Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Il fosso

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Bonanni, Laudomia 1 occorrenze

Egli vi si abbando- nava un po' goffamente nella sua nuova mole, ma d'una goffaggine solo esteriore, poiché continuava a ricevere tran- quillamente le effusioni d'un tempo, senza le irascibili re- pulse di quell'età, tanto incresciose e dure alle madri. Un ragazzo molle placido e curiosamente imperturbabile. Re- stava fermo in quel grembo impicciolito, più grosso del vero, con le bianche cosce pelose di spessore e forma fem- minili, un po' divaricate; avendo solo con mossa già abile badato a pararsi l'inguine d'un lembo della giacca. Berenice era sugli spini finché la sorella, sbaciucchiatolo un poco, non lo lasciasse andare. Allora egli se ne andava in cucina e di lì s'udiva qualche scoppio della sua voce immatura (tal- volta stridula femminea, talaltra improvvisamente rauca vi- rile, sì da dar l'impressione d'una persona sconosciuta in casa) e le rimostranze scherzose della paziente serva. «Si di- verte un mondo a cimentarla, a pescare nelle casseruole qualche bocconcino» dice Paola compiacendosi di trovarlo ancora così puerile. Poi entravano, il Nino e la donnetta, in sala da pranzo con le pile dei piatti. Egli soleva aiutarla ad apparecchiare, era meticolosissimo nel dispor le posate. Vi fu un giorno che a Berenice la vista del ragazzo di- nanzi all'oceano di carta, della sorella col lavoro penzoloni in grembo, della donnetta con la pila dei piatti contro il mento, e ancora il ragazzo a dispor le posate, e Berto a ta- vola con la eterna celia in bocca, parve aver impresso al tempo un giro di ritorno così breve da annullarne la sensazione. Era pur sempre l'andamento domestico rigoroso e legato d'una volta, ma l'angustia che ne deriva oggi toglie il respiro. E poi c'è l'insolita parata domenicale, che s'innesta nella settimana con la fatua baldanza d'un piumetto al na- stro vecchio del cappello. Poiché Berto conduce in casa nientemeno che l'Artista (è ben evidente la maiuscola sulle sue labbra), uno zazzeruto dalle spalle cosparse di forfora, cui tributa quell'ammirazione enfatica di certi ometti ben- pensanti verso chi si distacchi piuttosto vistosamente dal co- mune. Questo Concina posava finanche al satanico, se- condo una formula che a Berenice parve riflessa libresca, e inoffensiva sebbene stucchevole, almeno quanto l'antica av- venturosità del ragazzo. Beninteso che l'artista per antono- masia dovesse essere anche misogino e fieramente avverso ai legami familiari. Come poi Berto conciliasse la propria sperticata ammirazione e certa sua infondata ignorantissima fede in quella personalità (altrettanta ne nutriva per la indi- pendenza di carattere della cognata e per la di lei scienza) col segreto disegno di legarlo in legittime nozze proprio con una Berenice, resterà oscuro. Ma fu subito evidente che colui non s'interessava al nuovo personaggio della casa - né fece alcuno sforzo per entrar nelle sue grazie - continuando a dedicare tutt'intera l'attenzione al ragazzo. Anche il Nino, eccezionalmente, abbandonava i giochi e le occupazioni preferite per starsene accanto al maestro. S'appartavano in un angolo del salotto: in piedi contro il pianoforte, Concina traeva di tanto in tanto qualche suono dai tasti, avanzando a caso un dito per didietro. (È la sua punteggiatura, dice Berto con aria d'iniziato.) Conversavano di pittura, di mu- sica, di poesia, e persino, pare, di filosofia. L'educazione in- tellettuale del Nino - spiegarono i suoi genitori - veniva così rifinita. (Come attaccare un merlettino alla camicetta di tutti i giorni.) Sembra che dalle mappe del ragazzo, dalle sue tavole ben classificate a scuola, e in genere dal suo "temperamento geometrico", Concina traesse lusinghiere quanto misteriose deduzioni d'un genio cubista o fors'anche surrealista. Berenice ebbe l'impressione che usasse queste e altrettali parole da orecchiante, un poco a casaccio. E i qua- dri di lui - ne aveva trovata parata la casa, attribuendoli dapprima al Nino - quadri pieni di manichini, senz'altra possibilità che di sembrar tali, e ingarbugliate forme geo- metriche (del resto troppo irregolari per essere del ra- gazzo), la lasciavano, alla propria incompetenza diffidente, ben poco perplessa. Comunque Concina già pensa d'ini- ziare l'allievo agli enigmi della pittura moderna, imparten- dogli lezioni nel suo studio. Ora, mentre parlano laggiù soli, egli solleva la mano d'un ciclamino illividito alle un- ghie (questa, sì, candidamente surrealista: polipo rosa che tasta il vuoto) a sbavar nell'aria segni natanti che il Nino segue con un girar d'occhi