino al fondo. "Come si sente?" Il giovine fissò gli occhi in faccia alla sua visione e interrogò ancora una volta colla pupilla immobile: "È proprio lei?" balbettò. "Vuol bere ancora?" "No, no..." disse Ferruccio, senza mai distaccare gli occhi dalla sua visione. "Vuol ancora il ghiaccio sulla testa?" "No, no..." e allungò la mano per prendere quella del suo fantasma. Sentì veramente una mano viva e calda. E, come se da quel calore irradiasse la vita, la faccia dell'infermo arrossì, la pupilla si illuminò, e dopo aver chiusi gli occhi per sottrarsi a un acuto tormento, li riaprì velati di lagrime. "Perché è qui?" interrogò sommessamente. "Lo saprà: ora stia tranquillo e lasci riposare la povera zia." Ferruccio si tirò sotto obbediente. Non era ben sicuro che non fosse un sogno. Cominciò ad albeggiare. Il cielo prese a schiarirsi dietro i ricami del castagno amaro, in cui svegliavasi il bisbiglio degli uccelli. La lucernetta non avendo più olio, Arabella la portò in cucina e la spense: poi ritornò nello stanzino, coprì le spalle col dolman, si rannicchiò di nuovo davanti alla scrivania, la faccia nelle mani, tutta raccapricciante nei brividi mattutini, mezza istupidita dal sonno e dalle emozioni. A San Barnaba suonò l'avemaria, e ad ogni rintocco della campanella il cielo seguitò a schiarirsi, come se obbedisse ad un comando, finché una pennellata di carminio venne ad illuminare i comignoli e le gronde dei tetti. Il vento, spazzate le nuvole, aveva preparata una splendida giornata alle miserie umane. Ferruccio raccolse l'armonia di quel risveglio e cercò inutilmente intorno a sé la dolce immagine, che era venuta a porgere ristoro alle sue fauci infocate. Vide invece la zia Colomba, che, riscossa dal suono della campana, saltava in piedi tutta agitata. "Hai dormito?" "Sì." "Tu sei più fresco, mio cuore. Ho dormito anch'io un pezzo." Ferruccio si persuase ch'egli aveva proprio sognata la dolce consolatrice e sospirò. La zia Colomba nel suo dormire fitto e pesante aveva dimenticata interamente la povera creatura che era venuta a cercare ospitalità in casa sua e fu per trasalire di paura, quando vide un corpo mezzo abbandonato sul tavolino nella luce crepuscolare. Si accostò, posò la mano sulla testina fredda, e presa da quell'impeto di carità umana, che nel cuore della povera gente non è ancora guasto dalle definizioni, si abbassò su quel corpo irrigidito, strinse la testina nelle mani, vi accostò il viso per riscaldarla e seguendo i suggerimenti della buona madre natura, prese a dire sommessamente: "O la mia povera figliuola, o il mio caro angelo, che ho abbandonato qui solo a patire. O il mio povero faccino freddo, le mie povere manine... Il sonno ha tradito anche me..." A questa voce che la compassionava, come se in lei si spezzasse un edificio di ghiaccio che l'aveva sorretta nella sua rigida lotta contro gli uomini, nella debolezza in cui è sempre la coscienza mescolata alle ombre dei sogni, Arabella fu presa da un tal delirio di pianto, che una bambina schiacciata dalle ruote di un carro non avrebbe potuto gridare di più. Quel gran mucchio di mali, che da otto mesi era andato accumulandosi a fuscellini, divampava in una fiammata. Oh avete un bel dire che la donna è nata pel sacrificio, che può colla grazia e colla sua forza morale vincere e abbellire la tristezza d'ogni destino, assurgere al disopra del fango che la circonda, compiere anche in mezzo alle abbiezioni la sua missione d'amore e di pazienza! Avete un bel dire che a lei la fede è sostegno incrollabile: non è vero. La donna ha bisogno d'amare e d'essere amata, come il fiore ha bisogno d'aria e di luce. Quando la violenza delle cose, la debolezza dei giusti, la tirannia dei tristi costringono una debole creatura a respirare aria corrotta, e voi non date a una povera donna che amarezze, oltraggi e fango, null'altro che fango, lasciate almeno che essa gridi del male che le fate... Coi pugni dentro i capelli scarmigliati dalla veglia, Arabella Pianelli gridava veramente in un pianto lamentoso senza lagrime, dilaniata dalla coscienza del suo stato, avvilita dopo una notte di falsa e morbosa resistenza, assiderata dal freddo della febbre e della notte. "Non così, non così la mia creatura...." prese a dirle all'orecchio la Colomba, serrandola alla vita colle braccia e posando la sua testa grigia sui capelli morbidi e biondi della tribolata. "Non così, per amor di Dio. Ciò può far male anche a questo figliuolo malato. Crede che non ci sia un Signore anche per noi? Io capisco e compatisco, angeli custodi, ma non bisogna mai disperare della Provvidenza. Questo è un piangere che rompe il cuore e del nostro cuore dobbiamo rendere conto come di un vasetto d'oro che Dio ci ha dato in custodia. Ti hanno maltrattata, il mio angelo; ti hanno venduto, avvilito, insultato nel tuo sentimento di sposa e di madre, e so che certi mali fan perdere la testa. Tu non hai meritato questi castighi, è vero; ma sappiamo noi se non soffriamo per il bene di qualcuno? Nostro Signore aveva meritata la sua passione? E tante povere mamme che non han da dare da mangiare ai loro figliuoli, meritano di soffrir tanto? Noi non sappiamo nulla dei misteri del mondo, cara Arabella; ma dobbiamo tener dacconto il nostro cuore, perché gli è come il tabernacolo del Santissimo. Se non ci vorranno bene gli uomini, ci vorranno bene gli angeli, ma noi dobbiamo aver sempre pronto il cuore a ricevere il bene che ci vorranno dare o presto o tardi. Su dunque, alza la testa, mio caro angiolo, e vieni fuori con me, un momento. C'è qui la chiesa vicina: noi abbiamo bisogno di essere aiutate a patire..." La Colomba ricondusse la figliuola di nuovo nell'altra stanza. Le ravviò un poco le vesti; fece un po' di fuoco ancora e versò quel resto di caffè che era rimasto in fondo al bricco. La persuase a non mandare per ora la lettera allo zio Demetrio e a cercar invece di quella sua amica di collegio, l'Arundelli, a cui poteva confidare il suo segreto. Meglio di tutto poi sarebbe stato di andare alle Cascine in cerca della mamma. La mamma è il miglior dottore per certi mali...

Giacomo l'idealista

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De Marchi, Emilio 2 occorrenze

E non si abbandona mica una povera madre vecchia a morire di stenti e di dolore colla scusa che un fringuello ci ha rubata l'amorosa. I tuoi crediti non pagano i tuoi debiti. Queste massime le sai meglio di me, perché se non mi sbaglio, devi averle stampate con altre parole in qualche sito: ebbene, ecco arrivato il momento di metterle in pratica. Il miglior modo per fare della filosofia, è quello di viver da uomini onesti e coraggiosi. Ad agitare dell'inchiostro ogni fedel minchione è filosofo: e se la va a parole, non c'è un prete che non meriti d'essere messo sugli altari, caro Giacomo, - soggiunse, stringendo tra le due mani massiccie lo stomaco e la schiena del nipote che, rannicchiato nel seggiolone, pareva diventato ancor piú poco - ma vedi invece quanti pochi sappiano essere quel che si dovrebbe essere. Coraggio e pazienza! Prima di morire ne avrai a vedere molte ancora delle corbellerie, e non c'è nulla di piú inutile quanto il meravigliarsi; l'ha detto anche Salomone qualche buon secolo primache si inventasse d'attaccare il picciuolo alle ciliege. Ci vuol pazienza! Lascia operare il tempo, e vedrai che tutto passa e ripassa. Per una foglia che cade ne spuntano mille. - E siccome Giacomo non sapeva che cosa rispondere, don Angelo si offrí di prender lui l'iniziativa: - Vuoi dare carta bianca a me e a tua madre per accomodare questa faccenda? Tu non ci dovrai entrare. Cosí potrai dire di non essere venuto a patti con nessuno. Lascia fare a quelli che hanno stracciate molte paia di scarpe, e ti troverai contento di non aver impedita la pace. Che cosa poteva opporre Giacomo a queste ignude argomentazioni di un senso comune cosí attaccato alla realtà delle cose? Il nostro idealista non poteva impedire che le ragioni della filosofia pratica e dell'esperienza, contro cui venivano a battere le sue illusioni, non fossero, dure, immutabili, inamovibili. Chinò la testa, chiuse gli occhi, e pregò che lo lasciassero riflettere.

La mamma, alla quale era mancata nella sua vita di donna la rivelazione di quell'affetto, che sorregge nel tempo stesso che si abbandona, metteva forse nella sua educazione troppi sforzi spirituali, troppe idee estranee alla natura delle cose, credendo in buona. fede che il volere possa sostituire il sentimento. In quanto alla religione, è vero che Giacinto si sentiva e si confessava buon cristiano cattolico e osservante;è vero che non senza rimorso trasgrediva ai precetti della Chiesa; è vero che, vivendo in compagnia di amici nobili e ricchi, pei quali la religione, cosí come sta, non è l'ultima delle difese sociali, era tratto a considerare con rispetto e con benevolenza tutto ciò che si riferiva allo spirito e al meccanismo della Chiesa; ma gli pareva di aver fatto abbastanza, quando aveva pagato il suo tributo alla pratica obbligatoria. Farsi veder alla messa, specialmente in campagna, mangiar di magro il venerdí in faccia alla servitù, comunicarsi a Pasqua e a Natale, rispettar qualche vigilia, non celiar mai sulle convinzioni. Andiamo, via! per un giovinotto, che portava una spada, era piú di quel che si potesse domandare. Queste quattro pratiche non eccessivamente complicate, in cui è riassunto in certo qual modo il pensiero della Santa Chiesa, lo sbarazzavano dall'obbligo di pensare al resto, cioè, a Dio, all'immortalità e a tutte quell'altre tribolazioni, che logorano la coscienza degli spiriti filosofici. Anzi, come uno scolaro che, sbarazzati in fretta i quattro lavorucci di scuola la sera del sabato, si piglia tutta la santa festa per spassarsela, cosí don Giacinto, una volta eseguite le quattro pratiche tradizionali, sentiva d'aver una maggior libertà di movimento per tutto il resto. Di contro a questi argini posticci vennero a urtare le onde minacciose delle passioni e delle seduzioni mondane nella compagnia allegra di giovani corrotti e di ragazze disinvolte, nelle lusinghe dei balli e dei teatri, dove anche lesignore oneste fanno di tutto per piacere in quel che hanno di piú bello e di meno morale. Tutto stimola i sensi di un giovine di vent'anni, tutto parla al suo essere fisico in questi ritrovi, in cui la donna è specchio alla vanità dell'uomo; ed e facile che la donna cosí detta onesta, riesca anche piú pericolosa delle altre, se le piglia il ghiribizzo di giocare coll'inesperienza d'un giovane non spento del tutto. Questo fu appunto il caso di Giacinto colla famosa principessa romana, che lo fece soffrire sulla corda fin dove un giovane come lui era capace di soffrire, e gli tolse quest'ultimo sentimento di rispetto, che il maschio conserva anche in mezzo alla sua decadenza per la piú fragile delle creature. Celestina ne pagò le spese. Ma, per arrivare fin qui, era necessario che il vino gli togliesse il sentimento di rispetto che ogni uomo, anche il piú tristo, nutre per sé. Nelle accese giornate di corsa, nell'ebbrezza di un trionfo, nell'espansione d'una riunione di caccia, ora all'ombra di una tribuna, ora nella frescura d'un bosco selvaggio, dove anche la piú gentile signora cerca a un bicchier di sciampagna il grido selvaggio dell'amazzone, Giacinto aveva presa l'abitudine di bere, senz'accorgersi, due volte, tre volte piú della sua sete, deliziandosi nel ritrovare tra i fumi della vaga ebbrezza una dolcezza di cose misteriose, che parevano scendere a lui da un mondo ideale. Il vino dà spesso anche agli imbecilli l'idea delle cose grandi, per le quali non son nati: e cosí accadeva che don Giacinto vedesse attraverso al lucente tremolio del cristallo la bellezza e la perfezione di quel misterioso ed eroico gentiluomo che era in lui, che Dio aveva mandato in terra a riassumere la secolare tradizione di casa Magnenzio, per consegnarla nobile e pura a un'altra serie di illustri discendenti. Peccando d'intemperanza, egli sacrificava all'ideale. Il male era questo: che passata la sbornia. non restavano della dolce poesia che i conti da pagare! "Naturam expelles furca ." ha detto un poeta latino, Orazio, salvo errore, in un verso che Giacinto sapeva citare a mezzo nella fiducia che gli altri sapessero il resto. Tutta la sua erudizione classica si arrestava a quella furca ma credeva di saperne abbastanza per tirare anche Orazio dalla sua. Del resto che male c'è, se a ventidue anni un ragazzo si sente giovine? Un uomo, che può spendere diecimila lire all'anno senza sconcertare i bilanci del suo ragioniere; che col tempo avrebbe raccolta la bellezza di tre patrimoni, non solamente non era nato per portare gli occhiali, ma non poteva capacitarsi come mammà si ostinasse a voler cavare da lui un assessore comunale, o un fabbriciere, o un segretario di opere pie. Era lo stesso come voler cavare da un cavallo da sella un professore di greco. Vedendo che mammà non sapeva risolver nulla, e che alle sue insistenti lettere non rispondeva piú che inconcludenti querimonie, chiesto un congedo di alcuni giorni, capitò a Milano, dopo aver scritto un biglietto a donna Fulvia, che aveva in ogni circostanza mostrato per lui delle tenerezze materne. Donna Fulvia, che era appena entrata nel suo elegante quartiere d'inverno, lo invitò a colazione. Prima di andare da lei, il bel giovane si lasciò vedere al circolo degli ufficiali; quindi in compagnia di Pierino Scala feceuna passeggiata nelle sale dell'Unione, dove si raccoglie la sera il bello e il buono dell'aristocrazia maschile di Milano. Capí, dalle accoglienze e dai discorsi degli amici, che la sua avventura campestre non era ancora uscita dalle siepi e dall'ombra, e si consolò come un capitano, che sente di arrivare prima del nemico in una buona posizione. Donna Fulvia lo accolse colla espansione gioviale che fa di lei una delle piú ridenti signore di Milano. A colazione si parlò di tutto un po' delle corse di Roma,della bella principessa di Cerere, che doveva venir sposa nel prossimo carnevale con uno dei piú amabili gentlemen della società lombarda. Don Lodovico di Breno, uomo di non troppe parole, ma fino come una lesina, intavolò una discussione semipolitica sull'espansione italiana in Africa, ch'egli riteneva, a quei tempi, la cagione principale del nostro disagio economico; ma Giacinto, che non per nulla portava una divisa coi bottoni d'argento, gli dimostrò, tenendo la forchetta in aria, che l'avvenire del paese era là, al lago Tsana. I popoli vecchi, diceva, non hanno che da guadagnare nella fusione coi popoli nuovi; e in quanto all'Italia, noblesse oblige, era il caso di dire. Quando si è stati una volta i padroni del mondo, non si può senza vergogna rinunciare alla propria missione civilizzatrice. Per conto suo, se mammà non avesse avuto dei pregiudizi, avrebbe domandato subito d'essere mandato a combattere ras Alula. - Sí, sí, ma intanto - brontolò il conte, abbassando la sua testa precocemente calva e aguzzando gli occhi miopi su una certa miscela di carne fritta, che il cuoco aveva mandato in tavola con una salsa, in cui entrava, non so come, il principe di Galles - intanto noi roviniamo la nostra agricoltura. - Voi moderati non vedete che la politica dei vostri fagiuoli. Siete un partito vecchio, senza ideali. La bella faccia del giovane Magnenzio si rianimò all'immagine delle caccie grosse, che si posson fare al pian delle Scimmie, e alzando il calice pieno di bordò, il bel tenente bevette alla gloria dell'esercito. - Noi non ti lasceremo partire, Giacinto - soggiunse la contessa, che nella luce candida della finestra brillava d'una biondezza trasparente; - noi siamo gelose di quest'Africa, che ci toglie i nostri figliuoli. - In quanto a' tuoi figliuoli - brontolò il conte, ridendo nel piatto, mentre rivoltava la carcassa africana di quel suo magro pollo inglese - non te li toglie nessuno i tuoi figliuoli. Giacinto fissò gli occhi scherzosi negli occhi ridenti dell'amica di mammà, che rimbeccò con spirito: - La colpa è della tua politica moderata. Il bel tenente si rovesciò sulla spalliera della sedia e, balestrando il conte con una briciola di pane, gli disse: - Te la sei meritata questa volta, Vico. - Tu, taci - ribatté il conte, minacciando il giovane col dito - ne sappiamo di belle della tua politica liberale. Giacinto arrossí, e fu sul punto d'aversene a male. Ma la contessa fu pronta ad alzarsi e ad invitare il giovine a prendere il thè nel salottino. - Io vi lascio. Ho una seduta al tocco presso la Deputazione provinciale per la difesa di quei quattro fagiuoli che ci restano. Fulvia ha carta bianca per tutto ciò che posso fare per te; abbi confidenza in lei e lasciati guidare, mio caro Orlando paladino. Siamo tutti interessati a proteggerti, ma bisogna che tu faccia giudizio. Giacinto strinse la mano del conte con lunga e affettuosa insistenza per fargli comprendere che apprezzava il suo valido appoggio, e, raggirando nei polpastrelli la punta dei baffetti, promise cogli occhi quel che l'emozione non gli lasciò dire colle parole. Nel salottino rosso della contessa ardeva un bel focherello. Quando il giovine fu seduto davanti al caminetto, donna Fulvia gli offrí una sigaretta, poi gli domandò con un'intonazione un po' grave: - Ebbene? devo fare una predica? - Sono cosí pentito, cara contessa, - rispose il giovine, voltando la sigaretta fra le dita - che potrei già scrivere un quaresimale. - La povera mammà è desolata. - È desolata, ma non sa trovare un rimedio. - Non è sempre facile trovare un rimedio: ma come impedire uno scandalo? - Ha parlato con questo signor cugino, sí o no? - Nell'ultima sua lettera non mi dice ancora quale sia stato il risultato del suo colloquio con lui. E comincio anch'io ad essere un po' agitata. Comprendo tutte le preoccupazioni della povera donna. Questa benedetta questione s'impernia in un complesso di cosí gravi circostanze che ogni passo falso può condurre a un disastro. Monsignor vescovo non resterà certamente troppo edificato, quando saprà che quel suo san Luigi di nipote si compromette colle cameriere. Ma come è potuto accadere? - Come, come, - balbettò con una spallata chinandosi ad accendere la sigaretta alla fiamma del camino. - È cosí facile immaginare, Dio buono . - Diremo che è stata anche questa una passione africana, - disse col suo bel ridere argentino donna Fulvia, mentre allungavasi sulla poltrona, stendendo il corpo fino a toccare colle punte delle scarpette gli alari dorati. - È almeno bella questa Lucia del Ronchetto? - Non mi tormenti, via! - replicò egli, non senza una certa scontrosità; e, facendo sonare sul tappeto gli speroni, buttò la sigaretta nel fuoco. - Povero Giacinto, mi piace di vederti cosí contrito e umiliato. Giovinastri senza principii, senza garbo, senza orgoglio! Ma lasciamo perdere le prediche e parliamo seriamente per rendere il male minore di quel che è. Perché è inutile illudersi, in questa faccenda siamo interessati un po' tutti, i Magnenzio e i San Zeno per primi, e un poco anche i di Breno in seconda riga. Vico, che ho dovuto mettere a parte del segreto, come hai capito, ha fiutato subito il pericolo che l'affare, da scandalo privato, pigli per contraccolpo una estensione immensa, fino a compromettere i nostri interessi politici. Siamo alla vigilia delle elezioni amministrative, e puoi immaginare con che gusto i nostri nemici s'impadroniranno di questa belle Hélène. Sai che Vico l'ultima volta la portò fuori per un pelo; e uno scacco nelle elezioni amministrative vorrebbe dire in questi momenti la fine dei partito moderato nella nostra provincia. Tu non capisci che la tua politica africana, ma bisogna essere sul campo di battaglia per capire che cos'è una lotta elettorale. Come una cartuccia sparata a tempo dall'ultimo dei fantaccini può decidere una vittoria, cosí un sasso, una trave messa di traverso, può trascinare la sconfitta. Vedi quindi se Víco è interessato a mettere cenere su questo fuoco, che tu gli hai acceso accanto al pagliaio. Egli ha forti aderenze anche fuori dei suo partito e potrebbe con qualche compromesso ottenere e, se occorre, comperare il silenzio degli organetti. Ma bisognerebbe che tu aggiustassi presto i conti col cugino. Non ho ancora capito di che stoffa sia fatto questo contadino filosofo fabbricatore di tegole. Sento che ha stampato dei libri, quindi è presumibile che sia un uomo ragionevole. Vediamo un caso: potresti accettare senza scapito una sfida da lui e portare cosí la controversia sul terreno cavalleresco? Vico trova che, se egli potesse seguirti su questa via, sarebbe forse il caso di transigere su qualche particolare e di trattarlo come da pari a pari. Un reduce delle patrie battaglie, se non è nato, è cavaliere per diritto di conquista. Vico osserva anche che, se questo signor Lanzavecchia non manca d'orgoglio, dovrebbe aggradire d'essere considerato senza restrizioni. Un duello limiterebbe la questione personale e obbligherebbe piú tardi le due parti a un reciproco rispetto. Ma questo, ripeto, è il discorso di Vico. Noi donne, naturalmente, e come donne e come buone cattoliche, non possiamo approvare le risoluzioni violente. La tua povera mammà si sente morire alla sola idea che tu possa trovarti di fronte alla canna di una pistola: ma la tua divisa non ti dà un certo diritto per la scelta dell'arme? Oh che pasticcio! Vedi, benedetto figliuolo, in che imbroglio ci ha messi tutti quanti questa tua ragazzata? Donna Fulvia, che si era mossa per accendere la fiamma sotto un bricco di porcellana, si volse e, con un atto di protezione materna, passò leggermente la mano sui capelli corti, tagliati a spazzola, del bel giovinotto, che, sprofondato nella poltroncina, colle mani infossate nei taschini de' suoi stretti calzoni d'alta tenuta, stava come oppresso sotto il peso della sua responsabilità. - Quando penso che Giacinto, il biondo Apollo, è già divenuto papà. - Un sorriso d'ironia, che vibrò nella tenerezza di quella voce carezzevole, fu per il giovine tenente un filo rovente raggirato intorno alla carne viva del cuore. Nell'inchinarsi su lui, l'amica di mammà vide ch'egli piangeva. Una piccola stilla aveva già solcato il panno scuro della giubba, lasciando tra un bottone e l'altro il segno d'un punto esclamativo rovesciato. - O povero Giacinto, ti ho fatto male? come sono stata cattiva! - riprese la signora con delicata sollecitudine e con tono piagnucoloso di rimprovero a sé stessa. Volendo rimoverlo da quell'inerzia di spirito, in cui lo vedeva immiserito, si affrettò a soggiungere: - Io non dico che tu non possa trovare qualche altro rimedio. Tra gli espedienti, se io fossi in te, vorrei prendere il mio coraggio colle due mani e andrei diritto a confessare tutto allo zio vescovo. Peccato confessato è mezzo perdonato. Credo che monsignore amerà meglio saperle da te le cose, come sono andate, mentre si è ancora in tempo a rimediare, che se venisse a conoscerle dai giornali, quando non c'è piú tempo di far nulla. Nella sua alta posizione egli è piú di noi in grado di misurare il pericolo e anche di prendere gli opportuni provvedimenti. Per quanto rigido e intransigente, non può non assolvere un peccatore, che confessa piangendo il suo peccato. - Andrò a farmi ammazzare in Africa - borbottò tra il rustico e lo spavaldo il giovine, buttando nella fiamma, con un gesto aspro, la sua seconda sigaretta, come se cercasse di riaversi e di darsi della forza. Il suo capriccio non si era mai trovato a contrastare con tante seccature. Abituato a trovar sempre le porte del suo piacere spalancate, si meravigliava con attonita impazienza che non si potesse passare anche questa volta. Possibile che mancando la chiave, non si potesse sfondare l'uscio? - Per Dio! - disse ingrossando la voce per far comparire piú rauca la tenue bestemmia soldatesca, alzandosi, movendosi per il salottino. Era agitato e girava in cerca d'uno specchio per vedersi la faccia in collera. Come se l'elettricità gli uscisse da tutti i bottoni lucidi, mosse le sedie, scrollò un tavolino, e mise cosí malamente la mano sopra una gracile donnicciuola di vieux Saxe , che la rovesciò e le ruppe il naso. - Che cosa si vuole, per Dio? che mi tiri un colpo di pistola nella testa? che faccia contessa la mia cameriera? - Queste sono brutte parole, Giacinto, che ti fanno torto. Abbi pazienza. Oggi scriverò a mammà e domani concerteremo qualche cosa con Vico. Avresti difficoltà, per esempio, che mio marito andasse a parlare direttamente con Monsignore? Son due mezze potenze, sai, che nelle condizioni attuali hanno bisogno d'intendersi, e chi sa che il diavolo non sia poi cosí brutto come ce lo immaginiamo. Non andar poi a dirglielo, a monsignore, che l'ho chiamato diavolo. Donna Fulvia, sentendo muggire il thè nel bricco, ne versò una chicchera e l'offrí al giovine, stando in piedi sotto la grande specchiera, nella quale le loro belle immagini si riflettevano con nitido splendore. Calmati gli spiriti, la contessa poté condurre il discorso ad argomenti meno spinosi, e tutti e due, dopo un pezzetto, finirono col ridere come due ragazzi.

VECCHIE STORIE

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De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Si abbandona su un divano. Sicuro, Nicolò: se non concludi qualche cosa quest'oggi, tu morirai nel tuo letto in odore di verginità. No, no: è tempo che tu la pigli questa moglie benedetta! Vedi? va a guardarsi in uno specchio. Tu sei arrivato a quell'età in cui, se il frutto non si coglie, casca in terra a marcire. Non sei un brutto mostro: che, che? carezzandosi i baffi. Puoi passare ancora per un giovanotto in gambe, ma.... qua e là comincia a spuntare qualche capello meno nero degli altri. Certe mattine hai la ciera d'un uomo che ha dormito male parlando alla sua immagine. Sicuro, signor Nicolò: quel vivere di qua, di là, sulle trattorie, sui caffè, sui clubs , in compagnia di scapoloni pari suoi non è più una vita fatta per lei.... Lei digerisce male, lei dorme male, diventa sempre più brontolone, bisbetico, incontentabile e a lungo andare finirà col fare uno sproposito. Chi non si marita a tempo, sposa la morte prima del tempo; tranne il caso in cui si sposa la serva torna a sedere. - Mia sorella Giacomina, che da un pezzo mi ha sul cuore, la settimana scorsa mi disse: Nicolò, c'è una ragazza che va bene per te: anzi ce ne sono due: le sorelle Bellini, due care creaturine sui ventitrè l'una, sui ventiquattro l'altra, non troppo giovani e nemmeno troppo stagionate, un po' disgraziate nella famiglia, ma buone, belle, con qualche po' di sostanza. Tu non hai che a scegliere. Esse vivono a Incirano con una zia che fa loro da madre, perchè le poverine hanno perduto i parenti e non hanno si può dire nessuno al mondo. Sotto questo aspetto tu fai quasi un'opera di carità. Va a mio nome, cerca della zia, mettiti nelle sue mani e lascia fare alla provvidenza. Eccomi qui. Ora le vedrò e dovrò scegliere tra le due.... vede sul tavolino alcuni ritratti in piccole cornici. Forse questo è il loro ritratto. Carina questa col suo profilo greco, con que' capelli pettinati alla Niobe. Forse questa è il ventitrè. Ma anche questo ventiquattro non c'è male. Forse questa è bionda, e questa è bruna. Chi mi consiglia? Il biondo è più romantico, più... simbolico... troppo Svezia e Norvegia. Il bruno è quasi sempre segno di un carattere ardente, geloso... troppo Spagna e Portogallo. Che ti dice il cuore, Nicolò? ventitrè o ventiquattro?... pesa nelle mani i due ritratti. Sentiremo il consiglio della zia, che nella sua esperienza saprà guidare un povero uomo sempre incerto nel cammino della vita. indicando un altro ritratto grande. Certo questa vecchia cuffia è la zia dei buoni consigli. Lei conosce le due ragazze e saprà dirmi quale delle due ha più disposizioni al settimo sacramento. Per me capisco, che se dovessi scegliere, farei la fine dell'asino che, messo tra due fasci di fieno, si è lasciato morire di fame. Zitto, qualcun si avanza! Si alza, fa una rapida toilette allo specchio. Forse è la vecchia zia. Animo, su, coraggio. Sei stato a Custoza, corpo d'una baionetta, e devi aver paura d'una vecchia cuffia? TERESITA una vedovella ancor giovane, simpatica, vestita con finissima semplicità e con molto buon gusto. Fa un inchino a Nicolò, che resta un istante imbarazzato. Signore.... NICOLÒ.. Signora.... TERESITA Lei ha bisogno di parlarmi. NICOLÒ.. Sissignora... cioè... veramente mia sorella Giacomina mi ha detto di chiedere della zia delle signorine, la vecchia zia, sissignora.... TERESITA Sono io la zia delle signorine.... NICOLÒ. sorpreso. Ah, lei fa da madre alle due orfanelle.... Avvicinandosi riconosce una antica amicizia. Oh, ma scusi, noi ci conosciamo. Ah, chi l'avrebbe detto dopo tanti anni? Lei, lei è la signora Teresita.... TERESITA fingendo di cader dalle nuvole. E lei è il signor Nicolò.... Guarda che combinazione! ma si è fatto così grasso.... NICOLÒ. ridendo con un po' di confusione. Credevo che volesse dire: così vecchio! TERESITA amabile. Si è viaggiato insieme sulla strada della vita. Guarda che combinazione! NICOLÒ. Guarda che combinazione! Segue un brevissimo imbarazzo d'ambo le parti. Io credevo che la zia fosse una signora in età, colla cuffia. TERESITA La cuffia verrà... è in viaggio. Ma prego si accomodi, signor Nicolò..... Indica la sedia e siede lei per la prima. NICOLÒ. ripetendo materialmente. Guarda che combinazione.... Prende la sedia, vi si appoggia, ma non vi siede. Ma da quanto tempo non ci vediamo più? TERESITA Oh è un gran pezzo! A che cosa devo attribuire l'onore della sua visita? NICOLÒ. giocando colla sedia che fa girare sotto la mano. Mia sorella Giacomina mi ha detto: Va a Incirano, cerca della zia delle sorelle Bellini ed esponi il tuo caso. TERESITA E qual è il suo caso? NICOLÒ. Il mio è un caso, dirò così, di coscienza: ma ora non so se devo parlarne. TERESITA Perchè non deve parlarne? NICOLÒ. facendo girare più forte la sedia sotto la mano. Perchè... io... dà in una risata allegra perchè io credevo che la zia fosse una cuffia.... TERESITA ride anch'essa mentre si abbandona nella poltrona. Dunque è alla cuffia che lei desidera parlare. NICOLÒ. No, stia buona, ora le dirò il mio caso. Ma è certo che, se avessi potuto immaginare di trovar qui lei al posto della... cuffia... ride non sarei venuto. TERESITA un po' offesa. Non merito dunque la sua confidenza? NICOLÒ. Lei merita tutto, ma il mio caso è di quelli che hanno bisogno di molta indulgenza. TERESITA Ma sieda.... NICOLÒ. mettendosi a sedere sull'angolo della sedia. Intanto mi dica: come si trova qui a far da madre a queste due bambine? TERESITA Una serie di dolorose circostanze.... Oh sapesse quante disgrazie! Morti i parenti di queste due povere figliuole, ho pensato ch'io potevo essere utile in questa casa. NICOLÒ. esitando. Ma scusi. Lei non aveva sposato quel marchese? TERESITA molto riservata. Sì. NICOLÒ. c. s. s.E.... suo marito? TERESITA È morto. NICOLÒ. con una certa sorpresa. Ah! è morto anche lui.... TERESITA In duello a Parigi. NICOLÒ. In duello a Parigi.... Guarda, guarda. TERESITA dopo un breve pensiero. Ma non parliamo dei morti. Quel che è passato, è passato. NICOLÒ. astratto in una sua idea. O bello, o bello... TERESITA Che cosa? NICOLÒ. si corregge, si fa serio, si alza. Mi rincresce di aver risvegliato delle dolorose memorie. Mi scusi.... in atto di congedarsi mi perdoni.... TERESITA restando seduta. Ma che cosa fa? lei non mi ha ancora detto lo scopo della sua visita. NICOLÒ. È vero, ma io non so nemmeno se la mia visita abbia uno scopo. Giacomina doveva avvertirmi di queste circostanze. TERESITA con tono quasi materno. Bene, si accomodi. Giacomina mi ha scritto tutto. Lei è venuto a Incirano per uno scopo molto lodevole e molto onesto. Vuol prender moglie. NICOLÒ. affettando una certa sicurezza. Sì, voglio prender moglie. TERESITA ridendo con gaiezza simpatica. O bello, o bello... NICOLÒ. un po' mortificato. Che cosa c'è di bello? TERESITA Bello che il signor Nicolò voglia finalmente prender moglie. ride. NICOLÒ. serio. Non rida o mi scoraggia. TERESITA Ci ha pensato un pezzo il signor Nicolò NICOLÒ. in tono di rimprovero. E di chi la colpa? TERESITA Di chi? NICOLÒ. Ah Teresita! non si dovrebbero ricordare certe cose.... picchia nervosamente il bastoncino sul cappello. TERESITA gravemente. Proprio! NICOLÒ. E tanto meno si dovrebbe ridere. TERESITA sospirando. Si ride quando si è finito di piangere. NICOLÒ. con una punta d'ironia. Beata lei che ha finito! Le donne son così facili a dimenticare.... TERESITA Si dimentica... per non odiare. NICOLÒ. Io non ho meritato il suo odio. Con un leggero tono di sarcasmo. A ogni modo la donna che sposava il marchese di San Luca deve aver trovato nel fasto del suo blasone qualche conforto a' suoi dolori. TERESITA offesa. Nicolò, non dite queste parole che offendono una donna che fu già troppo infelice nella sua vita. Voi sapete come sono andate le cose. Il mio matrimonio fu per me una di quelle necessità che il solo cuore d'una donna sa comprendere e sa compatire. Voi sapete che mio padre era un uomo rovinato, che sulla nostra casa stava il disonore e il fallimento, che soltanto un matrimonio di convenienza poteva salvare una vecchia esistenza dalla disperazione. Allora voi eravate un giovine ufficiale senza fortuna, nell'impossibilità di mettere una casa. Poi venne la guerra e voi partiste per il campo.... NICOLÒ. con amarezza. E quando tornai dai pericoli della guerra, seppi che Teresita Morando era diventata la marchesa di San Luca. TERESITA con un moto di ribellione. Già, e non pensaste nemmeno ch'io avessi potuto fare quel passo per un sentimento di abnegazione e di dovere. Voi pensaste solamente e semplicemente che Teresita Morando, ragazza vana, leggera, smaniosa di brillare, inebriata all'idea di portare una corona sul suo biglietto di visita, avesse dimenticato volontieri il povero tenente per darsi nelle braccia di un vecchio nobile... sciupato dai piaceri. Questo solo voi avete pensato: e non sareste stato un uomo se aveste pensato altrimenti. L'egoista non è obbligato a compatire e meno a comprendere... e tanto meno a perdonare. NICOLÒ. si alza, resta un istante come combattuto, e mormora: Se sapeste invece quanto ha sofferto questo egoista! TERESITA alzandosi anch'essa. E quest'ambiziosa oh! non ha forse sofferto! no. Rapita dai bagliori de' suoi diamanti questa vittima incoronata non ha versata mai una lagrima.... Nei tre anni del suo matrimonio con quell'infelice boulevardier essa passò di trionfo in trionfo... invidiata da tutte le miserabili che non hanno una corona sulla carrozza... e un supplizio nel cuore. Abbandonandosi alla sua passione. Voi non vi siete più occupato di me; ma per qualche motivo avete stentato a riconoscermi. Voi avete trovato facilmente dei dolci compensi... Arrestata improvvisamente da una specie di rimorso, cangia tono, e con affettata naturalezza ripiglia. Ma di che cosa si parla? oh buon Dio! questo non è lo scopo della vostra visita. A che pro' disseppellire cose morte e finite? Sediamo: animo, sedetevi.... Veniamo all'argomento. Come smarrita. Giacomina mi ha scritto.... Che cosa mi ha scritto la buona amica? che voi volete accasarvi, che è tempo anche per voi di mettere giudizio. È giusto. Sa che le povere mie nipoti son buone e brave ragazze e anch'io sarei contenta di vederle collocate. Ma sedetevi dunque, parlate. NICOLÒ. con espressione patetica. No, no, non ho più nulla a dire. Scusate, Teresita, io non son più degno di accostarmi a una donna.... Si ritira qualche passo per andar via. TERESITA Non andate in collera per quello che vi ho detto. Vi domando scusa se vi ho offeso. Sedetevi, ragioniamo. Accettate almeno un bicchierino di vermouth.... Toglie da uno stipo una bottiglia di cristallo e offre un bicchierino a Nicolò. NICOLÒ. sforzandosi a rifiutare. No, no, lasciatemi andare. Non merito più nulla. La mia vita è finita da un pezzo. TERESITA Devo proprio mettermi una vecchia cuffia in testa per persuadervi a ragionare? Nicolò accetta il bicchierino. Se vi ho offeso perdonatemi. Voi avete per errore messa una punta di ferro sopra una cicatrice e io ho gridato di dolore. Ma ora è passato. Qua.... Lo fa sedere e siede anche lei. Posso aiutarvi, voglio consigliarvi, perchè in fondo ho molta stima di voi. NICOLÒ. Io invece non ho nessuna stima di me. Io ho sempre creduto che non valesse la pena di voler bene a una donna. Ho atrocemente sofferto, ma non per pietà della vittima inghirlandata. Ho sofferto solamente per il mio orgoglio ferito. Avete detto bene poco fa. Il mio nome è Egoista. Quando un uomo non è capace di comprendere, di compatire, di perdonare, non merita più che una donna gli voglia bene.... Volta via la faccia alquanto commosso, tracanna d'un fiato il bicchierino, va a collocarlo sullo stipo, e si prepara a congedarsi. TERESITA si alza, un po' soprapensiero. Permetta che le presenti almeno le bambine. Per quanto senza cuffia so esercitare i doveri dell'ospitalità. Dal giardino risona un campanello. Ecco, son le ragazze che tornano colla governante. NICOLÒ. cercando di sfuggire. No, no, non voglio veder nessuno; non voglio lasciarmi vedere. TERESITA Mettiamoci qui, dietro a questo paravento. Da qui possiamo vederle senza essere veduti. Conduce Nicolò per mano fin presso la porta dietro un paravento e indica le ragazze che passano in giardino. Guardi la prima, la bionda, ha ventidue anni, è un angiolino di bontà, piena di sentimento. L'altra, la bruna, Annetta, è un carattere più serio, ha molto ingegno, conosce molto bene la musica.... Nicolò, stringendo la mano di Teresita, trascinato dalla forza dell'antica passione, posa un bacio sui capelli di lei e resta come fulminato dalla sua stessa audacia. Teresita, sfuggendogli, dice con accento di profondo rimprovero, ma senza ira: Che cosa fa, Nicolò.... va a sedersi e nasconde la faccia nelle mani. NICOLÒ. dopo essere rimasto un gran pezzo come trasognato, si accosta pianino a Teresita e con voce sommessa piena di note tenere e appassionate, dice, quasi curvo su di lei: Io non ho conosciuto che una donna nella mia vita e basta! la bionda, la bruna, la sentimentale e la donna assennata, tutte le bontà e tutte le bellezze di una creatura di donna son già passate nel mio cuore il giorno che vi siete passata voi, Teresita. Voi vi avete lasciato un modello così sublime, che, al confronto, tutte le altre mi sembrano immagini sbiadite. Chi ama bene una volta ha amato per sempre. Il destino non ha voluto che voi foste mia, e amen ! È bene che io non guasti il mio ideale. Se Giacomina non mi avesse cacciato qui, io non sarei venuto mai a questa ricerca di commesso viaggiatore. È peccato sciupare l'amore vivo con degli amori artificiali; non barattiamo l'oro colla carta.... Addio. TERESITA non contenta. Che dovrò scrivere dunque a Giacomina? Che abbiamo fatto fiasco? NICOLÒ. Le scriverò io, se permettete. Siccome non tornerò a casa sua prima della fin del mese e forse più tardi, è bene che le mandi due righe. Se mi favorite carta e penna. TERESITA preparando le cose su un altro tavolino. Intendete viaggiare? NICOLÒ siede al tavolino e prende la penna. Sì, ho bisogno di cambiar aria. Son mezzo malato, mi sento vecchio e malinconico. Andrò a Parigi anch'io in cerca di distrazione. scrive: Cara Giacomina.... TERESITA seduta in disparte ha preso in mano un lavoruccio. Parigi non è una città troppo indicata per della gente ammalata. Voi avete bisogno d'una buona infermiera. NICOLÒ. Cara Giacomina.... Aiutatemi a scrivere questa lettera.... TERESITA con energia, dopo aver buttato via il lavoro. Sì, scrivete sotto dettatura: - Cara Giacomina, siccome io sono... un uomo di poca fede.... NICOLÒ. scrive sotto dettatura: qui s'interrompe. TERESITA comandando. Scrivete, animo! "Son destinato a soffrir sempre per non conchiudere mai nulla." Avete scritto? Si alza e passeggia un po' nervosa. NICOLÒ scrive. Mai nulla .... Ho scritto. TERESITA Punto e a capo. "Io non credo nella virtù della donna.... NICOLÒ. Scusate.... TERESITA lasciandosi sempre più trasportare dalla passione. No, no. Dovete scrivere la vostra condanna. "Non credo... che una donna... possa aver conservato puro il suo ideale... mentre.... parlando direttamente a Nicolò che lascia cadere la penna. mentre intorno a lei si commerciavano gli affetti e si commettevano le più ignobili vigliaccherie. Non credo che una donna possa sopravvivere al suo stesso dolore e alle sue umiliazioni: non credo che possa ancora conservare intatto il tesoro de' suoi affetti e possa compensare un uomo di averla amata bene una volta.... NICOLÒ afferra le mani di Teresita, le porta alla bocca, inginocchiato davanti a lei. Dunque tu mi ami ancora? TERESITA svegliandosi da una specie di sogno. Che fate? io non parlavo di me. Scrivete. NICOLÒ. Donna di poca fede, perchè ingannarci ancora? TERESITA Io parlavo di queste povere ragazze orfane. NICOLÒ. Esse hanno bisogno di un padre. Scrivete voi, detterò io.... La fa sedere al suo posto. TERESITA resistendo. Nicolò, che cosa ho detto? io provo un rimorso.... Voi non siete venuto per me. NICOLÒ. Scrivete " Cara Giacomina .... Teresita si sforza a scrivere. Nicolò detta: Ni...co...lò mi a...ma; - punto e virgola. - Io a...mo Nicolò. Dunque t... o... to. E Teresita non dice di no. E la cara zietta, senza la cuffietta, si lascierà finalmente baciare la bocca da un vecchio ragazzo che l'ama da dieci anni. TERESITA Odiandola.... NICOLÒ. Sì. L'amore perchè resista al tempo bisogna come l'oro mescolarlo in una piccola lega d'odio e di gelosia. Sì, io ti ho odiata, ti odio... perchè ti amo. TERESITA Zitto, le ragazze.... Si alza un po' spaurita e con voce supplichevole soggiunge: E andrete proprio via? NICOLÒ. Sicuro, bisogna che io corra ad avvertire Giacomina di queste novità. Ve la manderò qui. TERESITA Qui no: ci son troppe ragazze. Andrò io da lei. Mio Dio! e che diranno queste povere figliuole? io che dovrei pensare al loro destino, e invece.... Bella zia che sono! ma non sono invecchiata, Nicolò? Va a guardarsi nello specchio. Non sono magra e distrutta dal dolore? Non merito proprio una cuffia? Che cosa dirà il mondo? NICOLÒ. ridendo mentre passa il braccio nel braccio di lei. Il mondo dirà che amor vecchio non invecchia: e che il miglior modo per prender moglie è ... di parlarne alla zia.

Versione elettronica di testi relativi al periodo 800 - 900 Donna Folgore

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Faldella, Giovanni 1 occorrenze

Egli si abbandona per parecchi giorni ad una masturbazione oratoria, declama il discorso nel suo gabinetto solitario, allunga le unghie per afferrare le settemila persone del Comizio già da tre giorni disciolto. * L'oratoria, egli riflette, rassomiglia un po' all'amore. Quando l'amante si incammina al colloquio con l'amato bene, ha l'anima rigurgitante di parole da Paradiso; ammutolisce poi nel colloquio; ed appena ritorna solo, quelle parole non dette gli rientrano, si amplificano, insorgono, lo accusano, lo assalgono, gli si ficcano nelle carni del cuore, nei precordii, gli scuotono, gli gonfiano il cervello, inferociscono ... Con un ghigno mefistofelico sull'utilità trapassata gli si matura la materia, gli si riordinano gli argomenti. Gli pare di trovarsi perfettamente nel precetto di Orazio: cui lecta potenter erit res, nec facundia deserit hunc, nec lucidus ordo ... Ed ora tutto è inutile, tutto è perduto ... No! Perviene a salvarlo, liberarlo dall'ossessione, a fruttificarlo nella vita degna essa, la fedele, l'ottima signora Consorte. La quale gli consegna un decreto ministeriale, che lo nomina Commissario Regio per gli esami di Licenza all'Istituto Tecnico di Trentacelle. Trentacelle era la città, dove Losati aveva compiuto gli studi secondarii, e dove il padre di Lorenzina si era arricchito con la macelleria gentile. Non per l'attrazione di un'aurea dote, ma per l'attrazione di due trecce nere più forti delle catene di un porto, per l'attrazione del volto di rosa ferruginosa, per l'attrazione di due occhi scintillanti, come il diamante, Losati si era sentito avvinto alla sua futura consorte cogli approcci dell'improntitudine, che la Provvidenza aveva stabiliti a salvezza e consacrazione della vita. Che bella cosa pel professore rifare a Trentacelle l'idillio studentesco! E l'ottima signora lo avrebbe volontieri accompagnato colà, se nominata dal Municipio di Torino ispettrice per le Scuole elementari di Borgo Dora non avesse dovuto essa stessa prendere parte ad una giunta esaminatrice. Il redento Losati giunse pertanto solo a Trentacelle con la migliore intenzione di purificare nei ricordi testimoni di un ingenuo santo idillio i trascorsi peccaminosi con la contessa De Ritz. Ma nella sera medesima del suo arrivo all'Albergo del Leon D'Oro , ecco riapparirgli Nerina, pantera misteriosa, fatta di ombra e di velluto, e di fascino sempre irresistibile. Pertanto egli venuto ad esaminare e giudicare i giovani per la direzione alla virtù, cedeva di nuovo scandalosamente al vizio. Inutile il suo rimorso della profanazione di innocenti primordii d'amore appositamente voluta dalla consumata peccatrice. Vicino all'Istituto Tecnico eravi l'asilo infantile " Calasanzio" . La Contessa, dopo essere stata a prendere il professore al termine d'una sessione d'esami, volle essere condotta da lui a visitare quell'asilo, che meritamente si decantava come un monumento d'arte applicata all'educazione, onde l'architetto cav. Domenico Gattelli era stato insignito della Commenda dei Santi Maurizio e Lazzaro. Di vero l'edifizio meritava una visita di ammirazione, specialmente il cortile, che rendeva la poesia d'un chiostro francescano. I pilastrini esili come steli coi capitelli di varietà floreale erano stati inspirati dal modesto e valoroso artista Giuseppe Maffei, che nel Biellese sotto il patrocinio munifico di Federico Rosazza ricreava un tipo genuino di arte primigenia. Quei portici parevano fatti, perché vi passeggiasse Gesù, mettendo la benedizione delle sue dita tra i ricci dei bambini; e parevano quelle volte echeggiare il cristianissimo: Sinite parvulos venire ad me! L'architetto aveva avuta una vera trovata amena ed economica. Verso la sommità alla parete degli atrii erano fisse mensole marmoree, ciascuna delle quali portava un angelo di gesso, che mostrava, quasi ventilava questa scritta: Datemi diecimila lire e vi cedo il posto. Un invito al busto per la fiera della vanità umana. Già tre benefattori avevano accolto l'invito; e sopra tre mensole avevano rispettivamente preso il posto degli angeli di gesso due impettiti in marmo di Carrara; un salsamentario decorato, che si era fatta inchiodare al petto, oltre la croce della Corona d'Italia, la medaglia di un'esposizione di suini; un droghiere improsciuttito dall'aria impepata, che faceva starnutare a guardarlo; terzo un canonico di bronzo. Anzi dal poeta cittadino doctor Malalingua si attribuiva al canonico l'idea bronzea di lasciare per testamento altre dieci mila all'Asilo Calasanzio, affinché erigesse un busto in marmo cipollino alla famosa cuoca di lui per quel panteon di beneficenza. Nerina commentò a Losati: * Mio papà ci morderebbe. * Poi ebbe un pensiero più irriverente: il pensiero, che in teatro le signore scollacciate mettessero sulle trine del seno: dateci dieci mila lire, ed anche meno, con quel che segue. Il professore Losati, utilitario nelle modernità pratiche, ammirava eziandio l'igiene e la decenza delle latrine. La Contessa si affisò davanti la lastra della soneria elettrica, compitando gustosamente il cartellino d'avviso al bottone: un colpo solo pella portinaia; due colpi per le suore maestre; una suonata lunga per la superiora. La Contessa si allontanò a braccetto del professore sghignazzando nel pervertimento dei doppi sensi d'interpretazione: e pretendendo per sé tutta la gamma dei campanelli elettrici, specialmente la suonata lunga della superiora da disgradarne la sonata a Kreutzer del Tolstoi. Il professore, pur incapace di reagire, ne sentiva ribrezzo, come se egli con quella diavolessa avesse importato la corruzione in quella antica città patriarcale. Davvero Trentacelle era in uno stato di quiete da offrire il maggiore spicco alla anormalità di una diavolessa eteroclita. Felicemente priva di quei superuomini sporadici, che intorbidano in certe epoche le città di provincia, era governata sistematicamente da vecchi patriottardi ingenui, che pigliavano sul serio anche i diplomi delle Società dei Salvatori di Napoli e dei vetrai perlacei di Venezia. La stagione estiva aumentava la solitudine acquitrinosa da capitale delle risaie. Viceversa le belle e ricche signore che Doctor Malalingua chiamava ambubaie gratuite o paganti, se ne erano andate alle acque più salubri dei mari, dei laghi e dei monti. Talune si erano spinte all'Esposizione Universale di Vienna; e con maggiore fracasso delle altre era partita per quella Mostra Mondiale la sfarzosissima marchesa, che Doctor Malalingua aveva soprannominata la Dea Reggimentale, dopo che essa in una cena al Circolo Ricreativo innalzando il calice spumeggiante aveva brindato: Viva Piemonte Reale! Abbasso i mariti! Desiderato Chiaves in una ricreazione filodrammatica, compassionando una vedovella solitaria nella sua villa, aveva fatto esclamare da uno zio rappresentativo: * Che fa il ministero della guerra, che non manda uno squadrone di cavalleria nei dintorni a consolare la solitudine della mia cara nipotina? * Così e converso gli ufficiali di Piemonte Reale Cavalleria pesante, di guarnigione all'uggia della melmosa Trentacelle nella state del 1873, potevano mitologicamente invocare Venere e Cupido: * Se non siete definitivamente morti, Dio dell'amore, Dea dell'amore, che fate? Spediteci qui una bellezza da ammirare e corteggiare. Si direbbe, che Venere e Cupido esaudissero i voti dell'Ufficialità di Piemonte Reale Cavalleria con la spedizione della Contessa Nerina a Trentacelle. Veramente essa vi era venuta per il professore Losati. Ma non è più lecito ignorare, che essa era uno di quei cuori ardenti, che non si appagano di nessun amore. Ed era più prepotente di una czarina slava nella molteplicità dei suoi capricci imperiosi. Della sua prepotenza aveva già dato saggio all'albergo, al caffè e nelle passeggiate, principalmente con gli occhi, che lucevano come una stella; una stella d'inferno, stella promettitrice di rapimenti, tempeste e rovine. La sua conquista decisiva fu a teatro. Al Politeama Tupinetti si rappresentava un drammaccio da arena: La colpa vendica la colpa. Però il maggiore spettacolo era quello che il pubblico si dava a se stesso, facendo licito il libito in sua legge per esalare seralmente l'afa della giornata estiva. Chi fumava, chi cicalava, chi beveva, chi ordinava scioppi di birra. Si sentivano come revolverate gli stappi della gazosa. Nel pandemonio si distingueva la barcaccia degli ufficiali di Piemonte Reale, che sporgeva al lato destro del proscenio, tanto da poter stringere la mano alla prima donna o dare un pizzicotto alla servetta. Irruppero cinque o sei tenentini reduci coll'ultimo treno dagli esami di promozione della Scuola di Pinerolo. Furono interrogati premurosamente sull'esito. Il più oratore di essi rispose con rassegnazione di iattanza nel latino maccheronico più che goliardico: Si passus, passus; si non passus, andabo a spassus, pigliabo uxorem et coglionabo professorem. Il cicaleccio venne interrotto dalla luminosa apparizione della Contessa De Ritz nelle sedie chiuse col professore Losati. Vista la puntatura pertinace del relativo binoccolo, un capitano osservò all'oratore dei tenentini di Piemonte Reale: * Mi pare che tu voglia pigliare la moglie degli altri, la moglie del professore. Pigliabo uxorem et coglionabo professorem, divenne il ritornello, il refrain , il leit motiv della barcaccia degli ufficiali di Piemonte Reale, che colle bande rosse sulle gambe lunghe si rizzavano, si protendevano, come diavoletti arroncigliatisi: chi spediva baci, chi pareva volesse gettare il fazzoletto di sultano, chi la rete di pescatore, chi il laccio di gaucho mato sulla Contessa imperatrice delle sedie chiuse. Il professore non dava segno di accorgersene, assorto come la maggiore parte del pubblico nella lettura dell' Eco di Trentacelle , il cui foglio uscito e distribuito di fresco, andava a ruba e costituiva l'avvenimento di quella sera. Tutti lo leggevano, ad eccezione degli ufficiali della barcaccia più dediti all'equitazione, alla scherma e alle conquiste, che ai pettegolezzi della letteratura provinciale. Eppure Spirito Losati, benché rotto alle letterature classiche, scopriva un nuovo filone di minerale letterario in quelle Cacature di Mosca , come il Doctor Malalingua dell' Eco di Trentacelle aveva voluto modestamente ed anche sprezzantemente intitolare i suoi ristretti di romanzo e spunti di commedia. Egli era il giovane farmacista Evasio Frappa, che a divagazione e sostegno della monotonia dei suoi pestelli e vasetti si era fatta coll'assidua lettura una cultura straordinaria, e si era formato uno stil nuovo caustico da rivaleggiare nella provincialità di Trentacelle con il rapido, plastico e mordente bozzettista americano Bret Hart, e da precorrere agli acidi corrosivi dell'amaro Massimo Gorki. Se un generoso editore (nella supposizione inverosimile che vi siano generosi editori in Italia) avesse la furberia di raccogliere dalle annate gialle dell' Eco o dell' Oca (come dicevano gli spiritosi dileggiati) di Trentacelle d'una quarantina d'anni fa, le Cacature di Mosca di Doctor Malalingua (Evasio Frappa) colpirebbe l'immaginazione del pubblico con un tesoretto postumo di osservazioni concrete da togliere il gusto della letteratura sbattuta e vuota oggi in voga. Segnalatamente gustosi gli scampoli: Un trombone isolato * Il burattinaio famelico * A che servono le donne d'altri * Lasciate amare * Il mestiere d'amare * Storia di una molecola * Le citte * Necrologia di una pipa * Al marito di cento, senza averne sposata nessuna , titolare di una commedia a soggetto. Noi per connessione di causa riproduciamo un profilo relativamente più debile intitolato: Formidabile , caricatura a chiave riconoscibilissima della Dea reggimentale, la cui attraente lettura in quella sera distraeva l'attenzione dal dramma " La colpa vendica la colpa" nonché dalle manovre di Piemonte Reale Cavalleria nella barcaccia, dagli inviti assordanti di gaseuse e bira , e dallo stesso splendore e fascino civettuolo della contessa Nerina sovrana nelle sedie chiuse. Ecco il profilo esumato: * Formidabile * sommario di romanzo I. Non è la storia di una pirocorvetta ad elice, ma è la storia di una nobile signora più formidabile di una fregata da cento cannoni. Nacque figliuola unica del barone Uvamico, proprietario rentier , insignificante, inconcludente e della baronessa Carissa dei nobili Scintilla morta con sapore di bambina. Fu battezzata Stella. Fu educata in un convento. Ritirata a casa a sedici anni giocava ancora con la puppatola. Sentiva bisogno di amare. In convento le era sembrato di amare un baritono venuto a cantare un pange lingua in una funzione religiosa. Ora avrebbe voluto amare uno scolare studioso, un avvocato eloquente, un giovane che si fosse reso benemerito verso sua madre o verso il prossimo, un fabbricante, che avesse trovata una tinta indelebile per i calzoni o per la cifra della biancheria. Un giorno le annunziarono, che ella avrebbe sposato il marchese Ercole Passerotto di Frappaglia. II. Chi era il marchese Ercole Passerotto di Frappaglia? Era figliuolo a un diplomatico di Carlo Emanuele ultimo e di Vittorio Emanuele I, che aveva abbandonato l'educazione del figlio per la diplomazia. L'aveva commesso a un prete, Don Procopio. Il tirone, di indole frigida, cioè pochissimo sensuale, si innamorò molto spiritualmente e poco spiritosamente del cappellano. Don Ercolino mostrava e sentiva entusiasmo per le benedizioni ed i santuarii: portava il baldacchino, la pellegrina e le conchiglie in processione: avrebbe fatto dieci miglia a piedi per sentire una messa cantata, accompagnata all'organo da padre David. Si soffiava il naso con fazzoletti dello stesso colore del piviale, che deve variare ogni giorno il prete a messa secondo il calendario rituale. Aveva divisato di immortalarsi con una monografia sulla Confraternita di Santa Caterina. I cosidetti sensi non li conosceva più nemmeno, avendo tarpato loro le ali, appena mettevano il cannone. A quindici anni, quando alcuno gli domandava chi intendesse sposare, egli rispondeva: * Voglio sposare Don Procopio! A venticinque anni, il padre gli replicò la domanda. Ed egli rispose, che voleva sposare la Chiesa. Il padre pianse alla pochezza d'ingegno del figlio, egli che voleva tirarne un diplomatico, un uomo di stato. Gli osservò, come per un figlio unico non c'era luogo a vocazione ecclesiastica, * e che per un nobile né prete, né militare era un disonore non avere moglie. Don Ercolino si acconciò e sposò la contessina Clara Faggio Del Poggio, florida bionda, che dal giorno del matrimonio al contatto di quella cartapecora intristì, fino a morire di lì a sette mesi. Il marchese Ercole ne pianse la morte religiosamente, ufficialmente e coralmente, perché così gli imponevano le sue convinzioni di gentiluomo, di galantuomo e di fedele cristiano. Ma nel suo sé fu contento di essersi spacciato dall'obbligo della moglie, e dal disonore di rimanere nobile celibe senza essere colonnello né monsignore. Durò cinquant'anni di fiera vedovanza, durante i quali fece fabbricare due organi nuovi, pubblicò le sue opere storiche su diverse confraternite e comperò la mula bianca per l'ingresso del nuovo arcivescovo. Protestò contra lo Statuto e l'abolizione del foro ecclesiastico e dei Conventi. Nel 1858 per l'epidemia clericale elettiva fu mandato deputato al Parlamento Subalpino. Vi si recava, dopo avere udito e servito due o tre messe a San Filippo. Avrebbe creduto di commettere un peccato di gentiluomo cattolico, se avesse toccato la mano a Brofferio o a Borella. Non parlò mai. Quando il padre Angius o il conte Solaro della Margherita nominavano il Padre Eterno od il suo figliuolo nostro Signore Gesù Cristo, egli si levava il berrettino pretesco, e si faceva fieramente il segno della Santa Croce in Parlamento. Dopo il sessanta, egli pianse su Casa Savoia e si recò nel suo Castello di Frappaglia, paese quasi tutto suo. Diceva il breviario, come i preti. Abolite le corporazioni religiose anche nel Napoletano, egli ospitò a Frappaglia un monastero di suore carmelitane. Una nobile monacella, dolce come una caramella, la Mirto La Chaine di Mostiafè, la quale non aveva ancora varcato gli ultimi voti, gli presentò nel giorno onomastico un mazzo di fiori con la grazia di un'estasi implorante da reclusa. Il vecchio marchese Passerotto di Frappaglia sentì uno strabiliante effetto di amore a settant'anni. Nell'orgasmo senile la baciò, ed onestamente se la sposò, dopo avere pagata una lauta dispensa alla Dateria apostolica di Roma ed ottenuta per sopramercato una particolare benedizione dal Santo Padre. La marchesina allontanava ogni adorazione altrui con un raggio d'occhio dolcemente superbo. Morì nella maternità martire. Inconscio Barbableu, il marchese Ercole Passerotto di Frappaglia pianse di nuovo ufficialmente e coralmente, e fece venire, oltre l'arcivescovo, due vescovi e dieci canonici per la sepoltura. Finito il rito funebre, convocò l'arcivescovo, i vescovi e i canonici a concilio nel coro della cappella, e tenne loro un'arringa, dicendo che per la salute della sua anima e del suo corpo aveva bisogno di una nuova sposa, purché aristocratica e cattolica; e glie la cercassero. Non fiutarono a lungo i monsignori per trovare la nubenda al vegliardo de cujus . Uno di essi propose la propria nipote baroncina Stella Uvamico, il cui padre era vicino a spiantarsi per la sua imbecillità. Nei primi giorni del suo terzo matrimonio, il marchese Passerotto lasciò in libertà la sposa, che aveva quartiere separato. Al sesto giorno la più vecchia delle dame di compagnia avvertiva la marchesa, che lo sposo sarebbe venuto a farle visita intima di sera, dopo il rosario. Venne ilare, rimpennacchiato, ossia vestito comicamente e lussuosamente alla Goldoni con trine bianche e parrucca nera, spadino e fioretti ... Contento della relativa conquista, egli si arrese a trasportare i lari in città. Quivi dava delle feste da ballo, come glie lo permettevano le sue trecento e cinquanta mila lire di rendita. Mentre gli altri ballavano o si divertivano altrimenti, egli diceva il breviario, e finito il ballo andava a messa. La marchesina Stella paragonò il poderoso scalpitio di un capitano di Nizza Cavalleria alla tosse e allo scricchiolare della carcassa del marchese. Dopo mille rimordimenti di coscienza, diede il suo cuore, la sua fotografia, le sue labbra all'ufficiale cavaliere, per crearsi una nuova vita di felicità perpetua, fedele, amorosa, permessa dalle leggi degli angeli. Il capitano cambiò di guarnigione. Inutilmente essa spedì il marito clericale nella capitale usurpata ad invocare dal ministero massone il ritorno di Nizza Cavalleria a presidio della consorte. Essa voleva fuggire, suicidarsi, farsi monaca ... Voleva recarsi a implorare un santo consiglio da un santo vecchio sacerdote ... Invece capitò a farle visita un giovane e bel canonico. Essa si accorse solo allora, come un prete poteva essere salacemente bello. Subì una dichiarazione amorosa sacerdotale. Stella amava misticamente il canonico, che venne graffiato dalla cuoca e piantò la marchesa, dopo averla accompagnata ostensivamente a braccetto nel visitare le cappelle artistiche del Sacro Monte di Varallo. Delusa dall'abbandono canonicale, la marchesa ritiratasi al Castello di Frappaglia, quivi amò rubestamente un contadino, che aveva adocchiato a un ballo pubblico, e giudicato più bello ed aitante di tutti gli ufficiali e di tutti i canonici ... Se ne disgusta una sera per il puzzo ... Stella non voleva cadere in una stalla. Ritorna in città più formidabile che mai. Allaccia, straccia, stritola, scarpiccia cento vincoli di amore. È un uragano in un bosco d'amore. Il marchese sopporta da gentiluomo del settecento; raccomanda solo di salvare le moderne apparenze. Stella riceveva docile e imperiosa i frequenti assalti, più che omaggi, dei tenentini impertinenti ed impetuosi; e dignitosa gli inchini dei grossi colonnelli, uno dei quali, grosso come un tamburo, nel forte della dichiarazione scappò in un petardo. Sgloriata nuovamente del militarismo, essa volle lasciare un'altra volta l'esercito per la chiesa; finse una malattia e una confessione per sedurre un celebre predicatore. Poscia si invaghì di un giovane pittore, il quale visibilmente segnato dalla Dea Gloria, aveva promesso di sposare al suo paese l'umile figlia di un fornaio, ricciuta come una pecora del sole, perché era stata la sua prima favilla artistica. Stella si fissò di rapire il nuovo Raffaello alla fornarina rusticana. L'artista cede alle lusinghe della superba matrona. Ma dopo la prima eclampsi d'amore, egli, già snebbiato di voluttà, sentì la plebea tentazione di imprecare: porca marchesa! Come il re Teodorico in una ammoniaca spirituale dell'ebrietà banchettante vide nella testa del pesce i teschi delle sue vittime Simmaco e Cassiodoro, così il pittore in una svenia della Donna formidabile vide rifiorire l'immagine della sua unica Fornarina, innocente fanciulla, che lo scacciava dalla filatessa degli amanti di Stella. Per riabilitarsi egli ha bisogno di un gran colpo: trae di tasca un portafogli; ne estrae un biglietto della Banca Nazionale di lire cento, rosso come la vergogna, e lo dà alla marchesa, dicendo: non ho mai pagato tanto niuna ... Se avesse pronunciata la parola, l'avrebbe detta in greco: etaira ... La marchesa urla, ma ritiene il biglietto, lo caccia in un medaglione; poi lo fa inquadrare e spianta la sua corte. Diviene una benefattrice. L'artista ha sposato la fornarina. Il marchese Ercole è morto. Morrà anche la marchesa lasciando il fatto suo allo Spedale. Sarà santificata." " Doctor Malalingua" Alla chiusa ottimista del bozzetto, il professore sollevò lo sguardo carico dall'appendice dell' Eco di Trentacelle, e colse in uno sguardo fragrante l'attacco più che formidabile di Piemonte Reale Cavalleria alla contessa De Ritz, e questa in posa smaniosa di fortezza prendibile, e quasi in accensione di Troia omerica; onde sospirò internamente con una sicurezza di virgiliana immagine: Nerina ruit in pejus.