pacifico nella mascherina delle efelidi. Berenice si domanda quali curiosità intellettuali pos- sono sbocciare così entro la ben avviata testina. Tornano nel circolo appena giunge la serva coi vassoi, gareggiando, maestro e discepolo, nel consumar tartine ben imburrate con esemplare appetito. Le mani di Concina sono ora d'un vivido carminio, come accese, congestionate dal piacere. Sembra davvero che egli mangi con voluttà, ed è questo il momento in cui consente a mischiarsi con le donne, celia persino con la femminetta ingrembiulata di bianco in suo onore. «Queste tartine» dice a Paola «queste tartine psica- nalitiche...» E resta sospeso a gustare in viso a Berto l'a- spettazione per la solita enormità. «Già, indurrebbero un uomo a... (rotea gli occhi, assicura che il ragazzo non ne ca- pirà nulla) e sentimenti... estremi, anche verso la propria madre che le avesse preparate.» Scoppia fragorosa la risata di Berto. Egli sa già che, se fossero troppo complicate, le chiamerebbe esistenzialiste. «Perché, si sa, danno la nau- sea, eh! eh!» Mai Berenice udì da quella bocca ghiotta qualcosa di più intelligente, e del resto Concina rifuggiva dall'impegnarsi con lei in conversazione. Promise parecchie chie volte di condurli a vedere i suoi ultimi quadri, ma non se ne fece mai nulla. Pare che neanche Berto, fino a quel momento, fosse stato ammesso nello studio e - suppose Berenice - era forse l'unico acquirente delle povere follie figurative d'un tale artista. (L'aveva conosciuto in un caf- feuccio del suburbio, recandosi da un vecchio cameriere per sigarette e zucchero di contrabbando, e s'era invaghito della sua stramberia.) Per il resto della settimana osservavano scrupolosamente la vecchia regola di non ammettere estranei in casa, evi- tando persino i rapporti occasionali coi coinquilini. Così era stato fin dalla nascita del bimbo, per quel goloso senso di pace e sicurezza domestica che caratterizza certi piccoli borghesi nelle grandi città. Avevano temuto per il figlio i contatti coi coetanei, perseguendo l'inderogabile principio di sottrarlo a cattivi esempi, espressioni dialettali e malattie infantili. Anche il morbillo ha ancora da prendere il Nino. Gli era a tutt'oggi vietato ogni rapporto coi compagni fuor della scuola, si calcolava sull'orologio il tempo necessario a tornare a casa dopo le lezioni. Berenice scoprì presto - una scoperta che la desolò - come fossero state applicate alla lettera, nel più ottuso dei modi, e mantenute attraverso gli anni con gretto rigore, le norme pedagogiche che essa aveva impartito alla sorella nei periodi trascorsi insieme. (Sì che forse le aveva elargite con spensierata generalizzazione dei manipolatori di teorie.) E quel sedicente artista la intricò solo al principio: l'apparizione domenicale di lui assumeva certo un sapore di evasione, rappresentava la valvola di scappamento d'un regime di vita troppo conchiuso. Per tutta la settimana non se ne parlava più, era come non fosse mai esistito. Restavano, anacronistici, quei quadri sui vec- chi parati stinti, a testimonianza ben vacua d'una relazione che non poteva incidere su quell'andamento domestico, più di quanto se ne mostrassero capaci gli strambi rettan- goli sulla piattezza dell'arredamento. Pareva anzi che, subendone essi l'influsso, si addomesticassero a esercitazioni scolastiche di doppio decimetro a compasso maldestra- mente usati. Berenice si domandò se lei stessa non facesse lì dentro pressa poco quell'anacronistico effetto. Fu proprio una impressione di scorata impotenza ad av- vertirla del distacco dai tre esseri umani che rappresenta- vano tutti i suoi legami familiari. Quel senso d'uno stesso sangue con Paola - i suoi capelli bruni della mamma, la morbidezza docile delle membra affettuose che conosceva dall'infanzia, la piccola bocca mite anch'essa della mamma - era svanito, diventava una constatazione di riconoscimento meramente esteriore. Riconosceva soprattutto di lei la queta forza passiva, invincibile, e quella pochezza casalinga - sembrava aureolarla, quando vivevano assieme giovinette, d'una dolcezza così commovente - che paralizza ogni vel- leità di strapparla all'angustia del suo piccolo mondo irre- spirabile. Anche la mediocrità di Berte, considerata una volta con tanta indulgenza, eccita oggi la più acre irascibi- lità. E l'aria della casa, il familiare buon odore di casa, s'è fatto stantìo. Quando si domandò che cosa fosse cambiato, dovette attribuire solo a se stessa il mutamento: i nervi. O forse la guerra? Già, la guerra. Il mondo intero è mutato, si capisce; essi soli no. Ma pure, sebbene continui a sorpren- dere, e perfino scandalizzi, chi potrebbe con convinzione affermare che qualche cosa abbia mai cambiato fondamen- talmente l'uomo? (Come ritrovarsi con una persona che sia stata in pericolo di vita o colpita da grave lutto e, fra la im- provvisata compunzione dell'incontro, dal primo gesto li- bero. dalla prima parola spontanea, riscoprirla di colpo identica, con tutto il suo misero bagaglio di piccoli difetti e meschinità, e sicura, e piena si sé, come non le fosse passata accanto la morte.) Un disgusto, questo asserragliarsi fra quattro mura con un così appagante senso di se medesimi. Da loro non si ode neppure più parlare della guerra, se non in rapporto ai continui aumenti di prezzo. Ma non mancano di nulla. Berto sa arrangiarsi e trafficare. Tesa una lira povero che picchia alla loro porta, essi si sentono a posto, se non creditori, anche con Dio. L'assuefazione, una sorta di assestamento fisico e men- tale infine sopravvenne, e a un certo punto Berenice potè sentirsi di nuovo conciliante, sebbene con molte riserve. Ri- conobbe d'essere, da qualche tempo, propensa a ingrandire le cose. Paola sempre accesa d'ingenua idolatria e prodiga di cure, Berto mobilitato in permanenza a "tenerla su", per- sino la servizievole donnetta, tutto contribuì, attraverso lo scorrere calmo dei giorni, a farle considerare con grata in- dulgenza quel piccolo mondo cosi riposante, e, al postutto, inoffensivo. Le fu dolce e necessario sentir rinascere l'an- tico sentimento protettivo per la sorella minore, che aveva appagata la sua affettività durante una intera vita di lavoro e di studio. S'ingegnò persino di scagionarla per quant'era in lei di cieco e incapace nei riguardi del figlio. Non è mica da meravigliarsi se ha applicato così alla lettera un sistema edu- cativo che corrisponde tanto bene al suo meticoloso un po' maniaco temperamento. (Il Nino le assomiglia, con l'effi- cace correttivo della sicurezza paterna.) Ecco dunque che sua fu la colpa, di Berenice, non far conto dell'elemento psi- cologico avviando la inesperta madre a identificare le pro- prie dubbiezze con la legittimità di tenersi attaccato alle gonne il figlio perché non glielo guastino. Finì col sentire di averlo tradito, quel grazioso bimbo che era stato alla mercé dei suoi oracoli. Ora non è più gra- zioso, ma sotto questa provvisoria spoglia da bruco c'è sem- pre il Nino, che un giorno s'intonerà col suo pelame e di- verrà un piacevole giovinetto, poi magari un bel giovane. C è da presumere - era un bimbo sveglio vivace e persino petulante - si liberi anche da questa ottusità che lo fa un poco dormiente e per certi versi insensibile. (La parziale in- sensibilità così concentrata delle gravidanze e delle cre- scenze, forse.) Alfine - speriamolo - rispunterà come un al- alberello della nebbia e scoterà da sé questa ingenua sopraffa- zione degli adulti cui ora si sottomette con un garbo così sornione. A un tratto la vinse anche la sua costante compi- tezza, la riguardosità che spiegava cedendole il passo, sco- standole una sedia, la premura con cui sporgeva a ogni pa- rola della zia quella faccia tonda caluginosa, sempre dispo- sto all'incondizionata obbedienza. Cominciò a portarselo fuori, fecero insieme delle passeggiate, andarono al cinema- tografo. Egli si mantenne composto e riservato - con una espressione in viso, anzi, paziente, di quella inalterabile pa- zienza ben appagata che caratterizza certe pingui facce di figli unici - non parlava mai, preferiva rispondere con la parsimonia di parole che gli era propria. A lungo andare stancava star lì a cavargli qualcosa di bocca con le molle, c'era come una resistenza premeditata nei suoi rapporti con gli adulti, una cheta protervia, invincibile. Mai Berenice trovò la via per indurlo alla confidenza, o forse non aveva davvero nulla da dire. Al cinema mai si commosse, facevano presa su lui solo le buffonate, allora rideva chioccio sobbal- zando sulla poltrona. Si aveva ritegno a osservarlo in quel- l'abbandono: ma lui non si guarda certo attorno, non bada alla zia, non chiede di condividere la sua ilarità. Si ricompo- neva subito, riprendendo l'aria sonnolenta e la rispettosa di- stanza dal gomito di Berenice. Una volta provò a condurlo a un concerto. Come al solito, egli mise sotto le gambe e restò inerte al suo fianco. Lo vide a un certo punto agitare i piedi, chiudere e serrare le ginocchia, girare in qua e in là il capo oziosamente. Non aveva dato uno sguardo al pro- gramma, lo sgualciva in mano. Neanche la musica fa presa su di lui, già s'annoia. Proprio allora il Nino stava sentendosi tutto irre- quieto, certe note patetiche della viola d'amore gli ave- vano dato concitate spinte di sotto in su. Una voce panica di siringa