UNA SERENATA AI MORTI

663958
Faldella, Giovanni 1 occorrenze

Un'altra nota della letteratura parigina, ambulante, spicciola, giornaliera, sia essa parlata o sia scritta, si è la disinvoltura nelle inesattezze, a cui il parigino si abbandona per semplice estro di frivolezza e di burla o per scopo di tirar gente. Non fu raro il caso, che sull'imperiale dell'omnibus un parigino, conoscendo il nostro sindaco per forestiero, lo abbia toccato nel gomito con un gesto di carità fraterna e gli abbia indicato il maresciallo Mac- Mahon, che passava. Anzi Geromino assicura che gli additarono sette Mac?Mahon di fisionomia affatto diversa, ed invano il segretario volle spiegare l'arcano al suo superiore, dicendogli che una volta sarà stato l'eroe di Magenta, un'altra volta il Mac?Mahon delle batoste del 1870, a cui il popolazzo parigino in quei giorni perigliosi voleva imporre le orecchie d'asino; una terza volta il debellatore della Comune, una quarta l'uomo del 16 maggio, una quinta il presidente dal dilemma cornuto di Gambetta: dimettersi o sottomettersi; una sesta il presidente in voce di pigliarsi ambedue le corna, oltre la intimazione di Gambetta, cioè in voce di dimettersi, dopo di essersi sottomesso; una settima il possibile presidente destituito dalle vicine elezioni senatoriali. Nello stesso modo facile, con cui i parigini danno ad intendere personalmente a Geromino un uomo per un altro, e una via per l'altra, essi non hanno, come disse con un arcaismo il povero sindaco, essi non hanno alcun respitto nel litografare e nel vendere un album delle facciate delle Nazioni all'Esposizione, facciate, fors'anche migliori, ma affatto diverse da quelle che esistono in realtà. Alcuni grandi magazzini o semplici negozi regalano ai loro avventori e anche a chi non compra niente, una pianta di Parigi e dell'Esposizione. Or bene Geromino verificò, che in una pianta dell'Esposizione il Campo di Marte era capovolto rimpetto al Trocadero, e ciò per poter collocare meglio negli angoli del disegno la raccomandazione dell'Acqua di Melissa o della broda Boudier o della sartoria Voltaire, che per 21 lira dà un vestiario completo, oltre al ritratto dell'autore dell'Enriade. Nella pianta di Parigi poi isoleggia, fuori di ogni squadro, il magazzino, che l'ha fatta stampare; cosicché ad un forestiere meno ingenuo di Geromino parrebbe che il negozio, di cui si tratta, fosse cosa più notevole e più grande del Louvre, delle Tuileries, del Lussemburgo, della Maddalena, del Pantheon e degli Invalidi riuniti insieme. A un certo punto la nostra brigata, passando davanti a un padiglione illuminato a vetri colorati, fu tutta intagliata dalla proiezione degli annunzi. La signora Giacomina aveva sulle spalle la raccomandazione di un romanzo; il sindaco aveva nella faccia il disegno di un cappello; il segretario era attraversato da un Gran Ristorante; e la signora Clitennestra portava sul naso la strombazzata della Compagnia Nazionale del lucido da scarpe francese. Eglino erano diventati tante caricature di Cham, e come se ciò non bastasse, di sopra li percotevano alcuni paroloni di gaz illuminante da disgradarne Ottino, che predicavano le extra ultime mantiglie al primo piano; l'asfalto si spingeva, sotto i loro piedi, a cantare in lettere bianche le pantofole più morbide dell'universo, e i tavolini da caffè loro sorridevano mosaici di avvisi benevoli e stuzzicanti. Da quella ridda di reclami, i nostri quattro viaggiatori si involarono, riparandosi nella loro umile casetta di rue du Bac, mobile come un vecchio armadio in riparazione davanti la bottega di un falegname. Goldi disse a Geromino: - Ho fatto incetta qui di parecchi giornali scostumati; ma prima di leggerli rinserriamo le nostre consorti nei loro appartamenti. Certi giornali non potrebbe leggerli neppure... mia moglie. Quando fu ben sicuro, che il gentil sesso era rientrato nelle sue tende, il segretario, con il più buffo secretume da Consiglio dei Dieci, offerse un fascio di giornali alla lettura del suo sindaco. Questi, dopo averli esaminati, stette un po' pensieroso e poi ragionò: - Una volta la letteratura francese commetteva qualsiasi bricconata con buon gusto; tanto è vero che il maledico Heine poteva scrivere di Victor Hugo, che questi godeva appunto di una fama singolare, perché egli era l'unico che sconfinasse dal buon gusto fra i suoi connazionali. Ora invece la bricconata letteraria francese viene fuori con la frase più tecnica e più brutale. In questo giornaletto c'è una lettera di uno zio padrino alla nipote Giovannina cucitrice di nero a Montmartre, per i casi occorsile, onde ebbe origine un trovatello, ed è una lettera di cui si potrebbe tradurre il senso ma non la parola cinica. E questa poesia? La vita di un Gaudente, Ninna Nanna. "Quattro anni per dire mamma e papà, amare gli zuccherini, le immagini, e farcela addosso, è la gran bella età! - Dieci anni! per andare in collegio, intraprendere un tirocinio, è la gran bella età! - Diciotto, vent'anni! - Per fare all'amore, per diteggiare i vaghi corsetti, i giocondi visini, le gambe fatte al tornio, ecc.". Per un tratto non si può più continuare nella traduzione in prosa... "Cinquant'anni! Per essere scornato e ricevere un calcio nel sedere dall'uomo che vi disonora. È la gran bella età! - Sessant'anni. - Per crepare di quattrini, divenire un personaggio immondo, gesuita, putrido, classe dirigente, è la gran bella età! - Ottant'anni! Per essere completamente imbecille, avere la testa che dondola, e farsela nuovamente addosso, è la gran bella età...". - A me quello che piace di più è il seguente avviso - interruppe Goldi prendendo il giornale di mano al sindaco. - La comparsa del libro di Paolo Makalin, LE LEGGIADRE ATTRICI DI PARIGI, ha testè suggerito ad uno dei nostri più avveduti uomini di finanza il proposito di fondare una società in accomandita per l'estrazione del mercurio dai corpi di ballo e simili... - Questo è niente - rispose Geromino: - è il n. 11, anno I, di un giornale che morrà presto, come un fungo... il grido di disperazione corbellatrice degli ingegni abortiti o disgraziati e delle vocazioni spostate, che si incollano confondendosi in questo oceano di glutine parigino, dove nella calca mostruosa l'individuo è isolato, e il parroco smesso può fare senza rossore il vetturino, e l'avvocato e l'ingegnere, in mancanza di meglio, possono adattarsi tranquillamente a fare il cameriere d'albergo. Direi che c'è qualche cosa di nobile e di positivo, di forte, o per parlare più difficile, c'è qualche sentore d'aurora, d'ideale e di avvenire in questo orribile muoversi dei diseredati e dei calpestati, che mordono le calcagna a coloro che passano di sopra... Ma io trovo molto più lercio e più rivoltante il linguaggio di alcuni fra gli ingegni riusciti costituiti e dominanti. Prendiamo questo giornale illustrato, che ha sedici anni di vita fiorente, è l'organo della gente ammodo, è pieno di brio, di arguzia e di utilità pratica, e in una pagina sola di disegni ci fornisce un mondo di storia vera, istruttiva e divertente, la storia di una famiglia nobile dalle Crociate alla Esposizione dei formaggi. Orbene vediamo in quale prosa casca questo ammirabile giornale. Ecco qui a pag. 462: Consigli pratici ai forestieri. Ci descrive i quartieri delle disgraziate creature che pigliano addirittura il nome dal mondo intiero, loro clientela; ed esse non sono più le allegre Lisette di Béranger, le matte studentesse, le peccatrici dal cuore leggiero, le grisettes dall'anima di cardellino; ma sono le avide, le truculente, le mascherate cocottes, entomati, vibrioni, mangiatrici di denaro. Ci descrive il Quartier de l'Europe e poi le Quartier des Martyrs e dice: "Le castellane di questo quartiere si compiacciono estremamente del respirare aria fresca; e perciò fanno in accappatoio bianco delle lunghe pose alle finestre dei loro alloggi. Sarebbe perfettamente inutile l'accingersi ad una serenata per commuoverle... Non vi getterebbero di certo la scala di seta. Il meglio si è rivolgersi al portinaio. D'ordinario si trova la chiave sotto l'uscio; se non c'è, è meglio non insistere: - Chiuso per causa di occupazione...". - E questo birbone di giornalista, seguita in un modo, che ho rossore di seguitare a tradurre io... Ci descrive la sacerdotessa nella sacristia del suo abbigliatoio, e poi meglio ancora, quando la porta si apre, la tenda si solleva; e la sacerdotessa compare nel tempio fresca, fragorosa e olezzante; la soave capigliatura sparsa; e la grande persona drappeggiata in un vago velo di China, celeste o rosa, allacciato da capo a fondo da piccoli nodi di setino. Qui quel briccone di giornalista, che si potrebbe chiamare dantescamente galeotto, ci dà persino il manuale di conversazione con la solita traduzione inglese per i viaggiatori che sono stimati più danarosi: "Quelle étoffe soyeuse! - Ce peignoir s'agrafe jusqu'en haut. Ce sont des noeuds. Est?ce qu'ils peuvent se défaire? - ...Cette jarretière ne vous serre pas trop. En êtes?vous sûre? - Vos petits pieds sortant de ces pantoufles ont l'air de sortir d'un nid". E concede persino degli scherni placidi alla morale e alla filosofia: "Le moraliste s'en etonne. Le philosophe s'en afflige. Mais qu'y faire? (The moralist is astonished - The philosopher is sorrow. Can you help it?)". A questo punto il sindaco si rizzò in piedi, fregandosi il pugno negli occhi, quindi proruppe: - Ma se vi sono dei giornali che si intitolano dai Grandi Matrimoni, se vi è Le Trait d'union. Organo dei celibatarii e delle famiglie; domando io, perché questa prosa non potrà entrare in un Giornale Ufficiale delle Mondane, delle generose Morelliane...? Poi l'adirato Geromino si sedette nascondendo la faccia nelle mani. Pensò al suo villaggio, alla sua famiglia, alla sua sposa; pensò, che lo scrittore di quelle righe forse aveva anche lui una famiglia illibata in una città di provincia o in un castello, dentro la strombatura di una montagna. - Sì! Ed avrà una nonna bianca, veneranda, che sprofondata in un seggiolone a bracciuoli, con gli occhiali verdi sul naso, leggerà al chiarore casalingo dell'olio d'uliva i giornali dell'ultima posta cercandovi la notizia dei successi teatrali del figlio drammaturgo... Ed il figliuolo venuto qui, dove la foga della grande città annichila nella vita pubblica esterna i morali e santi ripostigli della divina famiglia, venuto qui, vittima inconscia del putridume, che lo ingoia, serve da letterario mezzano... Il sindaco fu di nuovo in piedi e agguantò pei bottoni il segretario vociandogli con una efferatezza di voce soffocata: - Ma vi sono dunque due leggi morali, e due razze d'uomini...? E una mia figlia potrà appartenere al sesso di quella sciagurata!... Una delle due: o noi siamo minchioni, o quelli non sono uomini, sono compagni di Sant'Antonio. Geromino era ricaduto sulla seggiola spossato; e si sarebbe detto che piangesse tacitamente. Pino Goldi si appigliò al solito partito da lui praticato, quando vede alcuno a piangere; accende il sigaro, perché, dice lui, non si vedano le sue lacrime di richiamo. Ma il sindaco non piangeva; onde Pino Goldi gli disse: - Caro mio, impara a conoscere il mondo, e piglialo come viene. E per istruirci di più, domani sera dobbiamo andare tutti al Mabille.

IL Santo

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Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

Io so perché sono arido, io so perché Dio mi abbandona. Sempre quando Dio mi abbandona, quando tutte le sorgenti vive dell'anima mia inaridiscono e i germi vivi si disseccano e il mio cuore diventa un mare morto, io so perché. Perché ho udita una musica soave alle mie spalle e mi sono voltato, oppure perché il vento mi recò fragranze dai prati in fiore a lato della mia via e mi arrestai, oppure perché la nebbia mi è salita di fronte e ho temuto, oppure perché uno spino mi offese il piede e ne ho concepita ira. Istanti, baleni, ma intanto l'uscio si apre, un soffio maligno entra. È sempre così, basta uno sguardo raccolto, una lode gustata, una immagine trattenuta, una offesa rimeditata, il soffio maligno entra. E adesso è tutto questo insieme! È scesa la notte sul mio cammino, ho messo il piede nell'erba molle, la ho sentita, ho ritratto il piede ma non subito. Perché adopero figure? Scrivi scrivi, mano mia vile, la nuda Verità! Scrivi che questa casa è un nido di mollezza e che se ho gustato il letto soffice, la biancheria fine, l'odore di lavanda, ho molto più gustato la conversazione del signor Giovanni e le letture assorbenti nel diletto della mente, l'aura di due giovani donne pure, intellettuali, piene di grazia, la loro ammirazione segreta, il profumo di un sentimento che una di esse mi è parsa chiudere in sé, la visione di una Vita nascosta in questo nido fra queste persone, lontana da tutto ch'è volgare, ch'è basso, ch'è immondo, ch'è schifoso. Ho sentito il male del mondo con il ribrezzo che se ne ritrae e non con il focoso dolore che lo affronta per strappargli le anime. Istanti, baleni; mi rifugiai come un tempo nell'abbraccio della Croce ma la Croce, poco a poco, altrimenti da un tempo, mi diventò nelle braccia legno insensibile e morto. Mi sono detto: spiriti di nequizia, male volontà sapienti e forti che sono nell'aria, congiurano contro di me, contro la mia missione. Mi sono risposto: superbia, giù! E poi la prima idea mi riprese, ondeggiai cieco in questa vicenda trista, ogni giorno, tutto il giorno. E poiché niente ne ho lasciato trasparire, poiché capivo che il signor Giovanni e le Signore non dubitavano che io non fossi nell'interno così sereno, così puro come il mio esterno pareva, mi disprezzai, certi momenti, come un ipocrita, per dirmi, il momento dopo, che invece il mio esterno puro e sereno mi aiutava a vivere, parlo della Vita spirituale; che il parer forte mi obbligava a esser forte. Mi paragonai a un albero che ha il midollo divorato dai vermi, il legno consunto dalla putrefazione e vive per la corteccia, può dare foglie e fiori per lei, può dare ombra benefica. E poi mi dissi che questo era buono per gli uomini; ma davanti a Dio, davanti a Dio? E poi mi dissi ancora che Dio mi potrebbe sanare perché l'albero divorato nel midollo non è sanabile ma l'uomo sì; e allora mi torturai per la impotenza di fare quello che Dio avrebbe chiesto a me come cooperazione della mia volontà alla Sua: fuggire, fuggire. Dio è nella voce dell' Aniene che dalla sera della mia partenza da Jenne mi dice: "Roma, Roma, Roma"; e Dio è pure nella forza dei vermi invisibili che mi hanno rosô le virtù vitali del corpo. E allora e allora e allora? Signore, ascolta il mio gemito che Ti domanda giustizia. Ho detto tante volte che certamente partirò appena ne avrò la forza e qui mi vorrebbero trattenere e come potrò io dir loro: amici miei, voi mi siete nemici? Ecco, viltà mia! Perché non potrei dirlo? Perché non lo dirò? Ho letto un giorno nello sguardo della giovine protestante: - Se Lei parte che sarà dell'anima mia? Non deve Lei desiderare di condurmi alla fede Sua? Io non mi lascio condurre ancora. - No, non posso, non debbo scrivere tutto. E come scrivere l'espressione di uno sguardo, l'intonazione di una parola per sé indifferente? Non sono sguardi come quello per il quale San Girolamo s'immerse nell'acqua gelata o almeno la commozione mia non somiglia alla sua. Non vale acqua gelata contro uno sguardo puro nella sua dolcezza. Solo il fuoco vi arriva, il fuoco dell'Amore supremo. Oh chi mi libera dal mio cuore mortale che non si move di un solo picciol moto senza movere tutte le fibre del corpo, chi mi libera il cuore immortale che gli è interno come il germe al frutto e si prepara un corpo celeste? Non posso, non debbo scrivere tutto, ma questo sì lo voglio scrivere: il Signore mi tende insidie e lacci! Caduto, mi deriderà! Perché è avvenuto che io scrivessi il passo latino sulla gente che vive in penitenza fra il Mar Morto e il deserto, "sine pecunia, sine ulla femina, omni venere abdicata, socia palmarum" su quel pezzo di carta che recava sull'altra faccia parole di J. D., calde ancora del mio peccato antico e del suo, delle memorie più terribili? Perché una persona così timida ha osato impormi una comunicazione segreta? Il vento mi ha spalancata la finestra. Oh Aniene Aniene, come non ti stanchi di ruggirmi il tuo comando! Che io parta sul momento? Impossibile, le porte sono chiuse. E poi sarebbe indegno di partire così. Disonorerei Dio, farei dire: che qualità di servi ingrati e pazzi ha il Signore? Vieni, spirito del mio Maestro, vieni, vieni, parla, io ti ascolto. Che mi dici? Che mi dici? Ah tu sorridi delle mie tempeste, tu mi dici di partire, sì, ma di partire nobilmente, di annunciare che il Signore me lo comanda. Tu mi dici di obbedire alla voce di Dio nell' Aniene. Ecco che il vento si allontana, pare chetarsi, contento. Sì, sì, sì, con lagrime. Domani, domattina. Lo annuncierò. E so a chi andrò in Roma. Oh luce, oh pace, oh sorgenti redivive dell'anima mia, oh mare morto che ti gonfii in una calda ondata! Sì, sì, sì, con lagrime. Grazie, grazie. Gloria a Te, Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il nome Tuo, venga il regno Tuo, sia fatta la Tua volontà! _______________________

Malombra

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Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

Dio, gli uomini, la giovinezza, la fede, l'amore, tutto mi abbandona." Vi scrisse sotto: "29 aprile 1865." "Spero."

Piccolo mondo antico

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Fogazzaro, Antonio 3 occorrenze

Il Biancòn, che sta pescando alle tinche, con l'ombrello, vede la gondola, abbandona le sue lenze, e viene ad ossequiare la marchesa. Ma trova invece il dottor Aliprandi il quale lo turba tanto con le cattive notizie della dama ch'egli sente il bisogno di chiamare anche la sua Peppina e di parteciparle la cosa; e la Peppina, poveretta, recita sotto l'ombrello del suo Carlascia una piccola commedia d'intenerimento. Marito e moglie eccitano l'Aliprandi a far presto, a ritornar presto. Il bestione gli permette di filar dritto, al ritorno, da Gandria a Cressogno e il dottore si volta a Franco, dice: "Andiamo!". Franco ha assistito impassibile al colloquio, con le mani sul remo, sperando apprender qualche cosa de' suoi amici e di casa sua; ma nessuno ha fiatato di Polizia né d'arresti né di fughe come se casa Ribera fosse nella China. La gondola indietreggia lentamente dall'approdo, gira la prora verso Gandria, si allontana, sfuma oltre il confine, nella nebbia. Alla riva di Lugano il dottor Aliprandi aperse lo sportello e fece entrare Franco. Si conoscevano poco ma si abbracciarono come fratelli. "Quando verrà l'ora delle cannonate", disse l'Aliprandi, "ci sarò anch'io." Convennero di congedarsi lì e che Franco uscisse prima, solo, perché Lugano era piena di spie e il dottore doveva pure usare certi riguardi. Il dottore non aveva fretta, del resto; gli premeva più di trovar un barcaiuolo che un medico. Franco si tirò il cappuccio sugli occhi e scesea terra, andò all'albergo della Corona. Alcune ore più tardi, quando la gondola era ripartita, egli usci in cerca di valsoldesi per avere notizie, si avviò alla farmacia Fontana e incontrò sotto i portici i suoi amici che uscivano appunto dalla farmacia insieme a un vecchio. Gli saltarono al collo, piansero di commozione. Erano andati anche loro a cercar notizie. Alla farmacia si diceva che Franco fosse stato arrestato. Che gioia di trovarlo e che gioia di sentirsi terra libera sotto i piedi! Mi sia permesso di ricordare il vecchio che accompagnava Pedraglio e l'avvocato, bizzarra figura del piccolo mondo antico luganese, artista e degno che un altro artista, passandogli così vicino, gli renda onore. Egli era un tal Sartorio, pittore, poeta e suonatore di chitarra, che a quei tempi si vedeva spesso balenar qua e là per le oscure vie di Lugano con la sua bella barba bianca, con il suo cappello bianco tirato sull'occhio destro, con il suo nobile abito nero e il fiore all'occhiello. Poverissimo ma pulitissimo, cavaliere con le dame e con le pedine, pronto sempre a un'anacreontica e a una chitarrinata, adoratore della propria città, egli viveva di pane, formaggio e acqua, fiutava e rincorreva i forestieri per far loro gli onori di Lugano, era sempre pieno di queste faccende, sempre in moto fra Villa Ciani, l'Hôtel du Parc e Villa Chialiva. L'Hôtel du Parc era per lui l'ottava meraviglia del mondo. Aveva aiutato a inaugurarlo e se ne compiaceva assai, godeva particolarmente citare, col suo classico accento luganese, la strimpellata e la lirica ispirategli dalla sala da pranzo: "ca l'è poeu quand ca ga disi: Le trombe squillano Nel gran salone, Ai suoni accordisi Questa canzone. Ora egli si era spontaneamente accompagnato a Pedraglio e a V. che gli avevan narrata la loro fuga. Li aveva condotti lui alla farmacia Fontana per cercarvi notizie di Franco. "Come?", diss'egli dopo l'incontro. "È questo il Loro amico? Sfuggito anche lui agli artigli dell'aquila rapace di Asburgo? Benissimo! Benissimo! Ho fatto anni sono, per altri lombardi fuggiti qua dopo la rivoluzione di Vall'Intelvi, un'ode ca l'era minga mal. Ho descritto, neh, la loro fuga per la Val Mara, la calata a Maroggia, l'arrivo a Lugano, ca l'è poeu quand ca ga disi: O baldi figli di Lombardia, V'apre le braccia Lugano mia. È una cosetta che va benissimo anche per Loro. Adesso corro a prender la chitarra e poi gliela faccio sentire all'albergo." "Madonna!", fece Pedraglio.

No, cara, no, cara, non ci abbandona mica il nostro zio." Lo zio tremò, il dolore lo vinse un momento, gli strappò un singhiozzo. "Lasciala in pace", diss'egli con voce soffocata. Essa non parve udirlo, riprese: "Andiamo noi, cara, andiamo noi dal nostro zio. Che ci andiamo, Maria? Sì, sì, andiamo, andiamo". Si lasciò sdrucciolare dal letto a terra si avviò verso lo zio stringendosi al petto col braccio sinistro la sua dolce morta, passò l'altro al collo del vecchio, gli sussurrò: "un bacio, un bacio, un bacio alla tua Ombretta, un bacio solo, uno solo". Lo zio Piero si chinò, baciò il visetto già deturpato amaramente dalla morte, lo bagnò di due grosse lagrime. "Guarda, guarda, zio", diss'ella. "Dottore, porti qua il lume. Sì sì, non sia cattivo, dottore. Guarda, zio, che tesoro. Dottore!" L'Aliprandi era riluttante e tentò resistere ancora; ma quel dolore folle aveva qualche cosa di sacro che s'impose. Obbedì, prese il lume e lo accostò al piccolo cadavere che faceva con quegli occhi semiaperti e quelle pupille dilatate una pietà immensa ed era stato la Maria, la Ombretta gentile, la dolcezza del vecchio, il viso e l'amore della casa. "Guarda, zio, questo piccolo petto come l'abbiamo maltrattato, povero tesoro, come gli abbiamo fatto male con tanto strofinare. La tua mamma è stata, sai, Maria, la tua brutta mamma e quel cattivo dottore lì." "Basta!", disse il dottore risolutamente, posando il lume sulla scrivania. "Parli pure alla Sua bambina, ma non a questa, a quella ch'è in Paradiso." L'impressione fu terribile. Ogni tenerezza sparì dal viso di Luisa. Ella indietreggiò cupa, stringendosi la sua morta sul seno. "No!", stridette, "no! non in Paradiso! È mia! È mia! Dio è cattivo! No! Non gliela do!" Indietreggiò indietreggiò sin dentro all'alcova, tra il letto matrimoniale e il lettuccio, ricominciò i lunghi gemiti che non parevano umani. L'Aliprandi fece uscire l'ingegnere che tremava. "Passerà, passerà", diss'egli. "Bisogna aver pazienza. Adesso resto io." In sala c'era Ismaele che prese il professore a parte. "E avvertire il signor don Franco?", diss'egli. Si parlò allo zio, si decise di mandar un telegramma da Lugano, l'indomani mattina perché oramai era troppo tardi, a nome dello zio, parlando di malattia grave. Ester scrisse il telegramma, in sala c'era un'altra persona, la povera Pasotti corsa lì mentre suo marito era andato ad accompagnare la marchesa a Cressogno. Ella singhiozzava, disperata d'aver dato quella barchetta a Maria. Voleva entrare da Luisa ma il dottore, udendo pianger forte, uscì, raccomandò quiete, silenzio. La Pasotti andò a piangere in loggia. Con lei erano venuti il curato don Brazzova e il prefetto della Caravina che avevan pranzato a casa Pasotti. Più tardi venne il curato di Castello, l'Introini, piangendo come un ragazzo. Volle assolutamente entrare da Luisa malgrado il medico e s'inginocchiò in mezzo alla camera, supplicò Luisa di donar la sua bambina al Signore. "Che la guarda", soggiunse, "che La guarda, sciora Lüisa, se La voeur propi minga donàghela al Signor, che ghe La dona a la Soa nonna Teresa, a la Soa mammin de Lee, che ghe l'avarà inscì cara, sü in Paradis!" Luisa fu intenerita, non dalle parole, ma dal pianto e rispose con dolcezza: "L'à capii che ghe credi minga, mi, al So Paradis! El me Paradis l'è chi!". L'Aliprandi fece al curato un gesto di preghiera e quegli usci singhiozzando. Il medico parti da Oria verso la mezzanotte insieme al professore. Tutta la casa taceva, neppur dall'alcova usciva più alcuna voce. L'Aliprandi aveva passate le ultime due ore in sala, col professore ed Ester, senza udir mai un grido né un gemito né un movimento qualsiasi. Era andato due volte a guardare. Luisa stava seduta sulla sponda del suo letto con i gomiti sulle ginocchia e la faccia tra le mani, contemplando il lettuccio che l'Aliprandi non poteva vedere. A lui questa immobilità nuova dispiaceva quasi più che la sovreccitazione di prima. Poiché Ester intendeva restare tutta la notte, le raccomandò che tentasse, con discrezione, di scuoter la sua amica, di farla piangere e parlare. A vegliare con Ester si trattenevano altre donne del paese e Ismaele che doveva partir per Lugano alle cinque. Lo zio Piero era andato a letto. L'Aliprandi e il professore si fermarono sul sagrato a guardar la finestra illuminata dell'alcova, ad ascoltare. Silenzio. "Maledetto lago!", fece il dottore, pigliando il braccio del suo compagno e rimettendosi in via. Certo egli pensava, così dicendo, alla dolce creaturina che il lago aveva uccisa, ma v'era pure nel suo cuore il dubbio che altri guai fossero in cammino, che l'opera sinistra delle acque perfide non fosse ancora compiuta; e v'era una pietà immensa per il padre, per il povero padre che non sapeva ancora niente.

Cantò l'aria di Anna Bolena Al dolce guidami Castel natìo il canto dell'anima, che prima scende e si abbandona poco a poco, per più dolcezza, all'amore, e poi, abbracciata con esso, risale in uno slancio di desiderio verso qualche alto lume lontano che tuttavia manca alla sua felicità piena. Ella cantava e Franco, rapito, fantasticava che aspirasse ad essergli unita pure in quella parte superiore dell'anima che finora gli aveva sottratta, che aspirasse a venir guidata da lui, in questa perfetta unione verso la meta dell'ideale suo. E gli venivano le lagrime alla gola; e il lago ondulante e le grandi montagne tragiche e quegli occhi delle cose fisi nella luna e la stessa luce lunare, tutto gli si riempiva del suo indefinibile sentimento, per cui quando di là dalla spezzata immagine dell'astro luccicori argentei sfavillarono un momento fin sotto il Bisgnago, fin dentro il golfo ombroso del Dòi, se ne commosse come di arcani segni alludenti a lui che si facessero il lago e la luna, mentre Luisa compieva la frase: Ai verdi platani Al cheto rio Che i nostri mormora Sospiri ancor. La voce di Pasotti gridò dalla terrazza: "Brava!" E la voce dello zio: "Tarocco!" Nello stesso tempo si udirono i remi d'una barca che veniva da Porlezza, si udì un fagotto scimmiottar l'aria di Anna Bolena Franco, che s'era seduto sulla poppa del suo battello, salto in piedi, gridò lietamente: "Ehi là!". Gli rispose un bel vocione di basso: Buona sera, Miei signori, Buona sera, Buona sera. Erano i suoi amici del lago di Como, l'avvocato V. di Varenna e un tal Pedraglio di Loveno, che solevano venire per far della musica in palese e della politica in segreto; un segreto di cui Luisa sola era a parte. Anche dalla terrazza si gridava: "Bene, don Basilio!". "Bravo il fagotto!". E negli intervalli si udiva pure la voce di un signore che si schermiva dal tarocco. "No, no, Controllore gentilissimo, xe tardi, no ghe stemo più, no ghe stemo propramente più! Oh Dio, oh Dio, La me dispensi, no posso, no posso; ingegnere pregiatissimo, me raccomando a Ela." Lo fecero poi giuocare, l'ometto, con la promessa di non passar le due partite. Egli soffiò molto e sedette al tavolino con l'ingegnere, Pasotti e Pedraglio. Franco sedette al piano e l'avvocato gli si mise accanto col fagotto. Fra Pasotti e Pedraglio, due terribili motteggiatori, il povero signor Giacomo ebbe una mezz'ora amara, piena di tribolazioni. Non gli lasciavano un momento di pace. "Come va, sior Zacomo?" "Mal, mal." "Sior Zacomo, non ci sono frati che passeggiano in pantofole?" "Gnanca uno." "E il toro? Come sta il toro, sior Zacomo?" "La tasa, La tasa." "Maledetto, eh, quel toro, sior Zacomo?" "Maledetissimo, sì signor." "E la servente, sior Zacomo?" "Zitto!", esclamò Pasotti a questa impertinente domanda di Pedraglio. "Abbiate prudenza. A questo riguardo il signor Zacomo ha dei dispiaceri da parte di certi indiscreti." "Lassemo star, Controllore gentilissimo, lassemo star", interruppe il signor Giacomo contorcendosi tutto, e l'ingegnere lo esortò a mandar i due seccatori al diavolo. "Come, sior Zacomo", riprese Pasotti, imperterrito: "non è un indiscreto quel piccolo sacerdote?". "Mi ghe digo aseno", fremette il signor Giacomo. Allora Pasotti, tutto ridente e trionfante perché si trattava proprio d'una burla sua, fece tacere Pedraglio che scoppiava dalla curiosità di saper la storia e rimise in corso il tarocco. Franco e l'avvocato studiavano un pezzo nuovo per piano e fagotto, pasticciavano, si rifacevan ogni momento da capo; ed ecco entrare in punta di piedi per non guastar le loro melodie, la signora Peppina Bianconi. Nessuno s'accorse di lei tranne Luisa che se la fece sedere accanto, sul piccolo canapè vicino al piano. A Franco la signora Peppina, con la sua bontà cordiale, chiacchierona e sciocca, urtava i nervi; a Luisa no. Luisa le voleva bene ma stava in guardia per il Carlascia. La Peppina aveva udito dal suo giardino quella canzonetta "inscì bella, neh", e poi il fagotto, i saluti; s'era immaginata che avrebbero fatto musica e lei era "inscì matta, neh", per la musica! E poi c'è quel signor avvocato "ch'el boffa denter in quel rob inscì polito!". E poi c'è il signor don Franco "parlèmen nanca, con quèi diavoi de did!" Udir suonare il piano con quella precisione era proprio come udire un organetto; e a lei gli organetti piacevano "inscì tant!". Soggiunse che temeva recar disturbo ma che suo marito l'aveva incoraggiata. E domandò se quell'altro signore di Loveno non suonava anche lui, se si fermavano un pezzo; osservò che dovevano avere ambedue una gran passione per la musica. "Aspetta me, birbone d'un Ricevitore", pensò Luisa e rimpinzò sua moglie delle più comiche frottole sulla melomania di Pedraglio e dell'avvocato, infilzandone tante più quanto più s'irritava contro la gente odiosa da cui era forza salvarsi a furia di menzogne. La signora Peppina le inghiottì scrupolosamente tutte fino all'ultima, accompagnandovi affettuose note di lieta meraviglia: "Oh bell, oh bell!". "Figürèmes!". "Ma guardee!". Poi, invece di ascoltare la diabolica disputa del piano col fagotto, parlò del Commissario di Porlezza e disse ch'egli aveva l'intenzione di venir a vedere i fiori di don Franco. "Venga pure", fece Luisa, fredda. Allora la signora Peppina, approfittando di un uragano che Franco e l'amico suo facevano insieme, arrischiò un discorsetto intimo che guai se il suo Carlascia l'avesse udito; ma fortunatamente il buon bestione dormiva nel proprio letto col berretto da notte tirato sugli orecchi. "Mi goo inscì mai piasè de sti car fior!", diss'ella. Secondo lei, i Maironi avrebbero fatto bene ad accarezzare un poco il signor Commissario. Era intimo della marchesa e guai se gli veniva il ticchio di farli tribolare! Era un uomo terribile, il Commissario. "El mè Carlo el baia un poo ma l'è on bon omasc; quell'alter là, el baia minga, mah, neh! ..." Per esempio, ella non sapeva niente, non aveva udito niente, ma se quel signor avvocato e quell'altro signore fossero venuti per qualche altra cosa invece che per la musica e il Commissario venisse a saperlo, misericordia! La luna trascinava i suoi splendori per il lago verso le acque di ponente; il giuoco finì e il signor Giacomo si dispose a far accendere il suo lanternino, malgrado le esclamazioni di Pasotti. "Il lume, sior Zacomo? È matto? Il lume con questa luna?". "Per servirla", rispose il signor Giacomo. "Prima ghe xe quel maledeto Pomodoro da passar, e po, cossa voria, adesso, la luna! La diga che la xe la luna d'agosto, anca; perché siben che semo de setembre, la luna la xe d'agosto. Ben! una volta, sì signor, le lune d'agosto le gera lunazze, tanto fate, come fondi de tina; adesso le xe lunete, buzarete ... no, no, no." E, acceso il suo lanternino, partì con Pasotti, accompagnato fino al cancello del giardinetto dall'impertinente Pedraglio con le solite antifone sul toro e la servente, si avviò verso gli antri di Oria, col conforto delle giaculatorie di Pasotti: "gente maleducata, sior Zacomo, gente villana!", giaculatorie dette abbastanza forte perché gli altri potessero udire e ridere. Un sonoro sbadiglio dell'ingegnere mise in fuga la signora Peppina. Pochi momenti dopo, preso il suo solito bicchier di latte, egli tolse commiato poeticamente: Crescono sul Parnaso e mirti e allori Felicissima notte a lor signori. Anche i due ospiti chiesero un po' di latte: e Franco che intese il loro latino andò a pigliare una vecchia bottiglia del piccolo eccellente vigneto di Mainè. Quando ritornò, lo zio non c'era più. Il bruno, barbuto avvocato, una quadratura di forza e di calma, alzò le due mani, chiamò silenziosamente a sé Franco da una parte, Luisa dall'altra e disse piano, con la sua voce di violoncello, calda e profonda: "Notizie grosse". "Ah!", fece Franco, spalancando gli occhi ardenti. Luisa diventò pallida e giunse le mani senza dir parola. "Sicuro", fece Pedraglio, tranquillo e serio. "Ci siamo." "Dite su, dite su, dite su!", fremette Franco. Fu l'avvocato che rispose: "Abbiamo l'alleanza del Piemonte con la Francia e l'Inghilterra. Oggi la guerra alla Russia, domani la guerra all'Austria. Volete altro?" Franco abbracciò di slancio, con un singulto, i suoi amici. I tre stettero abbracciati in silenzio, palpitando, stringendosi forte, nella ebbrezza della magica parola: guerra. Franco non si accorgeva di avere ancora la bottiglia in mano. Gliela tolse Luisa; egli allora si staccò impetuoso dagli altri due e cacciatosi fra loro a braccia aperte, li trascinò via per la vita come una valanga, li portò in loggia ripetendo: "Contate, contate, contate". Colà, chiuso per prudenza l'uscio a vetri che mette sulla terrazza, l'avvocato e Pedraglio misero fuori il loro prezioso segreto. Una signora inglese villeggiante a Bellagio, fervente amica dell'Italia, aveva ricevuto da un'altra signora, cugina di sir James Hudson, ministro d'Inghilterra a Torino, una lettera di cui l'avvocato possedeva la traduzione. La lettera diceva ch'erano in corso a Torino, a Parigi e a Londra segretissime pratiche per avere la cooperazione armata del Piemonte in Oriente, che la cosa era in massima decisa fra i tre Gabinetti, che restavano solamente a risolvere alcuna difficoltà di forma perché il conte di Cavour esigeva i maggiori riguardi alla dignità del suo paese; che a Torino si era certi di ricevere al più tardi in dicembre l'invito ufficiale delle Potenze occidentali per accedere puramente e semplicemente al trattato del 10 aprile 1854. Si affermava persino che il corpo di spedizione sarebbe comandato da S. A. R. il duca di Genova. V. leggeva, e Franco teneva stretta la mano di sua moglie. Poi volle leggere egli stesso e dopo lui lesse Luisa. "Ma!", diss'ella. "La guerra all'Austria? Come?" "Ma sicuro!", fece l'avvocato. "Vuole che Cavour mandi il duca di Genova e quindici o ventimila uomini a battersi per i turchi se non ha in pugno la guerra all'Austria? La signora crede che non passerà un anno." Franco scosse i pugni in aria con un fremito di tutta la persona. "Viva Cavour", sussurrò Luisa. "Ah!", fece l'avvocato. "Demostene non avrebbe potuto lodar il conte con efficacia maggiore." Gli occhi di Franco s'empirono di lagrime. "Sono uno stupido", diss'egli. "Cosa volete che vi dica?" Pedraglio domandò a Luisa dove diavolo avesse cacciata la bottiglia. Luisa sorrise, uscì e ritornò subito col vino e i bicchieri. "Al conte di Cavour!", disse Pedraglio, sottovoce. Tutti alzarono il bicchiere ripetendo: "al conte di Cavour!" e bevvero; anche Luisa che non beveva mai. Pedraglio si versò dell'altro vino e sorse in piedi. "Alla guerra!", diss'egli. Gli altri tre si alzarono di slancio impugnando il bicchiere silenziosamente, troppo commossi per poter parlare. "Bisogna andarci tutti!", disse Pedraglio. "Tutti!", ripeté Franco. Luisa lo baciò con impeto, sulla spalla. Suo marito le afferrò il capo a due mani, le stampò un bacio sui capelli. Una delle finestre verso il lago era spalancata. Si udì, nel silenzio che seguì quel bacio, un batter misurato di remi. "Finanza", sussurrò Franco. Mentre la lancia delle guardie di finanza passava sotto la finestra, Pedraglio fece "maledetti porci!" così forte che gli altri zittirono. La lancia passò. Franco mise il capo alla finestra. Faceva fresco, la luna scendeva verso i monti di Carona, rigando il lago di una lunga striscia dorata. Che strano senso faceva contemplar quella romita quiete con l'idea d'una gran guerra vicina! Le montagne, scure e tristi, parevano pensare al formidabile avvenire. Franco chiuse la finestra e la conversazione ricominciò sommessa, intorno al tavolino. Ciascuno faceva le proprie supposizioni sugli avvenimenti futuri, e tutti ne parlavano come di un dramma il cui manoscritto fosse già pronto fino all'ultimo verso, con i punti e le virgole, nella scrivania del conte di Cavour. V., bonapartista, vedeva chiaro che Napoleone intendeva vendicar lo zio demolendo uno ad uno i membri della Santa Alleanza: oggi la Russia, domani l'Austria. Invece Franco, diffidentissimo dell'imperatore, attribuiva l'alleanza sarda al buon volere dell'Inghilterra, ma riconosceva che, appena proclamata quest'alleanza, l'Austria, sacrificando i suoi interessi ai principii e agli odii si sarebbe schierata con la Russia, per cui Napoleone sarebbe stato costretto di combatterla. "Sentite", disse sua moglie, "io invece ho paura che l'Austria si metta dalla stessa parte del Piemonte." "Impossibile", fece l'avvocato. Franco si sgomentò, ammirando la finezza dell'osservazione, ma Pedraglio esclamò: "Off! Sti zurucch chì hin trop asen per fà ona balossada compagna!" e l'argomento parve decisivo, nessuno ci pensò più, salvo Luisa. Si misero a discorrere di piani di campagna, di piani d'insurrezione; ma qui non andavano d'accordo. V. conosceva gli uomini e le montagne del lago di Como come forse nessun altro, da Colico a Como e a Lecco. E dappertutto, lungo il lago, nella Val Menaggio, nella Vall'Intelvi, nella Valsassina, nelle Tre Pievi aveva gente devota, pronta magari a menar le mani a un cenno del "scior avocàt". Egli e Franco credevano utile qualunque movimento insurrezionale che valesse a distrarre anche una menoma parte delle forze austriache. Invece Luisa e Pedraglio erano del parere che tutti gli uomini validi dovessero ingrossare i battaglioni piemontesi. "Faremo la rivoluzione noi donne", disse Luisa con la sua serietà canzonatoria. "Io, per parte mia, butterò nel lago il Carlascia." Discorrevano sempre sottovoce, con una elettricità in corpo che dava luce per gli occhi e scosse per i nervi, assaporando il parlar sommesso con le porte e le finestre chiuse, il pericolo di avere quella lettera, la vita ardente che si sentivano nel sangue, le parole alcooliche a cui tornavano ogni momento. Piemonte, guerra, Cavour, duca di Genova, Vittorio Emanuele, cannoni, bersaglieri. "Sapete che ore sono?", disse Pedraglio guardando l'orologio "Le dodici e mezzo! Andiamo a letto." Luisa uscì a prendere delle candele e le accese, stando in piedi; nessuno si mosse e sedette anche lei. Allo stesso Pedraglio, quando vide le candele accese, passò la voglia di andar a letto. "Un bel Regno!", diss'egli. "Piemonte", disse Franco, "Lombardo-Veneto, Parma e Modena." "E Legazioni", fece V. Altra discussione. Tutti le avrebbero volute le Legazioni, specialmente l'avvocato e Luisa; ma Franco e Pedraglio avevano paura di toccarle, temevano di suscitare difficoltà. Si riscaldarono tanto che l'allegro Pedraglio invitò i suoi compagni a gridare sottovoce: "Vosèe adasi, fioeu!". Allora fu V. che propose di andare a letto. Prese in mano la candela ma senza alzarsi. "Corpo di Bacco!", diss'egli, non sapeva bene se in forma di conclusione o di esordio. In fatto aveva una gran voglia di parlare, di sentir parlare, e non sapeva cosa trovar di nuovo. "Proprio corpo di Bacco!", esclamò Franco ch'era nelle stesse condizioni. Seguì un silenzio alquanto lungo. Finalmente Pedraglio disse: "Dunque?", e si alzò. "Andiamo?", fece Luisa avviandosi per la prima. "E il nome?", chiese l'avvocato. Tutti si fermarono. "Che nome?" "Il nome del nuovo Regno." Franco posò subito la candela. "Bravo", diss'egli, "il nome!", come se fosse una cosa da decidere prima di andare a letto. Nuova discussione. Piemonte? Cisalpino? Alta Italia? Italia? Luisa posò presto la candela anche lei, e Pedraglio, perché gli altri non volevano passargli il suo Italia, la posò pure. Però siccome il dibattito andava troppo per le lunghe, riprese la candela e corse via ripetendo: "Italia, Italia, Italia, Italia!" senz'ascoltar i "zitto" e i richiami degli altri che lo seguivano in punta di piedi. Si fermarono ancora tutti a piè della scala che Pedraglio e l'avvocato dovevano salire per andare a letto, e si diedero la felice notte. Luisa entrò nella vicina camera dell'alcova; Franco restò a veder salire i suoi amici. "Ehi!", diss'egli a un tratto. Voleva parlar loro dal basso ma poi pensò invece di raggiungerli. "E se si perde?", sussurrò. L'avvocato si contentò d'uno sdegnoso "off!" ma Pedraglio voltandosi come una iena afferrò Franco per il collo. Si dibatterono ridendo sul pianerottolo della scala e poi "addio!", Pedraglio corse su e Franco precipitò abbasso. Sua moglie lo aspettava ferma in mezzo alla camera, guardando l'uscio. Appena lo vide entrare gli andò, grave, incontro, lo abbracciò stretto stretto, e quando egli, passati alcuni momenti, fece dolcemente atto di sciogliersi, raddoppiò la stretta, sempre in silenzio. Franco, allora, intese. Ella lo abbracciava adesso come lo aveva impetuosamente baciato prima, quando si era parlato di andar tutti alla guerra. Strinse egli pure le tempie di lei fra le mani, le baciò, le ribaciò i capelli e disse dolcemente: "Cara, pensa che gran cosa, dopo, questa Italia!". "Oh sì!", diss'ella. Alzò il viso al viso di suo marito, gli offerse le labbra. Non piangeva ma gli occhi erano un poco umidi. Vedersi guardar così, sentirsi baciar così da quella creatura briosa e fiera valeva bene alcuni anni di vita, perché mai mai ella non era stata con lui, nella tenerezza, così umile. "Allora", diss'ella, "non resteremo più in Valsolda. Tu dovrai lavorare come cittadino, non è vero?" "Sì, sì, certo!" Si misero a discorrere con gran zelo, l'una e l'altro, di quel che avrebbero fatto dopo la guerra, come per allontanar la idea di una possibilità terribile. Luisa si sciolse i capelli e andò a guardar Maria nel suo lettino. La bimba si era prima, forse, svegliata e s'era posto in bocca un ditino che poi pian piano, tornando il sonno, n'era scivolato fuori. Ora dormiva con la bocca aperta e il ditino sul mento. "Vieni, Franco", disse sua madre. Si piegarono ambedue sul lettino. Il visetto di Maria aveva una soavità di paradiso. Marito e moglie stettero a guardarla in silenzio e si rialzarono poi commossi, non ripresero il discorso interrotto. Ma quando furono a letto ed ebbero spento il lume, Luisa mormorò sulla bocca di suo marito: "Se viene quel giorno, tu vai; ma vado anch'io". E non gli permise di rispondere.