del flauto culminò con l'eccitante pensiero del- l'indomani: alzarsi, alzarsi presto, niente scuola, ci sarà il sole. Vi fu un momento in cui vide, attraverso il velo gri- gio spiovente dal cappellino di sua zia, minuto nitido e re- moto, un profilo di fanciulla bionda, e poi all'improvviso, volgendosi a sinistra, i volti delle donne un po' riversi, con l'angolo dell'occhio brillante, roseo d'un rosa di conchi- glia l'orlo inferiore della palpebra sotto la mezza luce del lampadario. Dopo fu occupato ad accorgersi delle gambe larghe dell'arpista accoglienti il cornicione d'oro - divari- cati e volti in su, a perno sui tacchetti, pronti al pedale, in piedi - e del modo come di profilo, divenendo tutt'una ruga e vibrando una punta accesa di lingua, l'uomo calvo dagli occhiali abboccasse con labbra prensili il suo flauto. Fino all'ultimo, frastornato da un vago senso di esalta- zione, lo tenne la noia, e ormai non vedeva più, girandosi, che cappelli e nasi. Berenice esce di camera in vestaglia a reclamare il suo caffè più presto: vuole andar fuori subito, godersi una lunga passeggiata domenicale al sole. Dal fondo del corridoio, ode la serva e il ragazzo altercare scherzosamente in cucina. È già lì a importunarla, pensa con la tolleranza dei buoni risve- gli. Come pone le dita sulla maniglia, una vocetta stridula di femmina, che lì per lì non riconosce di suo nipote, dice ben chiaro: «Be', porta 'sto caffè a quella culona di zia Nice.» Allibisce, arretra come se l'avessero colpita in piena fac- cia; poi, raccolta in mano la vestaglia fugge sulla punta dei piedi lungo il corridoio. È scarlatta in viso, le pare di trasci- narsi dietro un posteriore enorme. In camera s'accorge di ansare e di essere letteralmente sconvolta. Passa innanzi allo specchio senza guardarsi, porta indietro le mani, palpa. Grassa, si capisce, ma non al punto... Ah!, ragazzaccio. Una volta era abituata a sentirsi addosso gli occhi dei ragazzi; le accadeva anche, quando ancora insegnava al liceo, di perce- pirli irrisori alle spalle, se nervosa. Ma mai e poi mai si sa- rebbe aspettata questo dal Nino. Così, egli non è punto rispettoso e riservato, con la serva fa dello spirito e usa questo linguaggio. Lo sa sua madre?, Berenice si chiede. No certo, e neppure il padre, sebbene vi si senta il tono pesante della sua facezia. Ella ha per caso posto l'occhio in uno spiraglio ritraendosene sbigottita. Chi è veramente il Nino, com'è? Oltretutto, l'abitudine a esser considerata una bella donna la rende particolarmente sensibile alla grossolana parola. Fi- nisce, un poco peritante, per guardarsi nello specchio, di faccia e di profilo. Grossa, sì. Ma che il Nino abbia posto rocchio su questa parte del suo corpo, è davvero sconcer- tante. Le pare di essere terribilmente conscia d'averla, que- sta parte, e così vistosa, che mai più potrà muoversi con di- sinvoltura avendolo alle spalle. Pensa perfino d'escogitare qualche pretesto e ripartirsene. Nel pomeriggio festivo, quando essa entrò in salotto, il ragazzo era già con Concina nell'angolo del pianoforte. Si mise a spiarlo da lontano, dimenticando di sorridere alle piacevolezze che subito Berto ammanniva per intrattenerla. Eccolo lì, il coltivato urbano convenzionale bambino d'un tempo, che le aveva fatto fare calcoli così errati sulla mallea- bilità della natura. È ancora lui, non c'è dubbio, il ritratto di sua madre, con quel che di sconveniente e assurdo hanno a un certo punto tali somiglianze - e ciò forse rende la cosa ancor più conturbante - la garbata rotondità di ragazza, il viso lunare, i tratti minuti, il bocchino, sinanche la spruzza- tura di efelidi per cui suo padre lo chiama Faccia-di-crusca, e il ciuffetto bruno ben ravviato, egli che non è mai stato alle prese con quella spazzola irreducibile che amareggia le prime velleità vanitose dei maschietti. Eccolo, appena uscito dall'infanzia, e già coperto, dalle guance ai polpacci, d'una lanuggine che lo fa tutto pubescente, tutto soffuso di sesso. Attorno alla bocca tonda - sembra ancora la boccuccia a ventosa dell'infaticabile poppante che fu al seno materno - la caluggine si fa più scura, un alone inverecondo fra cui sporge tumido il roseo bocciolo come un capezzolo suc- chiato E ha già qualcosa di voluminoso nei calzoni, lo si vede benissimo. Conscia a un tratto dei propri pensieri, Berenice arrossì, chiazzandosi fin sul collo. «Le vampe, eh?» disse Paola. Berto distolse gli occhi con premura. S'intende, lui, di "cose di donne"; ama ripetere, al modo d'un vecchio medico, che il miglior rimedio è sempre un marito. Berenice glielo lesse in faccia, provando, insieme alla irritazione che sempre le strideva dentro agli eterni luoghi comuni del cognato, un irresistibile sollievo della propria condizione. Mettere al mondo un figlio, ah! per l'amor di Dio. Essa ne impazzi- rebbe, non é mica Paola. D'allora andò concretandosi come una sensazione di mostruosità per quel tanto di esteriore che talvolta sfigura il ragazzo in crescita, e, più, per quell'inferiore sfiguramento che s'immaginava accompagnarvisi. Deve fargli capolino dentro a un tratto, ai ragazzi, l'oscenità della natura, e solle- ticarli e istigarli chissà come, consigliandoli tuttavia a una dissimulazione così accorta da sbalordire. V’è qualcosa di incongetturabile in un essere di questa età, che sgomenta. In quanto al Nino, le pareva davvero di non aver mai visto uno scoppio simile di adolescenza sulla forma ancora imma- tura d'un fanciullo, e insieme la più olimpica tranquillità. Tranne l'inverecondia di quel pelame, non c'è apparente- mente altro, nulla ancora di sgraziato, neppure la crescita improvvisa delle estremità. Anzi il Nino non sembra avve- dersi di niente, non appare goffo né ombroso, non è mai impacciato. E neppure tenta sottrarsi ai bamboleggiamenti della madre, non chiede neppure che gli si allunghino i cal- zoni. E anche questo un modo di difesa, la passività opaca attraverso cui i genitori mai si provano a spiare. Natural- mente Paola non s'accorge di nulla, non vede, non vuol ve- dere nulla. Come passa un figlio dall'infanzia alla giovi- nezza? Come avviene una tale metamorfosi? (Domandarsi almeno se è dolorosa, laboriosa!) Ah, bene, esse, le madri semplicemente lo ignorano. Esse che persistono a volerlo ancora e tutto in loro potere, che continuano a sorvegliarne le feci e le maglie di lana, le compagnie e gli studi, esse chiudono tutt'e due gli occhi su questo. E non è neppure un male, forse una grazia della natura. (Ma Berto, quello scem- pio!) Poiché, dopotutto, se li ritrovano a fianco uomini, e non è accaduto nulla, la loro bestiolina .addomesticata ha fatto il salto da sola. Un ramo d'albero stecchito, proteso nel vuoto, spri- gionò improvvisamente un visibilio di gemme. A guardarlo dal letto pareva circonfuso d'un insolito nimbo bianchiccio, ma posti gli occhi al vetro si delinearono le ben ravvolte nu- becole, e tendenti piuttosto al celeste che al verde: una cosa tenerissima. Berenice ne fu emozionata, da tempo non aveva un ramo alla propria finestra cui spiar la primavera. Tentò sporgendosi di mettervi su la mano, ma non lo rag- giunse. La vide il Nino, di sotto, che se ne stava solo ai piedi dell'albero, e dopo un poco gliene portò in camera uno stecco tutto gemmato. Anche questo la commosse. Mise in acqua lo stecco per seguire i germogli svoltolarsi. Ma poi la serva dovette buttarlo via, non seppe mai che cosa sarebbe avvenuto nel bicchiere. Fu del resto un momenta- neo intenerimento. Le capitò, una volta partita, di non ri- cordarsi neppure a che punto fosse quel ramo d'albero fuor della sua finestra. Ora, addolcendo sensibilmente l'aria, usciva spesso anche Paola, gironzolavano per interi pomeriggi. Sostato in qualche negozio e stazionato con gusto dinanzi alle vetrine di mode, Paola stava poi in rispettosa attesa quando la so- rella si dimenticava in una libreria. Uscendo, diceva timida e reverente: «Sempre i tuoi libri, eh?» Ma non erano libri ponderosi, Berenice stava approfittando dei suoi ozi per ri- mettersi un po' al corrente con la letteratura. Comprava romanzi, ne aveva una pila sul comodino. «Che non li prenda il Nino» disse una volta a Paola. E s'ebbe in risposta un tranquillo: Non c'è pericolo.» Anche la nuova narrativa stava procurandole sorprese. Non che si scandalizzasse, ne era solo impressionata come del ragazzo, forse anche allo stesso modo tinto di repu- gnanza, ma certo con un senso d'interessamento profondo e allarmato e carico di dubbi. Le parve, in sostanza, che il nudo protagonista dei più spregiudicati scrittori americani, venisse in Europa anche scorticato, presentato sanguino- lento e con le interiora di fuori come un povero coniglio alla mostra del beccaio. Mai, nella narrativa mondiale, s'era parlato così di tutto e così crudo e così a fondo, da dare la vertigine del carnale abisso umano: una gara di audacia, fra anatomica e metafisica, senza precedenti. Taluni libri - pensa Berenice - sembrano proprio emanare quell'odorino caldo nauseoso di visceri pieni, che vien fuori da un pollo quando lo si spacca con le forbici. (Per pulirlo, il pollo, e potrebbe anche esservi un'analogia, se pur non sia il caso di dire solo svuotarlo.) Quest'odorino, del resto, anche l’esteta di casa l'ha annusato, lui che applica incesto e nausea fi- nanco alle innocenti tartine. Pure, fu