Un giorno a Madera

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Mantegazza, Paolo 1 occorrenze

Pagina 3

IL TRAMONTO D'UN IDEALE

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Marchesa Colombi 1 occorrenze

I sogni dell'anarchico

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Mioni, Ugo 1 occorrenze

lo crederanno pure un devoto e qualche beatella piangerà lagrime di commozione e loderà Dio che lui, un uomo, si trova nel tempio, ascolta la Messa e crede; prega e crede in questo secolo ventesimo, dove la fede e la preghiera sembravano diventate un privilegio delle donne, che il sesso forte abbandona loro incontrastato. Avessero saputo quelle beate ciò che egli stringeva al suo petto; che cosa sarebbe volato di lì a qualche istante nella chiesa. Sorrise con scherno. I credenti asseriscono che Gesù è Dio e Figlio da Dio, onnisciente ed onnipotente, e che diventa presente nell'Ostia. Ma se davvero è là presente, come va, che non ignori ciò che egli porta sul petto e se lo sa. perche non lo impedisce? Col far scoppiare la bomba in chiesa egli prova che Dio non esiste, oppure, se esiste, nulla sa e nulla può; neppure difendere i suoi fedeli, i suoi ministri, la sua chiesa, se stesso. Questo pensiero dura un solo istante, che poi la sua mente torna ad occuparsi dei suoi sogni. Cerca di distrarsi di nuovo. Come mai gli sono venuti quei sogni? V'è chi sostiene che il sogno è causato da qualche grande sensazione del giorno innanzi, oppure dallo stato fisico dell'individuo; ma egli non aveva mai pensato alle benemerenze della Chiesa, nelle quali non credeva, ed era da anni, che non pensava ne a Cartagine ne a Nerone o a Napoleone, a Filippo II, alla storia d'Italia, e tisicamente si sentiva così bene; digeriva bene; mangiava bene; beveva bene; non sentiva nessun malessere. Donde dunque quei sogni? Ma più, assai più dell'origine dei sogni, lo interessava il loro contenuto; cercava di smentirlo; di convincersi, che quelle erano le pazze fantasie di una mente esaltata: ma non riusciva. Non volle occuparsi più a lungo di quei sogni; ne temeva l'influenza.. Chiuse la corrente elettrica; la stanza venne inondata di luce; balzò dal letto abbenchè facesse freddo, perché non aveva la stufa ed il fuoco del caminetto, la sua specialità, era spento da ore, e si gettò nei suoi panni. Ma mentre si vestiva lo perseguitava il ricordo dei suoi sogni. Voleva smentirli. Diceva a sé stesso: Non sono veri! La Chiesa è stata sempre la maggior nemica dell'Italia ed anzi del genere umano. Ma una voce interna rispondeva: - Tu menti, sapendo di mentire. Non è vero! non è vero! Per fugare quei pensieri tuffò la testa nell'acqua diaccia della bacinella, ma neppure il freddo li cacciò. Passò all'armadio, lo aprì e guardò le quattro bombe di bronzo lucido, bei giallo come l'oro caldo. Provò da principio un immenso piacere alla vista di quei terribili gingilli. Li aveva fatti lui; erano sue fatture; opera sua; egli li aveva saldati, li aveva costruiti con tanta pazienza, li aveva ???Incidati con amore; non dovevano essere soltanto micidiali ma anche belli; li aveva riempiti colla dinamite.... Fu, per un istante, fiero di questi lavori. Ed a dire che essi contenevano la morte di decine di persone; che sarebbero stati la grande voce dell'anarchia; un monito severissimo alla Chiesa, alla borghesia, al putridume strozzinesco, i quali avviliscono l'umanità. Allungò il braccio, quasi per accarezzare quelle bombe micidiali, e specialmente una, la più elegante, a forma d'ovo, che egli aveva destinata per se stesso, che avrebbe lanciata in chiesa, avanti all'altare, per punire... Chi?.... per vendicare..Chi'? Ed i suoi sogni gli si affacciavano imperiosi e gli dicevano: - Mentitore! Inganni tè stesso sapendo di essere nell'inganno. La Chiesa non è stata mai la nemica del popolo nÚ d'Italia, ma anzi tutelò sempre i diritti del popolo ed insorse a difendere l'Italia; s'interpose tra lei ed i barbari; e se l'Italia è tuttora faro di civiltà, lo si deve a lei! ? No, non è vero! ? gridò angoscioso. ? Tutto il male venne al mondo dall'altare, il maggior puntello del trono, che lo sostiene da canto suo. Tutto il male viene dalla Chiesa e perciò... Non potè continuare. Aveva fatto da ragazzo il proponimento di' non fare mai contro la luce. Non voleva respingere mai una verità riconosciuta, ne abbracciare mai un evidente errore. E nel momento stesso, nel quale la dottrina più cara;, l'assioma più gradito, la teoria più desiderata gli sarebbe apparso errore l'avrebbe tosto abbandonato, perché per lui la verità era superiore a tutto. Quando poi era andato a militare nelle file dell'anarchia, aveva detto a tutti i suoi aderenti d'i questo suo proposito; lo sapevano tutti, che egli era passato alle file anarchiche per persuasione; erano fieri di averlo compagno e lo additavano agli altri partiti, come una grande prova della bontà del loro sistema. - Se non fosse convinto, che l'anarchia è il miglior sistema e contiene la verità, non militerebbe nelle nostre file ? dicevano. Ed ora una voce lo rimproverava: ? Tu fai contro la luce. - Pah! Per un sogno! per un sogno sciocco! Chiuse l'armadio e consultò l'orologio. Le sette erano passate di poco. L'amico Narciso sarebbe venuto attorno le otto. Aveva tempo di prendere un caffè. Passò alla finestra e aprì le invetriate, per poter spalancare le persiane. Una raffica di vento freddo entrò nella stanza. Di fuori il buio era ancora perfetto; il cielo gravido di nubi; il lastrico coperto di un alto strato di neve candida, le vie deserte. Per il momento non nevicava. Chiuse rapidamente la finestra, cacciò una berretta di pelle in capo, tirò su il collare del pastrano, cacciò nelle tasche le mani inguantate, usci dal suo piccolo appartamento, scese le scale e passò sulla via. Il pensiero: tu scendi per l'ultima volta queste scale, gli sembrò cosi strano; lo fece trasalire. Pensò: Non potrei lanciare ora, la bomba e approfittare della confusione, che avverrà, per svignarmela? Era per lo meno probabile che avrebbe messo al sicuro la propria vita. Ma poi cacciò questo pensiero. Non voleva sembrare vile; non voleva che si fosse detto l'indomani: la bomba venne lanciata da uno dei nostri soliti avversari, gente vale, capace di commettere il delitto, ma incapace di sopportarne le consegunze. Giunse sulla via e attraverso. Era deserta. Chi mai esce a quell'ora il giorno di Natale? Il freddo era cane; la neve, dura. scricchiolava sotto i suoi piedi, che imprimevano in quella orme profonde. Giunse alla piccola piazza, dove c'era un caffè. Era aperto. Attraverso le lastre, appannate dall'alito di chi si trovava entro, trapelava uno scialbo bagliore. Pose la mano sul saliscendi, apri l'uscio ed entrò. Il caffè era deserto; non v'era allora anima vivente. Chi mai va alla mattina di Natale, alle sette, al caffè? A quell'ora i più dormono ancora; e chi non dorme è in chiesa oppur prende il caffè a casa sua. I pochi frequentatori assidui del caffè nelle prime ore del mattino, operai ed impiegati, non ci vanno il giorno di Natale. Nessuno lavorava in questo giorno ed essi potevano custodire perciò un po' più a lungo le piume. I camerieri sbadigliavano annoiati. Uno gli si fa incontro. ? Buon Natale Egli non risponde. Gli viene il prurito di protestare contro il saluto, contro il Natale, contro i gonzi, che ancora lo festeggiano, ma comprende, che ciò non avrebbe giovato. Ci voleva la rivoluzione ed il trionfo dell'anarchia, per cancellare ogni traccia di superstizione. Si fece portare il suo solito caffè ed i giornali. Fu di malumore al rilevare, che i giornali del mattino non erano usciti, in omaggio alla festa. ? Maledetto Natale! ? mormorò tra sé e se. Il cameriere del suo tavolo gli domandò colla confidenza che concede una lunga conoscenza: ? Ha passato bene la notte di Natale? ? Ho dormito ? fu la brusca risposta. ? Non è stato invitato a cena da nessuno; non ha atteso la mezzanotte? Egli proruppe in una breve risata di scherno. ? Sono superiore a queste scioccaggini! Per me il Natale è un giorno come tutti gli altri, e la notte di Natale ho dormito e sognato, come in tutte le altre notri ? rispose. Il cameriere sorrise. Sorrideva sempre: Osservò: ? C'è chi ci tiene moltissimo ai sogni d'ella notte di Natale. Giovanni Giunti non rispose ma si occupò del suo caffè. II cameriere comprese e si allontanò. Vuotò in fretta la tazza.Non si sentiva ad agio in quell'ambiente pubblico, allora vuoto, sotto gli occhi curiosi dei camerieri sfaccendati, i quali lo osservavano come una rara avis, una bestia strana. Non voleva pascere, colla sua persona, l'altrui curiosità. Fece un breve giro per la città silenziosa, alla luce grigia di un' alba,contrastata delle dense nubi, che velavano il cielo, e poi ritornò a casa per attendere Narciso Rossi. Erano le sette e tre quarti. Che cosa aveva da fare; come ammazzare il tempo fino alle dieci, quando sarebbe andato alla cattedrale, per gettare la bomba tra i fedeli? Girò irrequieto su e giù nella stanza da studio, tormentato dai suoi antichi sogni, il cui ricordo, strana cosa, non lo abbandonava. Apri due volte lo stipo e lo rinchiuse. La vista delle bombe non gli faceva più piacere. Una voce interna lo rimproverava: - Tu fai contro la luce. Ed egli sentiva, che la voce non aveva tutti i torti. L'anarchia? L'unica tavola di salvezza. Gettare la bomba? Era necessario - In chiesa? Voleva attendere Narciso Rossi. Il tempo passava, lentamente, molto lentamente, ma pur passava. Passano anche le ore delle maggiori angosce???, che sembrano interminabili, e quanto più interminabile sembrò uno spazio di tempo prima d'incominciarlo o mentre ci si era dentro, perché tempo di sofferenze di dolori, d'ignominia, tanto più breve esso sembra di' poi, quando è terminato, osservare alla serena luce di giorni lontani. Vennero le otto e un quarto, la mezza, i tre quarti. Incominciò a diventare impaziente. Avevano pur deciso di lanciare la bomba quella mattina I Quanto più attenete, tanto più si concretizza in lui un pensiero, e questo, sa è: Attendere. Attendiamo, che la calma ritorni nel mio spirito. Non era detto, che si dovevano lanciare le bombe proprio quella mattina. Non era neppur detto che dovevano venir lanciate. La direziono del partito, forte a parole e vile a fatti, aveva anzi deciso, che non dovevano venir lanciate, che il loro getto avrebbe danneggiato la causa piuttosto idi favorirla. Voleva dire a Narciso Rossi: - Ti tengo legato alla tua promessa, ma oggi non è ancora venuto il giorno opportuno. E' meglio attendere alquanto e fare i preparativi con maggior calma. Le lanceremo più tardi, in un giorno di maggior concorso, di gran folla, dopo di aver combinato le cose in modo da poter fuggire. L'amico avrebbe accettato con voluttà la proposta, ed intanto egli avrebbe potuto riflettere; sciogliere le potenti obiezioni, causate dai terribili sogni; cercare prove per dimostrare, che la Chiesa è il maggior nemico dell'umanità. Avrebbe continuato a vivere, per qualche giorno ancora. La vita non è spiacevole neppur per un anarchico. L'attuale società è la peggiore che immaginar si possa eppure non la si abbandona volentieri. Ma un evento venne a turbare i suoi calcoli. Erano le nove, quando bussarono. ? Chi può essere? ? esclamò. La visita gli veniva importuna. Non poteva essere Marcelle. Questi sapeva che c'era il campanello elettrico; non la domestica la quale aveva le chiavi dell'abitazione, per poter venire quando le sarebbe parso bene. Una visitarla mattina di Natale; in quella mattina cosi brutta, così piena di vento, di neve, alle nove? Andò all'uscio e lo aperse. Gli si presentò la faccia rossa di un fattorino, dal grosso naso a peperone, che brillava di una luce rossastra, intensa, e dall'alito, che puzza va di alcool. Il fattorino aveva fatto già il sacrifizio mattutino a Dio Bacco. Tra le dita, coperte da un paio di guanti di lana, una volta grigi, ed ora coperti di sudiciume, egli teneva una lettera. ?E' tei il signor Giunti? ? domandò. ? Chi manda? - E' lei o non è lei? - insistè il fattorino? Date qui. - E' lei o non è lei? - ripetè il fattorino, il quale aveva fatto delle libazioni durante tutta la notte e non sembrava disposto,a cedere la tetterà senza aver prima risposta a quella domanda. - Sì - rispose l'anarchico, che si era accorto dello stato anormale del fattorino. - Prenda - rispose questi soddisfatto, dandogli la lettera. - Chi manda? - insistè Giunti da canto suo. Il fattorino rise. _ Un uomo in calzoni. ? rispose. ? Matta idea la Mi diede la lettera qua, sulla strada. Buona idea la mia di appostarmi il giorno di Natale. Cioè. Non mi era appostato. Ero stato a Messa Diamine. Ci vado a Natale ed a Pasqua. Non sono mica un cane io. Eppoi ero andato a bere un bicchierino. Tempo cane. signori. Loro signori non sentono l'inverno. Hanno una bella abitazione, mangiano bene, bevono meglio, sono ben vestiti. Ma verrà il giorno, sa! Non sono anarchico io! il ciel mi guardi! Ma verrà il giorno; deve venire il giorno..! ? esclamò il fattorino, «e i suoi piccoli occhi lustri, brillavano di una luce strana, tra il minaccioso e l'allegro. Egli assaporava già ora le gioie di quel dì, vicino o lontano, ma che doveva certo venire, nel quale sarebbero state livellate le condizioni sociali ed egli avrebbe potuto passarsela come i signori, liberi questi da fare i fattorini se credevano, e magari di mendicare. Giunti non dimenticò di essere anarchico. Volle fare un po' di propaganda alte sue persuasioni, e disse perciò: ? Il giorno è vicino! Stupore del vecchio. ? Lo dice anche lei? ? domandò. ?Sì. - Allora si farà tutto a parte? - Tutto sarà di tutti. - Ella, un signore, lo dice? - Ne sono convinto ed anelo, ed anelo il momento. Il fattorino rise. Il suo riso era ironico. Il popolo ha un'ironia sublime. _ Se il signore vuole può affrettare quel momento. Si decida. Io sono disposto di accertare tutto. Mettiamo in comune la sua abitazione. Sono pronto di entrare subito - disse. Una leggera nube velò il volto di Giunti. E' questa la solita obiezione che i non anarchici fanno a chi professa queste dottrine. ? Voi siete anche comunardi. Ebbene: Procedete coll'esempio. - Lo farò, quando lo faranno tutti. Per guarire la società è necessario che il capitale sparisca, che spariscano i superiori, le autorità, le leggi, e che tuffo diventi proprietà di tutti ? osservò. I] fattorino rise. - Così lo dicono furti. E mentre l'uno attende che incomincino gli altri, non si muore di fame e di freddo ? osservò. Giunti sentì nausea di quell'uomo. ? Se spendeste un po' meglio il vostro danaro; se invece di ricorrere al bicchierino ed ai liquori vi compraste pane, non avreste da lamentarvi ? disseti fattorino rise. - Non ho bisogno di lezioni - osservò. Giunti prese la lettera e diede al fattorino una lira di mancia. Questi neppure ringraziò. La lira gli sembrava troppo poca cosa per un uomo, il quale si vantava comunardo e predicava venuto il tempo della divisione, nel quale tutto doveva diventare proprietà di tutti. Giunti rientrò nella sua stanza calda, ben illuminata. ? Manda Marcelle. Cosa scrive? ? disse, osservando la soprascritta. Gli venne un sospetto. - Che sia davvero vile? - domandò a se stesso. Stracciò la busta e lesse le poche righe. _ Vile i ? esclamò. ? Davvero vile! Il biglietto, scritto colla mano tremante, diceva: ? Non posso! Tanti innocenti..? ? Tanti, tanti innocenti! - motteggiò. Innocenti? No, non erano innocenti. Erano correi; correi magari senza volerlo, senza saperlo; correi per l'istruzione sbagliata, ricevuta dai genitori, dagli avi; correi, perché non avevano saputo sollevarsi in alto, a più spirabil aere; eppoi tutta la società era folle, era fiacca; aveva bisogno di una lezione. Innocenti? Non lo erano; perché frequentavano la chiesa, i passeggi, perché facevano sfoggio del loro lusso, perché erano borghesi, perché volevano che sopravvivesse una società avariata, perché volevano conservate le disuguaglianze sociali? Ma anche se fossero stati innocenti, il mondo è fatto così. La natura non bada ne, agli innocenti ne ai rei; sacrifica quanti occorrono venir sacrificati, per il raggiungimento dei propri fini; il falcone e l'aquila fanno allo sfesso modo scempio della pacifica gallina e del superbo tacchino, il falcone divora egualmente il passero, così dannoso, e un usignolo canoro, e gli uragani schiantano l'inutile pioppo e la quercia, il melo, il pero, il susino ed altri alberi, così utili alla vita. Innocenti? La sua era opera necessaria e purificatrice; si trattava di ricostruire una società nuova sulle rovine dell'antica; e questa non volendo crollare da sé andava atterrata. Non era per colpa sua se nel suo crolloessa avrebbe schiacciato e seppellito sotto le macerie anche qualche innocente. Egli non voleva che il bene altrui; non era per colpa sua, se, per ottenere il bene, doveva schiantare coloro che vi si opponevano. Narciso Rossi si rifiutava. Vile! Vile! Già; il Natale; la pazza poesia della sacra notte. Egli l'aveva passata coi congiunti, alla luce di qualche albero, scioccamente ornato di fiori e di lumi; aveva udito il canto di inni e canzoni natalizie, e si era commosso. Vile, vile! Non pensò, che qualche minuto prima aveva deciso di non gettare la bomba; di rinunziare, per il momento, a quell'atto d'i vendetta sociale; di dire a Narciso, che avrebbe atteso tempi migliori. Non senti che rabbia e sdegno per l'antico amico ed un'avversione grande contro di lui... Che aveva da fare? Rimanere fedele alla decisione presa poc'anzi e procastinare il getto delle bombe?,, Ma che ne avrebbe detto Narciso Rossi? Lo avrebbe giudicato egualmente vile; oppure avrebbe pensato che non si poteva fare senza di lui; che egli, Narciso, era indispensabile? Avrebbe potuto rimproverargli la sua colpa? No. L'altro gli avrebbe potuto dire: Perché rimproveri a me quanto dovresti rimproverare prima a tè stesso? sei forse un bambino, che non osi agire da solo; che dipendi da me nel tuo operato? sic io sono un vile, che mi sono rifiutato di gettare la bomba, lo sei tu pure. Era proprio necessario che due scoppiassero allo stesso tempo? Non bastava una sola, la tua? Potenza dell'orgoglio umano, di un falso amor proprio, della tema di venir giudicato male! Egli mutò rapidamente pensiero. Aveva deciso di soprassedere a quel getto; di attendere un istante più opportuno. La sua prudenza gli aveva suggerito questo. Aveva preso questa decisione dopo un esame maturo e prudente, ed ora bastò quello scritto, bastò la tema di venir creduto vile, per fargli mutare pensiero. - Non avrà il gusto di rimproverarmi la sua viltà! - disse, e prese la rapida decisione di attuare il suo progetto e di diventare, quella mattina ancora, assassino e omicida. La ragione gli diceva: Attendi, attendi! Ma egli ne faceva tacere con violenza la voce., La coscienza gli diceva: Bada che fai contro la luce; ed i suoi sogni si ergevano maestosi, terribili, avanti a lui e gridavano: Tu agisci male; tu inganni la tua coscienza; la Chiesa non ha mai avversato la vera libertà, non è nemica d'Italia. Il suo falso amor proprio fece tacere anche questa voce. Non gli riuscì di riduria al silenzio; pure la soffocò dicendo a se stesso: Non essere vile! Prese posto al tavolo e scrisse a Narciso Rossi. Gli scrisse parole molto amare, di grande rimprovero per la sua viltà senza nome. Vile, che non sai mantenere una promessa Vile, che non sai sacrificarti per un ideale! Vile, che paventi le conseguenze di un'azione, che riconosci doverosa e giusta! Vile, vile! Ora e sempre vile! Sii maledetto, da chi va a morire per il suo ideale; va a morire solo, perche ti rifiuti; va a morire colla certezza, che il suo sacrifizio non porterà lo isperato frutto, perche tu gli neghi la tua cooperazione! Vile! Disonore del partito; sii maledetto! Chiuse la lettera in una busta, vergò la soprascritta e l'abbandonò sul tavolo. Dopo la sua morte l'avrebbero trovata e pubblicata. Ne era lieto. Avrebbe procurato così a Narciso Rossi la maggior onta. I veri anarchici avrebbero disprezzato il traditore, e gli altri, i partiti dell'ordine, i borghesi, avrebbero lodato il giovane onesto, che s'i era rifiutato di commettere un delitto di lanciare una bomba, di macchiarsi di tanta colpa; e le lodi, l'approvazione delle autorità e dei circoli borghesi, gli avrebbero recato un'onta ancora maggiore del biasimo dei suoi antichi consenzienti. Narciso Rossi era spacciato. Non gli rimaneva che il suicidio. Sogghignò a questo pensiero. Consultò l'orologio. Erano le nove e mezzo. Doveva spicciarsi se voleva arrivare nella cattedrale a tempo. Aprì l'armadio, levò la bomba sua, l'accarezzò, la baciò e la celò sul petto, sopra il cuore. Indossò il mantello di uscita, tirò alto il collare, cacciò la beretta fin sugli occhi e uscì di stanza. Chiuse l'uscio della propria abitazione. L'abbandonava per sempre. Chi ci sarebbe andato ad abitare? Che se ne curava? Di chi sarebbero stati i suoi mobili? Che gl'importava? Aveva lasciato erede universale Gianni Carpi, il solo onesto fra gli anarchici; il solo veramente povero ed audace tra di loro, coll'incarico di usare dell'anse ereditario soltanto per scopi.di partito, per diffondere l'anarchia. Gianni Carpi avrebbe fatto un buon uso di quel danaro e del ricavato dei mobili; non avrebbe tenuto nulla per se. Egli non dubitava della di lui onestà... Giunse sulla via. Nevicava di nuovo, ed il vento impetuoso gli sbatteva la neve sul volto accecandolo quasi. Doveva procedere con grande cautela iper non scivolare. Una caduta sarebbe stata disastrosissima; avrebbe causato Lo scoppio della bomba, ed era questo che egli voleva impedire. Sacrificare la vota, sì, ma con costrutto. Abbenchè il tempo fosse brutto c'era della gente sulla via. Vide delle faccio allegre. La grande festa del Natale aveva riempito gli animi di letizia. Gente andava a fare certi piccoli acquisti nelle pasticcerie, i soli ambienti aperti nella sacra giornata; andavano a fare delle visite, andavano in chiesa.. Quei volti allegri gli davano sui nervi. Sentiva di odiare gli uomini; provava una grande nausea. Eterni malcontenti, protestavano continuamente contro la Chiesa, contro l'autorità, contro ogni sorta di tirannide; e bastava che la Chiesa, ricordando antiche favole, offrisse loro un giorno un po' diverso dagli altri, per far loro dimenticare il passato e renderli scioccamente, stupidamente felici. Valeva la pena sacrificarsi per simile gente: valeva la pena morire per loro? Portò la mano al petto, alla bomba. Che avrebbe giovato il suo getto? Avrebbe esso scosso le coscienze e destato le masse; quello sarebbe stato il primo segno di una grande rivoluzione sociale, oppure?... Già; il suo eroico attentato sarebbe passato forse inosservato. Le masse non erano ancora mature. Doveva attendere? Oh, se non fosse stata quella infame lettera di Narciso Rossi. Ma ora non poteva assolutamente desistere. Nessuno doveva neppur lontanamente sospettare che egli fosse vile. Giunse alla cattedrale. Le campane suonavano allegramente. Il Vescovo faceva il suo ingresso nella chiesa illuminata a festa e piena, zeppa di una folla festante. Il vescovo! Uno degli oppressori delle masse.Quanto l'odiava! Non lo aveva veduto ancora mai; ora lo vedeva per la prima volta: un povero vecchio, dal volto di asceta, con un sorriso buono, paterno, sulle labbra, che procedeva ricurvo, schiacciato da! peso degli anni e dalle cure, dalle brighe, dalle fatiche del suo ministero; un vecchio buono, tanto diverso dall'immagine che egli si era formata di lui. Si cacciò tra la folla. L'organo cominciò a suonare e la Messa ebbe principio. Vide i volti atteggiati a grande letizia. Comprese che quella giornata rappresentava per l'umanità un grande punto di riposo: era quello un giorno, nel quale il povero dimenticava per un istante le proprie miserie; l'operaio riposava dal lavoro snervante; il ricco scendeva al povero e ne comprendeva, per un istante, le miserie; un giorno di pace, di letizia per tutti. Doveva egli turbare la serenità di quel giorno? Doveva portare la desolazione, la morte, in quel luogo di pace? Oh, i suoi sogni! La Chiesa ha fatto sempre quanto stava nelle sue forze per il bene dell'umanità. Non era lei responsabile dei danni che le classi povere ed umili risentivano, ne dell'abuso di libertà nelle classi dirigenti, o dello squilibrio sociale. Certo. La religione aveva fatto il suo tempo. Ma perche non lasciarla morire in pace; perche voler punire nella Chiesa gli altrui delitti? Cercò di allontanare il ricordo dei suoi sogni. La Chiesa è stata sempre il puntello dei troni; essa ha benedetto la guerra e sanzionato ogni sorta di ingiustizie sociali. Eppoi non poteva tollerare la faccia di vile. La Messa ha incominciato. Il venerando veglio è salito all'altare e lo avvolge in profumi che escono dal ricolmo incensiere. Chi ha da colpire? Dove ha da lanciare la bomba? Nel presbitero? Ha da colpire il vescovo, i canonici, oppure la ha da lanciare in mezzo alla folla che ora? Il vescovo è ritornato al suo trono. Gloria in excelsis Deo! ià! Dio! Dio! Non si pensa che al nume trascendentale e crudele, che risiede in ciclo e non si cura ne si è mai curato dei propri figli, chiede da loro gloria e non da loro in cambio nulla. Il coro canta giulivo: Gloria, gloria in excelsis Deo ono voci di fanciulli che scendono dall'alto della cantoria nella chiesa, accompagnate dal suono grave dell'organo e da alcuni violini, sapientemente toccati. Le voci erano così dolci, così soavi, così carezzevoli. Sembrava udire il canto degli angeli nella notte di Natale. Fuori imperversa la bufera; il vento scuote le gigantesche invetriate multicolori, attraverso le quali giunge scarsa la luce scialba di quella mattina, nel suo cuore imperversavano pure le bufere, ed intanto i fanciulli cantavano il loro Gloria in excelsis Deo! ubentra un coro di uomini forte, solenne. Et in terra pax.... gli ride ironicamente. Pace! Quale menzogna! Dal giorno della nascita del bambino ebreo ad oggi si ripere la bugiarda promessa. In terra pax! Ma quando mai venne pace alla terra? Il coro continua: Hominibus bonae voluntatìs. ueste parole sono una rivelazione. Pace agli uomini di buon volere! Ed il mondo non vuole la pace! A chi si deve ascrivere la mancanza di pace? Non ode altro. Non è per la colpa della Chiesa e del Nume, se pu re esso esiste, che la pace non regna sul mondo, ma, per la mala volontà degli uomini. Gli angeli annunziarono la pace. Non.crede che furono gli angeli, ma l'annunzio fu dato. Si promise la pace ma si chiese in cambio buon volere Qual meraviglia, se gli uomini non avendo offerto la loro buona volontà non.abbiano avuto la sospirata pace? La pace? Poteva egli portare al mondo la vera pace, fondata su di una forte, ben sentita e ben radicata anarchia, se gli uomini non erano di buon volere? A che cosa avrebbe giovato il gettito della bomba se gli uomini, ed i più bisognosi, i più reietti in modo speciale, facevano brutto viso all'anarchia e si rifiutavano di occuparsi della loro misera sorte e di cercare i remedi opportuni al loro male ed a quello della società? Doveva gettare la bomba? Non in chiesa. Dunque sulla via; in qualche ritrovo di ricchi, di gaudenti, al caffè, in teatro? Con qual profitto? Urgeva qualche cosa di ben più importante. Bisognava organizzare le file anarchiche e fare la propaganda al vangelo dell' anarchia. Un libro anarchico, diffuso in migliaia di esemplari, avrebbe giovato assai di più di cento bombe. Non doveva dunque lanciarla? Narciso Rossi che cosa avrebbe detto? Lo avrebbe schernito, avrebbe raccontato a tutti la sua viltà, perche egli, l'idealista, si era rifiutato di aiutarlo, per disciplina di partito, per sfare agli ordini dei superiori, mentre l'altro, il ribelle, l'audace, non aveva trovato il coraggio necessario. Da vero bambino aveva bisogno di un compagno, e da solo non sapeva, non poteva fare nulla... Senti uno sdegno infinito contro Narciso Rossi e la brama di punirlo. Voleva affrontarlo, giungere a lui, costringerlo ad uscire in sua compagnia, menarlo in qualche ritrovo e allora lanciare la bomba, per compromettere lui pure, per unirlo alle altre vittime e per fargli subire la morte del traditore. Non ne poteva più in chiesa. Si fece largo tra la folla, giunse all'uscio e passò sulla via. Il vento soffiava più forte che mai; la neve scendeva fitta; i passanti procedevano frettolosi; nessuno si curava dell'uomo, che portava sul petto la morte. Un grido, un urlo. Una fanciulla è scivolata; fa degli sforzi immensi per tenersi in piedi ed urla dalla paura, dallo spavento di dover stramazzare al suolo, a rischio di rompersi le gambe e le braccia. Egli le è vicino; ad un passo di distanza. Corre da' lei per aiutarla. Essa getta disperata le braccia al suo collo, per sostenersi a lui: una fanciulla modesta, poveramente vestita. Dal collo le pende una medaglina della Madonna. Povera fanciulla; la sua esile persona cozza, col suo maschio petto sul quale riposa la bomba. Un rombo terribile, spaventoso, e sul suolo candido di neve giacciono due cadaveri insanguinati, sfracellati, orrendamente mutilati, sui quali scende fitta, fitta la neve, coprendo tutti e due, l'assassino e l'assassinata, di un candido mantello. Candido per l'umile vergine, che era stata quella mattina alla Comunione ed ora si recava con un incarico della madre inferma dalla zia. Candido anche per lui, l'assassino, che era colpevole al cospetto degli uomini. Lo era anche al cospetto di Dio? La grazia aveva picchiato al suo cuore più volte, e specialmente quella notte nel sonno; ed egli le aveva fatto il sordo. Ma quante volte disprezziamo la grazia, perché non la conosciamo, perché ci hanno insegnato a non farne conto, perché ci hanno educato male? Quante volte tutta la colpa non l'abbiamo noi, ma essa è di coloro che ci hanno educato, dell'ambiente, di quel libro, che fu galeotto come chi lo scrisse? Dio solo conosce tutto: l'ambiente nel quale ci troviamo e le cause del nostro traviamento. Non dobbiamo perciò disperare della salvezza spirituale di nessuno e pregare per tutti. Perché, se è grande la giustizia di Dio, ben maggiore ne è la misericordia. Quando noi abbiamo da agire riflettiamo alla sua giustizia; quando abbiamo da giudicare pensiamo agli abissi della sua misericordia infinita.

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Le donne milanesi

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Neera 1 occorrenze

La piccola portatrice di scatole abbandona le scene, si rinchiude, fa il bozzolo. È un po' malata; è troppo alta per gironzolare tutto il giorno; molte volte il vestito le è diventato corto e in attesa di poterne fare uno nuovo sta in casa a sbucciare le patate alla mamma. Durante le divagazioni mentali permesse da questa innocente occupazione, ella si accorge che le sue dita sono piccole, affusolate; pensa che la blonda e i nastri sono più dolci al tatto della scorza terrosa delle patate e scopre definitivamente la sua vocazione. Eccola a buttar via il bozzolo, eccola farfalla, eccola madamina! Vispa, spigliata, elegante, provocante, col velo nero appuntato molto indietro sui capelli ; coll' abito a cuore, cogli stivaletti di brunello a tacchi alti e punta di velluto cammina, vola, sembra che sfiori il marciapiede. È smortina, sottile, col nasino impertinente e gli occhi assassini. Porta uno scialletto di poche lire, un fiocco, un pizzo, un cenciolino qualunque, ma come sa adattarseli ! Succinta succinta, colla vita stretta, ella trova modo di mettere in mostra tutto quello che possiede e qualche volta, dicono i maligni, anche quello che non possiede. Alla mattina fra le otto e le nove le madamine passano a frotte come le rondini. Ripassano verso sera, un po' stanche, un po' abbattute, chiacchierine tuttavia e senza avere perduto nulla della solita eleganza. Tornano a casa a due, a tre, rare volte sole, e se è sola la madamina ci ha il suo bravo perchè, nascosto sotto il pastrano di un giovane di studio, ritto sulla cantonata. Si sorridono da lontano, scambiano poche parole, si danno un appuntamento. I passanti si voltano a guardarli e se sono vecchi sospirano. Età dell'oro! Dopo i trent' anni la madamina non c'è più ; o muore o si marita, e allora cessa di essere madamina. Una volta ne incontravo sempre una, bellissima, bionda, troppo bella e troppo bionda, una rarità della specie. Aveva in qualsiasi giorno e con qualsiasi tempo un vestito di lana nera e di lana blù, alternate in modo capriccioso. Abitava sola una camera verso giardino; sul davanzale della finestra la ci aveva un vaso di maggiorana e una gabbia di canarini, e quand' ella compariva nel vano di quella finestra io desideravo una cosa sola: essere pittore. C'è qualcuno che si ricorda ancora di te, povera madamina, fra coloro che ti hanno accompagnata al sepolcro ?.... Si calunniano un po' le madamine. Molte di esse sono brave ragazze, in fondo ; si maritano presto, hanno i loro figlioli che spesso allattano, diventano grasse e non portano più vestiti a cuore. È la loro età dell'argento.

Le Fate d'Oro

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Perodi, Emma 1 occorrenze

Perché mi abbandona ora che sono vecchia; perché mi fai piangere così? - E seduto sulla porta della capanna, Fragolina udiva Moreccino, che gemeva anch'egli dicendo: - Sorellina, da quando tu sei scom- parsa nel bosco, io non ho avuto più pace. Il sole s'è fatto scuro agli occhi miei, i fiori hanno perduto il loro soave profumo, il bo- sco mi pare una solitudine spaventosa. Tor- na, Fragolina, torna fra noi che ti vogliamo tanto bene, che siamo tanto infelici senza di te! - Fragolina non vedeva più il popolo esultante, non vedeva più nulla, tranne i suoi cari nella piccola capanna, e non sen- tiva altro che i loro gemiti. Il primo ministro si permise di toc- care con la penna d'oro la mano della Regina per rammentarle che ella doveva firmare, ma Fragolina fece un gesto di ne- gazione. - Firmate, Maestà! - La Regina ebbe vergogna delle pro- messe che le chiedevano, ebbe orrore della rinunzia che volevano da lei. Ella prese la penna e la gettò per terra; prese la corona e la buttò fra la folla; si strappò il vezzo di perle, e, calpestando tutto quel popolo minuscolo, scese dal trono e corse via per le sale e fuori del palazzo. Grida irate del popolo le giunsero agli orecchi. Ella sen- tiva dietro a sé il brusìo di tante piccole gambe che la inseguivano, ma non si la- sciò sgomentare. Udì i campanellini d'argento che suo- navano a raccolta, le trombettine che squil- lavano incessantemente, ma ella correva sempre. Giunta che fu all'imboccatura della scala, dalla quale era discesa nel mondo sotterraneo, vide un esercito di formiche af- faticate a otturarne il passaggio. Fragolina le prese a manate e le lanciò lungi da sè. Le formiche, per vendicarsi, le corsero sul collo, sulle braccia, le invasero tutto il corpo e si diedero a pungerla furiosamente; ma Fragolina resisteva al dolore, e saliva a quattro a quattro i piccoli gradini sca- vati nelle viscere della terra. Essa incontrava sempre nuovi eserciti di formiche affaticati a distruggere l'opera loro, a rompere le comunicazioni tra il mondo sotterraneo e quello dove splende il sole, dove si soffre, ma si ama tanto; e Fragolina le calpestava, le distruggeva, nè si lasciava atterrare dai loro attacchi. Quando arrivò su, nel bosco dove cre- scevano le fragole, ella faceva sangue da tutto il corpo e il suo visino era spaventoso a vedersi. In terra ella trovò il fastello delle le- gna per la nonna, il panierino delle fra- gole gittate via la mattina, e, raccolto l'uno e l'altro, si diede a correre. Ma da più parti le guardie del corpo, capitanate dal maggiordomo, l'avevano raggiunta, e ora si sentiva tirar per un braccio, ora per una gamba, e udiva maledizioni e grida contro di lei. Fragolina correva sempre, senza voltar- si, e non si fermò altro che sulla porta della capanna dalla quale partivano ancora i ge- miti della nonna e le grida di Moreccino. - Eccomi, son qua, sono Fragolina, soccorretemi! - La vecchia fu inchiodata dalla gioia vicina al focolare; Moreccino corse dalla sorella, le lavò il viso con l'acqua della fontana, le fece mille carezze e riuscì fi- nalmente a calmarla. Fragolina, contenta di aver ritrovato la sua nonna e di lavorare per lei, non rim- pianse mai le ricchezze perdute. Quando coglieva le fragole nel bosco, sentiva tante volte delle vocine che le di- cevano: - Vuoi essere regina? Avrai un po- polo ubbidiente, avrai ricchezze a profu- sione; vieni giù nella profondità della terra dove sono nascosti i tesori! - Ma Fragolina si metteva le mani agli orecchi, pensava alla nonna e non si la- sciava tentare da quelle promesse. Un giorno, mentre era intenta alle solite sue occupazioni, le comparve dinanzi l'omìno, seguito da una turba di cavallette recanti sulla groppa dei canestrini pieni di brillanti, di diamanti, di perle, di rubini, di topazî. - Buon giorno, Fragolina. - Buon giorno, omìno; che cosa vuoi da me? - Queste ricchezze, le vedi? - Sì. Ebbene? - Esse son tue, se.... - No, riportale pure a chi te l'ha date. Son poverella e poverella resterò.... non voglio abbandonar la nonna mia nè Moreccino. - Conducili con te.... - Qui vi fu un momento di sosta.... La tentazione era molto forte.... Ma ad un tratto Fragolina rialzò il capo e disse fieramente: - Va', non mi tentar più. Con le ric- chezze non si compera la felicità. - E l'omìno se n’andò sotto terra mogio mogio e, come si dice, colle pive nel sacco.

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La chiave a stella 1978

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Levi, Primo 1 occorrenze

È meglio che la madre abbia a modello la pellicana, che si spenna e si denuda per rendere morbido il nido dei suoi nati, o l' orsa, che li incoraggia ad arrampicarsi in cima agli abeti e poi li abbandona lassù e se ne va senza voltarsi indietro? È un miglior modello didattico la tempra o il rinvenimento? Alla larga dalle analogie: hanno corrotto la medicina per millenni, e forse è colpa loro se oggi i sistemi pedagogici sono così numerosi, e dopo tremila anni di discussione non si sa ancora bene quale sia il migliore. Ad ogni modo, Faussone mi ha ricordato che la lamiera di rame, incrudita (e cioè resa non più lavorabile al martello, non più "malleabile") dalla lavorazione, deve essere ricotta, vale a dire scaldata per qualche minuto verso gli .00äC, per riacquistare la sua cedevolezza primitiva; di conseguenza, il lavoro del magnino consiste in un' alternanza di scaldare e battere, battere e scaldare. Queste cose più o meno le sapevo; invece, non altrettanto a lungo avevo frequentato lo stagno, a cui sono legato unicamente da una fugace avventura giovanile, e per di più di carattere essenzialmente chimico; perciò ho ascoltato con interesse le notizie che lui mi ha fornite: "Una volta che la pentola è fatta, il lavoro non è ancora finito, perché se lei, tanto per dire, fa cucina in una pentola di rame nudo, alla lunga finisce che viene ammalato, lei e la famiglia; e del resto non è detto che se mio padre è morto che aveva solo cinquantasette anni, non sia perché il rame ce l' aveva già che girava nel sangue. La morale è che la pentola bisogna stagnarla all' interno, e qui non creda che sia poi così facile, anche se magari in teoria lei sa come si fa: ma la teoria è una cosa e la pratica è un' altra. Bene, a farla corta ci va prima il vetriolo, o se si ha fretta l' acido nitrico, ma per poco tempo se no addio pentola, poi si lava con acqua, e poi si porta via l' ossido con l' acido cotto". Questo termine mi era nuovo. Ho chiesto un chiarimento, e non immaginavo, così facendo, di ravvivare una vecchia cicatrice: perché è risultato che Faussone cos' era l' "acid cheuit" non lo sapeva con precisione, e non lo sapeva perché aveva rifiutato di impararlo, insomma col padre c' era stata un po' di ruggine perché lui aveva ormai diciott' anni e ne aveva abbastanza di stare al paese a fare le padelle: voleva venire a Torino e entrare alla Lancia, e difatti c' era entrato sì, ma aveva durato poco. Bene, avevano fatto questione proprio per l' acido cotto, e il padre prima si era arrabbiato, e poi era stato zitto perché aveva capito che c' era poco da fare. "A ogni modo, si fa con l' acido muriatico, si fa cuocere con dello zinco e col sale ammoniaco e non so che cosa d' altro, se vuole mi posso informare; ma non vorrà mica mettersi a stagnare le ramine, voglio sperare. Poi non è ancora finito, mentre l' acido cotto lavora bisogna tener pronto lo stagno. Stagno vergine: è qui che si vede se il magnino è un galantuomo o un lavativo. Ci vuole lo stagno vergine, cioè puro come viene dai suoi paesi, e non lo stagno da saldare che invece è legato con il piombo: e glielo dico perché ce ne sono stati, di quelli che hanno stagnato le pentole con lo stagno da saldatore: ce ne sono stati anche al mio paese, e quando il lavoro è finito non si conosce, ma quello che capita poi al cliente, a fare cucina magari per vent' anni col piombo che passa piano piano in tutti i mangiari, glielo lascio capire da lei. Le dicevo allora che bisogna tenere lo stagno pronto, che sia fuso ma non troppo caldo se no gli viene sopra una crosta rossa e si spreca del materiale; e sa, adesso è facile, ma a quel tempo i termometri erano roba da gran signori, e si giudicava della caloria così a stima, con lo sputo. Scusi, ma le cose bisogna chiamarle col loro nome: uno guardava se la saliva friggeva piano o forte o saltava addirittura indietro. A questo punto si prendono le cucce, che sono come delle filacce di canapa e non so neppure se hanno un nome in italiano, e si tira lo stagno sul rame come uno spalmerebbe il burro dentro una terrina, non so se ho reso l' idea; e appena finito si mette nell' acqua fredda, se no lo stagno invece che bello brillante resta come appannato. Vede, era un mestiere come tutti i mestieri, fatto di malizie grosse e piccole, inventate da chissà quale Faussone nei tempi dei tempi, che a dirle tutte ci andrebbe un libro, e è un libro che non lo scriverà mai nessuno e in fondo è un peccato; anzi adesso che sono passati gli anni mi rincresce di quella questione che ho fatto con mio padre, di avergli risposto e di averlo fatto stare zitto: perché lui capiva che quel mestiere, fatto sempre in quella maniera e vecchio come il mondo, finiva che moriva con lui, e come io gli ho risposto che dell' acido cotto non me ne faceva niente, lui è rimasto zitto, ma si è sentito morire un poco già a quell' ora. Perché vede, il suo lavoro gli piaceva, e adesso lo capisco perché adesso a me mi piace il mio". L' argomento era centrale, e mi sono accorto che Faussone lo sapeva. Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l' amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono. Questa sconfinata regione, la regione del rusco, del boulot, del job, insomma del lavoro quotidiano, è meno nota dell' Antartide, e per un triste e misterioso fenomeno avviene che ne parlano di più, e con più clamore, proprio coloro che meno l' hanno percorsa. Per esaltare il lavoro, nelle cerimonie ufficiali viene mobilitata una retorica insidiosa, cinicamente fondata sulla considerazione che un elogio o una medaglia costano molto meno di un aumento di paga e rendono di più; però esiste anche una retorica di segno opposto, non cinica ma profondamente stupida, che tende a denigrarlo, a dipingerlo vile, come se del lavoro, proprio od altrui, si potesse fare a meno, non solo in Utopia ma oggi e qui: come se chi sa lavorare fosse per definizione un servo, e come se, per converso, chi lavorare non sa, o sa male, o non vuole, fosse per ciò stesso un uomo libero. È malinconicamente vero che molti lavori non sono amabili, ma è nocivo scendere in campo carichi di odio preconcetto: chi lo fa, si condanna per la vita a odiare non solo il lavoro, ma se stesso e il mondo. Si può e si deve combattere perché il frutto del lavoro rimanga nelle mani di chi lo fa, e perché il lavoro stesso non sia una pena, ma l' amore o rispettivamente l' odio per l' opera sono un dato interno, originario, che dipende molto dalla storia dell' individuo, e meno di quanto si creda dalle strutture produttive entro cui il lavoro si svolge. Come se avesse percepito il riverbero dei miei pensieri, Faussone ha ripreso: "Lo sa qual è il mio nome di battesimo? Tino, come tanti altri: ma il mio Tino vuol dire Libertino. Mio padre veramente quando ha fatto la denuncia mi voleva chiamare Libero, e il podestà, ben che era un fascista, era suo amico e sarebbe stato d' accordo, ma col segretario comunale non c' è stato verso. Son tutte cose che mi ha raccontato poi mia madre: questo segretario diceva che nei santi non c' è, che era un nome troppo fuorivia, che lui non voleva grane, che ci andava il consenso del federale e magari anche quello di Roma: erano solo storie, si capisce, era che lui, per non saper né leggere né scrivere, nei suoi registri quella parolina "Libero" non ce la voleva. Insomma, non c' è stato nessun perdono; morale della favola, mio padre ha ripiegato su Libertino perché pover' uomo non si rendeva conto, si credeva che fosse lo stesso, che Libertino fosse come quando uno si chiama Giovanni e lo chiamano Giovannino; ma intanto Libertino io sono rimasto, e tutti quelli che gli capita di gettare un occhio sul mio passaporto o sulla mia patente mi ridono dietro. Anche perché, passa un anno passa l' altro, a girare il mondo così come faccio io un po' libertino lo sono poi diventato sul serio, ma questa è un' altra storia, e del resto lei se n' è già accorto da solo. Sono libertino ma non è la mia specialità. Non sono al mondo per questo, anche se poi, se lei mi chiedesse perché sono al mondo, sarei un po' imbarazzato a risponderle. Mio padre voleva chiamarmi libero perché voleva che io fossi libero. Non è che avesse delle idee politiche, lui di politica aveva solo l' idea di non fare la guerra perché aveva provato; per lui libero voleva dire di non lavorare sotto padrone. Magari dodici ore al giorno in un' officina tutta nera di caligine e col ghiaccio d' inverno come la sua, magari da emigrante o su e giù col carrettino come gli zingari, ma non sotto padrone, non nella fabbrica, non a fare tutta la vita gli stessi gesti attaccato al convogliatore fino che uno non è più buono a fare altro e gli dànno la liquidazione e la pensione e si siede sulle panchine. Ecco perché era contrario che io andassi alla Lancia, e sotto sotto avrebbe avuto caro che io tirassi avanti con la sua boita e mi sposassi e avessi dei bambini e gli mostrassi l' opera anche a loro. E non creda, io adesso non faccio per dire nel mio mestiere me la cavo, ma se mio padre non avesse insistito, delle volte con le buone e delle volte no, perché dopo la scuola andassi con lui a bottega a girargli la manovella della forgia e imparassi da lui, che dalla lastra di trenta decimi tirava su una mezza sfera giusta come l' oro così a occhio, senza neanche la scarsetta, bene, dicevo, non fosse stato di mio padre, e mi fossi contentato di quello che mi insegnavano a scuola, garantito che ero attaccato al convogliatore ancora adesso". Eravamo arrivati ad una radura, e Faussone mi ha fatto notare, come rigonfiamenti appena percettibili in superficie, i labirinti eleganti delle talpe, punteggiati dai monticelli conici di terra fresca espulsa durante i loro turni di notte. Poco prima mi aveva insegnato a riconoscere i nidi delle allodole nascosti nelle depressioni dei campi, e mi aveva indicato un ingegnoso nido di ghiro, a forma di manicotto, seminascosto fra i rami bassi di un larice. Più tardi, ha smesso di parlare e mi ha arrestato, ponendo il braccio sinistro davanti al mio petto come una barriera: con la mano destra indicava un leggero fremere dell' erba, a pochi passi dal nostro sentiero. Un serpente? No, su un tratto di terreno battuto è emersa una curiosa piccola processione: un porcospino avanzava cauto, con brevi arresti e riprese, e dietro di lui, o di lei, venivano cinque cuccioli, come minuscoli vagoni a rimorchio di una locomotiva-giocattolo. Il primo stringeva in bocca la coda della guida, ognuno degli altri, allo stesso modo, stringeva il codino dell' antecedente. La guida si è fermata netta davanti a un grosso scarabeo, lo ha rivoltato sul dorso con la zampina e lo ha preso fra i denti: i piccoli hanno rotto l' allineamento e le si sono affollati intorno; poi la guida è arretrata dietro un cespuglio, trascinandosi dietro tutti i personaggi. Al crepuscolo il cielo velato si è fatto limpido; quasi ad un tratto, ci siamo accorti di uno stridore lontano e mesto, e, come avviene ci siamo anche accorti di averlo già inteso prima, senza porvi mente. Si ripeteva ad intervalli quasi regolari, e non si capiva da quale direzione provenisse, ma poi abbiamo scoperto, altissimi sopra le nostre teste, gli stormi ordinati delle gru, uno dopo l' altro, in lunga riga nera contro il cielo pallido, come se piangessero per aver dovuto partire. " ... ma ha fatto a tempo a vedermi venire via dalla fabbrica e a incamminare questo mestiere che faccio adesso, e credo che sia stato contento: non me l' ha mai detto perché non era uno che parlasse tanto, ma me l' ha fatto capire in diverse maniere, e quando ha visto che ogni tanto partivo in viaggio certamente ha avuto invidia, ma un' invidia da persona per bene, non come quando uno vorrebbe le fortune di un altro e siccome non le può avere allora gli manda degli accidenti. A lui un lavoro come il mio gli sarebbe piaciuto, anche se l' impresa ci guadagna sopra, perché almeno non ti porta via il risultato: quello resta lì, è tuo, non te lo può togliere nessuno, e lui queste cose le capiva, si vedeva dalla maniera come stava lì a guardare i suoi lambicchi dopo che li aveva finiti e lucidati. Quando venivano i clienti a portarseli via, lui gli faceva come una carezzina e si vedeva che gli dispiaceva; se non erano troppo lontani, ogni tanto prendeva la bicicletta e andava a riguardarli, con la scusa di vedere se tutto andava bene. E gli sarebbe piaciuto anche per via dei viaggi, perché ai suoi tempi si viaggiava poco, e anche lui aveva viaggiato poco, e malamente. Di quell' anno che aveva passato in Savoia come apprendista, lui diceva che si ricordava solo dei geloni, delle sberle, e delle brutte parole che gli dicevano in francese. Poi è venuta la Russia, da militare, e s' immagini un po' che viaggiare è stato quello. Invece, a lei le sembrerà strano, ma l' anno più bello della sua vita, me l' ha detto diverse volte, è stato proprio dopo Badoglio, quando i tedeschi li hanno beccati al deposito di Milano, li hanno disarmati, impacchettati nei vagoni bestiame e spediti a lavorare in Germania. Lei si stupisce, neh? Ma avere un mestiere serve sempre. I primi mesi ha fatto una gran cinghia, e non fa bisogno che queste cose gliele racconti a lei. La firma per andare con la repubblica e tornare in Italia, lui non l' ha voluta fare. Tutto l' inverno ha fatto picco e pala, e non era un bel vivere, anche perché vestiti niente, aveva solo indosso la roba della naia. Lui si era messo in lista come meccanico: aveva già perduto tutte le speranze quando a marzo l' hanno chiamato fuori e messo a lavorare in un' officina di tubisteria, e lì andava già un pochino meglio; ma poi è venuto fuori che cercavano dei macchinisti per le ferrovie, e lui macchinista non era, ma insomma un' idea delle caldaie ce l' aveva, e poi ha pensato che il basto del mulo si aggiusta andando per strada, e ben che non sapeva una parola di tedesco si è fatto avanti, perché quando c' è la fame uno si fa furbo. Ha avuto la fortuna che l' hanno messo alle locomotive a carbone, quelle che a quel tempo tiravano i merci e gli accelerati, e lui si era fatte due morose, una per capolinea. Non che lui fosse uno tanto ardito, ma diceva che era facile, tutti gli uomini tedeschi erano soldati e le donne ti correvano dietro. Può capire che questa storia lui non l' ha mai raccontata chiara perché quando l' han preso prigioniero lui era già sposato e aveva anche un bambino piccolo che sarei poi io: ma alla domenica venivano i suoi amici da noi a bere un bicchiere, e una frasetta qui, un risolino là, un discorso interrotto a mezzo, ci voleva poco a capire, anche perché io vedevo gli amici che ridevano largo così e invece mia madre con una faccia tutta tirata, che guardava da un' altra parte e rideva verde. E io lo capisco, anche, perché è stata l' unica volta in sua vita che ha preso un po' la larga; del resto, se non si trovava le morose tedesche che facevano la borsa nera e gli portavano da mangiare, facile che sarebbe finito tisico anche lui come tanti altri, e per mia madre e per me si sarebbe messa male. Quanto a portare la locomotiva, lui diceva che è più facile che andare in bici, bastava solo fare attenzione ai segnali, e se veniva un bombardamento frenare, piantare lì tutto e scappare nei prati. C' erano dei problemi solo quando calava la nebbia, oppure quando c' erano gli allarmi e i tedeschi la nebbia la facevano apposta. In buona sostanza, quando arrivava al capolinea, invece che andare al dormitorio della ferrovia lui si impieniva di carbone le tasche, la borsa e la camicia per regalarlo alla morosa di turno, perché altro da regalare non ne aveva, e quella in cambio gli dava da cena, e lui al mattino ripartiva. Dopo un po' di tempo che faceva questo commercio, è venuto a sapere che sulla stessa linea combinazione viaggiava anche un altro macchinista italiano, anche lui prigioniero militare, un meccanico di Chivasso; però questo portava i merci che camminano di notte. Si incontravano soltanto qualche volta ai capolinea, ma come erano quasi paesani hanno fatto amicizia lo stesso. Dato che quello di Chivasso non si era organizzato, e faceva la fame perché mangiava solo la roba che gli passava la ferrovia, mio padre gli ha ceduto una delle sue morose, così a fondo perduto per pura amicizia, e da allora si sono sempre voluti bene. Dopo che tutti e due sono tornati, il chivassese veniva a trovarci due o tre volte all' anno e a Natale ci portava un tacchino: a poco per volta tutti quanti abbiamo cominciato a considerarlo come il mio padrino, perché frattanto il mio padrino vero, quello che faceva le boccole per la Diatto, era morto. Insomma voleva sdebitarsi, tant' è vero che diversi anni dopo è stato lui che mi ha trovato il posto alla Lancia e ha convinto mio padre a lasciarmi andare, e più tardi mi ha presentato alla prima impresa dove ho lavorato da montatore, ben che montatore non ero ancora. È ancora vivo e anzi neanche tanto vecchio; è uno in gamba, dopo la guerra si è messo a allevare i tacchini e le galline faraone e si è fatto i soldi. Invece mio padre si è rimesso a lavorare come prima, a battere la lastra nella sua officina, un colpo qui e un colpo là, nel punto preciso, perché la lastra venisse tutta dello stesso spessore e per spianare le pieghe, lui le chiamava le veje. Gli avevano offerto dei posti buoni nell' industria, e più che tutto nelle carrozzerie, che non era poi un lavoro tanto diverso: mia madre gliela contava tutti i giorni, di accettare, perché la paga era buona, e per via della mutua, della pensione eccetera, ma lui non ci pensava neanche: diceva che il pane del padrone ha sette croste, e che è meglio essere testa d' anguilla che coda di storione: perché era uno di quelli che vanno avanti coi proverbi. Ormai le pentole di rame stagnato non le voleva più nessuno perché c' erano in bottega quelle d' alluminio che costavano di meno, e poi sono venute quelle d' acciaio inossidabile con la vernice che le bistecche non si attaccano, e soldi ne entravano pochi, ma lui di cambiare non se la sentiva e si è messo a fare gli autoclavi per gli ospedali, quelli per sterilizzare i ferri delle operazioni, sempre di rame, ma argentato invece che stagnato. È stato in quel periodo che si era messo d' accordo con i suoi amici per fare quel monumento al panettiere che le ho detto, e quando gliel' hanno rifiutato gli è rincresciuto e si è messo a bere un po' di più. Non lavorava più tanto, perché le ordinazioni erano poche, e a tempo perso faceva delle altre cose con una forma nuova, così per il piacere di farle, delle mensole, dei vasi per i fiori, ma non li vendeva, li metteva da una parte oppure li regalava. Mia madre era brava, molto di chiesa, ma mio padre non lo trattava tanto bene. Non gli diceva niente, ma era rustica, e si vedeva che non aveva tanta stima: non si rendeva conto che quell' uomo, finito il suo lavoro, per lui era finito tutto. Non voleva che il mondo cambiasse, e siccome invece il mondo cambia, e adesso cambia in fretta, lui non aveva la volontà di tenere dietro, e così diventava malinconico e non aveva più voglia di niente. Un giorno non è venuto a desinare, e mia madre l' ha trovato morto in officina: col martello in mano, l' aveva sempre detto".