in certo qual modo sollevata nello scoprire come il problema, che chiamava del Nino, fosse all'ordine del giorno della letteratura, e in forma ben più astrusa di come si presentasse a lei. Bene, non mi verrà mica a dire che sono idee, manie, morbosità da zitella! E che, sarebbero forse zitelle, questi scrittori europei d'oggi? Buttò giù gli appunti per tre o quattro articoli, anch'essi irti di audacie introspettive, e si mise un poco l'anima in pace. Rinunziava a intervenire, la sua presenza in casa essendo troppo fugace per intraprendere qualcosa, rimuovere Paola e Berto dalle loro radicate posizioni, il ragazzo dall'atteggiamento diren- avo. Aveva deciso anzi di evitarlo, il Nino, sebbene le pa- resse sempre di sentirselo alle spalle, a spiarla, o se lo figurasse a rider con la serva della zia grassona. Smise di por- tarlo con sé, escogitando ogni volta un pretesto, sicché il ra- gazzo riprendeva le vecchie abitudini e, visto così di lon- tano, finì col parere più rassicurante e normale. Il sabato aveva la libera uscita per andare al cinematografo. Berto gli metteva in mano il danaro contato. «Eh! Eh!, vedi bene» era uso dire ammiccando. Ci bada, lui, che il figlio non possa disporre; si sa che i vizi vien sempre in tempo a pren- derli. Temeva si mettesse a fumare, era però abbastanza li- berale da concedergli quel paio d'ore settimanali di indi- pendenza programmata. Ora avvenne che una volta, uscendo dopo il ragazzo, Be- renice se lo trovasse dinanzi sul marciapiede in una via del centro, sbucato da una traversa. Non lo ravvisò subito. Aveva la nuca piena di capelli, la schiena grossa sotto il paltò ancora invernale e un'andatura dinoccolata. Appena si fu resa conto che era proprio lui, sostò davanti a una ve- trina. Dunque non è andato al cinematografo, non va al ci- nematografo quando esce solo. La sua giornata di uomo, se- condo il padre. Magari lui stesso la intende così - da un suo particolare punto di vista, naturalmente - va in cerca di chissà che cosa. Lo spiava di sbieco e, come si fu allontanato abbastanza, prese a seguirlo. Egli non mutava andatura, quasi non avesse una meta, o comunque non fretta di rag- giungerla. Una volta girò il capo dietro una donna, ma nel timore di essere scoperta Berenice si fermò di nuovo. Potè vederla solo alle spalle, era una signora piuttosto corpulenta e vistosa. Ah!, guarda un po', forse s'è voltato solo per qua- lificarla tra sé di quella salace parola che applica a sua zia. Ma dove va? O meglio, di dove viene? Rallenta il passo, pare indeciso, di colpo si rivolge. La vide subito ferma in- nanzi a una vetrina. «Oh!, zia Nice.» «Tu?» «Eh! sì, io.» «Non sei andato al cinema?» «Non ne avevo voglia, oggi.» «Ah!» «Ma tu, non dirlo al babbo, zia.» La guardava diritto, coi suoi occhi mendaci ben svegli, come sicuro della complicità. Non insistette neanche per aver risposta, era sottintesa. S'incamminarono assieme in si- lenzio, nella direzione scelta da lui. «Posso offrirti le caramelle» disse a un tratto. La sbirciò allegro fanciullesco disarmante, nel proporre di pagarle il silenzio. «Sono dunque destinati alle caramelle, quei soldi?» «Oh!, a niente di preciso. Ma che ne farei? Sai che mi comperano tutto quello che voglio.» (La frase di suo padre, la norma di Berto: non fargli mancar nulla, perché non si debba desiderar nulla e procurarselo di nascosto. Come se si potessero conoscere tutti i desideri, le voglie di un ra- gazzo, come se potesse confessarli tutti. Ma che arietta ipo- crita, ripete la lezioncina per darla a bere a sua zia.) «Ora ti compro le caramelle.» Fece per entrare in un bar, Berenice lo trattenne. «No, ti ringrazio, tieni i tuoi soldi, potranno sempre servire.» Un impulso, che subito rimpianse, la spinse ad ag- giungere: «Anzi, mettici anche questi.» Cavato dalla bor- setta del danaro, glielo ficcò in tasca. Il Nino spinse in fondo, vi tenne la mano e sorrise, la guardò di nuovo gra- ziosamente con quel suo sguardo di micio nella mascherina delle efelidi. «Sono tanti, zia.» Era sveglio e quasi comuni- cativo. Come se si sentisse colpevole, pensò Berenice, ormai allarmata di avergli dato quel danaro. Rientrarono assieme. Lui scappò subito in cucina ad aiu- tare la serva, dispose con cura le posate, aggiustò nel vassoio una incrollabile piramide di frutta. A tavola, come d'ob- bligo, dové raccontare la trama del film, presentò non so che comici, fece ridere molto suo padre, egli stesso aveva certo occhietti micanti d'eccitazione. Guardò più d'un volta dalla parte della zia. Essa stava ad ascoltarlo traseco- lando. Caspita, se è abituato a mentire. Si domandò se vera- mente avesse ancora in tasca il danaro del biglietto, se avrebbe potuto davvero comprare le caramelle, e l'idea di tanta audacia le tolse il fiato. Certo non lo ha più. E chi può dire dove vada un ragazzo coi soldi in tasca? Finì per do- mandarsi se, posto che lo lasciassero entrare in uno di quei luoghi, la somma d'un biglietto di cinematografo sarebbe bastata. No, proprio non lo sapeva, né riusciva a immagi- narselo. Ah!, saper tanto, essere un'arca di scienza pedago- gica, e ignorare questo, un particolare così essenziale. Andò a letto con una fastidiosa sensazione addosso di colpevolezza, cui poco dopo, guardando il proprio braccio grasso sotto il libro, s'aggiunse inopinatamente il ridicolo della situazione. Ci contava, era sicuro del silenzio. Mi sono dunque prestata come una stupida al suo gioco, un gioco da ragazzi in cui la delazione non è ammessa. Si rese conto, chiudendo il libro e continuando a guardare come se leg- gesse sul bianco del braccio, d'aver appunto avuto quella debolezza, mettersi alla pari con lui, aver vergogna di fargli la spia, come fosse stata una sua compagna di scuola e non la zia pedagoga. (Egli certo mi chiama così.) Ma infine, ac- cusarlo di che? D'aver preferito gironzolare all'aperto, anzi- ché rinchiudersi in un cinema? La zia sa che il padre lo ti- ranneggia con le sue imposizioni. E poi, ha pur profferto di comprare le caramelle coi propri soldi. Tutto il resto, dubbi timori sospetti, è innominabile. Non si poteva mica dirlo a lui, non si può dire a suo padre o a sua madre: E se andasse in un bordello? Vi sono cose che non è lecito nominare, la gente se ne scandalizza, non ammette si sospettino neppure. Benché tutti poi sappiano che si fanno, che esistono. È come un mondo a parte, con quella grottesca estraneità, quell'aria di dissimulazione che ci s'immagina stia assu- mendo, entro lo scuro alveo del comodino, l'orinale in una ben parata camera. Aveva voluto, giorni prima, che Paola togliesse quel ridicolo strumento, non poteva impedirsi di pensarlo lì accanto acquattato, mentre erano insieme la mattina a ciarlare fumando come in un salotto. Da qualche tempo, in verità, la coglievano pensieri assurdi, tutto si met- teva a perseguitarla. Ma che il ragazzo stia maturando, è uno di quei fatti sulla cui evidenza e urgenza non si può equivocare. Berto dovrebbe... Che dovrebbe mai fare Berto? È inimmaginabile questo poveruomo così benpen- sante, che si metta a istruire il proprio figlio sul come... Ma come, come? E forse il come lui l'ha già trovato, da solo, nel segreto delle lenzuola. Scese dal letto e andò in giro scalza. Sapeva che si sarebbe fermata dinanzi allo specchio, era agitata anche di se stessa, incuriosita e sorpresa, anzi sgomenta, come se rapporti col mondo del tutto nuovi la cogliessero, non solo impreparata, ma addirittura all'oscuro del proprio essere reale. Si scrutò tentando di cogliere quella figura con occhio estraneo, di vederla come la vede- vano gli altri, a esempio il Nino. Una donna discinta, dalla faccia un po' vacua, smarrita. Non sai che fare, eh? Brava, zia pedagoga. Sollevò fatuamente una mano ai capelli, rialzò una ciocca, l'arrotolò al dito. Ancora senza un filo bianco, una chioma giovanile, lucente, e s'è serbata ricciuta, mentre a Paola, subito dopo il parto, i ricci si sfecero. (Ricci scempi, diceva mamma, anch'essa li aveva perduti coi figli.) Ora non sembra nemmeno la più giovane, s'è tutta sfatta, Paola, le casca il seno. Mise le mani al suo, grosso e sodo ancora, e sgusciò una spalla dalla camicia, col vezzo di quand'era fanciulla, che si usavano scollature ampie. Strano come avvizzisca presto il cavo e come invece si mantenga nitido il pomo della spalla. È la parte del corpo più ben tesa, o forse anche le natiche... All'improvviso si sentì gravar la schiena d'un posteriore enorme e corse a rifugiarsi nel letto. Le era venuto in mente che il Nino potesse spiarla dal buco della serratura, si sa che a quell'età fanno ignobili cose, non risparmiano neppure la propria madre. Col respiro fre- quente, fingendo di nulla, riprese il libro, rivide il braccio grasso, una peluria rada acciaccata per l'ampia curva del profilo carnoso, che emanò dopo un poco odor fievole di borotalco fin dentro il sonno. La mattina entrò furtiva- mente in camera del ragazzo, come l'ebbe udito uscire e scoprì il letto, ispezionò le lenzuola: immacolate. Di nuovo è domenica, di nuovo viene Concina: è la quarta volta, sta diventando anche lui usuale più di quanto si convenga a una così eccentrica persona. Già quattro do- meniche, una intera lunazione, cara la mia zitella, si disse entrando in sala. Avrebbe potuto restare ancora un mese, ma non era certa di resistervi, il suo prezioso