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La tregua

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Levi, Primo 3 occorrenze

Sedevamo sul pavimento di legno del vagone, addossati l' uno contro l' altro per proteggerci dal freddo; i binari erano sconnessi, e ad ogni sobbalzo le nostre teste, malferme sui colli, urtavano contro le tavole della parete Mi sentivo stremato, non solo corporalmente: come un atleta che abbia corso per ore, spendendo tutte le proprie risorse, quelle di natura prima, e poi quelle che si spremono, che si creano dal nulla nei momenti di bisogno estremo; e che arrivi alla meta; e che nell' atto in cui si abbandona esausto al suolo, venga rimesso brutalmente in piedi, e costretto a ripartire di corsa, nel buio, verso un altro traguardo non si sa quanto lontano. Meditavo pensieri amari: che la natura concede raramente indennizzi, e così il consorzio umano, in quanto è timido e tardo nello scostarsi dai grossi schemi della natura; e quale conquista rappresenti, nella storia del pensiero umano, il giungere a vedere nella natura non più un modello da seguire ma un blocco informe da scolpire, o un nemico a cui opporsi. Il treno viaggiava lentamente. Comparvero a sera villaggi bui, apparentemente deserti; poi scese una notte totale, atrocemente gelida, senza luci in cielo né in terra. Solo i sobbalzi del vagone ci impedivano di scivolare in un sonno che il freddo avrebbe reso mortale. Dopo interminabili ore di viaggio, forse verso le tre di notte, ci arrestammo finalmente in una stazioncina sconvolta e oscura. Il greco delirava: degli altri quale per paura, quale per pura inerzia, quale nella speranza che il treno ripartisse presto, nessuno volle scendere dal vagone. Io scesi, e mi aggirai nel buio col mio bagaglio ridicolo finché vidi una finestrella illuminata. Era la cabina del telegrafo, gremita di gente: c' era una stufa accesa. Entrai, guardingo come un cane randagio, pronto a sparire al primo gesto di minaccia, ma nessuno badò a me. Mi buttai sul pavimento e mi addormentai all' istante, come si impara a fare in Lager. Mi svegliai qualche ora dopo, all' alba. La cabina era vuota. Il telegrafista mi vide alzare il capo, e mi pose accanto, a terra, una gigantesca fetta di pane e formaggio. Ero sbalordito (oltre che mezzo paralizzato dal freddo e dal sonno) e temo di non averlo ringraziato. Mi infilai il cibo nello stomaco e uscii all' aperto: il treno non si era mosso. Nel vagone, i compagni giacevano inebetiti; al vedermi si riscossero, tutti salvo il jugoslavo, che cercò invano di muoversi. Il gelo e la immobilità gli avevano paralizzato le gambe: a toccarlo urlava e gemeva. Dovemmo massaggiarlo a lungo, e poi smuovergli cautamente le membra, come si sblocca un meccanismo rugginoso. Era stata per tutti una notte terribile, forse la peggiore dell' intero nostro esilio. Ne parlai col greco: ci trovammo d' accordo nella decisione di stringere sodalizio allo scopo di evitare con ogni mezzo un' altra notte di gelo, a cui sentivamo che non avremmo sopravvissuto. Penso che il greco, grazie alla mia sortita notturna, abbia in qualche modo sopravvalutato le mie qualità di "débrouillard et démerdard", come elegantemente allora si soleva dire. Quanto a me, confesso di aver tenuto conto principalmente del suo grosso sacco, e della sua qualità di salonichiota, che, come ognuno Auschwitz sapeva, equivaleva ad una garanzia di raffinate abilità mercantili, e di sapersela cavare in tutte le circostanze. La simpatia, bilaterale, e la stima, unilaterale, vennero dopo. Il treno ripartì, e con tragitto tortuoso e vago ci condusse in un luogo chiamato Szczakowa. Qui la Croce Rossa polacca aveva istituito un meraviglioso servizio di cucina calda: si distribuiva una zuppa abbastanza sostanziosa, a tutte le ore del giorno e della notte, e a chiunque indistintamente si presentasse. Un miracolo che nessuno di noi avrebbe osato sognare nei suoi sogni più audaci: in certo modo, il Lager a rovescio. Non ricordo il comportamento dei miei compagni: io mi dimostrai talmente vorace che le sorelle polacche, pure avvezze alla famelica clientela del luogo, si facevano il segno della croce. Ripartimmo nel pomeriggio. C' era il sole. Il nostro povero treno si fermò al tramonto, in avaria: rosseggiavano lontani i campanili di Cracovia. Il greco ed io scendemmo dal vagone, e andammo a interrogare il macchinista, che stava in mezzo alla neve tutto indaffarato e sporco, combattendo con lunghi getti di vapore che scaturivano da non so che tubo spaccato. _ Maschìna kaputt, _ ci rispose lapidariamente Non eravamo più servi, non eravamo più protetti, eravamo usciti di tutela. Per noi suonava l' ora della prova. Il greco, ristorato dalla zuppa calda di Szczakowa, si sentiva abbastanza in forze. _ On y va? _ On y va _. Così lasciammo il treno e i compagni perplessi che non avremmo più dovuto rivedere, e ce ne partimmo a piedi alla ricerca problematica del Consorzio Civile. Dietro sua perentoria richiesta, io mi ero caricato il famoso fardello. _ Ma è roba tua! _ avevo cercato invano di protestare. _ Appunto perché è mia. Io la ho organizzata e tu la porti. È la divisione del lavoro. Più tardi ne profitterai anche tu _. Così ci incamminammo, lui primo ed io secondo, sulla neve compatta i una strada di periferia; il sole era tramontato Ho già detto delle scarpe del greco; quanto a me calzavo un paio di curiose calzature quali in Italia ho visto portare solo dai preti: di cuoio delicatissimo, alte fin sopra il malleolo, senza legacci, con due grosse fibbie, e due pezze laterali di tessuto elastico che avrebbero dovuto assicurare la chiusura e l' aderenza. Indossavo inoltre ben quattro paia sovrapposte di pantaloni di tela da Häftling, una camicia di cotone, una giacca pure a righe, e basta: il mio bagaglio consisteva di una coperta e di una scatola di cartone in cui avevo prima conservato qualche pezzo di pane, ma che era ormai vuota: tutte cose che il greco sogguardava con non celato disprezzo e dispetto. Ci eravamo ingannati grossolanamente sulla distanza da Cracovia: avremmo dovuto percorrere almeno sette chilometri. Dopo venti minuti di cammino, le mie scarpe erano andate: la suola di una si era staccata, e l' altra stava scucendosi. Il greco aveva conservato fino allora un silenzio pregnante: quando mi vide deporre il fardello, e sedere su di un paracarro per constatare il disastro, mi domandò: _ Quanti anni hai? _ Venticinque, _ risposi. _ Qual è il tuo mestiere? _ Sono chimico. _ Allora sei uno sciocco, _ mi disse tranquillamente. _ Chi non ha scarpe è uno sciocco. Era un grande greco. Poche volte nella mia vita, prima e dopo, mi sono sentito incombere sul capo una saggezza così concreta. C' era ben poco da replicare. La validità dell' argomento era palpabile, evidente: i due rottami informi ai miei piedi, e le due meraviglie lucenti ai suoi. Non c' era giustificazione. Non ero più uno schiavo: ma dopo i primi passi sulla via della libertà, eccomi seduto su un paracarro, coi piedi in mano, goffo e inutile come la locomotiva in avaria che da poco avevamo lasciata. Meritavo dunque la libertà? il greco sembrava dubitarne. _ ... ma avevo la scarlattina, la febbre, stavo all' infermeria: il magazzino delle scarpe era molto lontano, era proibito avvicinarsi, e poi si diceva che fosse stato saccheggiato dai polacchi. E non avevo il diritto di credere che i russi avrebbero provveduto? _ Parole, _ disse il greco. _ Parole tutti sanno dirne. Io avevo la febbre a quaranta, e non capivo se era giorno o notte: ma una cosa capivo, che mi occorrevano scarpe e altro; allora mi sono alzato, e sono andato fino al magazzino per studiare la situazione. E c' era un russo col mitra davanti alla porta: ma io volevo le scarpe, e ho girato dietro, ho sfondato una finestrella e sono entrato. Così ho avuto le scarpe, e anche il sacco e tutto quello che sta nel sacco, che verrà utile più avanti. Questa è previdenza; la tua è stupidità, è non tenere conto della realtà delle cose. _ Sei tu ora che fai parole, _ dissi io. _ Avrò sbagliato, ma adesso si tratta di arrivare a Cracovia prima che sia notte, con le scarpe o senza _; e così dicendo mi andavo arrabattando con le dita intorpidite, e con certi pezzi di fil di ferro che avevo trovato per strada, per legare almeno provvisoriamente le suole alle tomaie. _ Lascia stare, così non concludi niente _. Mi porse due pezzi di tela robusta che aveva cavati dal fagotto, e mi mostrò il modo di impacchettare scarpe e piedi, tanto da poter camminare alla meglio. Poi proseguimmo in silenzio. La periferia di Cracovia era anonima e squallida. Le strade erano rigorosamente deserte: le vetrine delle botteghe erano vuote, tutte le porte e le finestre erano sbarrate o sfondate. Giungemmo al capo di una linea tranviaria; io esitavo, poiché non avremmo avuto di che pagare la corsa, ma il greco disse: _ Saliamo, poi si vedrà _. La carrozza era vuota; dopo un quarto d' ora arrivò il manovratore, e non il bigliettario (dal che si vide che ancora una volta il greco aveva ragione; e come si vedrà, avrebbe avuto ragione in tutte le successive vicende, salvo una); partimmo, e durante il percorso scoprimmo con gioia che uno dei passeggeri saliti nel frattempo era un militare francese. Ci spiegò che era ospitato in un antico convento, davanti al quale il nostro tram sarebbe passato fra poco; alla fermata successiva, avremmo trovato una caserma requisita dai russi e piena di militari italiani. Il mio cuore esultava: avevo trovato una casa. In realtà, non tutto fu poi così piano. La sentinella polacca di guardia alla caserma ci invitò dapprima seccamente ad andarcene. _ Dove? _ Che mi importa? Via di qui, in qualunque altro luogo _. Dopo molte insistenze e preghiere, si indusse infine ad andare a chiamare un maresciallo italiano, da cui dipendevano evidentemente le decisioni sull' ammissione di altri ospiti. Non era semplice, ci spiegò questi: la caserma era già piena zeppa, le razioni erano misurate; che io fossi un italiano, poteva ammetterlo, ma non ero un militare; quanto al mio compagno, era greco, ed era impossibile introdurlo fra ex combattenti di Grecia e di Albania: ne sarebbero nati certamente disordini e zuffe. Io ribattei con la mia migliore eloquenza, e con genuine lacrime agli occhi: garantii che ci saremmo trattenuti una notte sola (e pensavo fra me: una volta dentro ...), e che il greco parlava bene italiano e comunque avrebbe aperto bocca il meno possibile. I miei argomenti erano deboli, e io lo sapevo: ma il greco conosceva il funzionamento di tutte le naje del mondo, e mentre io parlavo andava frugando nel sacco appeso alle mie spalle. Ad un tratto mi spinse da parte, e in silenzio pose sotto il naso del cerbero una abbagliante scatola di "Pork", adorna di una etichetta multicolore, e di futili istruzioni in sei lingue sul giusto modo di manipolare il contenuto. Così ci conquistammo un tetto e un letto a Cracovia. Era ormai notte. Contrariamente a quanto il maresciallo aveva voluto farci credere, all' interno della caserma regnava la più suntuosa abbondanza: c' erano stufe accese, candele e lampade a carburo, da mangiare e da bere, e paglia per dormire. Gli italiani erano sistemati in dieci-dodici per camerata ma noi a Monowitz eravamo in due per metro cubo. Avevano indosso buoni indumenti militari, giacche imbottite, molti portavano l' orologio al polso, tutti avevano i capelli lucidi di brillantina; erano chiassosi, allegri e gentili, e ci colmarono di cortesie. Quanto al greco, per poco non fu portato in trionfo. Un greco! è arrivato un greco! La voce corse di camerata in camerata, e in breve intorno al mio arcigno socio si radunò una folla festante. Parlavano greco, alcuni con disinvoltura, questi reduci dalla più misericorde occupazione militare che la storia ricordi: rievocavano con colorita simpatia luoghi e fatti, in un cavalleresco tacito riconoscimento del disperato valore del paese invaso Ma c' era qualcosa di più, che apriva loro la strada: il mio non era un greco qualunque, era visibilmente un maestro, un' autorità, un supergreco. In pochi minuti di conversazione, aveva compiuto un miracolo, aveva creato un' atmosfera. Possedeva l' adatta attrezzatura: sapeva parlare italiano, e (ciò che più importa, e manca a molti italiani stessi) sapeva di che cosa si parla in italiano. Mi sbalordì: si dimostrò esperto di ragazze e di tagliatelle, di Juventus e di musica lirica, di guerra e di blenorragia, di vino e di borsa nera, di motociclette e di espedienti. Mordo Nahum, con me tanto laconico, divenne in breve il centro della serata. Percepivo che la sua eloquenza, il suo fortunato sforzo di "captatio benevolentiae", non muovevano soltanto da considerazioni di opportunità. Aveva fatto anche lui la campagna di Grecia, col grado di sergente: dall' altra parte del fronte, s' intende, ma questo particolare in quel momento sembrava trascurabile a tutti. Era stato a Tepeleni, anche molti italiani c' erano stati, aveva sofferto come loro il freddo, la fame, il fango e i bombardamenti, e alla fine, come loro, era stato catturato dai tedeschi. Era un collega, un commilitone. Raccontava curiose storie di guerra; di quando dopo lo sfondamento del fronte da parte dei tedeschi, si era trovato con sei suoi soldati a rovistare il primo piano di una villa bombardata e abbandonata, in cerca di vettovaglie; e aveva sentito rumori sospetti al piano di sotto, era sceso cautamente per le scale col mitra all' anca, e si era incontrato con un sergente italiano che con sei soldati stava facendo il suo stesso mestiere al piano terreno. L' italiano aveva spianato a sua volta il mitra, ma lui gli aveva fatto notare che in quelle condizioni una sparatoria sarebbe stata particolarmente insulsa, che si trovavano entrambi, greci e italiani, nel medesimo brodo, e che non vedeva perché non avrebbero potuto concludere una piccola pace separata locale e continuare le ricerche nei rispettivi territori di occupazione: alla quale proposta l' italiano aveva prontamente accondisceso. Anche per me fu una rivelazione. Sapevo che non era altro se non un mercante un po' furfante, esperto nel raggiro e privo di scrupoli, egoista e freddo: eppure sentivo fiorire in lui, favorito dalla simpatia dell' uditorio, un calore nuovo, una umanità insospettata, singolare ma genuina, ricca di promesse. A notte alta, saltò fuori non so di dove nulla meno che un fiasco di vino. Fu il colpo di grazia: per me tutto naufragò celestialmente in una calda nebbia purpurea, e riuscii a stento a trascinarmi carponi fino alla lettiera di paglia che gli italiani, con cura materna, avevano preparato in un angolo per il greco e per me. Spuntava appena il giorno quando il greco mi svegliò. Ahi disinganno! dove era sparito il gioviale convitato della sera avanti? Il greco che mi stava davanti era duro, segreto, taciturno. _ Alzati, _ mi disse con tono che non ammetteva replica, _ mettiti le scarpe, prendi il sacco e andiamo. _ Andiamo dove? _ Al lavoro. Al mercato. Ti pare bello farci mantenere? A questo argomento mi sentivo del tutto refrattario. Mi sembrava, oltre che comodo, estremamente naturale che qualcuno mi mantenesse, ed anche bello: avevo trovata bella, esaltante, la esplosione di solidarietà nazionale, anzi, di spontanea umanità della sera prima. Inoltre, pieno com' ero di autocommiserazione, mi appariva giusto, buono, che il mondo provasse infine pietà di me. D' altronde, non avevo scarpe, ero malato, avevo freddo, ero stanco; e infine, in nome del cielo, che cosa mai avrei potuto fare al mercato? Gli esposi queste considerazioni, per me ovvie. Ma, "c' est pas des raisons d' homme", mi rispose secco: dovetti rendermi conto che avevo leso un suo importante principio morale, che era seriamente scandalizzato, che su quel punto non era disposto a transigere né a discutere. I codici morali, tutti, sono rigidi per definizione: non ammettono sfumature, né compromessi, né contaminazioni reciproche. Vanno accolti o rifiutati in blocco. È questa una delle principali ragioni per cui l' uomo è gregario, e ricerca più o meno consapevolmente la vicinanza non già del suo prossimo generico, ma solo di chi condivide le sue convinzioni profonde (o la sua mancanza di tali convinzioni). Mi dovetti accorgere, con disappunto e stupore, che tale appunto era Mordo Nahum: un uomo dalle convinzioni profonde, e per di più molto lontane dalle mie. Ora, ognuno sa quanto sia malagevole avere rapporti in affari, anzi convivere, con un avversario ideologico. Fondamento della sua etica era il lavoro, che egli sentiva come sacro dovere, ma che intendeva in senso molto ampio. Era lavoro tutto e solo ciò che porta a guadagno senza limitare la libertà. Il concetto di lavoro comprendeva quindi, oltre ad alcune attività lecite, anche ad esempio il contrabbando, il furto, la truffa (non la rapina: non era un violento). Considerava invece riprovevoli, perché umilianti, tutte le attività che non comportano iniziativa né rischio, o che presuppongono una disciplina e una gerarchia: qualunque rapporto di impiego, qualunque prestazione d' opera, che egli, anche se ben retribuita, assimilava in blocco al "lavoro servile". Ma non era lavoro servile arare il proprio campo, o vendere false antichità in porto ai turisti. Quanto alle attività più elevate dello spirito, al lavoro creativo, non tardai a comprendere che il greco era diviso. Si trattava di giudizi delicati, da dare caso per caso: lecito ad esempio perseguire il successo in sé, anche spacciando falsa pittura o sottoletteratura, o comunque nuocendo al prossimo; riprovevole ostinarsi a inseguire un ideale non redditizio; peccaminoso ritirarsi dal mondo in contemplazione; lecita invece, anzi commendevole, la via di chi si dedichi a meditare e ad acquistare saggezza, purché non ritenga di dover ricevere gratis il proprio pane dal consorzio civile: anche la saggezza è una merce, e può e deve essere scambiata. Poiché Mordo Nahum non era uno sciocco, si rendeva conto chiaramente che questi suoi principi4 potevano non essere condivisi da individui di altra provenienza e formazione, e nella fattispecie da me; ne era peraltro fermamente persuaso, ed era sua ambizione tradurli in atto, per dimostrarmene la validità generale. In conclusione, il mio proponimento di starmene tranquillo ad aspettare il pane dei russi non poteva che apparirgli detestabile: perché era "pane non guadagnato"; perché comportava un rapporto di sudditanza; e perché ogni forma di ordinamento, di struttura, era per lui sospetta, sia che portasse a una pagnotta al giorno, sia ad una busta paga al mese. Così seguii il greco al mercato; non tanto perché convinto dai suoi argomenti, quanto per inerzia e per curiosità. La sera prima, mentre io già navigavo in un mare di vapori vinosi, lui si era diligentemente informato sulla ubicazione, usanze, tariffe, domande e offerte del libero mercato di Cracovia, e il dovere lo chiamava. Partimmo, lui col sacco (che portavo io), io dentro le mie scarpe fatiscenti, in virtù delle quali ogni singolo passo diventava un problema: il mercato di Cracovia era fiorito spontaneo, subito dopo il passaggio del fronte, e in pochi giorni aveva invaso un intero quartiere. Vi si vendeva e comperava di tutto, e tutta la città vi faceva capo: borghesi vendevano mobili, libri, quadri, abiti e argenteria; contadine imbottite come materassi offrivano carne, polli, uova, formaggio; bambini e bambine, naso e gote rubicondi per il vento gelato, cercavano amatori per le razioni di tabacco che l' amministrazione militare sovietica distribuiva con stravagante munificenza (trecento grammi al mese a tutti, anche ai lattanti). Incontrai con gioia un gruppetto di connazionali: gente esperta, tre soldati e una ragazza, gioviali e spendaccioni, che in quei giorni facevano ottimi affari con certe loro frittelle calde, confezionate con strani ingredienti sotto un portone poco lontano. Dopo un primo giro d' orizzonte, il greco decise per le camicie. Eravamo soci? Ebbene, lui avrebbe contribuito col capitale e con l' esperienza mercantile; io, con la mia (tenue) conoscenza del tedesco e col lavoro materiale. _ Vai, _ mi disse, _ gira tutti i banchetti dove vendono camicie, chiedi quanto costano rispondi che è troppo caro, poi torni e mi riferisci. Non farti notare troppo _. Mi accinsi di mala voglia a svolgere questa inchiesta di mercato: albergavo in me fame vecchia e freddo, e inerzia, ed insieme curiosità, spensieratezza, e una nuova e saporita voglia di attaccare discorsi, di intavolare rapporti umani, di fare pompa e spreco della mia smisurata libertà. Ma il greco alle spalle dei miei interlocutori, mi seguiva con occhio severo: presto, perbacco, il tempo è moneta, e gli affari sono affari. Ritornai dal mio giro con alcuni prezzi di riferimento, di cui il greco prese nota mentalmente; e con un buon numero di nozioni filologiche sgangherate: che camicia si dice qualcosa come "kosciùla"; che i numerali polacchi ricordano quelli greci; che "quanto costa" e "che ora è" si dice su per giù "ile kostùie" e "ktura gogìna"; una desinenza del genitivo in "-ego" che mi rese chiaro il senso di alcune imprecazioni polacche spesso udite in Lager; e altri brandelli di informazione che mi riempivano di una gioia insulsa e puerile. Il greco calcolava fra sé. Una camicia, si poteva vendere da cinquanta a cento zloty; un uovo costava cinque o sei zloty; con dieci zloty, secondo informazioni degli italiani delle frittelle, si poteva mangiare minestra e pietanza alla mensa dei poveri, dietro la cattedrale. Il greco decise di vendere una sola delle tre camicie che aveva, e di mangiare a questa mensa; il di più sarebbe stato investito in uova. Poi avremmo visto il da farsi. Mi consegnò dunque la camicia, e mi prescrisse di metterla in mostra, e di gridare: "Camicia signori, camicia". Per "camicia", già ero documentato; quanto a "signori", ritenni che la forma corretta fosse "Panowie", voce che avevo sentito usare pochi minuti prima dai miei concorrenti, e che interpretai come vocativo plurale di "Pan", signore. Su quest' ultimo termine, poi, non avevo dubbi: si trova in un importante dialogo dei Fratelli Karamàzov. Doveva proprio essere il vocabolo corretto, perché vari clienti si rivolsero a me in polacco, facendomi domande incomprensibili circa la camicia. Ero in imbarazzo: il greco intervenne d' autorità, mi spinse da parte e condusse direttamente la contrattazione che fu lunga e laboriosa ma si concluse felicemente. Su invito dell' acquirente, il passaggio di proprietà ebbe luogo non sulla pubblica piazza, bensì sotto un portone. Settanta zloty, pari a sette pasti o a una dozzina di uova. Non so il greco: io, da quattordici mesi non disponevo di una tale somma di generi alimentari, tutti in una volta. Ma ne disponevo veramente? C' era da dubitarne: il greco aveva intascato la somma in silenzio, e con tutto il suo atteggiamento dava a capire che l' amministrazione dei proventi intendeva tenersela per sé. Girammo ancora per i banchetti delle venditrici di uova, dove apprendemmo che, allo stesso prezzo, se ne potevano acquistare di sode e di crude. Ne comperammo sei, con cui cenare: il greco procedette all' acquisto con estrema diligenza, scegliendo le più grosse dopo minuziosi confronti e dopo molte perplessità e pentimenti, totalmente insensibile allo sguardo critico della venditrice. La mensa dei poveri era dunque dietro alla cattedrale: restava da stabilire quale, fra le molte e belle chiese di Cracovia, fosse la cattedrale. A chi chiedere, e come? Passava un prete: avrei chiesto al prete. Ora quel prete, giovane e di aspetto benigno, non intendeva né il francese né il tedesco; di conseguenza, per la prima e unica volta nella mia carriera postscolastica, trassi frutto dagli anni di studi classici intavolando in latino la più stravagante ed arruffata delle conversazioni. Dalla iniziale richiesta di informazioni ("Pater optime, ubi est mensa pauperorum?") venimmo confusamente a parlare di tutto, dell' essere io ebreo, del Lager ("castra"? Meglio Lager, purtroppo inteso da chiunque), dell' Italia, della inopportunità di parlare tedesco in pubblico (che meglio avrei compreso poco dopo, per esperienza diretta), e di innumerevoli altre cose, a cui l' inusitata veste della lingua dava un curioso sapore di trapassato remoto. Avevo del tutto dimenticato la fame e il freddo, tanto è vero che il bisogno di contatti umani è da annoverarsi fra i bisogni primordiali. Avevo dimenticato anche il greco; ma questi non aveva dimenticato me, e si fece vivo brutalmente dopo pochi minuti, interrompendo senza pietà la conversazione. Non già che ai contatti umani fosse negato, e non ne intendesse la bontà (lo si era visto la sera prima in caserma): ma erano cose fuori orario, festive, accessorie, da non mescolare con quel negozio serio e strenuo che è il lavoro quotidiano. Alle mie deboli proteste, non rispose che con uno sguardo torvo. Ci incamminammo; il greco tacque a lungo, poi, a giudizio conclusivo sulla mia collaborazione, mi disse in tono pensieroso: _ Je n' ai pas encore compris si tu es idiot ou fainéant. Sulla scorta delle preziose indicazioni del prete, giungemmo alla cucina dei poveri, luogo assai deprimente, ma riscaldato e pieno di odori voluttuosi. Il greco ordinò due minestre e una sola razione di fagioli col lardo: era la punizione per il modo sconveniente e fatuo con cui mi ero comportato nella mattinata. Era in collera; ma dopo trangugiata la minestra si ammorbidì sensibilmente, tanto da lasciarmi un buon quarto dei suoi fagioli. Fuori aveva cominciato a nevicare, e soffiava un vento selvaggio. Fosse pietà per il mio abito a strisce, o incuria del regolamento, il personale della cucina ci lasciò in pace per buona parte del pomeriggio, a meditare e a fare piani per l' avvenire. Il greco sembrava aver cambiato luna: forse gli era tornata la febbre, o forse, dopo i discreti affari della mattina, si sentiva in vacanza. Si sentiva anzi in vena benevolmente pedagogica; a mano a mano che passavano le ore, il tono del suo discorso andava insensibilmente intiepidendosi, e in parallelo andava mutando il rapporto che ci univa: da padrone-schiavo a mezzogiorno, a titolare-salariato alla una, a maestro-discepolo alle due, a fratello maggiore fratello minore alle tre. Il discorso tornò sulle mie scarpe, che nessuno dei due, per ragioni diverse, poteva dimenticare. Mi spiegò che essere senza scarpe è una colpa molto grave. Quando c' è la guerra, a due cose bisogna pensare prima di tutto: in primo luogo alle scarpe, in secondo alla roba da mangiare; e non viceversa, come ritiene il volgo: perché chi ha le scarpe può andare in giro a trovar da mangiare, mentre non vale l' inverso. _ Ma la guerra è finita, _ obiettai: e la pensavo finita, come molti in quei mesi di tregua, in un senso molto più universale di quanto si osi pensare oggi: _ Guerra è sempre, _ rispose memorabilmente Mordo Nahum. È noto che nessuno nasce con un decalogo in corpo, e ciascuno si costruisce invece il proprio per strada o a cose fatte, sulla scorta delle esperienze proprie, o altrui assimilabili alle proprie; per cui l' universo morale di ognuno, opportunamente interpretato, viene a identificarsi con la somma delle sue esperienze precedenti, e rappresenta quindi una forma compendiaria della sua biografia. La biografia del mio greco era lineare: quella di un uomo forte e freddo, solitario e loico, che si era mosso fin dall' infanzia per entro le maglie rigide di una società mercantile. Era (o era stato) accessibile anche ad altre istanze: non era indifferente al cielo e al mare del suo paese, ai piaceri della casa e della famiglia, agli incontri dialettici; ma era stato condizionato a ricacciare tutto questo ai margini della sua giornata e della sua vita, affinché non turbasse quello che lui chiamava il "travail d' homme". La sua vita era stata di guerra, e considerava vile e cieco chi rifiutasse questo suo universo di ferro. Era venuto il Lager per entrambi: io lo avevo percepito come un mostruoso stravolgimento, una anomalia laida della mia storia e della storia del mondo; lui, come una triste conferma di cose notorie. "Guerra è sempre", l' uomo è lupo all' uomo: vecchia storia. Dei suoi due anni di Auschwitz non mi parlò mai. Mi parlò invece, con eloquenza, delle sue molteplici attività in Salonicco, delle partite di merce comprate, vendute, contrabbandate per mare, o di notte attraverso la frontiera bulgara; delle frodi vergognosamente subite e di quelle gloriosamente perpetrate; e finalmente, delle ore liete e serene trascorse in riva al suo golfo, dopo la giornata di lavoro, con i colleghi mercanti, in certi caffè su palafitte che mi descrisse con inconsueto abbandono, e dei lunghi discorsi che quivi si tenevano. Quali discorsi? Di moneta, di dogane, di noli, naturalmente; ma di altro ancora. Cosa abbia ad intendersi per "conoscere", per "spirito" per "giustizia", per "verità". Di quale natura sia il tenue legame che vincola l' anima al corpo, come esso si instauri col nascere, e si sciolga col morire. Cosa sia libertà, e come si concilii il conflitto fra la libertà dello spirito e il destino. Cosa segua la morte, anche: ed altre grandi cose greche. Ma tutto questo a sera, beninteso, a traffici ultimati, davanti al caffè o al vino o alle olive, lucido gioco di intelletto fra uomini attivi anche nell' ozio: senza passione. Perché il greco raccontasse queste cose a me, perché si confessasse a me, non è chiaro. Forse, davanti a me così diverso, così straniero, si sentiva ancora solo, e il suo discorso era un monologo. Uscimmo dalla mensa a sera, e ritornammo alla caserma degli italiani: dopo molte insistenze, avevamo ottenuto dal colonnello italiano capocampo il permesso di pernottare in caserma ancora una volta, una sola. Rancio niente, e che non ci facessimo troppo notare, non voleva avere seccature coi russi. Al mattino dopo, avremmo dovuto andarcene. Cenammo con due uova a testa di quelle acquistate la mattina, serbando le ultime due per la prima colazione. Dopo i fatti della giornata, mi sentivo molto "minore" nei confronti del greco. Quando si venne alle uova, gli chiesi se sapeva distinguere dal di fuori fra un uovo crudo e uno sodo (si fa girare rapidamente l' uovo, per esempio su un tavolo; se è sodo gira a lungo, se è crudo si ferma quasi subito): era una piccola arte di cui andavo fiero, speravo che il greco non la conoscesse, e quindi di potermi riabilitare ai suoi occhi, sia pure in piccola misura. Ma il greco mi guardò coi suoi freddi occhi di savio serpente: _ Per chi mi prendi? Mi credi nato ieri? Pensi che io non abbia mai commerciato in uova? Su, dimmi qualche articolo in cui io non abbia mai commerciato! Dovetti battere in ritirata. L' episodio in sé trascurabile, mi doveva ritornare a mente molti mesi dopo, in piena estate, nel cuore della Russia Bianca, in occasione di quello che fu il mio terzo ed ultimo incontro con Mordo Nahum. Partimmo al mattino seguente, all' alba (questo è un racconto intessuto di albe gelide), con Katowice per meta: ci era stato confermato che là veramente esistevano vari centri di raccolta per dispersi italiani, francesi, greci eccetera. Katowice non dista da Cracovia che un' ottantina di chilometri: poco più di un' ora di treno in tempi normali. Ma in quei giorni non c' erano venti chilometri di binario senza un trasbordo, molti ponti erano saltati, e per il pessimo stato della linea i treni procedevano di giorno con estrema lentezza, e di notte non viaggiavano affatto. Fu un viaggio labirintico, che durò tre giorni, con soste notturne in luoghi assurdamente lontani dalla congiungente fra i due estremi: un viaggio di gelo e di fame, che ci condusse il primo giorno in un luogo detto Trzebinia. Qui il treno si arrestò, ed io scesi sulla banchina per sgranchirmi le gambe intorpidite dal freddo. Forse ero fra i primi vestiti da "zebra" a comparire in quel luogo detto Trzebinia: mi trovai subito al centro di un fitto cerchio di curiosi, che mi interrogavano volubilmente in polacco. Risposi del mio meglio in tedesco; e di mezzo al gruppetto di operai e contadini si fece avanti un borghese, in cappello di feltro, con occhiali e una busta di cuoio in mano: un avvocato. Era polacco, parlava bene francese e tedesco, era una persona molto cortese e benevola: insomma, possedeva tutti i requisiti perché io finalmente, dopo il lunghissimo anno di schiavitù e di silenzio, ravvisassi in lui il messaggero, il portavoce del mondo civile: il primo che incontrassi. Avevo una valanga di cose urgenti da raccontare al mondo civile: cose mie ma di tutti, cose di sangue, cose che, mi pareva, avrebbero dovuto scuotere ogni coscienza sulle sue fondamenta. In realtà, l' avvocato era cortese e benevolo: mi interrogava, ed io parlavo vertiginosamente di quelle mie così recenti esperienze, di Auschwitz vicina, eppure, pareva, a tutti sconosciuta, dell' ecatombe a cui io solo ero sfuggito, tutto. L' avvocato traduceva in polacco a favore del pubblico. Ora io non conosco il polacco, ma so come si dice "ebreo" e come si dice "politico", e mi accorsi ben presto che la traduzione del mio resoconto, benché partecipe, non era fedele. L' avvocato mi descriveva al pubblico non come un ebreo italiano, ma come un prigioniero politico italiano. Gliene chiesi conto, stupito e quasi offeso. Mi rispose imbarazzato: _ C' est mieux pour vous. La guerre n' est pas finie _. Le parole del greco. Sentii l' onda calda del sentirsi libero, del sentirsi uomo fra uomini, del sentirsi vivo, rifluire lontano da me. Mi trovai a un tratto vecchio, esangue, stanco al di là di ogni misura umana: la guerra non è finita, guerra è sempre. I miei ascoltatori se ne andavano alla spicciolata: dovevano aver capito. Qualcosa del genere avevo sognato, tutti avevamo sognato, nelle notti di Auschwitz: di parlare e di non essere ascoltati, di ritrovare la libertà e di restare soli. In breve, rimasi solo con l' avvocato; dopo pochi minuti, anche lui mi lasciò, scusandosi urbanamente. Mi raccomandò, come già il prete, di evitare di parlare tedesco; alle mie richieste di spiegazioni, rispose vagamente: _ La Polonia è un triste paese _. Mi augurò buona fortuna, mi offerse del denaro che rifiutai: mi pareva commosso. La locomotiva fischiava per ripartire. Risalii sul vagone-merci, dove mi aspettava il greco, ma non gli raccontai l' episodio. Non fu l' unica sosta: altre seguirono, e in una di queste, a sera, ci rendemmo conto che Szczakowa, il luogo della zuppa calda per tutti, non era lontano. Era bensì a nord, e noi dovevamo andare verso ovest, ma poiché a Szczakowa c' era zuppa calda per tutti, e noi non avevamo altro programma che quello di sfamarci, perché non puntare su Szczakowa? Così scendemmo, aspettammo che passasse un treno adatto, e ci ripresentammo più e più volte al bancone della Croce Rossa; credo che le sorelle polacche mi abbiano riconosciuto agevolmente, e mi ricordino tuttora. Come scese la notte, ci disponemmo a dormire per terra, nel bel mezzo della sala d' aspetto, poiché tutti i posti perimetrali erano già occupati. Forse impietosito o incuriosito dal mio abito, arrivò dopo qualche ora un gendarme polacco, baffuto, rubicondo e corpulento; mi interrogò invano nella sua lingua; risposi con la prima frase che si impara di ogni lingua sconosciuta, e cioè "nie rozumiem po polsku", non capisco il polacco. Aggiunsi, in tedesco, che ero italiano, e che parlavo un poco il tedesco. Al che, miracolo! il gendarme prese a parlare italiano. Parlava un pessimo italiano, gutturale ed aspirato, trapunto di nuovissime bestemmie. Lo aveva imparato, e questo spiega tutto, in una valle del bergamasco, dove aveva lavorato qualche anno come minatore. Anche lui, ed era il terzo, mi raccomandò di non parlare tedesco. Gli chiesi perché: mi rispose con un gesto eloquente, passandosi l' indice e il medio, di coltello, fra il mento e la laringe, e aggiungendo tutto allegro: _ Stanotte tutti tedeschi kaputt. Si trattava certamente di una esagerazione, e comunque di una opinione-speranza: ma in effetti incrociammo il giorno dopo un lungo treno di vagoni merci, chiusi dall' esterno; era diretto verso levante, e dalle feritoie si vedevano molti visi umani in cerca d' aria. Questo spettacolo, fortemente evocatore, suscitò in me un groviglio di sentimenti confusi e contrastanti, che ancora oggi stenterei a districare. Il gendarme, molto gentilmente, propose a me e al greco di passare il resto della notte al caldo, in camera di sicurezza; accettammo di buon grado, e ci risvegliammo nell' insolito ambiente solo a tardo mattino, dopo un sonno ristoratore. Partimmo da Szczakowa il giorno dopo, per l' ultima tappa del viaggio. Giungemmo senza incidenti a Katowice, dove realmente esisteva un campo di raccolta per gli italiani, e un altro per i greci. Ci separammo senza molte parole: ma nel momento del congedo, in modo fugace eppure distinto, sentii muovere da me verso lui una solitaria onda di amicizia, venata di tenue gratitudine, di disprezzo, di rispetto, di animosità, di curiosità, e del rimpianto di non doverlo più vedere. Lo vidi ancora, invece: due volte. Lo vidi in maggio, nei giorni gloriosi e turbolenti della fine della guerra, quando tutti i greci di Katowice, un centinaio, uomini e donne, sfilarono cantando davanti al nostro campo, diretti alla stazione: partivano per la patria, per la casa. In testa alla colonna era lui, Mordo Nahum, signore fra i greci, e reggeva il vessillo bianco-celeste: ma lo depose quando mi vide, uscì dalla schiera per salutarmi (un po' ironicamente, ché lui partiva e io rimanevo: ma era giusto, mi spiegò, perché la Grecia apparteneva alle Nazioni Unite), e con gesto inconsueto estrasse dal famoso sacco un dono: un paio di pantaloni, del tipo usato in Auschwitz negli ultimi mesi, e cioè con una grossa "finestra" sull' anca sinistra, chiusa da una toppa di tela a strisce. Poi scomparve. Ma doveva ricomparire un' altra volta, molti mesi più tardi, sul più improbabile dei fondali e nella più inaspettata delle incarnazioni.

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Avevano lasciato Samarcanda in marzo, e si erano messe in via come una piuma si abbandona al vento. Avevano percorso, parte in autocarro e parte a piedi, il Kara-kum, il Deserto delle Sabbie Nere: erano arrivate in treno a Krasnovodsk sul Caspio, e qui avevano aspettato finché un peschereccio le aveva traghettate a Baku. Da Baku avevano proseguito, sempre con mezzi di fortuna, poiché soldi non ne avevano, ma in cambio una sconfinata fiducia nell' avvenire e nel loro prossimo, e un nativo e intatto amore per la vita. Tutti intorno dormivano: Cesare assisteva irrequieto al colloquio, chiedendomi ogni tanto se i preliminari erano finiti e se si veniva al sodo; poi, deluso, se ne andò all' aria aperta in cerca di avventure più concrete. La pace della sala d' aspetto, e il racconto delle due sorelle, furono interrotti bruscamente verso mezzanotte. Si spalancò brutalmente, come per un colpo di vento, una porta che attraverso un breve corridoio metteva in comunicazione la sala grande con un' altra più piccola, riservata ai militari di passaggio. Sulla soglia apparve un soldato russo, giovanissimo, ubriaco: si guardò intorno con occhi vaghi, poi partì davanti a sé a testa bassa, con paurose bordate, come se a un tratto il pavimento si fosse fortemente inclinato sotto di lui. Nel corridoio stavano in piedi tre ufficiali sovietici, assorti in colloquio. Il soldatino, giunto alla loro altezza, frenò, si irrigidì sull' attenti, salutò militarmente, e i tre risposero dignitosamente al saluto. Poi ripartì a semicerchi come un pattinatore, infilò di precisione la porta che dava all' esterno, e lo si udì vomitare e singultare rumorosamente sulla banchina. Rientrò con passo un po' meno incerto, salutò di nuovo i tre ufficiali impassibili, e sparì. Dopo un quarto d' ora, la scena si ripeté identica, come in un incubo: ingresso drammatico, pausa, saluto, frettoloso percorso sghembo fra le gambe dei dormienti verso l' aria aperta, scarico, ritorno, saluto; e così di seguito per infinite volte, a intervalli regolari, senza che mai i tre gli dedicassero altro che una distratta occhiata e un corretto saluto colla mano alla visiera. Così trascorse quella notte memorabile, finché la febbre non mi vinse: allora mi sdraiai a terra, pieno di brividi. Venne Gottlieb, e portava con sé un farmaco inconsueto: mezzo litro di vodka selvaggia, un distillato clandestino che aveva comperato dai contadini dei dintorni: sapeva di muffa, di aceto e di fuoco. _ Bevi, _ mi disse, _ bevila tutta. Ti farà bene, e d' altronde non abbiamo altro, qui, per il tuo male. Bevvi non senza sforzo il filtro infernale, scottandomi fauci e gola, e in breve piombai nel nulla. Quando mi svegliai il mattino dopo, mi sentivo oppresso da un gran peso: ma non era la febbre, né un cattivo sogno. Giacevo sepolto sotto uno strato di altri dormienti, in una specie di incubatrice umana: gente arrivata durante la notte che non aveva trovato altro posto se non al di sopra di quelli che già stavano coricati sul pavimento. Avevo sete: grazie all' azione combinata della vodka e del calore animale, dovevo aver perduto molti litri di sudore. La cura singolare aveva avuto pieno successo: la febbre e i dolori erano spariti definitivamente, e non ricomparvero più. Il treno ripartì, e in poche ore giungemmo a Zmerinka, nodo ferroviario a 350 chilometri da Odessa. Qui ci attendeva una grossa sorpresa e una feroce delusione. Gottlieb, che aveva conferito con il comando militare del luogo, fece il giro del convoglio, vagone per vagone, e ci comunicò che tutti dovevamo scendere: il treno non proseguiva. Non proseguiva perché? E come e quando saremmo arrivati a Odessa? _ Non lo so, _ rispose Gottlieb con imbarazzo: _ non lo sa nessuno. So solo che dobbiamo scendere dal treno, sistemarci in qualche modo sui marciapiedi, e aspettare ordini _. Era pallidissimo e visibilmente turbato. Scendemmo, e pernottammo in stazione: la sconfitta di Gottlieb, la prima, ci sembrava di pessimo auspicio. Il mattino dopo, la nostra guida, insieme con gli inseparabili fratello e cognato, era scomparsa. Erano spariti nel nulla, con tutto il loro vistoso bagaglio: qualcuno disse di averli visti confabulare con ferrovieri russi, e montare nella notte su un treno militare che risaliva da Odessa verso il confine polacco. Restammo a Zmerinka tre giorni, oppressi da inquietudine, frustrazione o terrore, a seconda dei temperamenti e dei brandelli di informazione che riuscivamo a estorcere dai russi del luogo. Questi non manifestavano alcuno stupore per la nostra sorte e per la nostra sosta forzata, e rispondevano alle nostre domande nei modi più sconcertanti. Un russo ci disse che sì, da Odessa erano partite diverse navi con militari inglesi e americani che rimpatriavano, e anche noi, presto o tardi, ci saremmo imbarcati: da mangiare ne avevamo, Hitler non c' era più, perché lamentarsi? Un altro ci disse che la settimana prima un convoglio di francesi, in viaggio per Odessa, era stato fermato a Zmerinka e dirottato verso nord "perché i binari erano interrotti". Un terzo ci informò che aveva visto con i suoi occhi un trasporto di prigionieri tedeschi in viaggio verso l' Estremo Oriente: secondo lui la faccenda era chiara, non eravamo forse alleati dei tedeschi? ebbene, mandavano anche noi a scavare trincee sul fronte giapponese. A complicare le cose, il terzo giorno arrivò a Zmerinka, proveniente dalla Romania, un altro convoglio di italiani. Questi avevano un aspetto molto diverso dal nostro: erano circa seicento, uomini e donne, ben vestiti, con valige e bauli, alcuni con la macchina fotografica a tracolla: quasi dei turisti. Ci guardavano dall' alto in basso, come parenti poveri: loro avevano viaggiato fin lì in un regolare treno di carrozze-passeggeri, pagando il biglietto, ed erano in ordine con passaporto, quattrini, documenti di viaggio, ruolino, e foglio di via collettivo per l' Italia via Odessa. Se solo avessimo ottenuto dai russi di aggregarci a loro, allora anche noi a Odessa ci saremmo arrivati. Con molta degnazione, ci fecero capire che loro, infatti, erano gente di riguardo: erano funzionari civili e militari della Legazione Italiana di Bucarest, e inoltre gente varia che, dopo lo scioglimento dell' ARMIR, era rimasta in Romania con diverse mansioni, o a pescare nel torbido. C' erano fra loro interi nuclei famigliari, mariti con mogli rumene autentiche, e numerosi bambini. Ma i russi, a differenza dei tedeschi, non posseggono che in minima misura il talento per le distinzioni e per le classificazioni. Pochi giorni dopo eravamo tutti in viaggio verso il nord, verso una meta imprecisata, comunque verso un nuovo esilio. Italiani-rumeni e italiani-italiani, tutti sugli stessi carri merci, tutti col cuore stretto, tutti in balia della indecifrabile burocrazia sovietica, oscura e gigantesca potenza, non malevola verso di noi, ma sospettosa, negligente, insipiente, contraddittoria, e negli effetti cieca come una forza della natura.

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Deve giudicarmi un pessimo allievo, un caso disperato di ottusità; con mio sollievo, se ne torna al suo fuoco e mi abbandona alla mia barbarie. Un altro giorno, ma alla stessa ora e nello stesso luogo, mi imbatto in uno spettacolo inconsueto. C' è un capannello di italiani attorno a un marinaio russo, giovanissimo, alto, dalle movenze rapide e pronte. Sta "raccontando" un episodio di guerra; e poiché sa che la sua lingua non è compresa, si esprime come può, in un modo che gli è evidentemente spontaneo quanto e più della parola: si esprime con tutti i muscoli, con le rughe precoci che gli segnano il viso, col lampo degli occhi e dei denti, coi balzi e coi gesti, e ne nasce una danza solitaria piena di fascino e di impeto. È notte, "noc": gira intorno a sé piano piano le mani col palmo rivolto in giù. Tutto è silenzio: pronuncia un lungo "sst" coll' indice parallelo al naso. Strizza gli occhi e indica l' orizzonte: laggiù, lontano lontano, sono i tedeschi, "niemtzy". Quanti? Cinque, fa segno con le dita; "finef", aggiunge poi in yiddish a maggior chiarimento. Scava colla mano una piccola fossa rotonda nella sabbia, e vi pone cinque stecchi coricati, sono i tedeschi; e poi un sesto stecco piantato obliquo, è la "masìna", la mitragliatrice. Cosa fanno i tedeschi? Qui i suoi occhi si accendono di allegria selvaggia: "spats", dormono (e russa quieto lui stesso per un attimo); dormono, gli insensati, e non sanno cosa li aspetta. Che ha fatto? Ecco che ha fatto: si è avvicinato, cauto, sottovento, come un leopardo. Poi, di scatto, è balzato dentro il nido estraendo il coltello: e ripete, ormai tutto perduto nella estasi scenica, i suoi atti di allora. L' agguato, e la mischia fulminea e atroce, eccole ripetersi sotto i nostri occhi: l' uomo, dal volto trasfigurato da un riso teso e sinistro, si tramuta in un turbine: salta avanti e indietro, colpisce davanti a sé, ai fianchi, alto, basso, in una esplosione di energia mortifera; ma è un furore lucido, la sua arma (che esiste, un lungo coltello che ha cavato dallo stivale) penetra, fende, squarcia con ferocia e insieme con tremenda perizia, un metro davanti alle nostre facce. A un tratto il marinaio si ferma, si raddrizza lentamente, il coltello gli cade di mano: il suo petto ansima, il suo sguardo si è spento. Guarda a terra, come stupito di non scorgervi i cadaveri e il sangue; si guarda intorno smarrito, svuotato; si accorge di noi, e ci rivolge un timido sorriso infantile. _ Koniecno, _ dice: è finito; e si allontana con passo lento. Assai diverso, e misterioso allora come adesso, era il caso del Tenente. Il Tenente (mai, e forse non a caso, ne potemmo conoscere il nome) era un giovane russo smilzo e olivastro, perennemente aggrondato. Parlava italiano perfettamente, con un accento russo talmente lieve da potersi confondere con qualche intonazione dialettale italiana: ma nei nostri riguardi, a differenza da tutti gli altri russi del Comando, manifestava scarsa cordialità e simpatia. Era lui il solo a cui potessimo rivolgere domande: come mai parlava italiano? perché era fra noi? perché ci trattenevano in Russia quattro mesi dopo la fine della guerra? eravamo ostaggi? eravamo stati dimenticati? perché non potevamo scrivere in Italia? quando saremmo ritornati? Ma a tutte queste domande, pesanti come il piombo, il Tenente rispondeva in modo tagliente ed elusivo, con una sicurezza e una autorità _ che male si accordavano col suo grado gerarchico non molto elevato. Notammo che anche i suoi superiori lo trattavano con strana deferenza, come se lo temessero. Manteneva sia coi russi sia con noi uno scontroso distacco. Non rideva mai, non beveva, non accettava inviti, e neppure sigarette: parlava poco, con parole caute che sembrava pesasse a una a una. Alle sue prime apparizioni, ci era sembrato naturale pensare a lui come al nostro interprete e delegato presso il Comando russo, ma si vide ben presto che i suoi incarichi (se pure ne aveva, e se il suo comportamento non era solo un complicato modo di darsi importanza) dovevano essere altri, e preferimmo tacere in sua presenza. Da alcune sue frasi reticenti ci accorgemmo che conosceva bene la topografia di Torino e di Milano. Era stato in Italia? _ No, _ ci rispose asciutto, e non diede altre spiegazioni. La salute pubblica era eccellente, e i clienti della infermeria erano pochi e sempre gli stessi: qualcuno coi foruncoli, i soliti malati immaginari, qualche scabbia, qualche colite. Si presentò un giorno una donna, che accusava disturbi vaghi: nausea, mal di schiena, vertigini, vampe di calore. Leonardo la visitò: aveva lividi un po' dappertutto, ma disse di non farci caso, era rotolata per le scale. Coi mezzi a disposizione non era facile una diagnosi molto approfondita, ma, per esclusione, e dati anche i numerosi precedenti fra le nostre donne, Leonardo dichiarò alla paziente che si trattava molto probabilmente di una gravidanza al terzo mese. La donna non manifestò gioia né angoscia né sorpresa né indignazione: accettò, ringraziò, ma non se ne andò. Tornò a sedere sulla panchina nel corridoio, zitta e tranquilla, come se aspettasse qualcuno. Era una ragazza piccola e bruna, sui venticinque anni, dall' aria casalinga, sottomessa e trasognata: il suo viso, non molto attraente né molto espressivo, non mi riusciva nuovo, e così pure la sua parlata, dalle gentili inflessioni toscane. Certamente dovevo già averla incontrata, ma non a Staryje Doroghi. Provavo la evanescente sensazione di uno sfasamento, di una trasposizione, di una importante inversione di rapporti, che peraltro non riuscivo a definire. In modo vago eppure insistente, a quella immagine femminile ricollegavo un nodo di sentimenti intensi: di ammirazione umile e lontana, di riconoscenza, di frustrazione, di paura, perfino di astratto desiderio, ma principalmente di angoscia profonda e indeterminata. Poiché continuava a rimanere sulla panchina, quieta e ferma, senza alcun segno di impazienza, le chiesi se le occorresse qualcosa, se avesse ancora bisogno di noi: l' ambulatorio era finito, altri pazienti non c' erano, era ora di chiudere. _ No, no, _ rispose: _ non ho bisogno di niente. Adesso me ne vado. Flora! La reminiscenza nebulosa prese corpo bruscamente, si coagulò in un quadro preciso, definito, ricco di particolari di tempo e luogo, di colori, di stati d' animo retrospettivi, di atmosfera, di odori. Era Flora, quella: l' italiana delle cantine di Buna, la donna del Lager, oggetto dei sogni miei e di Alberto per più di un mese, simbolo inconsapevole della libertà perduta e non più sperata. Flora, incontrata un anno prima, e sembravano cento. Flora era una prostituta di provincia, finita in Germania con l' Organizzazione Todt. Non sapeva il tedesco e non conosceva alcun mestiere, così era stata messa a spazzare i pavimenti della fabbrica di Buna. Spazzava tutto il giorno, straccamente, senza scambiare parola con nessuno, senza sollevar gli occhi dalla ramazza e dal suo lavoro senza fine. Sembrava che nessuno si curasse di lei, e lei, quasi temesse la luce del giorno, saliva il meno possibile ai piani superiori: spazzava interminabilmente le cantine, da cima a fondo, e poi ricominciava, come una sonnambula. Era la sola donna che vedessimo da mesi, e parlava la nostra lingua, ma a noi Häftlinge era proibito rivolgerle la parola. Ad Alberto e a me sembrava bellissima, misteriosa, immateriale. Malgrado il divieto, che in qualche modo moltiplicava l' incanto dei nostri incontri aggiungendovi il sapore pungente dell' illecito, scambiammo con Flora qualche frase furtiva: ci facemmo riconoscere come italiani, e le chiedemmo del pane. Lo chiedemmo un po' a malincuore, consci di avvilire noi stessi e la qualità di quel delicato contatto umano: ma la fame, con cui è difficile transigere, ci imponeva di non sprecare l' occasione. Flora ci portò il pane, a più riprese, e ce lo consegnava con aria smarrita, negli angoli bui del sotterraneo, tirando su le lagrime dal naso. Aveva pietà di noi, e avrebbe voluto aiutarci anche in altri modi, ma non sapeva come ed aveva paura. Paura di tutto, come un animale indifeso: forse anche di noi, non direttamente, ma in quanto personaggi di quel mondo straniero e incomprensibile che l' aveva strappata dal suo paese, le aveva cacciato una scopa in mano, e l' aveva relegata sotto terra, a spazzare pavimenti già cento volte spazzati. Noi due eravamo sconvolti, riconoscenti e pieni di vergogna. Eravamo divenuti improvvisamente consapevoli del nostro aspetto miserabile, e ne soffrivamo. Alberto, che sapeva trovare le cose più strane perché girava tutto il giorno con gli occhi al suolo come un segugio, trovò chissà dove un pettine, e lo regalammo solennemente a Flora, che aveva i capelli: dopo di che ci sentimmo legati a lei da un legame soave e pulito, e la sognavamo di notte. Perciò provammo un disagio acuto, un assurdo e impotente impasto di gelosia e di disinganno, quando l' evidenza ci costrinse a sapere, ad ammettere a noi stessi, che Flora aveva convegni con altri uomini. Dove e come, e con chi? Nel luogo e nei modi meno adorni: poco lontano, sul fieno, in una conigliera clandestina, organizzata in un sottoscala da una cooperativa di Kapos tedeschi e polacchi. Bastava poco: una strizzata d' occhio, un cenno imperioso del capo, e Flora deponeva la scopa e seguiva docilmente l' uomo del momento. Ritornava sola, dopo pochi minuti; si riassettava le vesti e riprendeva a spazzare senza guardarci in viso. Dopo la squallida scoperta, il pane di Flora ci seppe di sale; ma non per questo smettemmo di accettarlo e mangiarlo. Non mi feci riconoscere da Flora, per carità verso di lei e verso me stesso. Di fronte a quei fantasmi, al me stesso di Buna, alla donna del ricordo ed alla sua reincarnazione, mi sentivo cambiato, intensamente "altro", come una farfalla davanti a un bruco. Nel limbo di Staryje Doroghi mi sentivo sporco, stracciato, stanco, greve, estenuato dall' attesa, eppure giovane e pieno di potenze e rivolto verso l' avvenire: Flora, invece, non era cambiata. Viveva ora con un ciabattino bergamasco, non coniugalmente, ma come una schiava. Lavava e cucinava per lui, e lo seguiva guardandolo con occhi umili e sottomessi; l' uomo, taurino e scimmiesco, sorvegliava ogni suo passo, e la picchiava selvaggiamente ad ogni ombra di sospetto. Di qui i lividi di cui era coperta: era venuta in infermeria di nascosto, e ora esitava a uscire incontro alla collera del suo padrone. A Staryje Doroghi nessuno esigeva nulla da noi, nulla ci sollecitava, su di noi non agiva alcuna forza, non ci dovevamo difendere da niente: ci sentivamo inerti e assestati come il sedimento di una alluvione. In questa nostra vita torpida e senza fatti, l' arrivo del camioncino del cinematografo militare sovietico segnò una data memorabile. Doveva essere una unità itinerante, già in servizio presso le truppe al fronte o in retrovia, ora essa pure sulla via del rimpatrio; comprendeva un proiettore, un gruppo elettrogeno, una scorta di pellicole, e il personale di servizio. Si fermò a Staryje Doroghi per tre giorni, e diede spettacolo ogni sera. Le proiezioni si svolgevano nella sala del teatro: era molto spaziosa, e le sedie asportate dai tedeschi erano state sostituite con rustiche panche, in equilibrio instabile sul pavimento in salita dallo schermo verso la galleria. La galleria, essa pure in pendenza, era ridotta a una stretta striscia; la parte più alta, per una levata d' ingegno dei misteriosi ed estrosi architetti della Casa Rossa, era stata tramezzata e suddivisa in una serie di camerette senz' aria né luce, le cui porte si aprivano verso il palcoscenico. Vi abitavano le donne sole della nostra colonia. La prima sera fu proiettata una vecchia pellicola austriaca, in sé mediocre, e di scarso interesse per i russi, ma ricca di emozioni per noi italiani. Era un film di guerra e di spionaggio, muto e con didascalie in tedesco; più precisamente, un episodio della prima guerra mondiale sul fronte italiano. Vi appariva lo stesso candore e lo stesso armamentario retorico degli analoghi film di produzione alleata: onore militare, sacri confini, combattenti eroici ma pronti al pianto come vergini, attacchi alla baionetta condotti con improbabile entusiasmo. Soltanto, era tutto capovolto: gli austro-ungheresi, ufficiali e soldati, erano nobili ed aitanti personaggi, valorosi e cavallereschi; visi spirituali e sensibili di guerrieri stoici, visi rudi e onesti di contadini, spiranti simpatia al primo sguardo. Gli italiani, tutti quanti, erano una caterva di volgari gaglioffi, tutti segnati da vistosi e risibili difetti corporei: strabici, obesi, colle spalle a bottiglia, colle gambe ercoline, con la fronte bassa e sfuggente. Erano vili e feroci, brutali e loschi: gli ufficiali, con facce da rammolliti viziosi, schiacciate sotto la mole incongrua del berretto a paiolo a noi familiare nei ritratti di Cadorna e di Diaz; i soldati, con grinte porcine o scimmiesche, messe in risalto dall' elmetto dei nostri padri, calcato di sghimbescio o tirato sugli occhi a nascondere sinistramente lo sguardo. Il fellone dei felloni, spia italiana a Vienna, era una stramba chimera, mezzo D' Annunzio e mezzo Vittorio Emanuele: di statura assurdamente piccola, tanto che era costretto a guardare tutti dal basso in alto, portava il monocolo e la cravatta a farfalla, e si muoveva su e giù per lo schermo con arroganti scatti da galletto. Rientrato nelle linee italiane, sovraintendeva con abominevole freddezza alla fucilazione di dieci civili tirolesi innocenti. Noi italiani, così poco avvezzi a vedere noi stessi nei panni del "nemico", odioso per definizione; così costernati dall' idea di essere odiati da chicchessia; ricavammo dalla visione della pellicola un piacere complesso, non privo di turbamento, e fonte di salutari meditazioni. Per la seconda sera, fu annunciato un film sovietico, e l' ambiente cominciò a scaldarsi: fra noi italiani, perché era il primo che vedevamo; fra i russi, perché il titolo prometteva un episodio di guerra, pieno di movimento e di sparatorie. La voce si era sparsa: inaspettatamente, arrivarono soldati russi da guarnigioni vicine e lontane, e fecero ressa davanti alle porte del teatro. Quando le porte si aprirono, irruppero dentro come un fiume in piena, scavalcando rumorosamente le panche e accalcandosi a gran gomitate e spintoni. Il film era ingenuo e lineare. Un aereo militare sovietico era costretto ad atterrare per avaria in un non precisato territorio montagnoso di frontiera; era un piccolo apparecchio biposto, con a bordo solo il pilota. Riparato il guasto, sul punto di decollare, si faceva avanti un notabile del luogo, uno sceicco inturbantato dall' aria straordinariamente sospetta, e con melliflue riverenze e genuflessioni turchesche supplicava di essere accolto a bordo. Anche un idiota avrebbe capito che quello era un pericoloso furfante, probabilmente un contrabbandiere, un capo dissidente o un agente straniero: ma tant' è, il pilota, con dissennata longanimità, aderiva alle sue prolisse preghiere, e lo accoglieva nel seggiolino posteriore dell' apparecchio. Si assisteva al decollo, e ad alcune ottime riprese dall' alto di catene montuose scintillanti di ghiacciai (penso si trattasse del Caucaso): indi lo sceicco, con segrete mosse viperine, cavava di tra le pieghe del mantello un pistolone a tamburo, lo puntava alla schiena del pilota e gli intimava di mutare rotta. Il pilota, senza neppure voltarsi indietro, reagiva con fulminea decisione: impennava l' apparecchio, ed eseguiva un brusco giro della morte. Lo sceicco si accasciava sul seggiolino, in preda alla paura e alla nausea; il pilota, invece di metterlo fuori combattimento, proseguiva tranquillamente la rotta verso la meta prefissa. Dopo pochi minuti, ed altre mirabili scene di alta montagna, il bandito si riprendeva; strisciava verso il pilota, alzava nuovamente la pistola, e ripeteva il tentativo. Questa volta l' aereo si metteva in picchiata, e precipitava per migliaia di metri a naso in giù , verso un inferno di picchi scoscesi e di abissi; lo sceicco sveniva e l' aereo riprendeva quota. Così procedeva il volo per più di un' ora, con sempre ripetute aggressioni da parte del mussulmano, e sempre nuove acrobazie da parte del pilota; finché, dopo un' ultima intimazione dello sceicco, che sembrava avere nove vite come i gatti, l' aereo entrava in vite, nuvole monti e ghiacciai gli turbinavano intorno fieramente, e scendeva infine a salvamento sul campo di atterraggio prestabilito. Lo sceicco esanime veniva ammanettato; il pilota, fresco come un fiore, invece di andare sotto inchiesta riceveva strette di mano da contegnosi superiori, la promozione sul campo, e un verecondo bacio da una ragazza che pareva lo aspettasse da tempo. I soldati russi del pubblico avevano seguito con fragorosa passione la vicenda goffa, applaudendo l' eroe e insultando il traditore; ma non fu nulla in confronto di quanto avvenne la terza sera. La terza sera fu annunciato Uragano (Hurricane), un discreto film americano degli anni trenta. Un marinaio polinesiano, moderna versione del "buon selvaggio", uomo semplice, forte e mite, viene volgarmente provocato in una taverna da un gruppo di bianchi ubriachi, e ne ferisce lievemente uno. La ragione è ovviamente dalla sua parte, ma nessuno testimonia in suo favore; viene arrestato, processato, e, con sua patetica incomprensione, condannato a un mese di reclusione. Non resiste che pochi giorni: non solo per un suo quasi animalesco bisogno di libertà e insofferenza di vincoli, ma principalmente perché sente, sa, che non lui ma i bianchi hanno violato la giustizia; se questa è la legge dei bianchi, allora la legge è ingiusta. Abbatte un guardiano ed evade fra una pioggia di pallottole. Adesso, il mite marinaio è diventato un criminale compiuto. Gli si dà la caccia in tutto l' arcipelago, ma è inutile cercarlo lontano: è ritornato tranquillamente al suo villaggio. Viene ripreso, e relegato in un' isola remota, in una casa di pena: lavoro e frustate. Fugge nuovamente, si getta a mare da un dirupo vertiginoso, ruba un canotto e veleggia per giorni verso la sua terra, senza mangiare né bere: vi approda esausto mentre sta incombendo l' uragano promesso dal titolo. Subito l' uragano si scatena furibondo, e l' uomo, da buon eroe americano, lotta da solo contro gli elementi, e salva non solo la sua donna, ma la chiesa, il pastore, e i fedeli che nella chiesa si erano illusi di trovare riparo. Così riabilitato, con la fanciulla al fianco si avvia verso un felice avvenire, sotto il sole che appare fra le ultime nubi in fuga. Questa vicenda, tipicamente individualistica, elementare, e non male raccontata, scatenò fra i russi un entusiasmo sismico. Già un' ora prima dell' inizio, una folla tumultuante (attratta dal cartellone, che riportava l' immagine della ragazza polinesiana, splendida e pochissimo vestita) premeva contro le porte; erano quasi tutti soldati molto giovani, armati. Era chiaro che nel pur grande "salone pendente" non c' era posto per tutti, nemmeno in piedi; appunto per questo essi lottavano accanitamente, a gomitate, per conquistarsi l' ingresso. Uno cadde, fu calpestato, e venne il giorno dopo in infermeria; credevamo di trovarlo fracassato, ma non aveva che qualche contusione: gente di ossa solide. In breve, le porte furono sfondate, fatte a pezzi e i rottami impugnati come clave: la folla che si pigiava in piedi all' interno del teatro era già fin dal principio altamente eccitata e bellicosa. Era per loro come se i personaggi del film, anziché ombre, fossero amici o nemici in carne ed ossa, a portata di mano. Il marinaio era acclamato ad ogni sua impresa, salutato con urrà fragorosi e con i mitra pericolosamente branditi al di sopra delle teste. I poliziotti e i carcerieri venivano insultati sanguinosamente, accolti con grida di "vattene", "a morte", "abbasso", "lascialo stare". Quando, dopo la prima evasione, il fuggiasco esausto e ferito viene nuovamente incatenato, e per di più schernito e deriso dalla maschera sardonica e asimmetrica di John Carradine, si scatenò un pandemonio. Il pubblico insorse urlando, in generosa difesa dell' innocente: una ondata di vendicatori mosse minacciosa verso lo schermo, a sua volta insultata e trattenuta da elementi meno accesi o più desiderosi di vedere come andava a finire. Volarono contro il telone sassi, zolle di terra, schegge delle porte demolite, perfino uno scarpone d' ordinanza, scagliato con furiosa precisione fra i due occhi odiosi del gran nemico, campeggiante in un enorme primo piano. Quando si giunse alla lunga e vigorosa sequenza dell' uragano, il tumulto volse al sabba. Si udirono strida acute delle poche donne rimaste intrappolate fra la ressa; fece la sua comparsa un palo, poi un altro, passati di mano in mano al di sopra delle teste, fra clamori assordanti. In principio non si comprese a cosa dovessero servire, poi il piano fu chiaro: un piano probabilmente premeditato fra gli esclusi che tumultuavano all' esterno. Si tentava la scalata al loggione-gineceo. I pali furono drizzati e appoggiati alla balconata, e vari energumeni, toltisi gli stivali, cominciarono ad arrampicarsi come si fa alle fiere di villaggio sugli alberi di cuccagna. A partire da questo momento, lo spettacolo della scalata tolse ogni interesse all' altro che proseguiva sullo schermo. Non appena uno dei pretendenti riusciva a salire al di sopra della marea di teste, veniva tirato per i piedi e ricondotto a terra da dieci o venti mani. Si formarono gruppi di sostenitori e avversari: un audace poté svincolarsi dalla folla e salire a grandi bracciate, un altro lo seguì lungo lo stesso palo. Quasi a livello della balconata lottarono fra loro per alcuni minuti, quello di sotto afferrando i calcagni dell' altro, questo difendendosi con pedate sferrate alla cieca. In pari tempo, si videro affacciate alla balconata le teste di un drappello di italiani, saliti a precipizio per le scale tortuose della Casa Rossa a proteggere le donne assediate; il palo, respinto dai difensori, oscillò, rimase librato per un lungo istante in posizione verticale, poi rovinò fra la folla come un pino abbattuto dai boscaioli, coi due uomini abbarbicati. A questo punto, non saprei dire se per caso o se per un savio intervento dall' alto, la lampada del proiettore si spense, tutto piombò nell' oscurità, il clamore della platea toccò una intensità paurosa, e tutti sfollarono all' aperto, al chiaro di luna, fra urla, bestemmie ed acclamazioni. Con rimpianto di tutti, la carovana del cinema partì il mattino seguente. La sera successiva si verificò un rinnovato e temerario tentativo russo di invasione dei quartieri femminili, questa volta attraverso i tetti e le grondaie; in seguito al quale, venne istituito un servizio di sorveglianza notturna, a cura di volontari italiani. Inoltre, per maggior cautela, le donne della galleria sloggiarono, e si ricongiunsero col grosso della popolazione femminile, in una camerata collettiva: sistemazione meno intima ma più sicura.

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L'altrui mestiere

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Levi, Primo 1 occorrenze

La lega col portentoso filo dai mille usi, e la tiene in prigionia, nutrendola avaramente (perché non si rinforzi troppo) e difendendola contro gli eventuali aggressori, finché è sessualmente matura: allora la feconda e l' abbandona. Quando ha raggiunto il pieno delle forze, la femmina non ha difficoltà a sciogliersi dai legami. Siamo all' incerto confine fra la cronaca nera e l' opera buffa. È difficile sottrarsi al ricordo del rapporto ambiguo e stereotipo fra tutore e pupilla, fra l' intrigante e carcerario Don Bartolo, gonfio delle sue tardive libidini, e la Rosina tenerella, chiusa fra quattro mura ma futura "vipera": "tutti e due son da legar". Molti animali, dalle strutture più diverse, ostentano colori vivaci e hanno carni di sapore disgustoso, oppure sono velenosi: ad esempio i pesci dorati e le coccinelle, o rispettivamente le vespe e certi serpenti. I colori vistosi servono come segnale e avviso, affinché i predatori li riconoscano da lontano e, ammaestrati da precedenti esperienze, si astengano dall' assalirli. Esiste un parallelo comportamento umano? In generale, l' uomo nocivo tende piuttosto a confondersi entro la maggioranza, per sottrarsi all' identificazione; ma non fa così quando è o si sente superiore alla legge. Bisognerebbe pensare un po' meglio all' apparenza dei bravi, quali li descrive il Manzoni; all' uso (generale fino al 1900) di divise militari dai colori aggressivi; e a certi modi caratteristici di vestire e di esprimersi che rendono facile l' identificazione degli appartenenti a determinati strati della malavita (l' "apache", il mafioso). Anche a parte questi esempi, mi piacerebbe inventare e descrivere un personaggio-coccinella, riconoscibile forse in certe pagine di Gogol' : ipocondriaco, malcontento di sé, del suo prossimo e del mondo, increscioso e lamentoso, che inalbera una livrea riconoscibile da lontano (o un intercalare, o un difetto di pronuncia) affinché il suo prossimo, che egli detesta, si accorga in tempo della sua presenza e non gli venga fra i piedi.

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Lilit

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Levi, Primo 1 occorrenze

Dio ha donato all' uomo denti più corruttibili di ogni sua altra parte affinché egli non dimentichi di essere polvere, ed affinché prosperi la nostra corporazione: vedi dunque che il cavadenti che abbandona il suo ufficio è in abominio a Dio, in quanto si spoglia di un privilegio da Lui donato. I denti sono fatti d' osso, di carne e di nervo; essi si distinguono in molari, incisivi e canini; un nervo congiunge i denti canini agli occhi; nei molari più riposti, che sono i denti del giudizio, spesso si annida un vermiciattolo. Queste ed altre qualità dei denti le potrai trovare descritte sui libri profani, e non occorre che io vi insista qui. Della musica. Che Orfeo con la sua lira ammansisse le fiere e i demoni dell' abisso, e placasse le onde del mare in tempesta, ti sarà stato insegnato dai tuoi maestri. La musica è necessaria all' esercizio del nostro ufficio: un buon cavadenti si deve portare dietro almeno due trombettieri e due tamburini, o meglio due suonatori di grancassa, ed è bene che tutti costoro vestano splendide livree. Tanto più vigorosa e piena si spande la fanfara sulla piazza ove tu opererai, tanto più tu verrai rispettato, e di altrettanto si attenuerà il dolore del tuo paziente. Lo avrai notato tu stesso, assistendo bambino al mio lavoro quotidiano: le grida del paziente non si sentono più, il pubblico ti ammira con reverenza, ed i clienti che aspettano la loro volta si spogliano dei loro segreti timori. Un cavadenti che lavori senza fanfara è indecoroso e vulnerabile come un corpo umano ignudo. Ora ascolta quanto ti annuncio nella mia preveggenza di morente: verrà un giorno in cui questa mirabile virtù della musica sarà riscoperta dal ceto sciocco e superbo dei medici, ed essi sillogizzeranno sottili argomenti per spiegarne la ragion fisicale. Guardati dai medici: nella loro alterigia essi disdegnano i frutti della nostra esperienza, e si arroccano come in una fortezza per entro gli sterili dettati del loro Aristotele. Fuggili, così come essi fuggono noi. Degli errori. Non dimenticare, figlio, che errare è umano, ma ammettere il proprio errore è diabolico; ricorda, d' altra parte, che il nostro mestiere, per sua intrinseca natura, è propenso agli errori. Cercherai dunque di evitarli, ma in nessun caso confesserai di avere estratto un dente sano; anzi, trarrai profitto dal frastuono dell' orchestra, dallo stordimento del paziente, dallo stesso suo dolore, dalle sue grida e dal suo agitarsi convulso, per estrarre subito dopo il dente malato. Ricorda che un colpo rapido e franco sull' occipite acquieta il paziente più riottoso senza soffocarne gli spiriti vitali e senza essere percepito dal pubblico. Ricorda altresì che, per queste necessità o per altre simili, un buon cavadenti ha cura di avere il carro sempre pronto, non discosto dal palco, e con i cavalli attaccati. Del dolore. Dio ti guardi dal diventare insensibile al dolore. Solo i pessimi fra noi si induriscono al punto di ridere dei loro pazienti quando soffrono sotto la nostra mano. L' esperienza insegnerà anche a te che il dolore, anche se forse non è l' unico dato dei sensi di cui sia lecito dubitare, è certo il meno dubbio. È probabile che quel sapiente francese di cui mi sfugge il nome, e che affermava di essere certo di esistere in quanto era sicuro di pensare, non abbia sofferto molto in vita sua, poiché altrimenti avrebbe costruito il suo edificio di certezze su una base diversa. Infatti, spesso chi pensa non è sicuro di pensare, il suo pensiero ondeggia fra l' accorgersi e il sognare, gli sfugge di tra le mani, rifiuta di lasciarsi afferrare e configgere sulla carta in forma di parole. Ma invece chi soffre sì, chi soffre non ha dubbi mai, chi soffre è ahimè sicuro sempre, sicuro di soffrire ed ergo di esistere. È mio augurio che tu divenga un maestro nell' arte nostra, e che tu non abbia mai ad esserne l' oggetto passivo; ma se mai questo ti dovesse accadere, come a me è accaduto, il dolore della tua carne ti fornirà la brutale certezza di essere vivo, senza che tu debba attingerla alle sorgenti della filosofia. Abbi dunque in istima quest' arte: essa farà di te un ministro del dolore, ti farà arbitro di porre termine ad un lungo dolore passato per mezzo di un breve dolore presente, e di prevenire un lungo dolore di domani grazie alla trafittura spietata inferta oggi. I nostri avversari ci scherniscono dicendo che noi siamo buoni a trasformare il dolore in denaro: stolti! È questo il miglior elogio del nostro magistero. Del discorso suadente. Il discorso suadente, detto anche imbonimento, conduce alla decisione i clienti che esitano fra il dolore attuale ed il timore delle tenaglie. È di somma importanza: anche il più inetto fra i cavadenti si industria bene o male a cavare un dente; l' eccellenza nell' arte si manifesta piena invece nel discorso suadente. Esso va profferito con voce alta e ferma e con viso lieto e sereno, come di chi è sicuro, e spande sicurezza intorno a sé; ma, al di fuori di questa, non si dànno altre regole certe. A seconda degli umori che fiuterai fra gli astanti, potrà esso essere giocoso o austero, nobile o scurrile, prolisso o conciso, sottile o crasso. È bene in ogni caso che esso sia oscuro, perché l' uomo teme la chiarezza, memore forse della dolce oscurità del grembo e del letto in cui è stato concepito. Ricorda che i tuoi ascoltatori, quanto meno ti capiranno, tanto maggior fiducia avranno nella tua sapienza e tanta più musica sentiranno nelle tue parole: così è fatto il volgo, e al mondo non è se non volgo. Perciò intesserai nel tuo sermone voci di Francia e di Spagna, tedesche e turchesche, latine e greche, non importa se proprie ed attinenti; se pronte non ne avrai, abituati a coniarne sul momento di nuove, mai prima udite; e non temere che te ne venga sollecitata una spiegazione, perché ciò non avviene mai, non troverà il coraggio di interrogarti neppure quello che salirà il tuo palco con piede sicuro per farsi cavare un molare. E mai, nel tuo discorso, chiamerai le cose col loro nome. Non denti dirai, ma protuberanze mandibolari, o qual altra stranezza ti venga in capo; non dolore, ma parossismo od eretismo. Non chiamerai soldi i soldi, e ancor meno chiamerai tenaglie le tenaglie, anzi non le nominerai affatto, neppure per allusione, ed al pubblico e massimamente al paziente non le lascerai vedere, tenendole nascoste nella manica fino all' ultimo istante. Del mentire. Da quanto hai letto or ora, potrai dedurre che la menzogna è peccato per gli altri, per noi è virtù. Il mendacio è tutt' uno col nostro mestiere: a noi conviene mentire con la favella, con gli occhi, col sorriso, con l' abito. Non solamente per illudere i pazienti; tu lo sai, noi miriamo più in alto, e la menzogna è la nostra vera forza, non quella dei nostri polsi. Con la menzogna, pazientemente appresa e piamente esercitata, se Dio ci assiste arriveremo a reggere questo paese, e forse il mondo: ma questo avverrà solo se avremo saputo mentire meglio e più a lungo dei nostri avversari. Tu forse la vedrai, non io: sarà una nuova età dell' oro, in cui noi soltanto in necessità estreme ci indurremo ancora a cavar denti, mentre per il governo dello Stato e per l' amministrazione della cosa pubblica ci basterà con larghezza la menzogna pia, da noi condotta a perfezione. Se ci dimostreremo capaci di questo, l' impero dei cavadenti si estenderà dall' oriente all' occidente fino alle isole più remote, e non avrà mai fine.

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Vita letteraria

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Sacchetti, Roberto 1 occorrenze

I PESCATORI DI BALENE

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

Il vecchio Widdeak non abbandona il "Danebrog". - Allora ubbidisci. Alle manovre, ragazzi! Domani avremo tanto grasso da affondare il "Danebrog" fino al bastingaggio. Un istante dopo il "Danebrog" virava di bordo mettendo la prua verso la direzione indicata. I marinai, quantunque avessero pur essi compreso che stavano per giuocare una carta pericolosa, che poteva anche costare loro la vita, si erano subito messi alacremente al lavoro, incoraggiati dai due fiocineri. Tutti ci tenevano assai alla scommessa, gelosi dell'onore dei balenieri danesi; per di più, in quel branco di balene, intravvedevano dei grossi guadagni. Le baleniere furono in brevissimo tempo armate e sospese alle gru pronte ad essere calate in mare al comando del capitano. I remi, le fiocine, le lancie, le lenze, furono ben disposte nelle imbarcazioni. In capo ad un'ora il "Danebrog" era lontano otto miglia dalla costa americana e solamente sette dalle balene che filavano superbamente verso nord fra una doppia fila di banchi di ghiaccio. Quale spettacolo offrivano quei giganti dell'oceano artico! Erano nove, seguiti da due o tre balenottere e anche queste di dimensioni non comuni. Avanzavano lentamente, gettando in aria, dai loro sfiatatoi, colonne di bianco vapore che tosto si scioglievano. Il sole, battendo sulla loro pelle oleosa, li faceva sembrare immensi cilindri d'acciaio. Ogni qual tratto uno di essi si tuffava formando alla superficie del mare un vero vortice e poco dopo riappariva a grande distanza sollevando colla possente coda grandi ondate, che facevano oscillare vivamente i ghiacci galleggianti. I marinai del "Danebrog", entusiasmati a quella vista, non stavano più fermi, quantunque il comandante avesse raccomandato a tutti calma e silenzio. Salivano sulle griselle, sulle coffe e più su, fino alle crocette, per meglio vederli e mandavano grida di gioia. Koninson, col suo terribile rampone in pugno correva da prua a poppa animando tutti, seguito da Harwey che era pure desideroso di venire a una lotta con quei mostri, malgrado il loro numero che poteva riuscire fatale all'equipaggio del "Danebrog". Persino mastro Widdeak aveva dimenticato l'altro pericolo che minacciava la nave baleniera e nei suoi occhi brillava un'ardente bramosia. Il solo tenente, calmo sempre, seguiva con sguardo perfettamente tranquillo lo sfilare di quel branco. Già il "Danebrog", spinto da un freschissimo vento di sud-sud-ovest non distava che cinque o sei nodi dalle balene, quando queste ad un tratto, e tutte insieme, si tuffarono. Quando tornarono a galla diedero segni di una viva inquietudine. Si volgevano spesso verso sud, battevano la coda precipitosamente, si drizzavano slanciandosi più che mezze fuori dell'acqua e gettavano con maggior frequenza colonne di vapore. - Cosa succede laggiù? - si chiese il capitano aggrottando la fronte. - Che abbiano paura di noi? - Non lo credo! - disse il tenente che gli stava appresso. - Scommetterei che sono state assalite. - Assalite! E da chi? - Voi sapete, capitano, che hanno numerosi nemici. Ah! Guardate là, verso est, quei corpi nerastri che si avanzano rapidamente. - Sì, sì, li scorgo. In quell'istante si udì Koninson, che si era arrampicato sulla coffa di trinchetto, gridare: - Abbiamo una truppa di delfini gladiatori! Quasi nello stesso tempo le balene si davano a precipitosa fuga verso nord. Avevano scorto i delfini, che sono loro acerrimi nemici. Il capitano fece un gesto di rabbia. - Dannazione! - gridò. - Chissà quanto dovremo filare! - Ma guadagneremo qualche balena senza adoperare il rampone! - disse Koninson che aveva lasciato la coffa. - I delfini raggiungeranno senza dubbio le balene e qualcuna, nella lotta, ci lascerà la vita. - Ma saremo costretti a salire ancora verso nord, e la stagione invernale si avanza a rapidi passi. - Bah! Poi ci trarremo d'impaccio come potremo. Ah! Se potessi affrontare quel branco! Che colpi di rampone! Le balene intanto, che temono assai i delfini gladiatori per la loro forza, per i loro aguzzi denti e per la loro ferocia, fuggivano sempre più rapidamente dirigendosi verso le rigidissime regioni del polo. Attorno ad esse il mare, percorso da quelle dodici code, pareva in burrasca. A destra e a sinistra correvano grandi ondate le quali facevano capovolgere con grande fracasso i numerosi ghiacci galleggianti. Di tratto in tratto si tuffavano come se temessero di venire assalite per di sotto, indi riapparivano cacciando con grande furia nubi di vapore ed emettendo delle note acute che si udivano distintamente dall'equipaggio del "Danebrog". Ben presto però, grazie alla loro prodigiosa andatura, scomparvero dietro ghiacci che coprivano l'orizzonte. I delfini gladiatori, che dovevano essere almeno due dozzine, le seguirono nuotando pur essi con grande velocità. Il "Danebrog" però non si arrestò. Il capitano Weimar, e come lui quasi tutto l'equipaggio, avevano giurato di raggiungerle e, ancorchè i pericoli diventassero sempre più numerosi essendo il mare coperto ovunque di ghiacci d'ogni dimensione, ordinò al timoniere di seguire le grandi macchie oleose lasciate dalle balene. Favorito dal vento, che tendeva sempre a crescere, il "Danebrog" navigò tutta la notte verso nord, notte per modo di dire, poichè il sole non rimaneva nascosto che poche ore, ed anche in quelle poche ore all'orizzonte rimaneva tanta luce da distinguere le traccie oleose. Il mattino del 25 settembre, la nave si trovava già a un centinaio di miglia dalla costa americana, ma le balene, senza dubbio vigorosamente inseguite dai loro accaniti nemici, non erano state ancora scoperte. La sera dello stesso giorno però, presso uno "stream", fu raccolto un delfino gladiatore colla testa sfracellata, probabilmente da un colpo di coda di qualche balena. Il mostro era lungo sette metri e gli uccelli marini gli avevano già lacerato la pelle del dorso. Fu issato a bordo, fatto a pezzi e il grasso rinchiuso nelle botti. Il 26 l'equipaggio del "Danebrog" notò che i ghiacci diventavano più numerosi e che il termometro scendeva abbastanza rapidamente, quantunque il sole brillasse sempre sull'orizzonte. La nave però continuò a spingersi verso nord. Ormai nessuno, eccettuato il tenente Hostrup che prevedeva il pericolo cui andavano incontro, voleva rinunciare alla caccia delle balene che doveva assicurare ai Danesi la vittoria. Il 27, verso sera, a quattrocento miglia dalla costa americana, fu veduta verso nord una luce bianca, abbagliante. Era il "blink" che segnava la presenza di uno o forse di più banchi di ghiaccio. Ma le macchie oleose si dirigevano pure verso nord e quantunque anche nell'animo del capitano si fosse fatta strada una certa inquietudine, il "Danebrog" non cambiò rotta. All'indomani, verso le 9 antimeridiane, il gran banco fu raggiunto. Presentava una fronte di dodici o tredici miglia, irta qua e là di punte aguzze, di bizzarre colonne, di strane cupole. Nel mezzo di esse si apriva un canale largo un trecento o più metri che si smarriva verso nord. - È un banco solo o sono due divisi dal canale? - si domandò il capitano. - Sono due senza dubbio - disse Koninson che l'aveva udito. - E le macchie oleose continuano nel canale. - E cosa vuoi concludere, fiociniere? - Che le balene si sono cacciate là dentro sperando di uscire dall'altro lato. - Hai ragione, Koninson. Ehi, Widdeak, governa dritto al canale! Il "Danebrog", che avanzava con una velocità di otto nodi all'ora a vento in poppa, dopo aver descritto una curva attorno ad un "iceberg" immenso, alla cui estremità si innalzava una specie di torre di dimensioni pure colossali, entrò nel canale frangendo col suo solido sperone una moltitudine di ghiacciuoli che altro non aspettavano se non un pò più di freddo per unire i due grandi banchi. Le macchie oleose vi erano ancora e in grande numero e spiccavano vivamente su quelle acque che la candidezza dei ghiacci e il "blink" rendevano oscure assai. Numerosi uccelli marini, strolaghe, urie, gazze marine e oche, occupavano le due sponde intenti a pescare ed a spennacchiarsi. Il "Danebrog" guidato dall'esperta mano del vecchio Widdeak si avanzò nel canale evitando i non piccoli "streams" e "hummoks" che, di quando in quando, sotto i tepidi raggi del sole, si staccavano dai campi di ghiaccio. I marinai, certi ormai di tenere le balene, si erano arrampicati sulle griselle, sulle coffe, sui pennoni e sulle crocette, ansiosi tutti di scoprirle. Ma la giornata intera passò senza che apparissero. Verso le 8 di sera, il fiociniere Harwey dalla crocetta del trinchetto, gridò: - Capitano! Il canale è chiuso! Weimar salì sull'alberatura seguito dal tenente e da Koninson. Appena volse gli sguardi verso nord, un'imprecazione uscì dalle sue labbra. Quattro miglia più innanzi il canale era chiuso da un terzo campo di ghiaccio più grande, a quanto pareva, degli altri due. Delle balene nessuna traccia, eccettuate le macchie oleose che pareva si spingessero fino all'estremità di quel braccio di mare. - Bisogna tornare indietro - disse il tenente. - Ma le balene dove sono fuggite? - chiese il capitano con i denti stretti. - Probabilmente sono uscite prima dell'arrivo del banco. - Se pure non sono uscite nuotando sotto i banchi - aggiunse Koninson. - Che fare ora? - chiese il capitano. - Capitano, - disse il tenente - badate a me, lasciate andare le balene e ritorniamo subito. - E la scommessa? - Ci prenderemo la rivincita l'anno venturo. Il capitano, sceso in coperta diede l'ordine di tornare indietro. Il "Danebrog" virò prontamente di bordo e si diresse verso sud correndo bordate, essendo il vento proprio diritto in prua. Ma quando, dopo una lunga notte, giunse all'imboccatura del canale, questa era già stata chiusa. L'"iceberg", visto al mattino, spinto dal vento del sud si era incastrato solidamente fra i due banchi presentando alla nave baleniera la sua imponente torre!

. - Bisogna proprio dire che la Provvidenza non ci abbandona. - Speriamo che ci conduca a salvamento, signor Hostrup. - Ne sono certo. - Ed ora cosa facciamo? - Usciremo di qui e prenderemo la via del sud. Vedo che la pianura è perfettamente liscia e sento un buon vento venire dalle montagne. Spiegheremo la vela. Rimisero sulla slitta tutte le casse e i barili; indi, dato mano alle scuri, si scavarono una via attraverso i rottami del ghiaccione, girando attorno alla gran rupe che aveva causato l'urto. Dopo un'ora uscivano finalmente nella pianura che pareva si prestasse assai ad un rapido viaggio, essendo coperta di un solido strato di neve, liscio come la superficie d'un lago tranquillo. La vela fu subito issata, il timone messo a posto e i due balenieri "s'imbarcarono", come diceva Koninson, dirigendosi verso sud con una rapidità superiore ai quindici nodi all'ora. A mezzogiorno, dopo un viaggio che non poteva essere nè migliore nè più tranquillo, e dopo aver percorso un tratto di circa centoventi chilometri, fecero una fermata presso un gruppo di alti pioppi, le cui cime s'incurvavano graziosamente. Koninson, felice di aver trovato finalmente della legna, a colpi di scure fece cadere il più piccolo ed accese un fuoco capace di arrostire un bue intero. - Ah, se ci fosse un bel pezzo di carne fresca, quale festa! - esclamò egli levando un pò di "pemmican" ed alcuni biscotti da una cassa. - Ne avremo, Koninson. - Quando? - Appena saremo giunti al Porcupine. Là i pesci abbondano e le trote vi sono grossissime. - Allora ... . ah! - Cos'hai? - Non avete udito un gemito, voi? - Un gemito? Diventi pazzo, ragazzo mio? - Con questo freddo? Udite! Udite! Il tenente, con sua grande meraviglia, questa volta udì un gemito che pareva emesso da gola umana, ed a brevissima distanza. - Che vi sia qualche eschimese ferito? - chiese Koninson. - Ma dove? - In mezzo agli alberi. - No, io credo invece che stia per venire l'arrosto che tu desideri. Guarda lassù, su quel grande pioppo. Koninson guardò nella direzione indicata e vide svolazzare un grande uccello le cui ali superavano, prese insieme, un metro e mezzo di estensione. - Un'aquila? - esclamò. - Ma che aquila! È una stupenda "nyceta nivea". - E credete che sia stato quell'uccello a mandare quei gemiti umani? - Proprio lui. - Si mangia? - È carne non disprezzabile. Koninson balzò sul fucile e lo puntò, ma il tenente gli abbassò l'arma. - Non aver fretta! - gli disse. - Vedrai che si avvicinerà a noi. - Ma come mai quell'uccello, che somiglia ad un gufo, si trova qui, in questa regione così fredda? - Le "nycete" frequentano i luoghi caldi e i freddi. S'incontrano presso le rive dell'oceano artico e anche sulle rive del golfo del Messico. - E di che cosa vivono, in questi deserti di neve? - Di uccelli finchè ce ne sono e, quando questi sono emigrati, danno la caccia ai piccoli animali. Si nascondono sovente nelle vicinanze delle tane delle lepri, degli ermellini e persino delle volpi e, quando le vittime escono, piombano loro addosso con rapidità fulminea, dilaniandole a colpi di becco e d'artiglio. - Sono uccelli coraggiosi. - Sì, e tanto da affrontare i cani e qualche volta da avventarsi contro i cacciatori. - Signor tenente, vedo che l'uccello non viene da noi; andiamo noi da lui. - Andiamo, Koninson. Raccolsero i fucili e si diressero verso il pioppo sulla cui cima la "nyceta" continuava a svolazzare gettando di quando in quando un forte "rik-rik" che poteva, fino ad un certo punto, sembrare un gemito umano. Quando giunsero a breve distanza, l'uccello si abbassò, poi partì con grande rapidità producendo, colle larghe ali, un forte rumore e si precipitò al suolo come se fosse stato ucciso o ferito. - Olà! - esclamò Koninson. - Cosa vuol dire ciò? Si precipitò verso la "nyceta" che sembrava morta, ma quando le fu vicino, essa si alzò nuovamente, spiccò un'altra volata e ricadde trecento metri più innanzi. - Che sia ferita? - chiese il fiociniere, la cui sorpresa cresceva. - No! - disse il tenente - Noi abbiamo da fare con una femmina, la quale ricorre a questa astuzia per allontanarci dal suo nido, - Allora mangeremo anche delle uova. Che pasto, signor Hostrup Questa volta non si lasciò più ingannare dal povero uccello. Appena fu per riprendere il volo, il fiociniere puntò il fucile e, con una palla ben aggiustata, lo fece cadere, ma per sempre. - Il bell'arrosto! - esclamò. Ed infatti era un bell'arrosto. Quell'uccello, dalle penne bianche solcate da un certo numero di macchie brune trasversali e longitudinali, dal becco robusto e ricurvo, era lungo quasi due piedi e non pesava meno di dieci chilogrammi. Era il vitto assicurato per un paio di giorni, per i poveri naufraghi; ma Koninson chiedeva qualche cosa di più. Impadronitosi dell'uccello, si affrettò a raggiungere la macchia di pioppi e, dopo aver cercato qua e là, scoprì il nido, una specie di cavo tappezzato di pochi fili d'erba acquatica e di penne candide e lunghe che la femmina si era coraggiosamente strappate dal petto, e contenente otto grosse uova. - Che giornata fortunata! - esclamò allegramente il bravo fiociniere. - Presto, signor Hostrup, ritorniamo presso il fuoco e mettiamoci al lavoro. Le mie mandibole sono impazienti. Due ore dopo, seduti dinanzi al fuoco, divoravano ferocemente più di mezzo uccello, dopo aver trangugiato le uova a mò d'antipasto. Il tenente, per compiere l'opera, diede la stura ad una bottiglia di "gin", l'ultima che ancora possedevano e che avevano religiosamente conservata per le grandi occasioni. Verso le 4 pomeridiane, approfittando d'un fresco vento che veniva da nord-nord- ovest, spiegavano la vela e riprendevano la corsa verso sud, ma non rapidamente come il mattino a causa della neve che, essendosi in parte sciolta sotto i raggi solari, opponeva una certa resistenza ai pattini della slitta. Parecchie volte dovettero discendere e trascinare il veicolo per qualche tratto onde sorpassare certi strati di neve eccessivamente molle, anzi quasi disciolta. Nondimeno verso le 9 della sera avevano percorso altri quaranta o cinquanta chilometri. Il tenente stava per ammainare la vela volendo accamparsi, quando Koninson gli additò una costruzione piantata sulle rive di un laghetto ancora gelato. - Forse ci sono degli abitanti là sotto! - disse il fiociniere. - Non mi rincrescerebbe di vedere un volto umano per quanto possa essere brutto. - Ho poca speranza - rispose il tenente, - Tuttavia dirigiamoci laggiù. La slitta riprese la corsa e dopo venti minuti si arrestava presso l'abitazione segnalata. I due balenieri balzarono a terra, si armarono dei fucili per precauzione, e si diressero a quella volta. Era una capanna semplicissima, formata da sette od otto pali sostenenti un tetto di ramoscelli e di pezzi di corteccia, assicurata con strisce di pelle. La neve, accumulandosi sopra, l'aveva in parte sfondata, ma poteva ancora servire di ricovero. - È un'abitazione estiva dei . - Abbandonata da molto tempo senza dubbio - osservò Koninson. - Dall'anno scorso, molto probabilmente. - Tò! Cosa sono quegli oggetti ammonticchiati in quell'angolo? - Ossa di animali. - Forse che i Co-yuconi le raccolgono per venderle? - No, Koninson, - disse il tenente ridendo. - Li ammucchiano nelle loro capanne perchè credono che, gettandoli via, debbano succedere delle disgrazie; che le caccie diventino infruttifere; che le trappole lascino scappare la selvaggina; che il freddo distrugga gli animali; ecc. Anche quando si tagliano le unghie, i capelli e la barba, raccolgono il tutto entro sacchetti di pelle che sospendono agli alberi del loro territorio, e ciò per lo stesso motivo. - Strane superstizioni, signor Hostrup. Ma guardate laggiù, presso la riva del laghetto, non vedete qualche cosa? - Sì, dei pali piantati sul ghiaccio o meglio nell'acqua - disse il tenente. - Che cosa saranno? - Mio caro Koninson, credo che faremo bene a recarci laggiù. - Che sperate di trovare? - So che gli abitanti di queste regioni prima che l'inverno cominci, piantano nei fiumi e nei laghi dei pali a cui sospendono delle trappole per i pesci. - Che ci sia sotto qualche rete? - Se non sarà una rete, troveremo qualche cosa di simile. Andiamo, Koninson. Lasciarono la piccola capanna e si diressero verso il laghetto. Il tenente non si era ingannato, poichè attraverso il ghiaccio distinsero una forma nerastra stretta fra due pali e che pareva un gran paniere. Con pochi colpi di scure spezzarono il ghiaccio e sotto vi scorsero una specie di imbuto di vimini terminante in un recipiente pure di vimini, dentro il quale nuotavano parecchi grossi pesci. Koninson cacciò dentro le mani, e in pochi minuti ritirò due trote, tre lucci, due bei pesci che il tenente riconobbe per "gadus lota", ed infine un pesce molto grosso, tutto nero, che gli indigeni chiamano "nalina", ma, la cui carne di qualità mediocre serve per lo più a nutrire i cani delle slitte. - Abbiamo dei viveri per quattro o cinque giorni! - disse il fiociniere tutto contento. - Ringrazio di cuore quel co-yucone che ha avuto la buona idea di collocare qui l'imbuto. Se lo troverò, gli regalerò uno dei nostri coltelli. Fecero ritorno alla capanna sotto cui allegramente pranzarono colle due trote; indi, dopo poche chiacchiere, si avvolsero nelle loro coperte, sicuri di non venire disturbati da nessuno. Alle 4 del mattino, approfittando del freddo della notte che aveva indurito lo strato di neve, tornarono a spiegare la vela e ripresero la corsa con una celerità di dieci o dodici chilometri all'ora. Verso le 7 del mattino Koninson segnalò verso sud un bosco che pareva prolungarsi indefinitamente verso est e verso ovest, formato da pioppi e da abeti neri. - Dobbiamo essere vicini al Porcupine! - disse il tenente. - Apri bene gli occhi, fiociniere. Manovrò in modo da entrare sotto il bosco senza urtare contro gli alberi, e lasciò che la slitta continuasse a scivolare verso il sud. Mezz'ora dopo Koninson con un rapido movimento faceva cadere la vela. Era tempo; duecento passi più innanzi, fra due rive coperte di salici, si estendeva un largo fiume che doveva essere il Porcupine. XXIII L'ORSO BIANCO §Il Porcupine, chiamato anche Ratto, è un bel corso d'acqua comunicante col fiume Makenzie, che scorre da ovest ad est, quasi parallelamente alla costa, da cui però dista oltre duecento miglia. Nella stagione estiva molti canotti lo percorrono mettendo in comunicazione il forte Yucon colla stazione di La Pierre e coi forti che si trovano sulle rive del Makenzie; ma, quando comincia a gelare, la navigazione viene interamente sospesa e le tribù indiane che popolano le rive e che si chiamano "figlie del Ratto", si ritirano o verso sud o verso nord, dedicandosi alla caccia che talvolta è più produttiva della pesca. Quando il tenente e Koninson, lasciata la slitta, discesero la sponda, non scorsero anima viva, nè alcuna abitazione. Il fiume, completamente gelato, non aveva attirato ancora alcuno di quei valenti canottieri e pescatori che s'incontrano così spesso nella buona stagione. Però, percorrendo la riva per qualche tratto, trovarono qua e là numerose traccie del soggiorno degli indiani. Infatti ai piedi d'una roccia rinvennero delle vecchie reti state abbandonate perchè inservibili; più oltre una capanna semi-arsa, un remo ancora piantato nel ghiaccio e finalmente anche un canotto lungo otto piedi, costruito con lunghe liste di corteccia di betulla cucite insieme con sottili radici d'abete e calafatato di resina. Un fianco, però, era stato sfondato, forse dall'urto dei ghiacci, sicchè non poteva più servire. - Diamine, mi pare che questi signori indiani si facciano molto desiderare! - disse Koninson. - Molte traccie abbiamo trovato, ma non un volto umano abbiamo veduto dalle rive dell'Oceano a questo fiume. - Eppure parecchie tribù vivono in questa desolata regione - rispose il tenente. - Ma dove sono? - Non lo so, ma vi sono e qualcuno ne incontreremo. - E verremo bene accolti? - Non ho mai udito dire che gli indiani di queste terre siano cattivi. - Però so che parecchie volte hanno dato addosso ai bianchi. - È vero, Koninson, ma per difendere la loro indipendenza. Aggiungerò anzi, che hanno dimostrato di essere assai coraggiosi e di non aver paura dei forti meglio armati. - Quale tribù sperate d'incontrare? - Quella che si chiama "figlia del Ratto", che vive sulle sponde di questo fiume. È possibile, però, che in sua vece ne incontriamo qualche altra, poichè nessuna ha dimora stabile e tutte vanno qua e là cercando i territori che offrono maggiore selvaggina. - E come si chiamano questi altri indiani? - Vi sono i Co-yuconi, i più numerosi dell'Alaska e che abitano le rive del fiume Yukon; i Koctck-a-Kutkin o indiani delle bassure; gli An-Kutkin e i Tatanckok-Kutkin appartenenti alla famiglia dei Malemuti, che abitano il basso corso dell'Yukon, e i Tanana, che hanno il loro centro al confluente dell'Yukon col fiume Tanana, dove si erge un grosso villaggio chiamato . Altre tribù minori occupano il territorio che si estende fra i fiumi suddetti e il Makenzie, appartenenti quasi tutte alla gran tribù dei "figli del Ratto". - Ed ora che noi siamo qui giunti, dove ci dirigeremo, signor Hostrup? Verso ovest o verso est? - Sarei dell'opinione di seguire il Porcupine fino al Makenzie e di raggiungere il forte Speranza. - Allora andiamo al forte Speranza. - Ti avverto che la via sarà lunga. - Non mi spavento, signor Hostrup. - Oggi accamperemo qui e cercheremo di rinnovare le nostre provviste. Io spezzerò il ghiaccio e mi metterò a pescare; tu batterai i boschi. - Non chiedo di meglio. Tornarono alla slitta, mangiarono un boccone e si separarono: Koninson si cacciò sotto il bosco col fucile e il tenente discese la riva armato di scure per aprire un buco nel ghiaccio. Il fiociniere per qualche tratto costeggiò il Porcupine colla speranza di abbattere qualche capo di selvaggina acquatica, avendo notato qua e là delle traccie di lontre ma nulla scorgendo, si addentrò nel bosco camminando con prudenza e cercando di non far scricchiolare la neve. In lontananza si udivano le lugubri urla di una muta di lupi, forse occupata a cacciare qualche grosso capo di selvaggina, qualche alce senza dubbio, sicchè si diresse da quella parte, niente affatto atterrito dai denti di quei feroci ma non coraggiosi carnivori. Dopo aver superato una piccola altura sulla quale erano già spuntati in gran numero i papaveri dai petali bianchi e dai petali d'oro, primi fiori della buona stagione, un certo numero di sassifraghe stellate e di ranuncoli gialli, ridiscese verso il fiume avendo udite le urla dirigersi da quella parte e quindi allontanarsi in direzione sud. Aveva raggiunta una macchia di piante sui cui rami spuntavano certe coccole rosse delle quali sono amanti gli orsi bianchi, quando scorse a terra delle larghe tracce che indicavano il passaggio di un grosso animale. - Oh! Oh! - esclamò egli, arrestandosi di botto. - Queste non sono nè tracce di alci, nè di lupi e tanto meno di volpi. Si curvò e le esaminò attentamente, poi si sollevò rapidamente gettando uno sguardo inquieto sotto gli alberi e intorno ai cespugli che crescevano in gran numero presso la riva del fiume. - Per di qui è passato un orso, e senza alcun dubbio un orso bianco - mormorò. - Devo tornare o tirare innanzi? Esitò un momento, sapendo quanto fosse forte e terribile l'avversario che poteva da un istante all'altro incontrare, ma la speranza di tornare all'accampamento con un sì bell'animale lo decise a continuare la caccia seguendo appunto quelle orme. Rinnovò per maggior precauzione la carica del fucile introducendovi due palle, si assicurò se il coltello scorreva facilmente nella guaina di pelle, poi si slanciò risolutamente innanzi, ma con gli occhi bene aperti e gli orecchi ben tesi. Percorse un quattro o cinquecento metri fermandosi di frequente per ascoltare, poi si gettò precipitosamente dietro a un grosso albero. In mezzo ad un cespuglio, lontano un tiro di freccia, aveva veduto agitarsi una massa biancastra che era subito scomparsa, forse perchè stava scendendo il pendio della riva. Stette alcuni minuti immobile cercando di distinguere meglio il carnivoro, poi udì, non senza provare un certo tremito, una specie di nitrito simile a quello che emette un mulo. - È un orso bianco! - esclamò il fiociniere, abbandonando con precauzione il nascondiglio. - Animo, mio caro Koninson, se sei venuto fin qui non devi tornare al campo a mani vuote. Sapendo quanto gli orsi bianchi siano diffidenti e difficili a lasciarsi accostare se non sono affamati, si gettò sottovento onde l'animale non lo fiutasse e guadagnò la riva del fiume sempre tenendosi celato dietro i tronchi degli alberi e le irregolarità del terreno. Giunto là, s'alzò sulle ginocchia tenendo in mano il fucile e guardò. A trenta soli passi di distanza egli scorse l'orso bianco occupato a divorare le coccole rosse dei cespugli e le tenere gemme di alcuni minuscoli salici d'acqua che crescevano stentatamente fra la neve. Senza dubbio non si era ancora accorto della presenza del cacciatore, poichè non dimostrava alcuna inquietudine, anzi lentamente gli si avvicinava. Koninson imbracciò il fucile e mirò lungamente la testa del mostro, non ignorando che, se lo avesse colpito in qualunque altra parte del corpo, non lo avrebbe atterrato. Alcuni istanti dopo la detonazione del fucile si fece udire scuotendo fortemente gli strati dell'aria. Quando il fumo si dissipò, il fiociniere, con suo grande terrore, vide l'orso che saliva la riva di galoppo, aprendosi impetuosamente il passo fra i cespugli. Nessuna macchia di sangue si scorgeva sulla bianca pelliccia, segno chiaro che la palla si era perduta altrove. Mancava il tempo di ricaricare l'arma e anche di fuggire, poichè l'orso non era più che a pochi passi. Il fiociniere in quel terribile frangente non si perdette d'animo. Afferrò il fucile per la canna e quando si vide l'animale dinanzi, lo percosse replicatamente sul muso. Disgraziatamente l'arma gli sfuggì di mano mentre vibrava un terzo colpo e si trovò inerme. Impegnare una lotta corpo a corpo col coltello era cosa troppo pericolosa con simile avversario, la cui forza è veramente straordinaria, se non eguale, certo di poco inferiore a quella del terribile orso grigio delle Montagne Rocciose. Non restava che fuggire a tutte gambe. Koninson si appigliò a questo partito, e si diede a precipitosa fuga attraverso la foresta, mandando alte grida per attirare l'attenzione del tenente che non doveva essere molto lontano. Superò, correndo disperatamente, la piccola altura procurando di tenersi presso gli alberi onde, in caso disperato, salvarsi sui rami; poi si lasciò scivolare o meglio rotolare fino al basso, dove incontrò il tenente che si era affrettato ad accorrere col fucile e una scure. - Cos'hai? - gli chiese questi, precipitandosi verso di lui. - Che ti è accaduto? Chi ti insegue? - Fuggite! Fuggite! - esclamò Koninson rimettendosi in piedi. - Ho un orso bianco alle spalle. - Un orso! E dov'è? - L'ho incontrato presso le rive del fiume e si era messo a inseguirmi, dopo essere sfuggito al mio colpo di fucile. - Se si mostra avrà una buona accoglienza, ragazzo mio. Ma dov'è il tuo moschetto? - Mi è sfuggito di mano mentre mi difendevo. - Bisogna andarlo a riprendere, o quell'animale te lo rovinerà tutto. Orsù, prendi la scure e andiamo a vedere. - Badate, tenente, che abbiamo da fare con un orso affamato, il quale si getterà su di noi. - Siamo in due e possiamo tenergli testa. Hai nulla di rotto? - Sono intatto. - Allora silenzio e avanti. Il tenente, che ci teneva assai ad abbattere il carnivoro per rinnovare le provviste già molto scarse, salì intrepidamente l'altura a rapidi passi, fiancheggiato da Koninson, il quale trovandosi male armato tentennava, e giunto sulla cima gettò uno sguardo sul versante opposto, in direzione del fiume, ma. non vide nulla, nè udì il ben noto nitrito del pericoloso avversario. - Dove si sarà nascosto? - si chiese. - Forse dietro a quelle macchie - rispose il fiociniere, indicando i cespugli che crescevano sulle sponde del Porcupine. - Non ti ha inseguito? - Non lo so, poichè non ardii voltarmi indietro. - Scendiamo, amico mio. Tenendosi dietro ai tronchi degli alberi e cercando di produrre meno rumore che fosse possibile, per sorprenderlo e sparargli addosso prima che potesse fuggire, raggiunsero i cespugli e precisamente il luogo ove era avvenuta la lotta. Guardarono attorno alle piante, sulla riva e nel fiume, ma l'orso bianco non c'era e, quello che era più sorprendente, non c'era nemmeno il fucile perduto dal fiociniere. - Tò! - esclamò il tenente al colmo della sorpresa. - Che abbia mangiato il moschetto? Eppure non è una bistecca. Si misero a frugare nelle macchie colla più grande attenzione, visitarono i crepacci, girarono i tronchi degli alberi per un bel tratto di bosco, ma sempre nulla: il fucile era proprio scomparso. - Che ne dici? - chiese Hostrup, che si grattava furiosamente la testa. - Io dico che questa sparizione ha del soprannaturale, - rispose Koninson. - Che l'orso abbia portato con sè l'arma? - E per che farne? - Non lo so davvero, Koninson. - Che sia venuto qui qualche indiano? - Non è possibile, poichè non vedo sulla neve che le tue traccie e quelle dell'orso. - E allora? - Che sia un orso ammaestrato? - Ma non vi sono serragli nei dintorni, che io sappia, signor Hostrup. - Ma vi possono essere degli indiani. - E voi credete ... - Io non credo nulla, ma dico che quell'orso può appartenere a qualche banda d'indiani. - E voi supponete che il birbante abbia portato il mio fucile ai suoi padroni? - Così deve essere. - Cosa dobbiamo fare? - Inseguire il ladro. - Ben detto, signor Hostrup. - Ecco qui le traccie che ha lasciato sulla neve. Ha disceso la riva, ed ha attraversato il fiume dirigendosi senza dubbio verso sud. Forse dietro a quella foresta sorge un accampamento di indiani. - Allora andiamo, ma ... e la nostra slitta? - La ritroveremo nel ritorno. - Ma i lupi la saccheggeranno. - Faranno un ben magro bottino, amico Koninson. Orsù, in cammino. Discesero la riva, attraversarono il fiume che in quel luogo misurava circa duecento metri di larghezza e risalirono l'opposto pendio entrando in un'altra foresta, sotto la quale scorrazzavano diversi lupi bianchi di dimensioni non comuni. Le traccie dell'orso furono ben presto ritrovate ed assieme ad esse l'impronta del calcio del fucile. - Si direbbe che quel birbante adopera la mia arma come un bastone - disse Koninson. - Deve essere un gran burlone! - rispose il tenente. - Ora che ci penso, che sappia anche adoperare il fucile? Non vorrei che ce lo scaricasse contro a tradimento. - Mi hai detto che non hai avuto tempo di ricaricarlo, quindi questo pericolo non esiste. Affrettiamo il passo e apriamo ben bene gli occhi. Si rimisero in cammino sempre seguendo le traccie del carnivoro ma, percorsi duecento metri, tutti e due tornarono a fermarsi in preda ad una certa inquietudine. Da una fitta macchia di pini e di abeti neri, usciva una grande cortina di fumo che strisciava lentamente sul campo gelato prolungandosi infinitamente, e in distanza si udivano delle voci umane. - Un accampamento? - chiese Koninson. - Senza dubbio! - rispose il tenente. - Andiamo innanzi? - Sì, ma con prudenza. Se sono indigeni potremmo venire scambiati per nemici e accolti molto male. - Vedete? - esclamò Koninson, - le traccie dell'orso si dirigono verso quell'accampamento. - Lo dicevo io, che quel burlone doveva essere ammaestrato. Gettiamoci dietro questi alberi e procediamo cauti. Stavano per eseguire quella prudente tattica, quando delle urla selvaggie scoppiarono alle loro spalle. Si volsero rapidamente l'uno puntando il fucile e l'altro impugnando la scure. Alcuni uomini, che si erano forse tenuti nascosti dietro i tronchi degli alberi o i mucchi di neve, correvano loro addosso agitando certe fiocine e certi ramponi di forma particolare ed alcuni vecchi fucili. Essi giunsero come un uragano fino a pochi passi dal tenente e dal fiociniere, poi si fermarono di colpo in un atteggiamento che nulla aveva di ostile, e uno di loro, il capo senza dubbio, facendo un passo innanzi, disse con voce abbastanza graziosa e in lingua russa: - Siate i benvenuti. I Tanana sono vostri amici!

I PREDONI DEL SAHARA

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

Essendo il mehari molto più intelligente dei cammelli, si affeziona subito al suo padrone e si ammaestra facilmente, al punto che se in un combattimento il padrone rimane ucciso, non lo abbandona. Anzi gli si inginocchia accanto come per invitarlo a montare in sella e non lo lascia se non dopo essersi convinto della sua morte. Non fugge però. Ritorna al duar dell'estinto padrone per mostrare alla famiglia la sella vuota. Il marchese ed i suoi compagni s'intrattennero un giorno fra quegli allevatori ospitalissimi, ben diversi dai Tuareg, lasciando presso di loro il negro raccolto ad Eglif, essendosi questo rifiutato di accompagnarli a Tombuctu a causa della sua estrema debolezza. Toccando poi successivamente le piccole oasi di Trasase e di Grames, dopo una lunghissima marcia giunsero a Teneg-El-Hadsk, una delle ultime stazioni del deserto. Solamente poche giornate li dividevano ancora dalla Regina delle Sabbie. L'influenza del Niger, il fiume gigante dell'Africa occidentale, si faceva sentire. L'aria non era più così secca, né così infuocata e anche fra le sabbie cominciavano ad apparire dei cespuglietti verdi. Si cominciavano poi a vedere delle bande d'uccelli, i quali s'affrettavano subito a fuggire verso il sud. Qua e là le tracce delle carovane aumentavano. Si vedevano di frequente scheletri di cammelli e d'uomini, basti, casse sventrate, avanzi di fuochi; chissà quanti disgraziati erano morti in vista della Regina delle Sabbie, sulla porta della salvezza, sfiniti dalle privazioni e soprattutto dalla sete. A Teneg-El-Hadsk erano già giunte due grosse carovane provenienti dalle rive del Niger, una diretta al Marocco con carichi di piume di struzzo e di avorio, l'altra nell'Algeria con gomma arabica e polvere d'oro delle miniere di Kong. L'occasione era propizia per assumere informazioni circa la sorte toccata al disgraziato colonnello Flatters. Provenendo quelle carovane da Tombuctu, non dovevano ignorare se dei francesi erano stati colà condotti e venduti al sultano. Con sua profonda meraviglia, il marchese provò invece un'amara delusione. Flatters! Tutti ne avevano udito parlare, sia marocchini che algerini, ma nessuno aveva udito narrare che i Tuareg l'avessero condotto a Tombuctu. "Che cosa ne pensate, Ben?" chiese il marchese, dopo aver interrogato tutti i capi delle due carovane, ottenendo sempre la medesima risposta. "Che io sia stato ingannato e che il colonnello sia stato veramente ucciso nel deserto?" "Non disperiamo, marchese," rispose l'ebreo. "Forse questi uomini, interamente occupati nei loro traffici, non si sono interessati della sorte toccata al povero colonnello." "Eppure io so che il governo dell'Algeria aveva promesso dei premi ai carovanieri che avessero potuto fornire notizie sulla spedizione," disse il marchese. "Quando noi saremo a Tombuctu faremo delle ricerche scrupolose, marchese, e sapremo la verità. Se è vero che il colonnello è stato condotto al sultano, qualcuno lo avrà veduto di certo entrare in città coi Tuareg." "Che disillusione se invece fosse stato ucciso nel deserto!" esclamò il corso, con amarezza. "Vi rincrescerebbe aver fatto questo lungo viaggio inutilmente?" chiese Esther, la quale assisteva al colloquio. "Oh no!" esclamò vivamente il corso, guardandola negli occhi. "No, Esther, ve lo giuro!" La giovane lo comprese e sorrise, mentre una viva fiamma le animava gli sguardi. "No, non è possibile," esclamò poi abbassando gli occhi. "Sarebbe un sogno troppo bello ... " "Esther," disse il corso con voce grave, "se questo sogno si realizzasse? Se io vi amassi davvero?" "Voi, marchese, amare una ebrea, una donna che nel Marocco si disprezza?" "La Corsica e la Francia non sono il Marocco, Esther. Il destino mi ha gettato sulla vostra strada, ho imparato ad apprezzarvi e ad ammirarvi e credo che nessun'altra donna potrebbe diventare, meglio di voi, la compagna della mia vita." Aveva appena pronunciato quelle parole quando udì presso di sé una rauca imprecazione. Si volse vivamente e vide sdraiato presso la tenda El-Melah. La faccia del sahariano era contratta e manifestava una collera terribile. "Che cosa fate qui?" domandò il marchese, aggrottando la fronte. "I Tuareg," rispose il sahariano. "Quali Tuareg?" chiese il corso. "Quelli che abbiamo incontrato ai pozzi di Marabuti. Stanno entrando ora nell'oasi." "Che ci abbiano seguito?" si domandò il marchese, con ira. "La presenza di quei predoni non mi piace affatto." "Che osino assalirci fra tanta gente?" chiese Esther. "No di certo, perché i marocchini e gli algerini s'unirebbero a noi per respingerli. Qui siamo come fra compatrioti." "Che vadano anch'essi a Tombuctu? Che cosa ne dici, El-Melah?" Il sahariano non rispose. Guardava Esther in modo strano, mentre un brutto sorriso gli increspava le labbra. "Ebbene, non mi hai udito, El-Melah?" chiese il marchese, impazientito. "Che quei Tuareg si dirigano anch'essi a Tombuctu?" "Ah! Sì, lo suppongo," rispose il sahariano, quasi distrattamente. "Con Ben vado ad assicurarmi chi siano. Tu, El-Melah, non lascerai Esther durante la mia assenza e aspetterai il ritorno dei beduini e di El-Haggar, che sono andati ad acquistare dei viveri." Il sahariano fece un gesto d'assenso e si sdraiò al suolo, a quattro passi dalla giovane ebrea, la quale si era seduta presso la tenda, all'ombra d'un bellissimo palmizio. Il viso del giovane non si era ancora rasserenato, né i suoi sguardi si erano ancora staccati dall'ebrea. Anzi una fiamma cupa balenava entro quegli occhi nerissimi, mentre la fronte gli si aggrottava sempre più. "Signora," disse ad un tratto, risollevandosi. "Che cosa va a cercare a Tombuctu il marchese?" Esther alzò il capo che teneva appoggiato ad una mano, e guardò con stupore il sahariano. "Perché mi fai questa domanda, El-Melah?" chiese. "Io vi ho seguito fin qui senza aver ancora potuto conoscere chiaramente i vostri progetti e prima di entrare in Tombuctu desidererei sapere lo scopo che vi guida. La Regina delle Sabbie è pericolosa per gl'infedeli; voi giuocate la vita." "Andiamo a cercare il colonnello Flatters. Credevo che tu lo sapessi, El-Melah." Un sorriso beffardo spuntò sulle labbra del sahariano. "Non valeva certo la pena di venire fino qui a cercare un uomo che forse è morto e che è ben lontano da Tombuctu." "Sai qualche cosa tu?" chiese Esther. Il sahariano crollò il capo, poi disse come parlando fra sé: "Lasciamolo cercare." "Chi?" "Il francese." "Non ti comprendo, El-Melah." "Chissà, forse potrà trovare anche qualche cosa d'altro a Tombuctu. Signora, è vero che il marchese vi ama?" "Sì, El-Melah." "E voi?" chiese il sahariano, figgendole in viso uno sguardo acuto come la punta d'uno spillo. "Ciò non ti può interessare," rispose Esther, il cui stupore aumentava. "Desidererei sapere se lo lascereste per un altro uomo che pure vi ama e forse più del marchese." "El-Melah," esclamò la giovane alzandosi. "Il sole del deserto ti ha sconvolto il cervello? Ne avevo il dubbio, ora ne ho la certezza." "Sì, deve esser così," rispose il sahariano, con un accento strano. "Il sole del deserto deve aver guastato il cervello di El-Melah." S'alzò girando intorno alla tenda; poi tornò a sdraiarsi, tenendosi il capo stretto fra le mani. "Quel povero giovane è pazzo," disse Esther. In quel momento il marchese tornava con Rocco, El-Haggar e Ben. Tutti e tre parevano assai preoccupati ed inquieti. "Che cosa avete?" chiese Esther, movendo loro incontro. "I Tuareg che sono passati per di qua sono gli stessi che abbiamo incontrato ai pozzi di Marabuti," rispose Ben. "Vanno a Tombuctu." "Che abbiano qualche progetto su di noi?" chiese Esther. "Tutto si può attendere da quegli uomini," disse El-Haggar. "Se essi hanno un sospetto che voi non siete mussulmano, ci possono fare arrestare dalle guardie del sultano e anche uccidere." "Eppure non possiamo rimanere qui ora che abbiamo attraversato il deserto. Io non me ne tornerò se non quando avrò la certezza che il colonnello è morto o che si trova prigioniero del sultano." "Ed io se prima non avrò raccolto l'eredità di mio padre," disse Ben. "E trovato Tasili," aggiunse Rocco. "Senza quell'uomo non potrete certo riacquistare il tesoro." "Ascoltatemi," disse in quell'istante El-Haggar. "A me, come mussulmano, non è vietata l'entrata in Tombuctu e nessun pericolo può minacciarmi. Volete che io segua quei Tuareg per cercare di scoprire le loro intenzioni e cercare Tasili? Fra tre o quattro giorni io sarò di ritorno e allora agirete." "E ti occuperai di sapere se il colonnello è vivo od è stato ucciso?" "Ve lo prometto, marchese. Conosco parecchie persone a Tombuctu e andrò ad interrogarle." "E ne conosco anch'io," disse El-Melah, alzandosi. "Vuoi partire con El-Haggar?" chiese il signor di Sartena. "Tu che conosci quei Tuareg puoi sapere, meglio d'ogni altro, che cosa sono venuti a fare a Tombuctu." "Se lo desiderate io parto," rispose il sahariano, con vivacità. "Vi concederemo una settimana di tempo. Se non vi vedremo ritornare, qualunque cosa debba succedere, noi verremo a Tombuctu," disse il marchese. "Siamo d'accordo," rispose El-Haggar. I loro preparativi furono lesti. Caricarono sui due mehari dei viveri, s'armarono di fucili e di jatagan e salirono in sella. "Prima che il sole tramonti noi entreremo nella Regina delle Sabbie," disse El- Haggar. "Abbiate pazienza e non lasciate questa oasi. In caso di pericolo io o El-Melah torneremo subito e vi rifugerete subito nel deserto." "Và e che Dio sia con te," risposero Ben ed il marchese. Mentre però s'allontanavano, El-Melah continuava a volgersi indietro ed Esther provava ancora l'impressione di quello strano sguardo che le procurava una specie di malessere che non sapeva spiegarsi. Quando i due corridori scomparvero in mezzo alle dune, la giovane provò un vero sollievo. "Che uomo strano è quel Melah," mormorò. "Che sia veramente pazzo?" Il marchese ed i suoi compagni intanto si erano occupati a prepararsi l'accampamento, onde passare quella lunga attesa nel miglior modo possibile. Rizzarono le due tende assicurandole con numerose funi e disposero le casse ed i bagagli all'intorno, formando una specie di barriera; poi con sterpi e foglie innalzarono una zeriba destinata a contenere i cammelli e gli altri animali, precauzione indispensabile con tanta gente che occupava l'oasi in attesa del momento opportuno per mettersi in marcia verso il nord. "Ora armiamoci di pazienza ed aspettiamo," disse il marchese, quando il campo fu pronto. "El-Haggar ritornerà, ne sono certo, e forse accompagnato da Tasili."

LEGGENDE NAPOLETANE

682473
Serao, Matilde 1 occorrenze

IL PAESE DI CUCCAGNA

682504
Serao, Matilde 2 occorrenze

. - Dovrei piangere io, - soggiunse il beone, - che gli avevo procurato una fortuna, che mi aspettavo da lui la pace per i miei vecchi giorni, e intanto, per bestialità sua, egli è alla morte e mi abbandona nella miseria, capite! - Ma come è stato, come è stato? - chiese don Crescenzo, mettendosi le mani nei capelli. - Aspettate un poco, ora vengo. E andò di là. Don Crescenzo si guardò attorno, sbalordito dal dolore. La misera stanza non aveva altri mobili che certi vecchi scaffali d'avvocato, pieni zeppi di carte polverose, un tavolino, con due sedie la cui paglia era tutta macchiata. Sul tavolino vi era un bicchiere, con un paio di dita di vino bluastro, il grosso vino pesante di Sicilia. Per terra non si era spazzato da tempo: le mura eran piene di ragnateli: i vetri delle finestre erano coperti dalla polvere e un puzzo di sporco, di stantio, di muffito, afferrava alla gola. Ed era questa la casa dell'avvocato, di colui che era stato uno dei più grandi avvocati del suo tempo e che aveva guadagnato migliaia e migliaia di lire, nella sua professione! Don Crescenzo sentì stringersi il cuore in una morsa di sangue e le mani gli si gelarono: veniva qui, in questa dimora di povertà, di onta, di morte, a cercare le sue ottocento lire per salvarsi? Oh che follia, che follia era la sua! Non era forse meglio fuggire, giacché ritrovava dovunque le stesse tracce di disonore e di miseria, dovunque? Ma il ciabattino ritornava: - Che fa? - chiese sottovoce don Crescenzo. - Sta assopito. - Dorme? - No, è la malattia. - Che gli hanno dato? - Gli hanno cavato sangue: poi ha una vescica di ghiaccio sulla testa e un'altra sul petto. - Parla? - Non si capisce quello che dice. - Ha perduto il movimento? - Solo per il lato destro. - Che dice il medico? - Che deve dire? È cosa di morte. - E torna, il medico? - Chi lo sa? Non vi è da pagare. Ho trovato sette lire e un orologio di nichel, che non si può impegnare. Ho speso già tre lire di ghiaccio: quando le sette lire saranno finite, ci fermiamo. - Ma come è stato, come è stato? - chiese ancora, disperatamente, don Crescenzo. - Mah! Tante cose sono state. Ha avuto certi dispiaceri, sapete, l'uomo sempre uomo e… aveva bisogno di denaro… ha cercato di averne, in tutti i modi… - E che ha fatto? - chiese l'altro, sgomento. - La mala gente dice che ha falsificato la carta bollata, lavandola, sapete, quella già scritta e mettendola in corso, di nuovo. Ma non deve esser vero! Mi lascia nella pezzenteria, è stato ingrato con me, ma non deve esser vero… non ci potrò credere mai. Pare che la mala gente sia arrivata sino al presidente del Consiglio dell'Ordine, che lo ha chiamato… pare che ci sono state brutte parole… infine, dispiaceri. - Oh povero, povero! - esclamò a voce bassa don Crescenzo. - Questa chiamata del presidente è stata per lui una cosa mortale… che vi pare, un galantuomo sentirsi insultare, è cosa insopportabile… voleva partire, l'avvocato Marzano, andarsene in qualche paese, dove vi è più educazione. - Partire, alla sua età? Con sette lire in tasca? - Io lo avrei accompagnato, - mormorò modestamente il ciabattino beone. - Per il bene che gli volevo, mi acconciavo ad andarmene: e in quanto ai denari… ecco la vera ragione del tocco! Come sarebbe? - Voi sapete, don Crescenzo, che i miei lavori di matematica, con l'aiuto di Dio, hanno fatto sempre guadagnare denaro all'avvocato. - Sì, sì, ogni tre o quattro mesi, un ambo… soggiunse scetticamente don Crescenzo. - V'ingannate, si può dire che io l'ho beneficato, e quelle misere sessanta lire che mi dava, al mese, perché io non battessi più sulle suole delle scarpe e facessi la cabala, erano neppure la centesima parte di quello che guadagnava, al mese! Ora mi abbandona, l'ingrato, così!… basta, per dirvi, ieri, io gli avevo dato, simbolicamente, certi numeri che dovevano uscire necessariamente e sono usciti, capite! - E ha guadagnato? - Niente: non li ha capiti, ne ha giuocato degli altri, la mente non lo aiutava più. Quando lo ha saputo… gli è venuto l'insulto… in salute vostra. - Ma gli avete veramente detto quelli che erano i numeri buoni? - Innanzi a Dio: ma non li ha capiti. - E perché non li avete giuocati voi? - Sapete bene che noi on possiamo giuocare… - Ah già, è vero. Tacquero. Il ciabattino portò alle labbra il bicchiere e bevve un sorso di vino. - Vorrei vederlo, - chiese don Crescenzo, improvvisamente. Entrarono nella stanzetta da letto, povera e sporca, come lo studietto. L'avvocato Marzano giaceva sopra un misero lettuccio di ferro, sollevato sui cuscini, le cui fodere erano di una bianchezza assai dubbia: sulla canuta testa posava la vescica di ghiaccio: un'altra ne posava sul petto, denudato, scheletrito, e il corpo scarno, piccolo, era coperto da una coltre brunastra, di quelle che si mettono sul dorso dei cavalli. Sul tavolino da notte vi era un bicchiere d'acqua, dove nuotava un pezzo di ghiaccio: la mano destra del morente, era avvolta dai nastri neri del salasso. E tutta quella parte destra, dalla faccia sino al piede, era colpita d'immobilità, già morta: mentre la mano sinistra tremava sempre, e tutto il lato sinistro del volto si torceva, ogni tanto, convulsamente. Un confuso balbettìo usciva dalle labbra dell'avvocato: e tutta la espressione dolce e bonaria era sparita, lasciando su quel vecchio volto, già mezzo appartenente alla morte, le tracce di una passione che era giunta sino alla vergogna. - Avvocato, avvocato? - chiamò don Crescenzo, piegandosi sul lettuccio. L'infermo fissò gli occhi velati da un'ombra singolare sulla faccia del tenitore di Banco lotto; ma né l'espressione se ne mutò, né il balbettìo cessò. - Non vi riconosce, - mormorò il ciabattino, pigliando tabacco. Don Crescenzo uscì subito dalla stanza, sentendosi aggravare sull'anima l'incubo. - Siete amico, volete lasciargli qualche cosa? - chiese il ciabattino. - Ho quattro lire, morirà come un cane! Allora tutto il represso dolore di don Crescenzo scoppiò. - Mi doveva ottocento lire, e sono rovinato, se non le ho per mercoledì! Egli muore, ma io campo e sono assassinato! Egli muore, ma i miei figli dormiranno, fra un mese, sui gradini di una chiesa! Egli se ne muore almeno, ma noi tutti camperemo di disperazione, capite! - Scusate, - disse il ciabattino, sgomento. - Assassinato, assassinato! - singhiozzava l'altro. - Tacete, può sentirvi; che ci volete fare? E bevve l'ultimo sorso di vino bluastro, che aveva lasciato in fondo al bicchiere. Don Crescenzo fuggì. Ora, a intervalli, sentiva che gli si smarriva la testa e aveva bisogno, per raccapezzarsi di pensare sempre alla parola mercoledì. ure, istintivamente, con quella direzione automatica degli infelici che vanno al loro destino, risalendo per Port'Alba si diresse al vicolo Bagnara, dove abitava il professor Colaneri; anche Colaneri gli doveva denaro e gliene prometteva di settimana in settimana, sempre rimandandolo a mani vuote, o consegnandogli delle piccolissime somme. L'ex-prete abitava a un quarto piano del vicolo Bagnara, in una casa dove lui, una povera infelice di stiratrice che gli aveva dato retta e con cui viveva coniugalmente, quattro figliuoli malaticci dalle grosse teste e dalle gambe storte, vivevano in due stanze, litigando, gridando, battendosi e piangendo tutto il giorno. Egli aveva nascosto alla stiratrice di essere stato prete; e la disgraziata, credendo di diventare una signora, gli aveva dato retta; e da sei anni viveva in uno stato di servaggio, fra le gravidanze, la indecente miseria, il lavoro da serva che ella faceva, tutto il grossolano lavoro, e quella torma di figli brutti, piagnolosi e continuamente affamati, su cui ella si vendicava, schiaffeggiandoli, degli schiaffi di cui le era prodigo suo marito. Una casa infernale, dove il padre portava tutte le torbide preoccupazioni del giuoco e dei mezzi ignobili, talvolta colpevoli, con cui si procurava denaro per giuocare: due volte don Crescenzo vi era stato, ma aveva assistito a tali scene nauseanti che era scappato via, cacciato quasi dalle male parole della stiratrice e dai pianti dei quattro demoni. Ma ora, che importava? Colaneri gli doveva settecento e più lire: di un debito di novecento non aveva pagato, in tre o quattro mesi, che duecento lire, anche meno; Colaneri, perdio, non era fallito come Ninetto Costa o apoplettico come l'avvocato Marzano, Colaneri doveva pagare. - Vi è il professore? - Sissignore, - rispose una vecchia donna, che funzionava da portinaia. Allora salì rapidamente e alla porta gli venne ad aprire la stiratrice, spettinata, con un grembiale di cucina tutto unto sulla vestuccia di lanetta, le guance incavate, il petto smunto e un dente mancante sul davanti, per cui farfugliava un poco: - Vorrei vedere Colaneri. - Non ci è, - disse subito lei, lasciando l'altro sempre fuori la porta. - Vi è, vi è, - disse don Crescenzo, irritato. - Tanto, è inutile che si neghi, io lo aspetto per le scale: deve uscire! - Allora, entrate, - ella disse, di mala voglia. E mentre il tenitore di Banco lotto entrava, subito un moccioso idrocefalo di ragazzo prese un ceffone. E mentre egli aspettava nella stanza che serviva da salotto, da studio, da stanza da pranzo, di là, cioè in cucina, nella stanza da letto e financo nel pianerottolo, scoppiarono le grida della famiglia che litigava. Solo in un intervallo di silenzio, comparve il professore, indossando una vecchia giacchetta tutta macchiata: raggiustandosi, con un moto ecclesiastico, gli occhiali sul naso. - Vengo per denaro, - disse brutalmente don Crescenzo. - Non ne ho, - rispose duramente il debitore. - Non me ne importa, me ne darai. - Non ne ho. - Trovane: voglio le mie settecento lire, oggi o domani, hai capito? - Non ne ho. - Impegnati lo stipendio, fa un debito. - Non ho più stipendio. - Come? Non sei più professore? - No: mi sono dimesso. - Dimesso? - Per forza: mi avevano accusato di vendere i temi degli esami agli scolari. - E non era vero, naturalmente! - Già: ma il complotto per perdermi era bene organizzato. Il preside m'ha consigliato di dimettermi. - Sicché sei sul lastrico? - Sul lastrico. Allora soltanto don Crescenzo si accorse che il viso del professore era pallido e stravolto. Ma questa terza delusione lo esasperava. - Non so che farci: tu mi devi dare le settecento lire. - Hai cinque lire da prestarmi? - Non raccontar frottole, io voglio il mio denaro. Lo voglio per domani, al più tardi, capisci? - Crescenzo, tu metti in croce un uomo già crocifisso. - Belle chiacchiere! Io non posso andare a San Francesco per conto vostro: siete tanti assassini! Vado da Ninetto Costa per denaro e lo trovo che è fallito, che parte per Roma…a far che, non si sa… se è poi vero, che vada a Roma… e niente denaro… Vado da Marzano e lo trovo moribondo… qui tu mi dici che sei sul lastrico… e denaro niente! - Tutte rovine, tutte!… - mormorò l'ex-prete- Ma voi mi volete far morire, mi volete? Ma quando avete avuto bisogno del credito, io ve l'ho fatto, vi ho guarentiti, mi sono compromesso per voi… e adesso volete far morire con me la mia famiglia? Ma tu anche hai figli, devi pensare a dar loro da pranzo, per domani e per moltissimi altri giorni, devi far qualche cosa tu: ebbene pensa a me, pensa ai miei bambini, pensa che siamo cristiani anche noi! - Sai che debbo fare io, domani, per dar pane alle mie creature? - Che so io? So che glielo darai, so che i figli miei non debbono restare digiuni, quando i tuoi mangiano… - Ebbene, senti, io non sono più prete, sono stato scomunicato, sono fuori della Chiesa: lì, quindi, non troverei aiuto; avevo il posto di professore, buono, sicuro, ma l'ho perduto, perché avevo troppo bisogno di denaro; non chiedermi delle confessioni dolorose; non lo riavrò, mai, il mio posto, né un altro potrò mai averne, oramai sono persona sospetta. - Ma che me li racconti questi guai? Li so, li so, e non serviranno ad accomodare i fatti miei. - Ascolta ancora. Io non ho più nessun scampo: e siccome ho messo al mondo degli infelici, mi sento il dovere di dar loro il pane, almeno il pane. Ho giuocato al lotto quello che essi avevano di certo, d'immancabile… ma sono pazzie! Quindi la grande decisione è presa: tutto per tutto! - Che cosa? - domandò don Crescenzo, sorpreso. - Domani accetto le offerte fattemi dalla Società evangelica e divento prete protestante. - Oh Dio! - disse il tenitore di Banco lotto, al colmo della meraviglia. - Già, - disse l'altro, come se inghiottisse a stento. - E… lasci la religione nostra? - La lascio…per la fame. - E… a quell'altra, ci credi? - No: non ci credo. - E come fai a predicare? - Farò… mi abituerò… - Devi rinnegare, eh? - Sì: rinnegare. - Una gran funzione? - Grande. Parlavano sottovoce: la cinica figura di Colaneri si era scomposta, come se non reggesse a quell'idea dell'abiura. Anche don Crescenzo, nella sua stupefazione, aveva dimenticato i suoi guai. - Rinneghi, rinneghi… - andava dicendo. - Rinnego. - Già, avevi tolto l'abito di prete. - Rinnegare, è un'altra cosa, - disse, tetro, Colaneri. - Assai ti dispiace? - Assai. - E che ne hai? - Duecento lire al mese, in un paese dove mi destineranno. - Appena da mangiar pane! - A ogni ragazzo mio che diventerà protestante, daranno una sommetta; potrò sposare la madre. - Ma lasciare la religione di Cristo! - esclamò don Crescenzo, con quell'orrore del protestantesimo, che è in tutte le umili coscienze napoletane. - Che vuoi, è la fame! - mormorò disperatamente il professor Colaneri. Pareva dunque mutato profondamente, anche nel morale: la sua passione del giuoco gli era oramai apparsa in tutta la sua fatalità: vedeva quello che aveva commesso, contro sé stesso, contro il suo talento; e un invincibile ribrezzo lo teneva contro quella apostasia. Aveva fatto il male, era disceso sino alla colpa, brutalmente, corrompendosi in quell'ambiente deleterio: ma ora che si trovava innanzi al castigo, ora tremava, avendo perduta ogni franchezza, tremava di dover rinnegare la sua fede, il suo Dio, per una pagnotta di pane. Don Crescenzo lo guardava e taceva, stupito. Lo aveva sempre ritenuto per un birbone, capace di tutto: e se gli aveva fatto credito, era perché supponeva di potergli sequestrare lo stipendio. Ma ora, in questo giorno supremo, lo vedeva avvilito, turbato sino nell'intimo dell'anima, mosso da una paura arcana della Divinità, che aveva già tradita, che aveva già offesa, che nuovamente egli insultava con la sua apostasia. E don Crescenzo, sebbene ristretto di mente, comprendeva tutto lo strazio di quella coscienza, combattuta adesso nell'ultimo suo baluardo, giunta a quel punto dove la pazienza umana finisce, dove si vivono le ore più dure, più divoratrici dell'esistenza. Così, non osava più dirgli nulla dei suoi denari. Balbettò: - E tua moglie, che dice? - Vorrebbe opporsi… ma i figli, i figli! - E i poveri figli innocenti… anche quelli debbono perdere l'anima? - Sono innocenti… il Signore vede, sarà giusto. E d'altronde, perché mi ha messo con le spalle al muro? Per ogni figliuolo che entra nella chiesa protestante mi dànno una sommetta… - Quando sarà, questo?… - chiese, dopo una esitazione, don Crescenzo. - Fra un mese: ci vuole un mese d'istruzione, per i poveri innocenti. - Troppo tardi, - mormorò l'altro che pensava sempre al suo denaro. - Ti darò un acconto, allora… - disse vagamente l'ex-prete- Troppo tardi: sono perduto. - Che castigo! che castigo! - disse sottovoce l'apostata, celando il volto fra le mani. - Me ne vado, - mormorò don Crescenzo, prostrato oramai, in uno stato di accasciamento profondo. - Abbi pazienza… - Che pazienza: è un castigo, hai detto bene, un gran castigo. Me ne vado, addio. - Addio. Non si guardarono, non scambiarono più nessuna parola, sentendosi ognuno preso, domato dalla terribilità del castigo, senza più alcuna collera, senza rancore, in quell'abbattimento di ogni superbia e di ogni vanità, che dà il castigo divino. Quando fu nelle scale, don Crescenzo fu preso da tale debolezza che dovette sedersi sopra un gradino, restando lì; stupefatto, non vedendo, non sentendo, in quel sopore morale che sopraggiunge ai dolorosi eccitamenti. Quanto tempo restò lì? Furono, alla fine, i passi di qualcuno che saliva e che lo sfiorò, passando, che lo fecero sussultare: e col sussulto, tutta la sua atroce pena gli si ripresentò, insopportabile. Si buttò per le scale, a precipizio, e correndo attraverso le vie, come un trasognato, spinto come un'arme diritta e inflessibile, arrivò alla strada Guantai, al piccolo albergo di provinciali, Villa Borghese, ove alloggiava da un quattro mesi il dottor Trifari con suo padre e sua madre, arrivati dalla provincia. I due umili contadini erano giunti, dalla giovinezza all'età avanzata, a raccogliere qualche soldo, a comprare qualche appezzamento di terreno, lavorando diciotto ore al giorno, mangiando pane scuro e raffermo, mangiando la minestra di bieta cotta nell'acqua senza sale, dormendo in uno stanzone, dove era solo il letto e un cassone, sopra uno stramazzo di paglia: e tutto questo per poter avere il figliuolo dottore, comunicando a lui tutta la vanità contadinesca, dandogli lo sfrenato desiderio di diventar un signore, un gran signore, superiore a tutti i signori del suo paese, dandogli così, senza saperlo, quella implacabile passione del giuoco che doveva, secondo lui, farlo improvvisamente diventar ricco, ricchissimo, in modo da schiacciar tutti con la sua potenza e col suo lusso. Ma in breve giro di anni tutti i suoi affari professionali eran finiti, poiché egli li sdegnava, li abbandonava: ed era cominciata tutta una esistenza di debiti vergognosi, di espedienti, di raggiri, in cui egli aveva cominciato per raggirare i suoi genitori e aveva finito per tessere le reti degli intrighi e degli imbrogli. Padre e madre, tetri, nel silenzio dell'animo contadinesco che non conosce espansioni, avevano venduto, man mano, tutto, seguitando a sacrificarsi per questo figliuolo che era il loro idolo, che essi adoravano come fatto di una pasta migliore della loro: e si erano infine così ridotti, erano così puniti nel loro orgoglio che aspettavano nella loro vecchia casa che il figlio mandasse loro da Napoli venti, dieci lire, ogni tanto, per mangiare. Ed egli lo faceva, legato a quel suoi vecchi da un amore feroce, fatto d'istinto filiale e di riconoscenza, tremando di vergogna e di dolore ogni volta che costoro lo avvertivano, rassegnatamente, che malgrado la tarda età, sarebbero tornati a lavorare nei campi, a guadagnar la loro giornata, per non essergli di carico: e anche i suoi soccorsi erano scarseggiati, la passione del giuoco lo aveva talmente acciecato che non sapeva neanche togliere dieci lire dalle giuocate, per spedirle ai due disgraziati contadini: e il colpo di grazia, infine, era stato quando egli aveva scritto loro, imperativamente, che vendessero l'ultima casa che loro apparteneva, la vecchia casa, coi pochi mobili e gli utensili di cucina, che tenessero il denaro e venissero a Napoli a stare con lui, avrebbero speso meno e sarebbero stati più felici: un colpo orribile, tanto li sgomentava la parola Napoli. Pure, con uno strazio taciturno, conservando la loro fierezza, fingendo di andare a fare i signori, presso il loro figliuolo signore, a Napoli, avevano obbedito, avevano litigato lungamente sul prezzo della povera vecchia casa e di quei quattro mobili antichi che avevano dal tempo del loro matrimonio; e infine, serbando preziosamente quelle poche centinaia di lire in un sacchetto di tela, viaggiando in terza classe, erano capitati a Napoli sbalorditi, non tristi, ma immersi in quella taciturnità che è la sola manifestazione della tetraggine contadinesca. E avevano vissuto in quell'alberghetto quattro mesi, in due stanze scure perché a primo piano, col figlio che rientrava a ore tardissime, talvolta quando essi si levavano, senza far nulla, senza parlare, chiusi nella stanza, guardando con occhi malinconici e meravigliati, da dietro i vetri, tutto il singolar mondo napoletano che si agita nella stretta e popolosa via dei Guantai Nuovi, rimanendo ore e ore in quella contemplazione dove s'istupidivano, incapaci però di muover lamento, diffidenti di tutto, del letto con le molle, dello specchio dalla luce falsa e verdastra, di quei pranzi miserabili serviti loro nella stanza, a cui non erano abituati e che parevano loro un lusso inaudito, di quei servi che si burlavano dei due contadini, di quella lavandaia che riportava tutte bucate le loro grossolane camicie e che li caricava d'ingiurie, alla napoletana, quando facevano una osservazione. Ogni tanto, superando quell'istintiva ritrosia di discorsi, avevano detto al figliuolo di levarli da quell'albergo, di prendere una casetta, dove la madre avrebbe cucinato, avrebbe fatto i servizii: ma lui aveva dimostrato che ci volevan troppi più denari così, che lo avrebbero fatto più tardi, quando avesse avuto una buona fortuna, che aspettava di giorno in giorno. E intanto, il loro peculio diminuiva: ogni volta che scioglievano, in fine di settimana, la borsetta di tela, avevano una stretta al cuore: spesso, quando cavavano quei denari, essi vedevano gli occhi del figliuolo illuminarsi, come per subitaneo sentimento di desiderio; ma non li aveva mai cercati, si vedeva che faceva uno sforzo a non cercarli. Ogni giorno egli diventava più torbido, più furioso: non mangiava più coi suoi genitori, passava le notti senza rientrare nell'albergo, tanto che pur nello spirito ottuso di quei contadini era entrata l'idea di una grande sventura che li minacciasse. La madre, per ore e ore, sgranava il suo rosario, perché il Signore avesse pietà dei loro vecchi giorni, mentre il padre, più astuto, più esperto, pensava che forse qualche femmina maliarda rendesse così infelice il suo figliuolo. Ma nulla gli dicevano: anche quel lusso in cui vivevano, lusso per essi, malgrado che lo pagassero coi proprii quattrini, sembrava loro una concessione del figliuolo, una grazia che egli faceva ai suoi genitori: e insieme a lui, senza intendere, senza sapere, si mettevano a sperare questa fortuna, che doveva capitare da un giorno all'altro, che li avrebbe fatti signori. Le labbra violette e secche della vecchia contadina si muovevano incessantemente, dicendo orazioni nella piccola, meschina, buia stanza dell'alberghetto dei Guantai Nuovi, mentre il vecchio contadino usciva ogni giorno, passando sempre per la stessa strada, andando cioè in Piazza Municipio e di là sul Molo, a guardare il mare nerastro e i bastimenti del porto mercantile e le navi da guerra del porto militare, affascinato, colpito, nella grande città, solo dal mare, non andando altrove, non sapendo nulla del resto della città, pauroso forse del chiasso delle carrozze, dei ladri, ritornando lentamente sui suoi passi, guardandosi intorno con sospetto. Giammai erano usciti col figliuolo, giammai: posto che eran così vestiti, essi avevan sempre detto di no, quando debolmente li aveva invitati a uscire con lui, intendendo, malgrado la loro grossolanità, che non gli piaceva di mostrarsi con loro; egli era così bello, così signore, col soprabito, col cappello a cilindro. Ma una sera, egli rientrò più agitato del solito. Rapidamente, con una certa durezza nella voce, come egli non aveva mai usato con loro, il dottor Trifari aveva detto ai suoi genitori che per il suo affare, per il suo grande affare, per diventar ricchi, insomma, gli servivano quelle ultime poche centinaia di lire che essi ancora tenevano in serbo: che gli facessero questo ultimo grande sacrificio ed egli avrebbe reso a loro tutto, centuplicato. Parlava presto, con gli occhi abbassati, come se prevedesse e non volesse vedere l'orribile occhiata fredda e desolata che scambiarono i due contadini, colpiti al cuore, gelidi. Stavano muti, il padre e la madre, guardando a terra: e allora lui, presto, affannosamente, cercando di raddolcire la sua aspra voce, li pregò, li pregò se gli volevano bene, che gli dessero quel denaro, se non lo volean veder morto. Ed essi, taciturni, s'incoraggiavano con un'occhiata: con le senili mani tremanti il padre sciolse il sacchetto di tela e ne cavò i denari, contandoli lentamente, con cura, ricominciando ad ogni cento lire, seguendo il denaro con un occhio torbido e con un moto convulsivo del labbro inferiore. Erano quattrocentoventi lire, tutta la fortuna di loro tre. Di pallido, il dottore si era fatto rosso rosso e pareva che gli occhi gli si fossero riempiti di lacrime: senza che quei due lo avessero potuto impedire, egli si era abbassato e aveva baciata la vecchia mano al padre e alla madre, la vecchia mano scura, rugosa e callosa, che aveva tanto lavorato. Nessun'altra parola era stata scambiata fra loro: egli era sparito. La sera non era rientrato nell'alberghetto; ma oramai a queste assenze non badavano più. Pure, il giorno seguente non era rientrato a pranzo, il che accadeva per la prima volta: avevano aspettato sino a sera, egli non era venuto e la contadina sgranava il rosario, ricominciando sempre: avevano finito per pranzare con un pezzo di pane e due arance, che si trovavano nella stanza. Il dottor Trifari non rientrò neppure la seconda notte e fu verso il meriggio del secondo giorno che arrivò una lettera diretta al signor Giovanni Trifari, albergo di Villa Borghese: na lettera impostata con un francobollo di un soldo, alla posta interna. Ah, essi eran contadini, con la fantasia ottusa e il cuore semplice, essi non immaginavano, non pensavano che assai scarsamente, eran gente corta e silenziosa: ma quando quella lettera fu loro portata e quando riconobbero l'assai nota e assai amata calligrafia del figliuolo, si misero a tremare, ambedue, come se una improvvisa, indomabile paralisi li avesse colti. Due o tre volte, con gli occhiali grossolani tremolanti sul naso, con la voce trepida della vecchiaia e dell'emozione, con la lentezza di chi sa legger male e deve frenare le lacrime, il vecchio contadino aveva riletta la lettera con cui il figliuolo, prima di partire per l'America, li salutava, teneramente, filialmente: sentendo quella lettura, imprimendosi bene nella mente quelle terribili e dolci parole del figliuolo, la vecchia contadina baciava i grani del suo rosario e gemeva sottovoce. Due volte un servitore dell'albergo era entrato, con la sua aria scettica di persona abituata a tutte le traversie della vita: e aveva chiesto loro se volevano mangiare, ma quelli, dimentichi, sordi, acciecati, non avevano neppure risposto. Quando, verso le sei, entrò don Crescenzo, dopo aver bussato inutilmente, li trovò quasi al buio, seduti vicino al balconcino, in un gran silenzio. - Vi è il dottore? Nessuno dei due rispose, come se il sopore della morte li avesse presi. - Volevo dire se vi è il dottore? - Nossignore, - disse il vecchio padre. - È uscito? - Sì. - Da quanto tempo? - È molto tempo, - mormorò il vecchio contadino e alla sua voce rispose un gemito di sua moglie. - E quando torna? - gridò don Crescenzo, agitatissimo, preso da un impeto di furore. - Non si sa, non si sa, - disse il vecchio, scrollando il capo. - Voi siete il padre, voi lo dovete sapere! - Non me l'ha detto… - Ma dove è andato, dove è andato, quell'infame? - In America, a Bonaria. Gesù! - disse solo don Crescenzo, cadendo di peso sopra una sedia. Tacquero. La madre stringeva devotamente il rosario. Ma ambedue parevano così stanchi, che don Crescenzo fu preso da una disperazione, trovando dovunque disgrazie diverse e maggiori della sua. Pure, si aggrappava alle festuche: e anzi tutto voleva sapere, voleva sapere tutto, con quell'acre voluttà di chi vuole assaporare tutta l'amarezza della sua sventura. Anche costui era fuggito, dunque, anche costui gli sfuggiva, anche questi denari erano perduti, perduti per sempre. - Ma chi gli ha dato i denari per andar via? - gridò, esasperato. - Siete amico suo, voi? - Sì, sì, sì! - Veramente? - Veramente, vi dico. - Ecco la lettera, tenete: così saprete tutto. Allora lui, alla poca luce del giorno che cadeva, lesse la lunga epistola del disgraziato che, roso dai debiti, roso dalla sua passione, senza saper dove dare la testa, scriveva ai suoi genitori, licenziandosi da loro, per cercar fortuna in America. Delle quattrocento lire se ne era prese un trecentocinquanta per pagarsi un posto di terza classe sopra un piroscafo, aggiungendovi qualche lira per vivere i due o tre giorni primi a Buenos-Ayres. Confessava tutto: tutta la rovina sua e della sua famiglia, maledicendo il giuoco, la fortuna e sé stesso, imprecando alla mala sorte e alla sua mala coscienza. Rimandava poche lire ai due poveri vecchi, pregandoli a ritornare in paese, a provvedersi come potevano, fino a che egli avesse potuto mandar loro qualche cosa, da Buenos-Ayres; tornassero al paese, egli non li avrebbe dimenticati, - e i denari appunto bastavano per due posti di terza classe, sino al paesello, non vi sarebbe neanche restato nulla per mangiare; - egli pregava, in ginocchio, che gli perdonassero, che non lo maledicessero, che non aveva avuto la forza di uccidersi, per loro, ma gli perdonassero, che se li lasciava così, non gli dessero, per il suo miserabile viaggio, senza bagaglio, senza denari, buttato in un dormitorio comune e soffocante di nave, anche il triste viatico di una maledizione. La lettera era piena di tenerezza e di furore: e le ingiurie ai ricchi, ai signori, al Governo, si alternavano con le preghiere di perdono, con le umili scuse. Due volte don Crescenzo lesse quella lettera straziante, scritta da un' anima inferocita contro di sé e contro gli uomini, che si vedeva ferita nella sola tenerezza della sua vita. La piegò macchinalmente e guardò i due vecchi: gli sembrò che avessero cento anni, cadenti di decrepitezza e di lavoro, curvati dall'età e dal dolore. - E che fate, adesso? - egli domandò, sottovoce, dopo un certo tempo. - Andiamo al paese, - mormorò il vecchio. - Domani, ce ne andiamo, col primo treno. - Sì, sì, ce ne andiamo, - gemette la povera contadina, senza levare il capo. - E che fate, là? - soggiunse lui, volendo approfondire tutto quel dolore. - Andiamo a giornata, - disse il vecchio, semplicemente. Egli li sogguardò ancora così vecchi, così stanchi, così curvi, che si apprestavano a ricominciar la vita, per aver pane, a zappar la terra con le braccia tremolanti, abbassando il volto bruno e i radi capelli bianchi sotto il sole di estate. E trafitto dall'ultimo colpo, sentendo intorno a sé crescere il coro delle disgrazie, non aprì bocca sui denari che doveva avere da Trifari: anzi, fievolmente, tanta era la pietà per i due vecchi, disse loro: - Vi serve niente? - No, no, grazie, - dissero quei due, con quel gesto desolato delle persone che più non aspettano soccorso. - E fatevi coraggio, allora… - Sì, sì, grazie, - mormorarono ancora. Li lasciò, senz'altro. Era notte, adesso, quando discese in istrada. Un minuto, sbalordito, atterrato, pensò: dove andare? E di nuovo, sospinto da uno stimolo tutto meccanico, prese la rincorsa e, attraversando Toledo, salì sino all'altezza della chiesa di San Michele, dove si ergeva bruno e alto il palazzo Rossi, già Cavalcanti. In quel palazzo abitavano gli ultimi suoi debitori grossi, i più disperati di tutti, e per non cominciare con un malaugurio, egli se li era riserbati per la sera. Ma non aveva trovato denaro in nessun posto, in nessuno: e adesso, per il naturale rimbalzo degli infelici che si ribellano alla infelicità, per quella forza di speranza che giammai non muore, adesso si metteva di nuovo a credere che Cesare Fragalà e il marchese Cavalcanti gli avrebbero dato del denaro, in qualche modo, piovuto dal cielo. Quando entrò nell'appartamento di Cesare Fragalà, introdotto dalla piccola Agnesina che era venuta ad aprire la porta portando una stearica mezza consunta, e guidato attraverso l'appartamento vuoto e scuro, egli si pentì subito di esser venuto. Marito, moglie e figlia ad una piccola tavola, sopra una tovaglia anche troppo corta per la tavola, pranzavano in silenzio, guardando ogni pezzettino di fegato fritto che si portavano alla bocca, per paura di lasciarne troppo poco agli altri due: e la bimba specialmente, dal grosso appetito delle creature sane, misurava i bocconcini di pane per non mangiarne troppo. Cesare Fragalà, serio, con la linea del sorriso sparito per sempre dal suo volto, guardava la tovaglia, con le sopracciglia aggrottate: e la moglie, la buona Luisa dai grandi occhi neri, sulla cui fronte aveva brillato la stella di diamanti della madre felice, aveva l'aria dimessa e umile, in un vestitino di lanetta. Quietamente, col suo occhio tranquillo, la bimba guardava il visitatore, come se capisse, come se aspettasse la domanda che egli doveva fare, serenamente, con la pazienza del martire. E dinanzi a quel dolce e pensoso occhio di fanciulletta, don Crescenzo sentì legarsi la lingua e fu con un grande sforzo che balbettò: - Cesarino, ero venuto per quell'affare… Una vampa di fuoco arse le guance di Cesarino Fragalà: la moglie si arrestò dal mangiare e la bimba abbassò le palpebre, come se il colpo fosse oramai disceso sulla sua testa. - È difficile che ti possa servire, Crescenzo: tu non sai in che imbarazzi ci troviamo… - disse fiocamente Cesarino. - Lo so, lo so, - disse l'altro, non sapendo frenare la sua emozione, - ma io sono in una situazione peggiore della tua… - Non credo, - mormorò malinconicamente il negoziante che da pochi giorni aveva compita la sua liquidazione, - non credo. - Tu hai salvato l'onore, Cesarino, ma io non lo salvo! Che vuoi che ti dica? Non posso aggiungere altro… E non potendone più, sentendo sul suo volto lo sguardo pietoso della piccola Agnesina egli si mise a piangere. Un po' di vento della sera, entrando da un balcone socchiuso, facea vacillare la lampada a petrolio, ed era un gruppo fantasticamente malinconico quello del marito, della moglie, della figliuola che stretti fra loro, infelicissimi, sogguardavano quell'infelicissimo che singhiozzava. - Non si potrebbe dargli qualche cosa, Luisa? - sussurrò timidamente Cesarino all'orecchio di sua moglie, mentre l'altro si lamentava vagamente. - Che deve avere? - disse Luisa, pensando. - Cinquecento lire.., erano di più… ho pagato una parte… - Ed è debito di… giuoco? - disse ella, freddamente. - … Sì. - Che diceva egli, di onore? - Egli ha fatto credito a noi, e se non paga, il Governo lo mette in carcere. - Ha figli? - …Sì. Ella sparve, di là. I due uomini si guardavano, dolorosamente, mentre la ragazza li guardava or l'uno, or l'altro, coi suoi occhi buoni e incoraggianti. Dopo un poco, Luisa ritornò, un po' più pallida. - Questa è l'ultima nostra carta da cento, disse, con la sua voce armoniosa. - Restano certi spiccioli, per noi: ma per noi, Dio provvede. - Dio provvede, - ripetette la bimba, prendendo la carta da cento dalle mani di sua madre e dandola a don Crescenzo. Ah, in quel momento, di fronte a quella povera gente che contava i bocconi del suo pane e che si disfaceva dell'ultima sua moneta per aiutarlo, in quel momento, fra quegli sguardi dolci e tristi di gente rovinata che pure serbava la fede, serbava la pietà, egli si sentì infrangere il cuore e vacillò come se dovesse perder conoscenza. Per un istante, pensò di non prender quel denaro, ma gli sembrava affatato, sacro, passato da quelle mani di donna buona e forte, passato per le manine di quella coraggiosa e placida fanciulletta: disse solo, tremando: - Scusate, scusate… - Non fa niente, - disse subito Cesarino Fragalà, con la sua bonarietà. - Siete stati così buoni, tanto buoni… - mormorava, licenziandosi, guardando umilmente le due donne che sopportavano così nobilmente l'infortunio. Cesarino lo accompagnò fuori l'anticamera. - Mi dispiace che sono poche… - gli disse, - non ti serviranno. - Per il cuore valgono centinaia di migliaia, - esclamò tristemente il tenitore del Banco lotto. - Ma ho da dare quattromila seicento lire al governo, e ho solo queste… - Gli altri… non ti hanno dato nulla? - Nulla: tutta una disgrazia, tutta una mala sorte. Andrò su, dal marchese Cavalcanti… - Non ci andare, - disse Fragalà, crollando il capo, - è inutile. - Tenterò… - Non tentare. Stanno peggio di noi: e ogni giorno hanno paura di veder morire la marchesina. Il padre ha perduto la testa. - Chissà… - Ascoltami, non andare. Ti puoi trovare a qualche brutta scena… - Brutta scena? - Sì, la marchesina ha delle convulsioni che le strappano grida terribili. Ogni volta che le sentiamo, ce ne usciamo di casa. Grida sempre: mamma, mamma. no strazio. - Ma è pazza? - No: non è pazza. Chiama aiuto, nelle convulsioni. Dicono che vede Non vi andare, è inutile. Fa buone cose. - Grazie, - fece l'altro. E si abbracciarono, tristi, commossi, come se non si dovessero vedere più. Adesso, quando don Crescenzo si trovò sotto il portone del palazzo Rossi, dopo esser disceso in gran fretta per le scale, quasi temesse udire scoppiare alle sue spalle le grida strazianti della marchesina Cavalcanti che moriva, quando si fu trovato solo, fra la gente che andava e veniva da Toledo, in quella sera dolce di primavera, egli pensò, a un tratto, che tutto era finito. Le cento lire che il suo pianto aveva strappato alla miseria dei Fragalà, erano chiuse nel suo vuoto portafoglio e il portafoglio messo nella tasca del soprabito; e a quel posto egli sentiva come un calore crescente, poiché quella moneta era veramente l'ultima parola del destino. Non avrebbe trovato più niente: tutto era detto. La sua disperata volontà, la sua emozione sempre più forte, i suoi sforzi di una giornata, correndo, parlando, narrando i suoi guai, piangendo, e il gran terrore della rovina che gli sovrastava, non erano riesciti che a togliere l'ultimo boccone di pane ai più innocenti fra i suoi debitori: cento lire, una derisione, di fronte alla somma che egli doveva pagare il mercoledì, infallibilmente: cento lire, niente altro, una goccia d'acqua nel deserto. E lo intendeva: poiché aveva esaurito un immensa quantità di forza e di commozione, arrivando solo a strappare quelle lire alla onestà della famiglia Fragalà, poiché si sentiva fiacco, debole, esaurito, era dunque quella, l'ultima parola, non vi erano altri denari, non vi erano più denari, per lui, doveva considerarsi perduto, perduto senza nessuna speranza di salvezza. Una nebbia - e forse erano lacrime - nuotava avanti ai suoi occhi: e la corrente della folla lo trascinava verso il basso di Toledo. Si lasciava trasportare, sentendosi in preda al destino, senza forza di resistenza, come una foglia secca travolta dal turbine. Non poteva fare più nulla, più nulla: tutto era finito. Qualcun altro, ancora, gli doveva del denaro, il barone Lamarra, il magistrato Calandra, due o tre altri, somme piccole, ma egli non voleva neppure andarvi: tutto era inutile, tutto, poiché dovunque egli era apparso, dovunque aveva portato la sua disperazione, egli aveva trovato il solco di un flagello eguale al suo, il flagello del giuoco che aveva messo fra la vergogna, la miseria e la morte, tutti quanti, come lui. Non osava entrare in casa sua, ora, malgrado che si facesse tardi. Era disceso per Santa Brigida e per via Molo alla Marina, dove abitava una di quelle alte e strette case, in cui si penetra dagli oscuri vicoli di Porto e che guardano il mare un po' scuro, fra la dogana e i Granili: e dalla via Marina, lungo la spiaggia dove erano ancorate e ammarrate le barche e le barcaccie dei pescatori, egli guardava, fra le mille finestre, la finestrella illuminata, dietro la quale sua moglie addormentava il suo bambino. Ma non osava rientrare, no; tutto non era dunque finito? Sua moglie avrebbe letto la sentenza, la condanna, sul suo volto, ed egli non reggeva a questa idea. Una fiacchezza lo teneva, sempre più grande, spezzandogli le braccia e le gambe, in quell'oscurità, in quel silenzio, dove solo le carrozzelle che portavano i viaggiatori ai treni partenti la sera, dove solo i trams he vanno ai comuni vesuviani mettevano ogni tanto una nota di vitalità, nella bruna e larga via Marina. Non reggendosi, si era seduto sopra uno dei banchi della lunga e stretta Villa del Popolo, il giardino della povera gente, che rasenta il mare: e di là, vedeva sempre, sebbene più lontana, lontana come una stella, la finestrella illuminata della sua piccola casa. Come rientrare, con qual coraggio portare le lacrime e la disperazione in quel pacifico, felice, piccolo ambiente? E quel bimbo innocente e l'altro che doveva nascere, e la madre così gloriosa di suo marito, del suo fanciulletto, doveva lui, lui, in quella sera farli fremere di dolore e di onta? Ah questo, questo gli era insopportabile! Un castigo così grande, così grande, piombato sulla testa di tutti, come se fossero i maledetti, distruggendo la salute, la fortuna, l'onore, tutto! E in una successiva visione, egli riannodò tutte le fila di quel castigo, partendo da sé, a sé ritornando, andando dalla propria disperazione a quella altrui, sempre guardando il breve faro luminoso, dove la sua famiglia aspettava. E rivide la faccia pallida e smunta di Ninetto Costa che partiva per un assai più lungo viaggio, certo, che quello di Roma, lasciando un nome di fallito e di suicida a sua madre; rivide il corpo colpito di apoplessia dell'avvocato Marzano, le labbra farfuglianti e la miseria atroce, per cui non aveva neppure il denaro necessario per comperare dell'altro ghiaccio, mentre su di lui si aggravava un'accusa disonorevole, svergognante la sua canizie; e il professor Colaneri, scacciato dalle scuole, accusato di aver venduto la sua coscienza di maestro, e dopo aver buttato l'abito talare, costretto a rinnegare la religione, dove era nato, di cui era stato sacerdote; e la tristezza del dottor Trifari, navigante in un battello di emigranti, senza un soldo, privo di tutto, mentre i due suoi vecchi genitori tornavano, per aver pane, a scavare l'arida terra; e la rassegnata dedizione di Cesare Fragalà, dedizione in cui era finito il nome dell'antichissima ditta e in cui eravi tutto un avvenire di miseria da affrontare; e infine, su tutto, la malattia di cui moriva la fanciulla Cavalcanti, mentre suo padre non aveva più un tozzo di pane da portare alla bocca. Tutti, tutti castigati, grandi e piccoli, nobili e plebei, innocenti e colpevoli; ed egli insieme con loro, egli e la sua famiglia, castigati in tutto quello che avevan di più caro, la fortuna, la felicità della casa, l'onore. Una schiera d'infelici, dove coloro che più piangevano, erano i più innocenti, dove le piccole creature, dove le fanciulle, dove le donne scontavano gli errori degli uomini, dei vecchi, una schiera di miserabili, a cui mentalmente egli aggiungeva gli altri che conosceva, di cui si ricordava: il barone Lamarra, sulla cui testa la moglie teneva sospesa l'accusa di falsario e che era tornato a far l'appaltatore, sotto il sole, nelle vie, fra le fabbriche in costruzione; e don Domenico Mayer, l'impiegato ipocondriaco, che in un giorno di disperazione, non potendone più dai debiti, si era buttato dalla finestra del quarto piano, morendo sul colpo; e il magistrato Calandra, dai dodici figliuoli, tenuto così in mala vista, che arrischiava ogni sei mesi di esser messo a riposo; e Gaetano il tagliatore di guanti che aveva ammazzato sua moglie Annarella, con un calcio nella pancia, mentre era incinta di due mesi, e nessuno aveva saputo nulla, salvo i due figliuoli che odiavano il padre, poiché anche a loro, ogni venerdì, prometteva di ammazzarli, se non gli davano denaro; e tutti, tutti quanti, agonizzanti e pur viventi fra le strette del bisogno e il rossore dell'onta; ed egli, infine, che aveva la sua famigliuola là, nella picciola casa, quietamente aspettante, mentre egli non aveva il coraggio di tornarvi, sapendo che la prima notizia della loro sventura gli avrebbe abbruciato le labbra. Tutto un castigo, tutta una punizione tremenda: vale a dire la mano del Signore che si aggrava sul vizioso, sul colpevole e lo colpisce sino alla settima generazione; anzi lo stesso vizio, la stessa colpa, quel giuoco infame, quel giuoco maledetto, che si faceva istrumento di punizione, contro coloro che di questo vizio, di questa colpa si erano fatti il loro idolo; nella istessa passione, come in tutte le altre, che sono fuori della vita, fuori della realtà, nella passione istessa il germe, la semente della durissima penitenza. Colpiti dove avevano peccato, anzi dal peccato istesso! Tutto un lungo scoppio di pianto, da tutti gli occhi, dai più puri, uno scoppio di singulti dalle più pure labbra: una folla di povere creature oneste, dibattentisi fra la fame e la morte, scontando gli errori altrui, dando ai colpevoli il rimorso di aver gittato le persone che più amavano, in quell'immenso abisso. Non uno salvo, non uno, di quelli che avevano dato la loro vita al giuoco, all'infame giuoco, al giuoco sciagurato, divoratore di sangue e di denaro: neppur lui salvo, neppur la sua famiglia, anche lui spezzato, anche i suoi figli ridotti, certo, a stendere la mano. Ah troppo grande, troppo grande, insopportabile il castigo! Che aveva egli fatto, per dover esser lì nella strada come un mendico che non osa rientrare al suo tugurio, non avendo potuto avere l'elemosina dal duro cuore degli uomini? Che aveva fatto lui, per dover andare in carcere, come un malfattore, perché sua moglie si vergognasse di appartenergli e i suoi figli non nominassero più il suo nome? Ah era troppo, era troppo: che colpa aveva dunque commessa? Una coppia di guardie passò nella via Marina e interrogò con lo sguardo le oscurità della banchina e della Villa del Popolo: l'ombra era profonda, le guardie non videro don Crescenzo, disteso sul sedile. Ma egli, come per un rapido cambiamento di scena, si vide dinanzi agli occhi, nel Banco lotto suo, al vico del Nunzio, le ardenti sere del venerdì e le affannose mattinate del sabato, in cui i giuocatori si affollavano ai tre sportelli del suo Banco, con gli occhi accesi di speranza e le mani tremanti di emozione: e rivide i cartelloni a grandi numeri azzurri e rossi, che incitavano i giuocatori a portare nuovo denaro al lotto: rivide i cento avvisi dei giornali cabalistici e i motti: Così mi vedrai! Sarò la tua fortuna! - Il tesoro del popolo! - L' infallibile! - Il segreto svelato! - La ruota della fortuna! - e le visite frequenti dell' assistito le fatali connivenze con tutti gli altri cabalisti, frati, spiritisti, matematici, che infiammavano i giuocatori col loro strano gergo, con le loro strane imposture: rivide le settimane di Natale, di Pasqua, in cui il giuoco diventa furioso, feroce, tanto è il desiderio del popolo di entrare nel sempre sognato Paese di cuccagna e si rivide sempre lui, contento di quelle illusioni che finivano in una dolorosa delusione, contento che quel miraggio acciecasse i deboli, gli sciocchi, gli ammalati, i poveri, gli speranzosi, tutti quelli che desideravano il Paese di cuccagna, contento che tutti, tutti quanti fossero attaccati da tale lebbra, che niuno se ne salvasse: contentissimo, quando, nelle grandi feste, cresceva l'ardore, e cresceva il giuoco, e cresceva il suo tanto per cento. Vide tutto, lucidamente, dalla sua persona che si curvava a scrivere sui registri le cifre maledette e le promesse fallaci, alle facce rosse o scialbe dei giuocatori, roventi di passione. E piegò il capo, abbattuto, sentendo di aver meritato il castigo, egli stesso, la sua famiglia, fino alla settima generazione. Il giuoco del lotto era una infamia che conduceva alla malattia, alla miseria, alla prigione, a ogni disonore, alla morte: ed egli aveva tenuto bottega di quell'infamia.

Ella fece un atto di rassegnazione e guardò il medico con tanta infinita passione, quanta ne può mettere, nello sguardo, l'esiliato che abbandona per sempre la patria. Ma non era più tempo di parole e di saluti, fra loro: violentemente divisi, si lasciavano per sempre, le parole e i saluti erano inutili. Egli si allontanò, seguito dallo stesso magnetico sguardo di Bianca Maria, senza voltarsi indietro, andandosene solo, al suo amaro destino. Ella tese l'orecchio per ascoltare quel passo adorato, che non avrebbe più udito, mai più: udì anche la porta di entrata che si richiudeva, discretamente, come la porta di un carcere misterioso. Tutto era finito, dunque. Il padre suo era seduto nel seggiolone, pensoso, ma calmo, appoggiando la fronte a una mano. Quietamente, ella venne a inginocchiarsi presso suo padre e chinando il capo, gli disse: - Beneditemi. - Dio ti benedica, come io ti benedico, Bianca Maria, - disse piamente il marchese Cavalcanti. - La vostra figliuola è morta, - ella mormorò, e aprendo le braccia, cadde indietro, riversa, livida, fredda, immobile.

Racconti fantastici

682820
Tarchetti, Iginio Ugo 1 occorrenze

Si abbandona la famiglia nella quale si era nati, e se ne forma e se ne ama una nuova; si amavano i genitori, ora si amano i figli; si prediligono ai vecchi i fanciulli; e si cerca fuori della sfera delle nostre prime affezioni un elemento d'amore più vergine e più durevole. È perciò che la vecchiezza si accosta alla gioventù, e questa alla vecchiezza; e i giovani preferiscono in amore le donne adulte, e gli adulti amano di preferenza le giovani; e tutte queste forze dell'amore si completano a vicenda, dando o ricevendo, secondo che vi è di esuberanza o difetto. Ma ciò che v'è di crudele in questa legge è quell'abbandono e quell'apatia a cui la natura ha condannato la vecchiaja. Difficilmente l'amore dei figli perdura fino alla vecchiezza dei genitori, e avviene quasi sempre che questo affievolirsi dell'affetto, o le esigenze d'interessi materiali, o le cure di una nuova famiglia li separino in quegli anni sì bisognosi di conforti e di amore. Triste destino di quell'età infelice della vita che l'egoismo crescente dell'epoca mostra di peggiorare ogni giorno, e cui la civiltà (o ciò che noi vogliamo indicare con questa parola) non ha ancora trovato mezzo di rimediare.

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Racconti umoristici IN CERCA DI MORTE - RE PER VENTIQUATTRORE

682915
Tarchetti, Iginio Ugo 1 occorrenze
  • 1869
  • E. Treves e C. Editori
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Ancora non ho posto piede sulle rive de' miei dominii che una fiera ribellione ne agita metà le provincie, e la parte più valorosa dell'esercito mi abbandona per appoggiarne la rivolta .... Ma andiamo, io proseguii con voce più ferma andiamo a compiere - se ciò s'ha a far subito - questa formalità dell'incoronazione; e quindi se il prode esercito dei Denti neri presterà il suo braccio alla monarchia, non dispero con esso solo di sottomettere i ribelli, di consolidare il mio trono, e di conservare intatte le sacre. costituzioni del paese. - Andiamo, ripeterono in coro i miei ministri facendo atto di adesione alle mie parole. E uno degli ufficiali aggiunse; l'incoronazione potrà compiersi sul momento: tutto è preparato, il paludamento reale, la corona, il sacro osso nasale .... - Il sacro osso nasale! ... interruppi io trasalendo, come sarebbe a dire? - L'osso di balena che Vostra Maestà introdurrà nelle sue narici reali. - Nelle mie narici! - È la consuetudine del paese, è l'obbligo essenziale del re. Vostro padre .... - Lo so, lo so, io interruppi, non proseguite .... ma quale orrore! esclamai fra me stesso e io non ci aveva pensato ... ma ciò è impossibile ... il mio naso .... il mio naso greco! il più puro naso greco che io abbia mai veduto .... ah! io mi ribellerò a questa abitudine crudele, a questa tortura terribile. Se io tornassi in Europa! Se la ribellione mi privasse del mio regno .... tornarci col naso forato, trapassato da un osso di balena ... no, no, ciò non può essere E rivoltomi a' miei ministri dissi loro, dissimulando quanto poteva il mio spavento: illustrissimi signori, io sono felice di procedere sull'istante alla mia incoronazione, ma è occorsa credo una cattiva intelligenza in proposito ... desidererei ... bramerei, se ciò è possibile, che si indugiasse alcuni giorni per ciò che riguarda la formalità dell'osso nasale: una fiera costipazione, un potente raffreddore che mi sono buscato lungo il viaggio, l'infiammazione delle pareti interne delle narici rendono senza dubbio questa operazione alquanto pericolosa; pregherei l'eccellentissimo ministro che mi ha accompagnato fino a Potikoros a voler far conoscere a' miei sudditi questo desiderio, e disporli all'indugio che è mia intenzione di frapporre al compimento di una formalità, di cui per altro mi tengo altamente onorato. A queste parole i miei ministri si guardarono nel bianco degli occhi esterrefatti, e il ministro della Guerra in ispecial modo diede non dubbii segni della sua meraviglia e della sua disapprovazione. Io ammutoliva per vergogna. Dopo un istante di silenzio il mio primo ministro rispose: noi siamo profondamente convinti della verità delle giustificazioni addotte da Vostra Maestà, ma non sarà molto agevole il convincerne l'armata ed il popolo. La solennità che doveva compiersi oggi, ha radunato qui una buona metà della popolazione di Potikoros, né credo che essa vorrà partirne senza avervi assistito. Cotesto rifiuto può essere interpretato in un senso poco favorevole ed essere causa di disordini non lievi nel regno. In quanto a me, non mi attento a sfidare il furore del popolo, esponendogli il desiderio reale che Vostra Maestà mi ha fatto ora l'onore di manifestare. A questo diniego inatteso io mi sentii venir meno, e trovai appena la forza di aggiungere: se io stesso devo mostrarmi a' miei sudditi .... se posso arringarli io in persona, non dispero di convincerli della verità delle mie asserzioni .... Perché il mio naso .... la mia mucosa .... E in quell'istante essendomi balenata alla mente un'idea stupenda, mi avvicinai al mio primo ministro e gli mormorai all'orecchio: persuadetene la popolazione, disponetela ad attendere, ed io vi affiderò il comando della più florida provincia del regno, vi decorerò del gran Cordone del Merlo nero .... E aggiunsi fra me stesso: se posso uscirne col naso intatto dimetterò sull'istante questi ministri, rifarò il mio gabinetto, allontanerò da me questi sudditi ribelli e corruttibili. Il mio ministro cedette di fatto, come mi era lusingato, a quel tentativo. Rivoltosi al mio seguito disse; veramente .... l'interesse, la quiete dello stato ci impongono di accordare a sua Maestà l'indugio di cui ci richiede. Il momento è grave. Disposto al sacrificio della mia popolarità pel bene del paese, io sono deciso ad arringare il popolo circa i motivi che impediscono temporariamente l'attuazione di questa operazione importante: piaccia al cielo che le mie parole siano ben accolte e credute! Quindi rivoltosi a me che in quel frattempo era salito sopra una specie di carro destinato a recarmi sul luogo dell'incoronazione, aggiunse: andiamo, E ci riponemmo in viaggio. Attraversammo un buon tratto di strada tra le ovazioni vivissime della folla; e giungemmo in breve tempo ad un piccolo rialzo di terra sul quale era innalzato il mio padiglione. Tutta la campagna circostante era gremita di popolo; le dame Potikoresi vestite di un costume assai semplice, spesso di un costume affatto adamitico, stavano raccolte a gruppi sotto i padiglioni naturali che formavano le palme e i banani. Alberi giganteschi di paradiso attorniavano il recinto del luogo destinato alla mia incoronazione, e sovr'essi frotte di fanciulli a cavalcioni qua e là lungo i rami suonavano certi loro strumenti di cocco che producevano un rumore indiavolato. Da quel rialzo di terra si aprivano allo sguardo orizzonti stupendi; da un lato, il mare seminato in ogni punto di isolette quasi impercettibili e tutte verdi per la vegetazione più rigogliosa; dall'altro, campagne sterminate, pianure solcate da fiumi, colli ricoperti di boschi, montagne rivestite di eriche gigantesche; e sovra tutto ciò, il cielo stupendo del tropico, il cielo alto, sereno, sempre infuocato di quella terra prediletta dal sole. Ma io era in preda ad impressioni che moveano da cause ben diverse. Il timore che i miei sudditi volessero esigere sull'istante il compimento di tutte le formalità richieste per la mia incoronazione, il pensiero che, ove pure mi fosse stato accordato tale indugio, io non avrei potuto sottrarmi col tempo all'esigenza di quella moda crudele; e poi la ribellione delle mie provincie, la rivolta dell'esercito, le diserzioni, la poca devozione dei miei ministri, tutto ciò veniva ad amareggiare la mia gioia per modo che fui più volte in procinto di rimpiangere la mia vita modesta, ma libera, di letterato. E per altro lato, ove avessi potuto superare questi ostacoli, quanti piaceri mi aspettavano! La mia stupenda posizione anzitutto; e poi quel lusso, quello sfarzo, quello spensierirsi continuo; e l'harem, l'harem più d'ogni altra cosa; e quel costume sì grazioso, sì semplice, sì stuzzicante delle dame Potikoresi .... tutto ciò era pur preferibile all'oscura aridità della mia gioventù trascorsa. In preda a questi pensieri io era entrato nel ricco padiglione, ove doveva essere incoronato, e donde sarei stato condotto alla reggia. Le sorprese più grate mi attendevano in quel luogo. Oltre i doni ricchissimi in verghe d'oro e d'argento, e in grosse pietre preziose che mi erano state inviate dalle provinci e fedeli del regno, le fanciulle del mio serraglio mi avevano mandato un'ambasciata di dodici delle più belle tra loro, incaricate di ricevermi e prestarmi ogni sorta di servigi nel padiglione. Io non aveva veduto mai bellezze più abbaglianti, né è possibile che possa manifestare l'emozione che provai a quella vista. Il loro abito orientale era tutto ornato di lanugine di cigno e di perle, i loro calzoncini di seta azzurra erano stretti alla caviglia piccola e asciutta da un laccio magnifico a fiocchi d'oro, i loro piedini chiusi in scarpette a ricami erano sì piccini che potevano essere contenuti nella mia mano; tutte le loro forme erano ad un tempo sì piene e sì delicate, e spiravano tanta voluttà che io non aveva mai veduto, o immaginato soltanto, creature più graziose e più seducenti. Ma una ve n'era sovra tutte che colpì in ispecial modo la mia immaginazione. È impossibile il dire quanto ella fosse bella, forse anche impossibile lo immaginarlo: la bianchezza del suo viso era quasi luminosa - abbagliava: le sue fattezze, i suoi profili si perdevano in una specie di vaporosità leggermente rosata; i suoi capelli erano sì sottili, sì neri e sì lucenti che ondeggiavano sotto l'azione della luce come un drappo serico; e mentre io stava contemplando quel prodigio di avvenenza, essa mi si appressò timida e sorridente, e dopo aver pronunciato alcune parole in lingua Potikorese che mi riuscirono per ciò inintelligibili, asciugò il sudore che mi stillava dalla fronte con un suo fazzolettino che non era più voluminoso di una tela di ragno, ed esalava tutti i profumi più inebbrianti. Animato da tanta affabilità, e più ancora dal pensiero che io era re e che quella divina creatura era mia, trovai il coraggio di dirle: Come vi chiamate? - Opala, diss'ella, la più affezionata e la più fedele delle vostre schiave. E pronunciò questa parole nella mia lingua. - Voi non siete nativa del mio regno? le chiesi io meravigliato. - No, disse la fanciulla. La defunta Serenità di vostro padre mi portò seco bambina dall'Oriente, e mi apprese la lingua e i costumi della vostra nazione. Egli mi onorava particolarmente della sua affezione, e mi ha conferito una speciale autorità sulle donne del vostro serraglio. - Mio padre, esclamai tra me stesso, non aveva gusti depravati, non aveva deficienza di senso estetico ... una così bella creatura! Ma egli doveva aver passato i sessant'anni ... è impossibile ... E rivoltomi ad Opala le dissi: Mio padre vi amava? - Molto. - Di che affetto? Il volto di Opala si coprì d'un vivace rossore. Io che capiva a stento in me stesso, non seppi trattenermi dall'abbracciarla, esclamando: io pure vi amerò molto, io vi lascierò intatta l'autorità conferitavi da mio padre. Dio mio! voi siete sì bella!… voi sarete la mia prediletta e la mia regina, - È egli vero? disse Opala. - Quante è vero l'affetto che sente già il mio cuore per voi. - Per me! la vostra schiava .... - Non dite così, interruppi io - e in quell'istante osservai che le altre donne si ritiravano inchinandosi e ci lasciavano soli - dite la vostra amante, la vostra sposa; trovate, se potete, una parola sì dolce che valga ad esprimere ciò che voi sarete per me. Opala si gittò alle mie ginocchia, e abbracciandole disse: Grazie, grazie, io pure vi amerò; io languiva qui così sola, così abbandonata ... perché vostro padre .... era sì vecchio vostro padre ... e sì stizzoso! Voi siete tutt'altra cosa. Perché io non era stata educata qui, in quest'isola ... oh! sì, io vi amerò molto, non vivrò che per voi; e dormirò sul vostro tappeto, vi darò a bere il sorbetto colla mia bocca, vi solleticherò colle penne del mio ventaglio, vi farò riposare la testa sulle ginocchia, vedrete, vedrete! Oh buona creatura! io dissi tra me stesso, sarei pur felice con te, E pensai: se fosse possibile abbandonare il mio regno, fuggire con questa fanciulla, portar meco i tesori di mio padre, quel diamante favoloso, queste verghe d'oro ... e non veder più questi Denti bianchi, questi Denti neri ... questi odiosi ministri ... sottrarmi ad un supplizio spietato .... E mosso da un trasporto di affetto sincero, aggiunsi abbracciandola e sollevandola: sì, mia diletta fanciulla, se io potessi fuggire con te, portarti meco nella mia patria! ... perché devi sapere che mi si vuole già ritogliere il regno, che si pretende deturparmi il viso, forarmi il naso, il mio naso greco, il naso caratteristico della mia famiglia ... E poi ... Ma in quell'istante un fracasso terribile venne a troncare le mie parole. Io mi rivolsi e vidi il primo ministro che entrava ansante impallidito nel padiglione, e dietro ad esso alcuni ufficiali di Corte, uno dei quali mi disse: avvengono dei gravi disordini; è necessario che Vostra Maestà si affretti ad installarsi nella reggia; alla sua incoronazione si penserà dopo ... Il popolo non ha prestato fede alle parole dell'onorevole ministro che voleva giustificare il diniego di Vostra Maestà a subire tutte le formalità di questa incoronazione. Indarno egli ha asserito che ella ne è impedita da un raffreddore potente, che ha inteso egli stesso lungo il viaggio dei fragorosi starnuti reali .... non gli si è creduto: il sentimento nazionale è scosso profondamente da questa notizia, e il rimanente dell'esercito dei Denti bianchi ha abbandonato senz'altro le sue bandiere per congiungersi alle file dei ribelli. Bisogna affrettare l'entrata nella capitale finché la reazione non si è organizzata, e non si è posta in grado d'impedirlo. I Denti neri sono per noi; ove il giudizio pubblico che vostra maestà presiederà oggi, incontri il favore popolare, le sorti della monarchia possono essere ancora rassicurate. Io ho potuto, dissi allora, sollevandomi di tutta la persona, animato da non so qual forza interna, io ho potuto forse mostrarmi debole d'innanzi ad un'esigenza cui le abitudini contratte nella mia patria mi rendevano un poco ripugnante, ma non lo sarò mai d'innanzi agli uomini che vogliono spogliarmi del regno, privarmi dei sacri diritti che mi sono stati trasmessi da mio padre. Se non potrò sedere sul trono di Potikoros, saprò almeno morire difendendolo, E affacciandomi all'uscio del padiglione, e guardando con occhi torvi la folla, esclamai con voce più alta; recatemi le mie armi e il mio cavallo, che io indossi il mio paludamento reale, tutti i miei distintivi di re, e la corona, aggiunsi prendendomela e posandomela sul capo; saprò ben io difenderla da chi si attentasse a tormela. I miei ministri e i miei ufficiali meravigliati da tanto ardimento mi fecero recare in fretta il mio cavallo, e mi aiutarono ad indossare i miei distintivi. Dopo che, fiero del mio coraggio, balzai in sella colla spigliatezza d'un giocoliere e mi avviai in mezzo ad essi alla capitale del regno, e alla reggia. Ma il coraggio veníami meno lungo la via, L'accoglienza poco lusinghiera della popolazione, il freddo contegno de' miei ministri, le urla selvaggie dei ribelli, quei crocchi di Denti bianchi che incontravamo ad ogni istante sul nostro passaggio mi facevano venire la pelle anserina, o ciò che si dice più comunemente la pelle di oca, come se la mia sacra epidermide reale fosse stata l'epidermide del più volgare e del più ignobile de' miei sudditi, E tentando di dare come poteva meglio una diversione qualunque alle mie idee. immaginava come le oche debbano trovarsi in uno stato di spavento incessante se quel fenomeno della loro pelle è continuo, e mi sentiva tratto da un sentimento di pietà, a commiserarle. Che se così non fosse, come potremmo noi esprimere, volendo attenerci strettamente alla medesima frase, lo stato di spavento in un'oca? Potremmo forse dire che l'oca ha la pelle di oca? Io comprendo ora come il quesito che andava formulando in quel doloroso viaggio a me stesso, fosse meno ancora che puerile e non consentaneo alla mia dignità di monarca; pure confesso che me ne trovava imbarazzato, e che fu in virtù di quell'imbarazzo che giunsi alla reggia senza che i motivi di terrore che mi circondavano, avessero potuto cagionare in me dei fenomeni più sensibili e più complicati. La reggia era un edificio stupendo; tutte le meraviglie, tutte le delizie, tutte le ricchezze dell'Oriente vi erano state accumulate a larga mano. Mio padre aveva saputo conciliare fastosamente la mollezza dei costumi orientali colla severa grandiosità dell'architettura europea. Non credo vi sieno in Europa reggie o palazzi di privati più eleganti; certo io non aveva né veduto, né immaginato mai edificio più sontuoso e più splendido. Quantunque le pareti fossero tutte in legno di noce d'India, gli intagli erano sì stupendi, e le decorazioni in oro, in avorio e in argento eseguite sì maestrevolmente, e con tanta grandiosità di dimensioni, che le proporzioni del fabbricato e l'eleganza di quegli ornati non erano inferiori a quelli di qualunque casa europea. Il mio appartamento speciale era uno di quei ritiri incantevoli che si sognano a quattordici anni, di cui spesso non si ha neppure la facoltà di concepire un'idea, uno di quegli edifici che l'architettura nostra costretta nei limiti inesorabili dell'arte e delle sue tradizioni, non avrebbe mai lo slancio e l'ardimento necessario a creare. Io vi rimasi sventuratamente sì poco che non potrei darne una descrizione dettagliata. Non ho serbato memoria che delle stelle mobili che si perdevano nell'azzurro del soffitto di cui non si vedeva il fine, e che gettavano onde di luce abbagliante del colore dello smeraldo. Forse in quel cielo artificiale era rappresentato un intero sistema planetario, co' suoi fenomeni, colle sue orbite, con tutte le sue leggi di evoluzioni. Ricordo il pavimento elastico e semovente, tutto tempestato di rubini, la cui azione di elasticità era combinata per modo, che cedendo dolcemente sotto la pressione del piede e rialzandolo tosto per forza propria, rendeva affatto nulla la fatica del camminare, in guisa che vi si avrebbe potuto passeggiare delle intere giornate senza provare il menomo sintomo di stanchezza. Mi sovvengono pure alla memoria alcune specie di incensieri che appesi a certi arpioni d'oro massiccio sporgenti dalle pareti, si dondolavano per moto proprio; ed emettevano un vapore profumato, in mezzo alle cui spire volteggiavano delle figurine nude, le quali cambiavano forma e colore ad ogni istante, e giunte ad una certa altezza, si assottigliavano e si scioglievano in fumo. Le esalazioni di quei turiboli agivano sì potentemente sui sensi che io mi sentiva come preso da ebbrezza, né poteva prestare attenzione al canto soavissimo di certi uccelli che non vedeva, ma che pensai dovessero essere rinchiusi in una gabbia sospesa nell'azzurro del soffitto. Non parlerò del mio letto, del mio trono, di tutti i mobili delle mie stanze; sarebbe impossibile dirne la foggia, l'uso, i dettagli; erano pelliccie sovrapposte a pellicce, tramezzate di strati di petali di rosa che si mutavano ogni giorno: le sedie si cullavano da sé, volendo ristavano: e le dame di corte - le più attraenti beltà di Potikoros - avvolte in un semplice velo color di rosa, andavano e venivano per le stanze, ansiose di sorprendere ogni mio più piccolo desiderio, ogni mio bisogno più insussistente, e soddisfarlo colla rapidità del pensiero. Appena posto piede nel mio gabinetto particolare, alcune di queste dame mi presentarono il mio nuovo costume di monarca, e si accinsero a spogliarmi del mio abito di borghese (sotto il mantello reale che avea indossato nel padiglione, io vestiva ancora in quell'istante un abito a coda di rondine, di cui non avevo per anco soddisfatto il conto al mio sarto) per mettermi in grado di presiedere al giudizio popolare in tutta l'imponenza, e in tutto lo splendore della mia carica. Ma il mio pudore non mi permetteva di cedere all'invito di quelle dame rispettabili; io mi sentivo salire il rossore fino alla punta del naso; e mi provai a far loro conoscere la mia ripugnanza con un discorso di questo genere: - Egregie signore ... compitissime signore ... le mie abitudini di toeletta; ... il rispetto che io nutro per le loro persone ... non mi permettono di mostrarmi qui in tutta la semplicità del mio costume naturale ... e oltre ciò, i miei arnesi di biancheria, le mie mutande ... in un viaggio sì lungo ... senza la risorsa del bucato ... esse capiranno .... E stava per aggiungere peggio, ma mi avvidi che nessuna di esse intendeva la lingua del mio paese; e non potendo far di meglio, lasciai fare, con quanta confusione da mia parte, permetto a' miei lettori di immaginarlo. Quando mi trovai vestito, attilato, serrato, come in una morsa, dalle cinture di quell'abito tutto ornato di lamine di metallo e di perle, avendo chiesto dell'ora fissata pel giudizio pubblico, e avendo osservato nel mio orologio, (un vecchio orologio di Ginevra che aveva avuto cura di regolare sul meridiano di Potikoros) che vi mancava una buona mezz'ora, chiesi di essere condotto al mio serraglio; e mi vi avviai in mezzo alle persone del mio seguito, parte delle quali mi precedevano agitando dei grossi ventagli di piume, e parte recando con sé alcuni di quegli incensieri che aveva già veduto nelle mie stanze. Dio! dove troverò io espressioni sì eloquenti che bastino a manifestare la sorpresa, la meraviglia che provai alla vista del mio serraglio! Io era rimasto muto ed estatico. Appena ebbi la forza di pronunciare alcune parole per accomiatare gli onorevoli ufficiali della mia casa che mi vi avevano accompagnato. Non farò una descrizione di quel luogo: sarebbe impossibile. L'eleganza, la mollezza, il lusso del mio apartamento erano uno sfarzo meschino a confronto della magnificenza di quello, tutto si confondeva in un'onda immensa di luce: era una di quelle illusioni ottiche che si provano nei sogni da fanciullo; qualche cosa di simile a quelle visioni che si ottengono a quell'età, vellicando le pupille col rovescio della mano. Qua e là negli interstizii d'un lungo colonnato erano appese delle reticelle di seta ripiene di veli e di pizzi, dentro le quali alcune delle mie fanciulle vestite in quel semplice e delizioso costume di Potikoros, si dondolavano agitando i loro piccoli ventagli. Altre stavano sedute su certi divani di raso azzurro, raccontandosi novelle di fate e di genii; altre mangiucchiavano confetti o coccole profumate, di cui mordevano la buccia coi loro dentini (credo aver detto che le donne del serraglio erano tolte tutte dalla tribù dei Denti bianchi) altre infine giuocavano con dei veli, con delle piume; o imbeccavano delle tortorelle che erano grandi quanto uno dei nostri scriccioli, e dei piccoli colibrì che non erano più grossi d'una farfalla. Opala (io l'aveva cercata collo sguardo appena posto piede in quel santuario) Opala già mutata d'abbigliamento e raggiante della bellezza più attraente, era seduta sopra un seggio più elevato, una specie di trono che occupava per segno di distinzione. La sua testa graziosa si riposava in attitudine di pensiero sopra un soffice guancialetto di velluto; i suoi piedini rinchiusi in una pianella impercettibile d'un tessuto serico quasi trasparente, posavano riuniti e composti sopra uno sgabellino d'oro e di avorio, le sue mani piene di una tacita voluttà le pendevano giù pei fianchi in atteggiamento di abbandono, e le sue lunghe palpebre mezzo socchiuse non lasciavano ben indovinare s'ella dormisse o sonnecchiasse per vezzo fantasticando. Al rumore de' miei passi (nessuna pianella del mio guardaroba reale avendo potuto calzare al mio piede, io portava tuttora il mio unico pajo di mezzi stivali a doppia suola), Opala si scosse, e vedutomi, scivolò giù dal suo trono, e venne ad inginocchiarsi a miei piedi. A quella vista tutte le reticelle sospese si abbassarono, non so come, fino al pavimento; le fanciulle ne uscirono così abbigliate come erano, e si prostrarono esse pure ad una breve distanza da noi. Una musica divina e sommessa incominciò in quel momento a farsi udire nel serraglio, e ad elettrizzarmi colle sue note. - Nobili dame, io dissi rialzando Opala, e rivolgendomi alle altre, cui accennai di fare altrettanto, prego .... insisto perché esse si alzino; qui non vi è etichetta di Corte, non vi sono leggi di convenienze ... Prego a voler considerare la mia persona reale come la persona di un semplice amico, come una persona di famiglia ... già; intendo introdurre delle modificazioni nel regime interno di questa nostra società ... voglio dire delle leggi d'uguaglianza una parità di diritti, un equa ripartizione di .... E non venendomi al balzo la parola che calzasse a dovere, temendo di prometter troppo, e desiderando per altro lato di trovarmi qualche istante solo con Opala, aggiunsi: già ... so ben io quel che intendo di fare ... Le prego intanto di risalire nelle loro reticelle, nei loro nidi ... le prego a rioccupare i loro divani ... io mi farò un dovere di venire più tardi .... col tempo ... appena lo permetteranno le gravose esigenze della mia carica, a rendere a ciascuna di esse l'omaggio del mio rispetto e della mia ammirazione. Fui grato alla Serenità di mio padre di aver introdotto nel sistema educativo del serraglio l'insegnamento della lingua del mio paese, poiché tutte quelle mie fanciulle, risalirono all'istante nelle loro reticelle; e Opala, prevenendo i miei desiderii, mi prese per mano e mi condusse nel suo gabinetto particolare. Ci sedemmo sopra un soffice tappeto di Persia. Io era sì stanco per le fatiche della giornata, e sì turbato da tutte quelle apprensioni d'ogni genere, che quello stato di prostrazione m'induceva quasi per bisogno alla tenerezza e ad una espansione confidente e sincera. - Quanto siete buona! io dissi ad Opala abbracciandola, quanto siete bella! Divina creatura! Voi mi avete preceduto in questa reggia, dove io non rimarrò forse molto tempo, e d'onde non mi sarebbe doloroso l'allontanarmi, se non fosse pel pensiero della vostra perdita. Non credeva di trovarvi subito qui, ve ne ringrazio; aveva proprio bisogno di sollevarmi un poco con voi dalle cure dolorose del mio Stato. - Io posso tanto sul vostro cuore? - disse la fanciulla - quanto ve ne sono grata! Oh, voi siete sì diverso da vostro ... era sì nojoso vostro padre. Non amava che di farsi raccontare delle novelle, di passeggiare su e giù per le nostre sale, di regalarci qualche balocco, di farsi accompagnare a braccetto fino alla soglia del suo appartamento, di farsi reggere da noi la coda dell'abito .... Era insoffribile, perdonate, ma era insoffribile .... Già, credo che avesse settant'anni. - Pressapoco. Ecco! Ma voi siete sì giovine, sì bello, sì vivace. Non sapete ... io tremava vedendovi nel padiglione ... temeva che vi si volesse costringere a subire quella barbara usanza del nostro paese. Non che mi impaurisse il pensiero che aveste a perdere il vostro trono, giacché vi avrei amato lo stesso, e voi mi avreste amata ancora di più; ma tremava per me medesima.. mi avrebbe fatto ripugnanza vedervi col naso forato, vi avrei abbracciato con dispiacere. Se aveste veduto vostro padre ... che figura faceva vostro padre col naso così trapassato da quell'osso! Ma ... ora come farete a sottrarvi a quel supplizio? Vi siete rifiutato di acconsentirvi? - Sì. - E credete di poter sfuggire all'adempimento di quest'obbligo crudele? - Non so, diss'io, ma per fermo sono risoluto a niegarmivi. Tanto più che voi mi preferite così, che non mi amereste altrimenti .... - Oh sì, sì, disse la fanciulla abbracciandomi con innocente civetteria, non voglio, io, che vi si guasti il naso, questo naso greco, questo naso così grazioso .... Ma del resto io vi amerei in tutti i modi. E se voi doveste abbandonare quest'isola io vi seguirei lo stesso. Non è vero che voi mi permettereste di seguirvi? Son io, dissi, che vi seguirei, che perdendo il mio regno, troverei un compenso adeguato nell'acquisto che potrei fare del vostro amore. Perché… soltanto che voi mi amiate, che siate disposta a rifuggirvi meco nel mio paese, io avrò la forza di oppormi a tutte le torture che mi minacciano. Credo che i tesori di mio padre superino di gran lunga le più ricche fortune che ci sono in Europa e in quanto ai mezzi di rimpatriare, i miei ministri sono abbastanza corruttibili - come tutti i ministri che ho conosciuto nel mio paese - per lusingarmi che vorranno accordarmeli. - Quanto sarei contenta di venire con voi nel vostro paese! Non crediate già che noi siamo felici qui dentro. Non amiamo nessuno, noi; non siamo amate da nessuno: io per esempio mi reputava assai sventurata prima di vedervi; ed ora ... sento bene che sarò felicissima con voi, tanto più se lungi di qui, perché ... queste dame ... ve ne sono delle graziose, delle più avvenenti di me .... - Non è possibile, io dissi con asseveranza. - Oh, sì, diss'ella ve ne sono delle più graziose ... e voi le amereste. - Mai. - Voi le amereste. - E via, diss'io abbracciandola, non pensate a queste cose. - Una scena di gelosia, a quest'ora, ruminava intanto tra me stesso; e vedendo che Opala aveva gli occhi inumiditi di lacrime, pensai di dare una diversione più lieta al nostro discorso. Ma non trovava argomento di una diversione che tornasse anche acconcia a' miei disegni. Cambiai argomentazioni di sbalzo. - Che occhi furbi che avete, le dissi affissandola con aria che stava tra l'ammirazione e l'insolenza. - Non è vero. - Sì, è vero, avete degli occhi meravigliosi veramente! E che capelli! Lasciatemi toccare .... che trecce piene, abbondanti! Ma non avete freddo ai vostri piedini, così, con quelle pianelle sì trasparenti? - No. - È impossibile. Che piccoli piedi! scommetto che sono più brevi della mia mano. Vediamo, lasciatemi misurare. - Ecco. - Vedete: avanza tutta l'unghia del dito, tanto così .... Siete pur graziosa! Come non amarvi? Bellissima creatura! - Via, via, voi mi adulate .... - No, non è vero. - Sì. - No, ve lo giuro. - Giurate soltanto di amarmi. - Lo giurerò dopo. Datemi un bacio. - Ecco. Ma Opala aveva detto troppo presto questa parola. Mentre che ella curvava il suo volto sul mio si arrestò a mezzo dell'atto: la fanciulla aveva ascoltato un rumore improvviso all'uscio del gabinetto. - Affrettatevi, diceva dal di fuori colla sua voce stentorea, il mio primo ministro, l'ora del giudizio è già trascorsa, e la folla vi attende con impazienza; un indugio maggiore potrebbe peggiorare le gravi complicazioni politiche in cui versiamo, non fatevi aspettare più oltre. Mio Dio! io dissi, interrogando di nuovo il mio vecchio orologio di Ginevra, è vero, l'ora fissata è trascorsa di qualche minuto. Ma è un abuso cotesto .... ho o non ho un'autorità sovrana, assoluta? Disturbarmi, sorprendermi così nelle mie stanze, interrompermi durante le espansioni più doverose delle mie tenerezze domestiche? Se giungo a consolidarmi sul trono, rifarò da capo il regolamento interno della mia casa. E ricordandomi che il ministro attendeva fuori dell'uscio - vengo, soggiunsi a voce più alta, sono da voi, avvertitene il popolo. Quindi abbracciai la fanciulla che mi diceva: è un vero dispetto, venirvi ad importunare a questa ora. Che orrore! Ma ci rivedremo stassera. Mi avviai alla sala del giudizio: era mia intenzione di tenere un contegno severo, di impormi, di farmi temere; ciò che pareami sarebbe tornato assai più efficace di un'indulgenza che i miei sudditi erano ben lungi dal meritare. Oltre a ciò aveva in animo d'introdurre nelle leggi dello Stato alcune disposizioni, la cui saggezza avrebbe potuto dare il concetto più lusinghiero della mia sapienza governativa. - Sarò severo, diceva tra me stesso, ponendo il piede sul limitare della sala, sarò inflessibile: e debbo confessare che in quel momento la mia anima macchinava tristi progetti a danno del mio popolo. Se io riesco a consolidarmi sul trono; se coi tesori di mio padre potrò formare un partito numeroso alla mia causa, muterò sull'istante i vecchi statuti del Regno - ruminava tra me medesimo - e cambierò il governo costituzionale che mi tiene legate le mani in un governo dispotico. Farò, come mio padre, un colpo di Stato. Che cosa è questo governo costituzionale? Una derisione per la mia persona, per la mia qualità, per le tradizioni gloriose della mia casa. Il popolo fa ciò che gli aggrada, e io debbo accennare della testa come un fantoccio snodato di Norimberga quando gli si tira il filo che lo fa gestire. Aveva appreso nel mio paese come si debba governare una nazione: allora era suddito, adesso era re, ma non si trattava che di invertire le parti. - Guai a quel capo dello Stato, ripeteva a me stesso, che non sa fare del suo popolo tanti tipi perfetti di cretino, che invece di pensare a fruire di tutte le risorse della sua posizione, e a dare al paese buon numero di sudditi di sangue reale e plebeo incrociato, si occupa coscienziosamente dell'avvenire e della dignità della nazione che gli ha affidato i suoi destini. Questa testa coronata è una testa già distaccata dal collo. La civiltà è una mannaja che taglia le teste coronate. Io confesso che il mio orgoglio non lasciava più alcun limite alla mia fantasia. In quell'istante di entusiasmo, la teocrazia stessa era ancora poco per la mia ambizione. Entrai nella sala, e presi posto sul trono: a' miei fianchi stavano i ministri, d'innanzi a me i colpevoli, all'intorno la folla. I Denti neri si alzarono e mi fecero un'ovazione fragorosa; ma quegli scellerati Denti, bianchi coi loro orribili denti bianchi, armati dai piedi alla testa, mi guardarono torvi e sdegnosi tacendo. Feci allora un piccolo discorso di occasione che provocò qualche applauso dalla tribuna dei giornalisti stipendiati; dopo di che tentai il mio colpo d'effetto; domandai che mi si portasse la raccolta delle leggi dello Stato, e pregai il mio segretario particolare a dar lettura dei nuovi regolamenti che io aveva raffazzonati a questo scopo lungo il viaggio, e che intendeva inserire in quegli Statuti. Consistevano in una serie di articoli relativi all'abolizione del melodramma dal teatro Potikorese, basati su queste ragioni: essere il dramma musicale il non-senso più enorme, l'assurdo più mostruoso e più ridicolo di cui la scienza si sia resa colpevole. A questo progetto ne andava annesso un altro relativo ai mimi, ai ballerini, ai tenori e ai baritoni dalla trachea più o meno dilatata; ai primi dei quali doveva essere inflitta una pena di ridicolo pel diritto di esercitare il loro mestiere, e ai secondi s'imponeva l'obbligo di ricordarsi consistere tutto il loro merito nella forma e nella dimensione della trachea. Un secondo progetto di legge regolava i diritti degli autori e degli editori. Cinquanta articoli si riferivano esclusivamente a questi ultimi, ed erano sì severi e ad un'ora sì giusti, che mi sento addoloratissimo di doverli ora tacere in causa della loro prolissità. Mi limito a rammentare che in uno di essi, per un caso di pirateria libraria, era proposta la pena della sospensione pei piedi fino a totale estinzione di vita, - e credo che fosse poco. Altri articoli stabilivano pene pei delitti letterari. V'erano severamente puniti i lavori di collezione e di circostanza; quei lavori di schiena che si atteggiano a lavori di testa, ec. ec. Un'appendice a questa disposizione interdiceva alla classe dei professori di credersi letterati, e li chiamava responsali d'innanzi alla posterità della istruzione eunuca e della catalessi intellettuale che è condannata a subire la giovine generazione dei tempi nostri. Un'altra disposizione legislativa toccava delle fame imposte e delle fame usurpate; proponeva pene pei letterati funamboli; condannava a perpetuo bando dall'isola i poeti che si fossero attentati a dar lettura dei loro versi a qualche infelice costretto a subire questa violenza, e vietava finalmente la rappresentazione del dramma e della tragedia - considerate come le più ridicole parodie del dolore e delle sciagure umane. Erano, in una parola, un complesso di leggi inspirate dalla più alta saggezza, e la mia mortificazione non fu sì grande come la mia meraviglia quando intesi che esse erano già state introdotte nel Codice di Potikoros, fino dal tempo in cui quest'isola si reggeva a repubblica. La repubblica aveva dunque giovato a qualche cosa? Per la prima volta io compresi che il Due dicembre di mio padre aveva avuto in sé tutto il carattere di un tradimento indegno, e mi sentii tratto a fare un apprezzamento più benigno di quegli onesti Denti bianchi che coi loro atteggiamenti minacciosi, e coi loro terribili incisivi foggiati ad uncino, reclamavano la ricostituzione del primo sistema governativo dello Stato. Ma in quel momento non poteva, come avrei voluto, soffermarmi su queste considerazioni; e d'altronde il mio interesse personale mi avrebbe reso ingiusto nell'apprezzarle. Credete voi che tutti coloro che sedettero - come io ho seduto - su un trono, non abbiano fatte le stesse considerazioni, benché le abbiano poi soffocate nel fondo della coscienza collo stesso spirito di egoismo? Un fatto meraviglioso si presenta, fino dalle prime epoche della storia dei popoli, agli occhi dell'osservatore e del filosofo. Cinque o sei furbi matricolati regolano a bacchetta i destini di tutta questa massa sterminata di pecore che è l'umanità. Ho letto, non so più dove: mala bestia esser l'uomo, divina cosa la umanità. Non è vero! Per me ho dovuto sempre guardare all'uomo, all'individuo, alla creatura isolata per sapermi trovare meno in disagio colla massa degli uomini; mi sono riconciliato alla meglio, dacché vivo, con tre o quattro di loro, ma credo che non mi riconcilierò mai col resto dell'umanità. D'altronde questa credenza ha cessato di addolorarmi. Ma bando alle digressioni. Era tempo d'incominciare il giudizio, e feci perciò avanzare il primo colpevole. Fu data lettura dell'atto d'accusa. Io era tutto orecchi nell'ascoltare, anzi per servirmi d'una frase inglese, era tutto un orecchio, poiché non ignorava che il mio destino dipendeva totalmente dall'esito di quel giudizio. L'atto di accusa era concepito press'a poco in queste parole: «Akriundaz, della provincia di Pikliya-pokenos, di anni trentadue - della tribù dei Denti neri, di professione incettatore di merli bianchi, è imputato del furto di due pani rubati nella bottega Srikis Tenariasbikeloz esistente sul corso principale della nostra città di Potikoros, con rottura d'un vetro, e senza circostanze attenuanti». Benché la lettura di quell'atto scritto in lingua Potikorese avesse fatto poco meno che spezzarmi i timpani delle orecchie, riordinai come sapeva meglio le mie idee, e invitai l'imputato ad esporre le sue difese. - L'incetta dei merli bianchi, disse egli, essendo diventata più difficile e meno lucrosa per l'introduzione del merlo nero operata dalla Serenità di vostro padre nella nostra isola, e in causa dell'omaggio che vien reso ad esso dal popolo, essendo caduti in dispregio i merli dell'altro colore, io mi sono trovato da qualche tempo fuori della possibilità di vivere dei frutti del mio commercio. Ho chiesto stamane all'onorevole fornaio Tenariasbikeloz che mi fossero dati ad imprestito alcuni pani. Rifiutandomeli egli io ho spezzato un cristallo della vetrina e ne ho tolti due. Io sono un onesto Dente nero. Causa essenziale di questa violenza, fu l'intenzione che aveva di festeggiare, come mi permettevano i miei mezzi, l'assunzione di Vostra Maestà al trono di Potikoros. Questa difesa cui non mancava l'intingolo dell'adulazione, mi dispose in favore dell'imputato. - Avreste dovuto, io dissi, far conoscere alle autorità del vostro paese - parmi, se non erro, Pikliya-pokenos - che vi trovavate nelle circostanze che avete esposte; quel solerte questore di polizia vi avrebbe autorizzato a chiedere l'elemosina senza violare le leggi dell'onestà con una appropriazione sì violenta. - A chiedere l'elemosina! disse meravigliato il mio ministro. E vide che gli uditori avevano sbarrato tanto d'occhi nell'udire quelle parole. - Sì, ripresi io, a voce più alta, lo si sarebbe autorizzato alla mendicità, lo si sarebbe munito di apposita placca, come corre l'uso nei paesi civili dell'Europa. Un bisbiglio immenso si sollevò dalla folla, un bisbiglio di disapprovazione universale. Io sentii salirmi il sangue dai piedi alla testa, e subito precipitare dalla testa ai piedi, e rimontare di nuovo alla testa. - Ignoro, aggiunsi con coraggio, quali sieno le leggi di polizia di questo paese, ed è evidente che non possa sull'istante conformarvimi. Sarà mia premura di prenderne subito cognizione. - Tra noi, interruppe il mio segretario particolare, non è ammessa in alcun modo la mendicità; appena conosciamo il significato di questa parola per le notizie che abbiamo avuto delle usanze invalse in Europa. Nell'isola di Potikoros ogni suddito ha diritto al lavoro; e in caso d'impotenza, ha diritto al mantenimento a spese dello Stato. - Sono leggi veramente saggie, io dissi, veramente apprezzabili. Ringrazio il mio degno segretario particolare di avermene reso informato; ma .... riprendiamo il corso del nostro processo: L'onorevole fornaio .... - Tenariasbikeloz, suggerì uno dei ministri. - Tenariasbikeloz .... si trova egli presente all'udienza? In questo caso deponga se è vero che l'imputato gli abbia chiesto ad imprestito i due pani prima di rubarglieli. Il fornaio si avvicinò al tavolo della presidenza e depose esser vero. - Quando è così, io ripresi, atteggiandomi a severità, udite le giustificazioni dell'accusato, visto la necessità di mantenere inviolate le leggi fondamentali d'ogni diritto civile, tenuto conto dell'asserzione del derubato, e delle altre cause attenuanti, condanno il nominato Akriundaz - credo Akriundaz, incettatore di merli bianchi, alla pena di quattro anni di lavori forzati. Non avessi mai pronunciata quella sentenza! Un urlo di disapprovazione si sollevò dalla folla, un urlo così fragoroso e feroce che i miei stessi ministri se ne sentirono impauriti I capelli mi si drizzarono sì rigidamente sul cranio, che m'accorsi che la mia corona doveva essersi sollevata due buoni pollici dalla testa. I Denti bianchi, digrignando i loro terribili incisivi, domandavano che ne andasse libero l'accusato, e che si sottoponesse invece a processo l'onorevole fornaio Tenariasbikeloz: adducevano a pretesto il diritto che egli aveva di appropriarsi quei pani che aveva chiesti, e che gli erano stati rifiatati; e citavano non so qual articolo di legge, nel quale era detto che ogni cittadino resosi, per qualsifosse ragione, impotente al lavoro, poteva esigere il mantenimento gratuito a spesa dei privati ricchi e dello Stato. Io non so come giungessi a sedare quel tumulto. La fermezza del mio contegno e quella de' miei ministri - sento il dovere di rendere loro questa giustizia - riuscirono a poco a poco a ristabilire un po' d'ordine nella adunanza. La minaccia di far sgombrare la sala da un mezzo pelottone di Denti neri ottenne il suo effetto. Quando la calma fu ristabilita, ordinai che si facesse avanzare il secondo colpevole. Era il direttore del giornale Il Giudizio Universale (il giornale ufficiale di Potikoros) accusato di aver recato il disonore in una onesta famiglia con alcune taccie infamanti, destituite d'ogni verità. L'onorevole direttore parevami una persona seria e meritevole d'ogni riguardo, oltre di che io mi trovava in certo qual modo legato a lui da una vecchia intimità di famiglia, e sentiva il dovere di difenderlo e di pronunciare per esso una sentenza assai mite. - Ove è il gerente? io chiesi: se l'accusato non è direttore responsabile, si conduca qui il gerente e si lasci libero il giornalista. - Il gerente! esclamò il mio giudice istruttore, che cosa è il gerente? Può egli darsi che una persona qualunque si faccia responsabile dei reati di un'altra? Puniamo i reati, o puniamo le coscienze? - Un tale sistema, io dissi, è invalso in tutte le nazioni d'Europa, né io posso giudicare di questa accusa senza conoscere le leggi speciali che regolano la stampa Potikorese. D'altronde .... parmi che questo sia un fallo assai mite; una semplice riprensione .... un semplice ammonimento - Indugierò, ad ogni modo, a pronunciare la mia sentenza fino a che non avrò presa cognizione delle leggi che ho ora accennate. Prego l'onorevole magistrato a fare avanzare il terzo colpevole. Uscitone in tal guisa pel rotto della cuffia, gettai gli occhi sulla folla per conoscere l'impressione che vi avevano prodotto le mie parole. Il disordine si era in parte rinnovato; non era precisamente lo stesso scompiglio, la stessa disapprovazione plateale di prima; ma poco meno. Si vedeva chiaro che la impazienza dell'uditorio stava per prorompere in una dimostrazione più energica e più difficile a reprimere. L'interesse che destava il terzo accusato ebbe virtù di distogliere in tempo i loro animi da questa disposizione. Era egli un alto funzionario governativo, imputato di grave prevaricazione per una somma di molti milioni sottratti alle casse dello Stato. Come suole avvenire in simili casi, le prove erano bensì manifeste, ma confutabili in mille maniere, e facili ad essere ritorte a danno di altri funzionarii. Io diressi ed illuminai in alcuni punti lo svolgimento del processo; ma benché fosse universale la convinzione che si aveva del suo reato, le prove volute dalla legge non avevano tutti i dati necessarii per autorizzarmi a pronunciare un verdetto di colpabilità. Io mi trovava posto in una titubanza terribile - era il caso dell'incudine e del martello - e considerando che l'accusato era un Dente bianco, e faceva parte di quella tribù di cui doveva starmi specialmente a cuore il favore; che egli apparteneva alle alte sfere governative, nelle quali è stabilito il principio che una mano lava l'altra, che questa appropriazione sarebbe stata considerata nel mio paese come una bagattella di nessuna importanza, come uno spostamento di cifre (è la parola addottata da alcuni governi costituzionali per definire i furti governativi) credetti mostrarmi abbastanza severo nel pronunciare una sentenza che lo spogliava semplicemente della sua qualità, e lo esonerava dalla sua carica. Fu la scintilla che cagionò l'incendio: il furore del popolo proruppe sì vivo, sì unanime, sì violento che io mi avvidi subito che non vi era più mezzo a contenerlo. I miei stessi ministri erano rimasti meravigliati della stoltezza del mio giudizio; e temendo che i rivoltosi non li considerassero come facienti causa comune col re, si affrettarono a ritirarsi prudentemente nelle anticamere. Io rimasi come paralizzato, come pietrificato sul trono; e solamente alcuni istanti dopo, quando mi avvidi che la folla gridando «abbasso il re, si destituisca il re,» ed altre graziosita di questo genere, si accingeva a superare lo steccato per impadronirsi della mia persona, pensai a mettermi in salvo nell'interno della reggia. Non dirò quali fossero i pensieri che mi passavano allora pel capo, - rapidi, vari tumultuosi, inutili tutti .... Fu però un'incertezza di un istante. Quando vidi che le persone della mia casa cercavano di rifuggirsi nei gabinetti segreti, e non solo non avevano a cuore la salvezza della mia maestà reale, ma era molto se non attentavano essi medesimi alla mia vita; quando intesi che il tumulto popolare andava orribilmente crescendo, e che i Denti bianchi erano già penetrati in alcune sale della reggia, deliberai di cercare salvezza nella fuga. Mi precipitai verso il mio serraglio, poiché non sentiami la forza di abbandonare il mio regno senza portarne meco la fanciulla che mi aveva affascinato, e abbracciando Opala, le dissi: La rivolta sta per spogliarmi del regno e della vita .... fuggiamo, vieni meco: io sarò ancora il monarca più felice, il più ricco, il più fortunato se potrò trascorrere il resto della mia esistenza con te .... se tu sarai mia, mia cara Opala, mia dolce fanciulla! Sì, sì, fuggiamo nella mia patria, dove la dignità e la coscienza popolare assicurano la monarchia da questi pericoli, dove i re non sono costretti ad infiggersi un osso di balena nel naso, ma menano essi stessi pel naso i sudditi devotissimi .... vieni, vieni .... Ma lascia prima che io prenda i tesori di mio padre .... Ove sono i tesori di mio padre? quel diamante favoloso, quegli smeraldi .... Opala allacciandomi il collo colle sue braccia bianche e delicate, mi diceva colla voce interrotta dal singulto: - Non uscire, non uscire di qui; forse i Denti bianchi non entreranno in questo tempio, rispetteranno il culto che queste vergini rendono all'amore, forse .... - Ma è impossibile, io interruppi, fuggiamo, fuggiamo, ripariamo verso il mare; se possiamo attraversare la capitale senza essere conosciuti, se ... Ma in quel momento si spalancò l'uscio del serraglio, e una turba di Denti bianchi apparve minacciosa sul limitare, Io non vidi che una cosa, i loro denti, tanto essi erano orribili, tanto erano bianchi, lunghi, aguzzi, scoperti dalle labbra che l'avidità del mordere aveva rovesciate e contratte in una smorfia feroce. Lo ripeto, io non vidi che i loro denti; e in questo stesso momento in cui scrivo, quelle orribili rastrelliere che si digrignavano da sé, come segregate dal resto della persona, come attaccate a qualche cosa d'impercettibile, mi balenano dinanzi agli occhi simili alle dentiere artificiali d'un cavadenti collocate per mostra sopra un fondo di velluto nero in una vetrina. Vederli e rabbrividire, e rimanere là immobile e paralizzato sul luogo, come se vi avessi messo radici, fu un punto solo. Un Dente bianco si spiccò allora dal limitare dell'uscio, e venne verso di me, avventandomi una specie di giavellotto che teneva fra le mani. Fu un istante. Opala lo vide, si rivolse, si interpose, e ... oh mio Dio! ... ricevette ella stessa il colpo mortale che mi era stato diretto. Non tenterò qui di evocare quella memoria terribile. Io vedo ancora il suo candido seno lacerato da una ferita profonda, vedo i suoi grandi occhi nuotanti nella morte e nelle lacrime, e ascolto le sue ultime parole interrotte dall'anelito: «io muoio per te ... io ti ho amato .... ricordami.» Commosso, tratto di senno, inferocito a quella vista, volli allora avventarmi, inerme come era, contro i ribelli ... ma quelle orribili rastrelliere mi balenavano ancora dinanzi agli occhi; io le vedeva ancora là, lunghe, bianche, isolate come le dentiere del cavadenti; e sentiva quel rumore sordo, quello scricchiolio freddo e secco che producevano digrignandosi. Mi arrestai a mezzo dell'atto; qualche cosa di nero mi passava dinnanzi alla vista; sentii che le mie forze mi abbandonavano ... vacillai e caddi privo di sensi. Quando rinvenni mi trovai carico di catene, e circondato da alcuni vecchi denti bianchi, i quali avevano costituito un apposito Consiglio di guerra per giudicarmi. Mi fu letto l'atto di accusa, nel quale mi si imputava di aver voluto sovvertire gli ordinamenti dello Stato con una interpretazione falsa e speciosa delle leggi che lo governavano: di aver fatto atto di disprezzo verso le usanze del paese - usanze che avevano forza di legge - rifiutandomi a trafiggere il mio naso greco con quell'ornamento grazioso di balena: di aver poste in grave pericolo la quiete e la sicurezza della nazione, costringendola, in seguito alla mia decadenza dal potere, a riadottare la forma primitiva di governo, il regime repubblicano, o ad eleggersi un re nazionale. In causa dei quali reati io veniva considerato come decaduto dal trono di Potikoros, e condannato alla pena della morte per sospensione. Fui invitato ad esporre le mie difese. Anzi tutto, io dissi non posso ammettere in questo onorevole Consiglio di Denti bianchi il diritto di giudicarmi. Io vedo qui rappresentata una sola metà della nazione. Ove è l'altra metà? Ove sono i degni rappresentanti dei Denti neri? Ma ove pure essi facessero parte di questo consesso, i diritti di un re non posson essere discussi da suoi sudditi, e le sue colpe - se un re può commettere delle colpe - non possono essere né giudicate, né punite da essi. Io venni qui, in un paese i cui ordinamenti si erano rilassati per un lungo interregno, nel quale la demagogia incominciava a difondere le sue dottrine rivoluzionarie, le cui leggi erano violate da un'anarchia impossibile ad arrestarsi. Io vi venni chiamato dal suffragio popolare, invitato da una rappresentanza della nazione, eletto dal voto di tutti i governi d'Europa. Io venni a governare questo popolo cieco e traviato che aveva bisogno di essere ricondotto sotto il regime della monarchia: vi venni per un puro istinto di umanità, per un semplice spirito di abnegazione. Affetti e interessi mi trattenevano in Europa. Il mio sangue, il sangue di mio padre, è uno dei più antichi e dei più nobili tra tutte le dinastie di quel gran continente incivilito. Io ho avuto pietà di voi; io era venuto ad apportarvi l'ordine e la felicità che regnano in molte capitali di quegli stati; mi era sacrificato a mutare il mio berretto di cotone europeo in un turbante di penne, a ricevere quaranta milioni di appannaggio, a comandare a quaranta milioni di sudditi, a vivere da monarca in questa reggia ... aveva fatto tutto questo per voi; quale è la ricompensa che mi avete accordata? Sdegno giustificarmi più oltre: la razza dei re è una razza speciale, e ogni re che si rispetti non può ammettere in voi il diritto di giudicarlo. Gli storiografi stipendiati, i sudditi devotissimi di cui non vi sarà mai deficienza nelle generazioni future mi giudicheranno. Ho detto. Uno scroscio di risa feroci accolse le mie parole, e delle voci si sollevarono dalla folla che gridavano: alla corda, alla corda. Fui condotto al luogo destinato ai supplizii. Quivi un abisso profondo, immenso, si apriva nel seno di una montagna: in fondo alla voragine, sulle punte di granito e di metallo taglienti come lame, roteavano stormi di astori e di aquile. Fui legato ad una corda annodata alla punta di un albero, il quale inclinandosi sull'abisso, ne guardava il mezzo colla cima. Prima che la corda abbandonata a sé, mi sospendesse perpendicolarmente sulla voragine, io diressi ancora alcune parole ai Denti bianchi: - Domando, io dissi, che la salma reale sia trasportata in Europa, per ricevere sepoltura nelle tombe de' miei padri. Che, ove non ottemperaste a questo desiderio, la mia nazione invierebbe immediatamente la sua flotta a bombardare i porti di Potikoros, e impadronirsi dell'isola. Né io pensava in quel momento che era impossibile tornar da quell'abisso, e che mi sarei fatto a brani cadendo sulle punte di granito che formavano il fondo. E comprendeva benissimo che la mia salma doveva aver nulla di più sacro della salma d'un zoccolante; poiché il corpo d'un re e quello d'un mendico producono la stessa specie di vermi; e, come aveva letto nel Amleto, si può gettar l'amo ad un pesce col verme che mangiò di un re, e un mendico può mangiare di quel pesce, per modo che il corpo di un re entri nelle viscere di un mendico. Nondimeno la mia vanità mi spinse a proferire quelle parole. Vanità inutile, poiché i Denti bianchi tornarono a sorridere di quel sorriso feroce che mi aveva poc'anzi agghiacciato il sangue nelle vene, e a contrarre le labbra a quella smorfia infernale, di cui non saprei darvi un'idea se non richiamandovi alla mente quello scoprirsi delle mandibole che osserviamo nei mastini e nelle fiere quando stanno per avventarsi, e che noi soliamo indicare col dire: mostrano i denti. Non si frappose più indugio alcuno al mio supplizio. Fui condotto sull'orlo della voragine, e spintovi in guisa che, essendo stato annodato alla corda, mi trovai sospeso perpendicolarmente sopra l'abisso. I cavalieri dei Denti bianchi, i miei stessi ministri, le persone più autorevoli dello Stato disposti in circolo sull'orlo della voragine, tentavano di tagliare a colpi di freccia la corda che mi teneva sospeso. Era un supplizio lungo, lento, crudele, atrocissimo. Ogni trecciolino della corda tagliato si arricciava da una parte e dall'altra, assottigliando sempre più il centro di essa, su cui erano dirette le freccie. Dopo due ore di patimenti infiniti, la corda rotta in più luoghi, non reggeva più che per un semplice filo al mio peso. Curvandomi e guardando sotto di me, io vedeva l'abisso nero e profondo che mi attendeva, gli uccelli di rapina che aspettavano il mio cadavere per divorarlo, e qua e là le ossa imbiancate degli infelici che avevano subito prima di me quel supplizio tremendo .... Un solo filo reggeva ancora la corda, le freccie passavano fischiando da tutte le parti e non la colpivano: io guardava la corda e l'abisso, poi la corda, poi ancora l'abisso, e mi contraeva, mi arricciava, mi aggomitolava, come avessi potuto con ciò sollevarmi dal fondo della voragine. Non so quanto durasse quell'agonia. A un tratto una freccia colpì nella corda, la ruppe, precipitai, innalzai un grido di orrore e ... oh mio Dio! .... mi svegliai, e mi trovai nel mio letto. - Che vergogna! mi disse Elettra appoggiata col gomito ai mio capezzale, è da jeri sera che tu dormi; sono ora ventiquattro ore .... - Ventiquattro ore! - Sì cotesta tua abitudine di bere ... io ti vegliava inquieta ... - Ventiquattro ore! ripetei tra me stesso stordito: un sogno di un giorno, perocché adesso ... - Siamo di sera. Hai, dormito un giorno intero. - Un giorno! Ed ora, miei lettori, dubiterete ancora che non sia questa la storia di un giorno della mia vita?

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IL GIORNALINO DI GIANBURRASCA

683079
Bertelli, Luigi - Vamba 1 occorrenze
  • 1912
  • MARZOCCO Sessantunesima edizione
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Ci siamo riuniti nel solito angolo del cortile, con molta precauzione, per non dare nell'occhio alla Direttrice, la quale pare che diventi più sospettosa un giorno dell'altro, e me specialmente non mi abbandona mai con lo sguardo, come se da un momento all'altro temesse qualche gherminella. Per fortuna non sospetta neppure lontanamente che la voce del signor Pierpaolo, che le ha fatto tanta paura, fosse invece la mia voce, se no mi ammazzerebbero per lo meno; perché quella donna io la credo capace di tutto! Dunque appena ci siamo raccolti in circolo, il Barozzo, che era pallido in modo da fare impressione, ha detto sospirando, con aria cupa: - Assumo la presidenza dell'assemblea... per l'ultima volta... - Tutti siamo rimasti male e ci siamo guardati in viso con espressione di grande meraviglia, perché il Barozzo era stimato da tutti un giovine pieno di coraggio, d'ingegno, e di un carattere molto cavalleresco: insomma proprio il presidente ideale per una società segreta. È seguìto un momento di silenzio che nessuno ha osato interrompere; poi il Barozzo con la voce sempre più cupa ha continuato: - Sì, amici miei, fino da questo momento io debbo declinare l'alto onore di presiedere la nostra associazione... Ragioni gravi, gravissime, per quanto indipendenti dalla mia volontà, mi costringono a dimettermi. Se non mi dimettessi sarei una specie di traditore... e questo non sarà mai! Di me tutto si potrà dire ma nessuno deve potermi accusare mai di aver conservato per un giorno solo una carica di cui mi considero indegno... - Qui il Michelozzi, che ha un'indole piuttosto tenera, per quanto di fronte al pericolo si comporti da eroe, ha interrotto, con una voce strozzata dalla commozione: - Indegno? Ma è impossibile che tu ti sia reso indegno di restare fra noi... di conservare la presidenza della nostra società! - È impossibile! - abbiamo ripetuto tutti in coro. Ma il Barozzo tentennando la testa ha proseguito: - Io non ho fatto nulla per diventare indegno... la coscienza non mi rimprovera nessuna azione contraria alle leggi della nostra società o a quelle dell'onore in generale. - Qui il Barozzo si mise una mano sul cuore in modo straordinariamente drammatico. - Non posso dirvi nulla! - prosegui l'ex presidente. - Se avete ancora un po' d'affetto per me non dovete domandarmi né ora né mai quale motivo mi costringe ad abbandonare la presidenza. Vi basti sapere che io non potrei, d'ora innanzi, aiutare e tanto meno promuovere la vostra resistenza contro le autorità del nostro collegio... Dunque vedete bene che la mia posizione è insostenibile e la mia decisione immutabile. - Tutti si guardarono di nuovo in faccia e qualcuno si scambiò anche le proprie impressioni a bassa voce. Io capii subito che le parole del Barozzo sembravano a tutti molto significanti, e, che, passata la prima impressione di stupore, le sue dimissioni sarebbero state accettate. Anche il Barozzo lo capì, ma rimase fermo nel suo atteggiamento, come Marcantonio Bragadino quando aspettava d'essere scorticato dai Turchi. Allora io non ne potei più e pensando a quello che avevo visto e sentito la sera prima dal buco fatto attraverso il fondatore del collegio, gridai con quanto fiato avevo: - Invece tu non ti dimetterai! - E chi me lo può impedire? - disse il Barozzo con molta dignità. - Chi può vietarmi di battere la strada che mi suggerisce la voce della coscienza? - Ma che voce della coscienza! - risposi io. - Ma che strada da battere! La voce che ti ha turbato così è stata quella della signora Geltrude: e quanto al battere, ti assicuro che non c'è bisogno d'altre battiture dopo quelle che ha ricevuto ieri sera il signor Stanislao! - A queste parole i componenti la società Uno per tutti e tutti per uno ono rimasti così meravigliati che m'hanno fatto compassione, e ho subito sentito il bisogno di raccontar loro tutta la scena avvenuta in Direzione. E non ti so dire, giornalino mio, se tutti son stati soddisfatti di sentire che nessun motivo serio costringeva il Barozzo a dimettersi, perché non era vero nulla che lo tenessero in collegio per compassione, mentre anzi ci avevano trovato il loro tornaconto per via dei molti convittori procurati dal tutore del nostro presidente. Ma più specialmente i componenti la società s'interessarono al racconto della bastonatura, e della perdita della parrucca, perché nessuno si sarebbe immaginato che il Direttore con quella sua aria militare si lasciasse maltrattare in quel modo dalla moglie; e tanto meno si poteva supporre che i suoi capelli fossero presi a prestito appunto come l'aria militare. Il Barozzo però era rimasto sempre distratto e come concentrato in sé stesso. Si vedeva che le mie spiegazioni non lo avevano consolato dalla terribile delusione provata quando aveva saputo di trovarsi nel collegio a condizioni diverse dagli altri. E infatti, nonostante la nostra insistenza non volle recedere dalla grave deliberazione presa, e concluse dicendo: - Lasciatemi libero, amici miei, perché io prima o dopo farò qualcosa di grosso... qualcosa che voi non credereste in questo momento. Io non posso più essere della vostra Società perché uno scrupolo me lo vieta, e ho bisogno di riabilitarmi, e non di fronte a voi, di fronte a me stesso. - E disse queste parole in un modo così deliberato che nessuno osò aprir bocca. Si decise di riunirsi al più presto possibile per eleggere un altro presidente, perché ormai s'era fatto tardi e c’era il caso che qualcuno venisse a cercarci. - Gravi avvenimenti si preparano! - mi disse Maurizio Del Ponte mentre ci stringevamo la mano scambiandoci le fatidiche parole: Uno per tutti! Tutti per uno! Vedremo se il Del Ponte avrà indovinato, ma anche a me l'animo presagisce qualche grossa avventura, per un'epoca forse molto prossima. * * * Altra strepitosa notizia! Iersera dal mio osservatorio ho scoperto che il direttore, la direttrice e il cuoco sono spiritisti... Sicuro! Quand'ho messo l'occhio al solito forellino essi eran già riuniti tutti e tre attorno a un tavolino tondo e il cuoco diceva: - Eccolo! Ora viene! - E chi doveva venire era proprio lo spirito del compianto professor Pierpaolo Pierpaoli benemerito fondatore del nostro collegio e dietro alle cui venerate sembianze io stavo in quel momento vigilando i suoi indegni evocatori... Non mi ci volle dimolto tempo né dimolto ingegno per comprendere la causa e lo scopo di quella seduta spiritistica. Evidentemente il signor Stanislao e la signora Geltrude erano rimasti molto impressionati dal mugolìo che avevan sentito la sera avanti discendere dal ritratto del loro predecessore, e ora, spinti un po' dal rimorso per la scenata fatta in presenza alla rispettabile effige del compianto fondatore dell'istituto e forse anche da un vago timore che incutevan nel loro animo i recenti avvenimenti, evocavano lo spirito dell'illustre defunto per domandargli perdono, consiglio ed aiuto. - Ora viene! Eccolo! - ripeteva il cuoco. A un tratto la signora Geltrude esclamò: - Eccolo davvero! - Infatti il tavolino s'era mosso. - Parlo con lo spirito del professor Pierpaoli? - domandò il cuoco fissando sul piano del tavolino due occhi spalancati che luccicavano come due lumini da notte. Sì udirono alcuni colpi battuti sul tavolino e il cuoco esclamò convinto: - È proprio lui. - Domandagli se era lui anche ieri sera - mormorò la signora Geltrude. - Fosti qui anche ieri sera? Rispondi! - disse il cuoco in tuono di comando. E il tavolino a ballare e a picchiare, mentre i tre spiritisti si alzavano dalla sedia e si dondolavano qua e là e si rimettevano a sedere seguendone tutti i movimenti. - Sì, - disse il cuoco - era lui anche ieri sera. - Il signor Stanislao e la signora Geltrude si scambiarono un'occhiata come per dire: - Eh! Ci abbiamo fatto una bella figura! - Poi il signor Stanislao disse al cuoco: - Domandagli se posso rivolgergli la parola... - Ma la signora Geltrude lo interruppe bruscamente, fulminandolo con una occhiata: - Niente affatto! Se qualcuno ha il diritto di parlare con lo spirito del professor Pierpaolo Pierpaoli sono io, io sua nipote e non voi che egli non conosceva neanche per prossimo! Avete capito? - E rivolta al cuoco soggiunse: - Domandagli se vuol parlare con me! - Il cuoco si concentrò in sé stesso e poi, sempre figgendo gli occhi sul piano del tavolino ripeté la domanda. Poco dopo il tavolino ricominciò a ballare e a scricchiolare. - Ha detto di no - rispose il cuoco. La signora Geltrude rimase male, mentre il signor Stanislao, non sapendo padroneggiarsi, diè libero sfogo alla gioia che provava per la meritata sconfitta della sua prepotente consorte, esclamando con accento di giubilo infantile degno più di me che di lui: - Hai visto? - E non l'avesse mai detto! La signora Geltrude si rivoltò tutta inviperita scagliando in volto al povero direttore l'ingiuria abituale: - Siete un perfetto imbecille! - Ma Geltrude! - rispose egli imbarazzato con un fil di voce. - Ti prego di moderarti... almeno in presenza al cuoco... almeno in presenza allo spirito del compianto professore Pierpaolo Pierpaoli! - La timida protesta di quel pover'uomo in quel momento mi commosse e volli vendicarlo contro la violenza di sua moglie. Perciò con voce rauca e con accento di rimprovero esclamai : - Ah!... - I tre si voltarono di botto verso il ritratto, pallidi, tremanti di paura. Vi fu una lunga pausa. Il primo a ritornare padrone di sé fu il cuoco, il quale fissando verso di me i suoi occhi di fuoco esclamò: - Sei tu ancora lo spirito di Pierpaolo Pierpaoli? Rispondi! - Io feci un sibilo: - Sssssss... - Il cuoco continuò: - Ti è concesso di parlare direttamente con noi? - Mi venne un'idea. Contraffacendo la voce come prima risposi: - Mercoledì a mezzanotte! - I tre tacquero commossi dal solenne appuntamento. Poi il cuoco disse a bassa voce: - Si vede che stasera e domani gli è vietato di parlare... A domani l'altro! - Si alzarono, misero il tavolino da una parte, rivolsero uno sguardo supplichevole verso di me e poi il cuoco uscì ripetendo con voce grave: - A domani l'altro. - Il signor Stanislao e la signora Geltrude restarono un po' in mezzo della stanza, impacciati. Poi il direttore dolcemente disse alla moglie: - Geltrude... Geltrude... Cercherai di moderarti? Sì, è vero? Non mi dirai più quella brutta parola?... - Ella, combattuta tra la paura e il suo carattere arcigno, rispose a denti stretti: - Non ve la dirò più... per rispettare il desiderio di quell'anima santa di mio zio... Ma anche senza dirvelo, credete a me, rimarrete sempre quel perfetto imbecille che siete! - A questo punto lasciai il mio osservatorio perché non ne potevo più dal ridere. * * * Stamani dopo aver scritto in queste pagine il fatto della seduta spiritistica di ierisera, mi sono accorto che uno dei miei compagni di dormitorio era sveglio. Gli ho fatto cenno di stare zitto, e del resto anche se non glielo avessi raccomandato sarebbe stato zitto lo stesso, perché si trattava di un amico fidato, di Gigino Balestra del quale ho già parlato in questo mio giornalino. Gigino Balestra è un ragazzo serio, che mi è molto affezionato e ormai ho potuto riscontrare in più circostanze che posso contare su lui senza pericolo d'esser compromesso. Prima di tutto siamo concittadini. Egli è figlio del famoso pasticciere Balestra dal quale si serve sempre mio padre, rinomato per le meringhe che ha sempre fresche, molto amico del mio cognato Maralli perché è anche lui un pezzo grosso del partito socialista. E poi ci sentiamo anche legati di amicizia per la rassomiglianza delle vicende della nostra vita. Anche lui è disgraziato come me e mi ha raccontato tutta la storia delle sue sventure, l'ultima delle quali, che fu la più grossa e che fece prendere al suo babbo la risoluzione di cacciarlo in collegio, è così interessante che voglio raccontarla qui nel mio giornalino. - Campassi mill'anni - mi diceva Gigino - non mi scorderò mai del primo Maggio dell'anno passato che è e rimarrà sempre il più bello e il più brutto giorno della mia vita! - E in quel giorno evocato da Gigino - io stesso me ne ricordo benissimo - c'era una grande agitazione in città perché i socialisti avrebbero voluto che tutti i negozi fossero stati chiusi mentre molti bottegai volevano tenere aperto; anche nelle scuole c'era un certo fermento perché alcuni babbi di scolari, essendo socialisti, volevano che il Preside desse vacanza, mentre molti altri babbi non ne volevan sapere. Naturalmente i ragazzi in quella circostanza si schierarono tutti dalla parte dei socialisti, anche quelli che avevano i babbi di un altro partito, perché quando si tratta di far vacanza io credo che tutti gli scolari di tutto il mondo sieno pronti a dichiararsi solidali nello stesso sacrosanto principio che sarebbe quello d'andare a fare piuttosto una bella passeggiata in campagna col garofano rosso all'occhiello della giacchetta. Difatti successe che molti ragazzi in quel giorno fecero sciopero, e mi ricordo benissimo che lo feci anche io, e che per questo fatto il babbo mi fece stare tre giorni a pane e acqua. Ma pazienza! Tutte le grandi idee hanno sempre avuto i loro martiri... Al povero Gigino Balestra però successo qualche cosa di peggio. Egli, dunque, a differenza di me, aveva fatto sciopero dalla scuola col consenso di suo padre; anzi suo padre lo avrebbe obbligato a far vacanza se, per una ipotesi impossibile ad avverarsi, Gigino avesse voluto andare a scuola. - Oggi è la festa del lavoro - gli aveva detto il signor Balestra - e io ti dò il permesso di andare fuor di porta con i tuoi compagni. Sta' allegro e abbi giudizio. - Gigino non aveva inteso a sordo: e con alcuni suoi amici era andato a fare una visita a certi compagni che stavano in campagna. Arrivati sul posto, tutti insieme si misero a fare il chiasso e, via via, il numero della comitiva era andato aumentando, tanto che da ultimo erano non meno di una ventina di ragazzi di tutte le età e di tutte le condizioni sociali, tutti affratellati in una grande baldoria d'urli e di canti. A un certo punto Gigino che si dava una cert'aria per essere il figlio di uno dei capi del partito socialista, entrò a parlare del primo maggio, della giustizia sociale e di altre cose delle quali aveva sentito parlare spesso in casa e che aveva imparato a ripetere pappagallescamente: ma ad un tratto uno della comitiva, un ragazzaccio tutto strappucchiato gli rivolse a bruciapelo questa inopportuna domanda: - Tutti bei discorsi; ma che è giusta, ecco, che tu abbia una bottega piena di paste e di pasticcini a tua disposizione, mentre noi poveri non si sa neppure di che sapore le sieno? - Gigino a questa inaspettata osservazione rimase male. Ci pensò un poco e rispose: - Ma la bottega non è mica mia: è del mio babbo!... - E che vuol dire? - ribatté il ragazzaccio. - Non è socialista anche il tuo babbo? Dunque, oggi che è la festa del socialismo dovrebbe distribuire almeno una pasta a testa a tutti i ragazzi, specialmente a quelli che non ne hanno mai assaggiate... Se non comincia lui a dare il buon esempio non si può pretendere certo che lo facciano i pasticcieri retrogradi!... - Questo tendenzioso ragionamento ebbe la virtù di convincere l'assemblea e tutta la comitiva si mise a urlare: - Ha ragione Granchio! (Era questo il soprannome del ragazzaccio tutto strappato) Evviva Granchio!... - Gigino, naturalmente, era mortificato perché gli pareva, di fronte, a tutti quei ragazzi, di farei una cattiva figura, e non solo lui ma anche il suo babbo; sicché si struggeva dentro di trovar qualche ragione colla quale ribattere il suo avversario, quando gli venne una idea che da principio lo spaventò quasi per la sua arditezza, ma che gli apparve poi di possibile esecuzione e l'unica che avesse la virtù in quel frangente di salvare la reputazione politica e sociale sua e di suo padre. Aveva pensato che in quel momento il suo babbo era alla Camera del Lavoro a fare un discorso, e che le chiavi di bottega erano in casa, nella sua camera, dentro il cassetto del comodino. - Ebbene! - gridò. - A nome mio e di mio padre vi invito tutti nel nostro negozio ad assaggiare le nostre specialità... Ma intendiamoci, eh, ragazzi! Una pasta a testa! - L'umore dell'assemblea si mutò come per incanto e un solo grido echeggiò, alto, entusiastico, ripetuto da tutte quelle bocche in ciascuna delle quali serpeggiava la medesima acquolina tentatrice. - Evviva Gigino Balestra! Evviva il suo babbo! - E tutti quanti mossero dietro di lui, compatti con l'ardore e la velocità di un eroico drappello alla conquista di una posizione lungamente vagheggiata o il cui possesso si presenti a un tratto privo dì ogni ostacolo. - Sono una ventina fra tutti - pensava intanto Gigino - e per una ventina di paste... mettiamo pure una venticinquina... dall'esserci al non esserci, in bottega dove ce ne sono a centinaia, nessuno se ne può accorgere... In verità non varrebbe la pena che per una simile miseria compromettessi il mio prestigio, quello di mio padre e perfin quello del partito al quale apparteniamo! - Arrivati in città Gigino disse ai suoi fedeli seguaci: - Sentite: ora vo a casa a pigliar le chiavi di bottega... fo in un lampo. Voialtri intanto venite dall'usciolino di dietro... ma alla spicciolata, per non dar nell'occhio! - Bene! - gridarono tutti. Ma Granchio osservò: - Ohé!... Non ci farai mica la burletta, eh? Se no, capisci?... - Gigino ebbe un gesto di grande dignità: - Sono Gigino Balestra! - disse - e quando ho dato una parola si può esser sicuri! - Andò lesto lesto a casa, dove c'era la sua mamma e una sua sorellina; senza farsi vedere sgusciò in camera del babbo, prese dal cassetto del comodino le chiavi di bottega e ritornò via di corsa lanciando alla mamma queste parole: - Vo con i miei compagni, ma tra poco ritorno a casa! - E se n'andò difilato al negozio, guardando a destra e a sinistra per paura che qualche persona di conoscenza della sua famiglia avesse a sorprenderlo durante quella manovra. Aprì la porta scorrevole di ghisa e la tirò su tanto da potere entrare in bottega, e una volta dentro la richiuse. S'era provvisto in casa di una scatola di cerini e con essi accese una candela che il babbo teneva sempre vicino alla porta; così trovò il contatore del gas, l'aprì, e accese poi le lampade della pasticceria; e fatto questo andò ad aprir l'usciolino dietro il negozio che dava in un vicolo poco frequentato. Da quell'usciolino incominciarono a entrare i compagni di Gigino, a uno, a due a tre... - Mi raccomando - badava a ripetere il figlio del pasticcere. - Uno per uno... al più due... Ma non mi rovinate! - Ma a questo punto è meglio che lasci la parola allo stesso Gigino Balestra che essendo stato il protagonista di quella avventura comica e tragica a un tempo, la racconta certamente meglio di quel che potrei fare io. - Lì per lì - dice Gigino - mi parve che il numero dei miei compagni fosse molto cresciuto. Il negozio era addirittura invaso da una vera folla che bisbigliava girando intorno sulle paste e sulle bottiglie de'rosolii certi occhi che parevan di fuoco. Granchio mi domandò se potevano prendere una bottiglia di rosolio, tanto per non murare a secco, e avendo acconsentito, me ne versò gentilmente un bicchiere pieno dicendo che il primo a bere doveva essere il padrone di casa. E io bevvi e bevvero tutti facendomi dei brindisi e invitandomi e ribere, sicché si dovette stappare un'altra bottiglia... Intanto anche le paste sparivano e i più vicini a me ne offrivano dicendomi: - Prendi, senti com'è buona questa, senti com'è squisita quest'altra - proprio come se loro fossero stati i padroni della pasticceria e io il loro invitato. Che vuoi che ti dica, caro Stoppani? Si arrivò a un punto che io non capivo più nulla; ero esaltato, mi sentivo addosso un ardore e un entusiasmo che non avevo provato mai, mi pareva d'essere in un paese fantastico tutto popolato di ragazzi di marzapane col cervello di crema e il cuore di marmellata uniti da un dolce patto di fratellanza condita con molto zucchero e rosolio di tutte le qualità... E ormai anche io seguitavo come tutti gli altri a mangiar paste a quattro ganasce e a vuotar bottiglie e boccette di tutti i colori e di tutti i sapori volgendo delle occhiate di beatitudine in quel campo aperto alla baldoria nel quale si agitavano come fantasmi tutti quei ragazzi che ogni tanto urlavano a bocca piena: - Evviva il socialismo! Evviva il primo maggio! - Io non ti so dire quanto durasse quella grande scena d'ogni dolcezza e d'ogni letizia... So che a un certo punto la musica cambiò a un tratto e una voce terribile, quella di mio padre, rimbombò nel negozio gridando: - Ah, razza di cani, ora ve lo dò io il socialismo! - e fu un diluvio di scapaccioni che piovve da tutte le parti fra le grida e i pianti di tutta quella folla di ragazzi ubriachi che si accalcava confusamente verso la porticina cercando di fuggire. Io ebbi un momento di lucido intervallo nel quale, con un volger d'occhi, abbracciai quel quadro bizzarro e sentii in un lampo tutta la terribile responsabilità che mi pesava... Il banco prima cosparso di centinaia di paste tutte messe per ordine era vuoto, gli scaffali attorno erano tutti in disordine e vi si affacciavano qua e là i colli di bottiglie rovesciate dalle quali colavano giù rosoli e sciroppi, in terra era un piaccichiccio di pasta sfoglia pesticciata, dovunque sulle sedie, nelle cornici degli scaffali e del banco eran bioccoli di crema e di panna sbuzzata fuori dalle meringhe, e ditate di cioccolata... Ma fu solo, come ho detto, in un lampo ch'io intravidi tutto questo, perché un maledetto scapaccione mi fece rotolar sotto il banco e non vidi né sentii più nulla. Quando mi svegliai ero a casa, nel mio letto, e accanto a me c'era la mia mamma che piangeva. Mi sentivo un gran peso nella testa e sullo stomaco... Il giorno dopo, 2 maggio, il babbo mi dette due once d'olio di ricino; la mattina di poi, tre maggio, mi fece vestire e mi portò qui nel collegio Pierpaoli... - Cosi Gigino Balestra ha concluso il suo racconto, con un accento comicamente solenne che mi ha fatto proprio ridere. - Vedi? - gli ho detto. - Anche tu sei vittima, com'è accaduto a me in più circostanze della vita, della tua buona fede e della tua sincerità. Tu avendo il babbo socialista hai creduto nel tuo entusiasmo di dover mettere in pratica le sue teorie distribuendo i pasticcini a que' poveri ragazzi che non ne avevan mai assaggiati, e il tuo babbo ti ha punito... È inutile: il vero torto di noi ragazzi è uno solo: quello di pigliar sul serio le teorie degli uomini... e anche quelle delle donne! In generale accade questo: che i grandi insegnano ai piccini una quantità di cose belle e buone... ma guai se uno dei loro ottimi insegnamenti, nel momento di metterlo in pratica, urta i loro nervi, o i loro calcoli, o i loro interessi. Io mi ricorderò sempre d'un fatto di quando ero piccino... La mia buona mamma, che pure è la più buona donna di questo mondo, mi predicava sempre di non dir bugie perché a dirne solamente una si va per sette anni in Purgatorio; ma un giorno che venne a cercarla la sarta col conto e che lei aveva fatto dire dalla Caterina che era uscita, io per non andare in Purgatorio corsi alla porta di casa a gridare che non era vero nulla e che la mamma era in casa... e in premio d'aver detto la verità ci presi un bello schiaffo. - E perché ti hanno messo in collegio? - Per aver pescato un dente bacato! - Come! - ha esclamato Gigino al colmo dello stupore. - Per uno starnuto d'un vecchio paralitico! - ho aggiunto io divertendomi a vederlo a sgranar tanto d'occhi. Poi, dopo averlo tenuto per un bel pezzo di curiosità, gli ho raccontato l'ultima mia avventura in casa del mio cognato Maralli, per la quale fu interrotto il mese di esperimento concesso da mio padre ed io fui accompagnato in questa galera. - Come vedi, - conclusi - anche io sono stato una vittima del mio destino disgraziato... Perché se quel signor Venanzio zio di mio cognato non avesse fatto uno starnuto proprio nel momento in cui lo avevo avvicinato la lenza con l'amo alla sua bocca sgangherata, io non gli avrei strappato quell'unico dente bacato che gli rimaneva e non sarei qui nel collegio Pierpaoli! Vedi un po', a volte, da che può dipendere la sorte e la reputazione di un povero ragazzo... - * * * Ho voluto raccontar qui le confidenze che son corse tra me e Gigino Balestra per dimostrare che siamo legati ormai in intima amicizia e che, se stamani egli era sveglio e mi guardava mentre io scrivevo nel Giornalino, non avevo nessuna ragione - come ho già detto in principio - di diffidare di lui. Anzi gli ho detto in grande segretezza di queste mie memorie che vo scrivendo, l'ho messo a parte dei miei progetti e gli ho proposto, d'entrare nella nostra Società segreta... Egli mi ha abbracciato con uno slancio d'affetto che mi ha commosso e ha detto che si sentiva orgoglioso della fiducia che rimettevo in lui. Oggi, infatti, durante l'ora di ricreazione, l'ho presentato ai miei amici che l'hanno accolto benissimo. Il Barozzo non c'era. Da quando ha dato le dimissioni egli vive solitario e pensieroso e quando ci incontra si limita a salutarci con un'aria triste triste. Povero Barozzo! Io in adunanza ho raccontato tutta la scena della seduta spiritistica di iersera e si è stabilito, di riflettere tutti seriamente per trarre partito da questa nuova situazione e per preparar qualche tiro per mercoledì notte. Domani martedì ci riuniremo per eleggere il nuovo presidente e per decidere sull'intervento dello spirito del compianto professore Pierpaoli all'appuntamento dato al signor Stanislao, alla signora Geltrude e al loro degno cuoco inventore della minestra della rigovernatura.

Vita intima

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Vertua Gentile, Anna 1 occorrenze

La donna amata di amore dignitoso e elevato, stimata nel suo giusto valore, libera da l'oppressione che le imprigionava le facoltà giacenti inerti, indistinte, abbuiate, sente in tutta la sua forza la propria individualità, e l'anima sua, fatta di sentimento, al sentimento si abbandona. E il sentimento esige tenerezza più che ragionevolezza: una tenerezza spesso soverchia, che rallenta i freni nella mano educatrice. E l'uomo che quando stima e ama si lascia tanto facilmente influenzare fino a vedere e sentire con gli occhi e con il cuore della donna amata e stimata, finisce per lasciarsi a sua volta spadroneggiare dal sentimento, a scapito della ragione, e spesso soffoca nell' affetto, fatto di indulgenze, di paure vaghe e di pietà infinita, la sua autorità, il suo potere di padre; e diventa l'amico, il compagno, quasi l' uguale dei figli. E' quindi evidente che non si può dire a questi: « Fate questo , fate quest' altro perché io voglio così ». Non vi possono essere comandi fra uguali; non soffre violenza una volontà abituata ad agire per proprio impulso; non si piega a la cieca la ragione, che non fu mai offuscata da tirannia. Così, per educare volontà e ragione, è ora necessaria una influenza che non sia l'autorità d'altri tempi; la influenza d'una superiorità riconosciuta e di una specchiata virtù, congiunta con una voce cara e insinuante, che sappia trovare la via del cuore. Ed ecco perché la madre per riuscire nella educazione dei figli, ha bisogno di vegliare su le sue azioni, su le sue parole, in modo da essere una continua vivente lezione di moralità. La madre che educa con vera intelligenza d'amore i suoi figliuoli, è proprio del secolo XIX. In altri tempi, il rispetto esagerato, quasi pauroso e il sentimento di superiorità, staccavano, per così dire, i figli della madre, la quale — in generale — quando aveva loro insegnato a brontolare vecchie preghiere e a baciarle la mano mattina e sera, a parlare appena se interrogati , a tenersi ritti impettiti ed a seguire scrupolosamente i dettati del Galateo d'allora, credeva d'aver adempito a ogni suo dovere materno. Si deve dunque, io credo, a l'istruzione e a l'educazione femminile, la famiglia civile di oggi; la famiglia, ove la tenerezza avvicina e la mutua simpatia intellettuale interessa ed avvince; la famiglia retta e guidata dalla madre che può e vuole essere la prima educatrice dei figli suoi. La madre moderna — intendo quella che comprende il proprio dovere con saggezza — sente, che è suo diritto e suo dovere, di svegliare , e educare nel cuore e nella mente dei figli, la prima idea di Dio, dell'onestà, del bene, del bello, e il sentimento dell'individualità. Sente il dovere di fare in modo , che l' individualità non devii mutandosi in egoismo , in personalità invidiosa, in individualismo che isola dai proprii simili; ma che a poco a poco si trasformi nel sentimento intimo, profondo e santo, che fa che uno si senta qualcuno e voglia essere qualcuno. La madre intelligente sa che è guaio serio comprimere la individualità nell'animo dei fanciulli; sa che la depressione converte i deboli in ipocriti e i forti in ribelli; ma sa pur anche, che se non va compressa, l'individualità vuol essere educata, se non si vogliono crescere dei deboli , dei prepotenti , degli egoisti; e trova il modo di ben dirigere nei figli questa forza , insegnando loro la sana e forte dottrina, che è la compagna della libertà: la dottrina della responsabilità personale. Chi nel secolo XIX tanto fece e fa tuttora per la riforma femminile, non pensò certo di strappare la donna al suo centro naturale, che è quello degli affetti ; ma volle invece , renderla più conscia della grandezza morale della sua missione, quindi più degna di essa. Il titolo santo di madre di famiglia non dice solamente devozione, tenerezza, accortezza; dice anche e forse più, un lavorio continuo, incessante, faticoso; dice preoccupazioni, crucci, dolori, tutto un complesso di pene morali che però l' intima compiacenza e la soddisfazione generosa, acchetano e addolciscono. E più la donna è istruita, più sa e più ha l'animo temprato al coraggio, confortato dal pensiero di Dio, e meglio è compresa della sua alta, difficile missione, e la missione stessa le torna più delicata, più doverosa e santa. Il sentimento della famiglia si è fatto più delicato in quasi tutte le classi; ma forse non in tutte le classi si è rafforzato. Insieme con l'istruzione, elementare sì, ma sufficiente a stenebrare le menti sgombrandole dai pregiudizi e rendendo ognuno capace di comprendere il perché di quasi tutto quello che vede; insieme con un poco di educazione, che dirozza, nella casa dell' operaio del contadino, del lavoratore in genere, entrò il desiderio, anzi il bisogno della pulizia, dell'ordine, delle maniere meno grossolane, delle parole meno volgari, di un poco di affettuosità, quindi di gentilezza. Si è pensato e sentito, che il povero ha dei santi diritti nel punto di vista della morale pubblica; che la sua più grande disgrazia è la digradazione morale, che la miseria distrugge il rispetto personale, esaurisce lo spirito e influisce tristamente su le affezioni domestiche, spingendo, quasi a rifugio, verso gli abbietti piaceri; si è pensato e sentito, che l'anima per elevarsi, ha bisogno di mezzi accessibili al ricco come al povero; che la verità morale è il tesoro della intelligenza; che il germe delle grandi idee morali, è in tutti gli animi e che il povero può aspirare a l'educazione più elevata e raggiungerla. E si concluse, che nell'interesse di tutti, era logico e giusto riconoscere una sola casta morale; quella dell'umanità. Tutti uguali, non solo davanti a Dio, non solo davanti a la legge , ma nella coscienza di ciascuno; nella coscienza pubblica. *** Un'uguaglianza, non materiale, che non può esistere nell'umanità come non esiste in natura, che è delicato e soave sogno di pochi, o esigenza di prepotenti; ma la santa uguaglianza, che sta nell'elevatezza morale; la persuasione che ogni uomo può cercare in se stesso forza e felicità e che deve domandare l'una e l'altra a l'amore del dovere, a l'energia della volontà , a la coltura dello spirito. La persuasione che di queste virtù si può arricchire chiunque voglia, purché voglia seriamente rafforzare il pensiero per mezzo della riflessione e della sana lettura e fortificare il carattere con il lavoro e la pratica del bene. Solo in questa via feconda si trova la pace dell'anima e il sentimento della propria dignità e della propria forza; solo camminando coraggiosamente e liberamente in questa via, si può trovare il proprio bene insieme con quello della società; si può acquistare la certezza , che la più grande forza dell'universo è lo spirito, non già la forza bruta e materiale ; che il potere dell'uomo è fatto di energia morale e intellettuale e che è lo spirito che ha conquistato la materia. Tutto ciò si senti e si pensò nel secolo XIX; e con queste idee nella mente, con questi sentimenti nel cuore, si finì, per la maggiore, a sentire l'uguaglianza, la fratellanza santa, comandata da Dio, necessaria a la ragione, indispensabile a la generosità. Tutti fratelli; quindi disposti al reciproco rispetto, al mutuo soccorso. E il povero fu aiutato, rialzato, reso capace di riconoscere nel suo io , a creatura pensante e ragionante, che ha sacri doveri da compiere e sacri diritti da esigere. Ora, il sentimento ben chiaro e profondo dei doveri e dei diritti, dovrebbe essere fiaccola sempre accesa, che illumina di vivida luce, onestà e gentili costumi, e a quella e a questi invita e attrae. L'aura di civiltà e di progresso, spirante miglioramento , penetrò nelle famiglie di tutte le classi, nel secolo XIX e vi portò una certa dignità materiale; ma forse, più materiale che morale. Il luridume, lo sconcio e immorale agglomeramento di uomini, donne fanciulli, raccolti insieme in chiatte, schifose stanze, quasi tane, è immondo spettacolo, che ora di rado, affligge occhio e sentimento. Ed è, generalmente, triste ricovero di oziosi, viziosi e peggio, rifuggenti dai pubblici asili aperti dalla beneficenza; classe di disgraziati , che civiltà e progresso riusciranno a diminuire ma non a sopprimere, come la mano esperta dell'agricoltore riesce a scemare le male erbe nei campi e nei prati , ma non certo a toglierle del tutto. Più non si incontrano, o assai di rado, contadini e specialmente operai sudici e strappati, dalle maniere e parole grossolane e triviali. Cosa che allontanava le così dette persone educate, causando due mali; l'orgoglio e il dispregio da una parte, l'avvilimento, la persuasione d'inferiorità e spesso la ribellione, dall'altra. Adesso, grazie, principalmente alle scuole, aperte nei più umili e remoti villaggi, il povero si è dirozzato; si esprime benino; ha modi abbastanza urbani, capisce. La distanza fra lui e chi a lui è superiore per istruzione e educazione, è diminuita. Sono smantellati i castelli feudali; le distanze sociali vanno scomparendo; il passato è morto. E' spento il vecchio prestigio; le vecchie idee più non esistono. Più non vi sono classi che si lasciano opprimere e avvilire; la società è fatta di tutti, e tutti vogliono avervi e sentirvi la propria parte. L'operaio, il contadino, tutti o quasi tutti, adesso pensano; vogliono sapere la ragione di ciò che fanno, di ciò che credono, per fino delle loro sofferenze. Si direbbe che chiedano un compenso del passato. A l'inerzia d'ogni nobile desiderio, è successa la sete della verità; a l'accasciamento morale, è successo il sentimento ben chiaro e forte della giustizia. Le creature davvero superiori, le quali sono schiettamente convinte che il miglioramento della società, più tosto che con fieri, sanguinosi strappi, si ottiene gradatamente, per mezzo della sana, vigorosa educazione morale, plaudiscono a questo primo risveglio voluto dal progresso; risveglio, che se lascia ancora molto e molto a desiderare, è però sempre un passo verso il meglio. Ma come nei bambini è previdente e saggio guidare al bene le buone disposizioni , così , chi desidera con sincerità il bene di tutti , trova previdente e saggio fare in maniera , che nei cuori e nelle menti di ognuno, i desideri sieno onestamente guidati al possibile, le aspirazioni a l'arrivabile, e che l'anima accolga il sentimento d'un ideale non offuscato da sragionevolezze, da folli prepotenze. Le creature superiori , che vogliono per davvero il bene della società , sanno che, se si vuole migliorare una generazione, è necessario comprendere la ragione dell' umano vivere , guardare al punto ove hanno origine i beni ed i mali e le norme del volere, e farne oggetto di applicazione la famiglia; prendere per mano i fanciulli e gli ignoranti, indirizzarli con amore e intelligenza alle verità morali per mezzo delle scuole, dei libri e sopratutto dei costumi. Questo si è cercato di fare nel secolo XIX, a vantaggio della famiglia, quindi della società e della patria. Pur troppo manca ancora molto a raggiungere l'ideale, e taluni vedono in questo risveglio d'ogni classe, in questo spesso focoso desiderio di miglioramento , un male piuttosto che un bene ; e i pessimisti scettici guardano, con sorriso dubitoso, a l'inquietudine morale vasta e profonda, e a le corruttrici bramosie di godimento che accompagnano il progresso. Ma chi puó dire a che possa portare il disordine o l'apparenza del disordine ? ... « ... né l'acqua iraconda che scende a ruina la valle — dice Fogazzaro — nè la frana di macigni e di selve capovolte che trabocca dall' alto a romperle il corso , sanno che nel luogo del loro incontro , una lama d' acqua pura si alzerà con sorriso ubbediente a rispecchiare il cielo pago e sereno ».

Il maleficio occulto

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Zuccoli, Luciano 2 occorrenze

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Qual'è l'uomo che abbandona una creatura debole in condizioni simili, di giorno e di notte? - Sì, sì - interruppe Clara - sì, è certo, hai ragione: egli ha desiderato di ucciderla! L'ha data in balìa ad altri, a un'altr'uomo, a un bruto, perché la finisse!...... Oh! ma non trovo parole per costui: è un rettile. E' peggio, peggio, peggio dell'assassino che hanno condannato all'ergastolo!..... Agitata, convulsa, con un singhiozzo violento che pareva romperle il petto, ella si lasciò cader sul divano, portando le mani fredde alle tempie brucianti; i capelli d'oro le fluivano giù per il fianco, ed ella s'inchinò lievemente, si distese quant'era lunga. - E' il tuo sposo di domani, costui! - dissi. Ah! ma finiscila! - rispose Clara con violenza. - Non mi vedrà più! Sii buono, finiscila, non impaurirmi ancora! Vedendo ch'ella rabbrividiva di freddo o di terrore, presi dal divano la mantiglia e l'avvolsi attorno al busto della giovane, stringendomela fra le braccia. E' l'odio che mi rende implacabile e cattivo - spiegai sommessamente. Io odio cotesto uomo, non solo pel male ch'egli meditava di fare a te, ma anche pel delitto che ha commesso contro l'altra infelice. La quale era bella, m'hanno detto, e gentile e dolce e desiderosa d'amore. Ah, sa scegliere le sue vittime, con un gusto che par ferocia, colui!... Ma dimmi, Clara: tu ignoravi ch'egli giocasse? - Ignoravo tutto, tutto! - esclamò Clara. - Qui a Firenze, come a Milano, come dovunque, è molto stimato.... - A Milano, però si conosce la sua passione senza freno, - osservai. - A Milano io non abito; e d'altra parte, una donna sa sempre ben poco: voi conoscete molte cose, avete il passaggio in ogni luogo; una donna è schiava, al vostro confronto. Tu stesso, che avresti osato dirmi, se.... se non ne avessi il diritto pel nostro passato? - E' vero, - mormorai. - Il mio amore ti ha fatto un po' di bene..... Clara si tolse alla mia stretta, indovinando ch'io stava per coprirle il volto di baci; e rispose: - Ti devo una gratitudine infinita....... Io scrollai le spalle, sorridendo con amarezza, e la lasciai. - Non ti basta, è vero? - continuò la giovane. - Devo essere tua, anche non amandoti più? Non credere ch'io voglia tormentarti con queste parole: ho per te un'affezione profonda; ma è un'affezione come per un fratello.... Ciò che si chiama amore, è svanito. Io ascoltavo, sentendo di non poter nulla rispondere; e poiché stava silenzioso, pallido, a testa bassa, Clara, dopo un lampo d'esitazione, aggiunse con voce sommessa: - Vieni qui..... Io mi avvicinai. - Mi vuoi? - ella seguitò sottovoce. - Se posso darti un po' di gioia, ebbene, prendimi! Non voglio vederti soffrire. - Mi ami? - domandai, chinandomi verso la giovane. - No, - ella rispose nettamente. - Ti voglio molto bene: l'ho detto. La guardai: lo sguardo diritto dei grandi occhi grigi e limpidi era sincero. Mi levai quasi con un balzo. - Non pensiamoci - dissi, scuotendo la testa. - Se non mi ami, sarai di marmo!.... Nel lungo silenzio che seguì, rimasi in piedi, addossato alla specchiera, fissando quell'amante morta. Pareva morta anche fisicamente, così stesa e senza moto, a occhi aperti. Ella non pensava già più alle sue parole: riviveva forse il dramma che io le avevo narrato; e per non soffrire oltre, io che soffriva atrocemente per le parole vere uscite dalla bocca indimenticabile, mi sforzai d'imitar la donna e di ripensare a colui che poteva ancora farla sua. - Capisci l'uomo? - dissi improvvisamente. - Da quando t'ha incontrata qui a Firenze, non giuoca più. Sa vincersi; e perciò è temibile. Non giuoca; ma domandagli che ha fatto delle sue terre, e d'una casa a Milano, e d'una villa in Val Malenco. Sfumate come la nebbia, a colpi di macao o di faraone. Domandagli se conosce Montecarlo, e la jetée di Nizza, e il Casino di Vichy. - Montecarlo? - interruppe Clara. - Ne parlavamo alcune sere addietro; mi disse che non c'era mai stato. - L'ipocrita! -.... e che giuocava a domino, qualche volta, e che s'addormentava subito. A domino è probabile: mi ci addormento io pure. Ma dovresti farti spiegare il trente-et-quarante, o la roulette. Insomma non dirà nulla. Questo è il suo corredo di nozze: lo tiene in serbo per fartene una sorpresa più tardi, - Mai, mai, mai! - ripetè la giovane, levandosi in piedi e ravviandosi i capelli. - Bada: è un lottatore formidabile. Conosce tutte le arti. - Clara alzò le spalle. - Ci penserò - disse. - Non dubitarne: difendo la mia vita. - Oh, a lui basterebbe la tua borsa! - conclusi. - Va; sono stanca: reggo appena, - mormorò Clara. - E' quasi l'alba.... Mi accompagnò alla portai, ne girò la chiave, l'aperse. Quando fummo ambedue sulla soglia, mi guardò in faccia. - Ti ringrazio? - domandò con un sorriso breve. E innanzi che io avessi potuto rispondere, la sua bocca era congiunta alla mia...... - Poiché sono di marmo, - ella disse maliziosamente,questo non ti fa male..... Rinchiuse la porta, scomparve, e il suo passo si spense..

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