riposo era già andato sciupato. Concina mostrava al ragazzo una rivista, sfogliandola sul pianoforte vi chinavano assieme la testa. Berto e Paola indicarono la terza poltrona. Si lasciò andare di malavoglia, prestò orecchio a una intermittente recezione del chiacchiericcio vicino e lontano, afferrando parole sle- gate: «... aumentato il burro... tonale... sigarette schifose... espres...ta ta ta» Concina schiacciò un tasto quattro volte, la faccetta del Nino si sollevava impenetrabile dietro la mascherina. Probabilmente non l'interessa nulla di quel che sta ascoltando, è solo per obbedienza. L'hanno ad- domesticato, non educato. Essi addomesticano tutto e tutti, per star tranquilli, perché niente sbandi sotto le loro mani, niente si agiti troppo. Hanno persino il loro esteta addome- sticato. (S'infuriò repentinamente, fremé. Sapeva di dover fronteggiare tra poco un altro mostruoso pensiero che stava nascendo per le corna.) Ora li rimpinzeranno di crostini, poi li manderanno assieme al cinematografo, e così... «Che pensi, Nice?» Trasalì, incontrò le vizze pervinche di Paola, quel pate- tico occhio così esasperante, e formulò in risposta un sor- riso inespressivo. Passato il braccio dietro la schiena del ra- gazzo, Concina si curvava sempre più, congiunsero le tempie. La sua mano d'un rosa intirizzito, stridente sulla giacca nocciola del Nino, sollevava e riabbassava le dita come pal- pando. Tutta la sua flaccida figura ripiegata esprimeva una sorta d'ansietà tremante, una sudicia cosa, dietro cui Bere- nice vide rizzarsi il suo pensiero con le corna. Quando pre- sero posto con loro attorno ai vassoi, le si affocarono le guance alla sensazione d'una tal vicinanza. Vedeva schi- fando la forfora di cui era cosparso alle spalle il vestito fru- sto di Concina, la sua bocca molle che succhiava ghiotta il dolce, il mento gelatinoso da vecchia signora e quell'impor- porarsi della pelle come una voluttuosa congestione. Lo ravvisava, riconosceva ormai la sudicia figura del corruttore, il laido protagonista dell'invertimento generale e fonda- mentale d'un mondo stremato che i libri le avevano sco- perto. E tra poco gli lasceranno portar via il ragazzo, e chi può dire dove? Se lo porterà forse nel suo studio, una qual- che sporca soffitta parata di sconce immagini, per conti- nuare a propinargli così untuoso le sue spregiudicatezze e persuaderlo ai propri scopi, se già non v'è riuscito. Con spasimosa intensità Berenice continuava a osser- varli, cercando qualche indizio, tentando d'immaginare come dovrebbero mostrarsi, a occhi consapevoli, due che se la intendano così. Pur riluttando da questo nuovo pensiero, ritrarsene non poteva più, era costretta ad ammettere per certo che il Nino celasse un qualche appagamento nella sua placidezza. È innaturale questo stato di acquiescenza, il solido equilibrio su cui sta, che non collimano per alcun verso col disordine pubescente della sua lanuggine e coi tanti altri segni d'una condizione fisica fra le più penose a risolversi nell'ambiente circospetto rinserrato e rigoroso creatogli attorno dalla casa dei genitori. Per qual via s'è messo, se ha potuto già uscirne? Bisogna dunque provare a figurarselo, questo morbido giovine gatto così sornione, così impenetrabile, a piegar le sue grazie conturbanti an- cora senza sesso, a lasciarsi... Oh! «Zia ti cade.» La mano grassoccia di lui raddrizzò fra le sue la chic- chera che traboccava. Le porse un biscottino, la guardò aperto diritto, con verace sollecitudine negli occhi. «Sei distratta, zia. Cos'è?» Rise, la guardò ancora, le porse un altro biscottino. Mai s'era mostrato premuroso in un simile modo, le sue frasi spontanee e confidenziali, il tono con cui le pronunciava, erano del tutto opposti al modo convenzionale che aveva di portar riguardo e palesare interesse a un adulto. Come se fosse più conscio di sé e degli altri, in uno stato di soddisfa- zione: come se s'aspettasse, da questa sortita domenicale in compagnia, ben più che dalla solitaria libertà del sabato. (Guarda un po' - sta pensando il Nino - che cosa curiosa i nasi. Di tanto in tanto lo colpisce, in faccia a qualcuno, co- mica, la immobilità di quel pezzo di carne. Parla, ride, e non le si muove, sembra paralizzato.) «Dove vanno?» chiese bruscamente Berenice, come anche Paola fu uscita per accompagnare fin sulle scale Con- cina e il suo ragazzo. «Dove?» ripetè Berto intento ad accendere una sigaretta. «Ah! al cinema, naturalmente, come il solito. Qui vicino, al rionale. Perché?» Succhiò con energia. «Schifose» ripetè per l'ennesima volta nella giornata. (Ne aveva fatto scivolare un pacchetto in tasca a Concina, prima che uscissero.) Col medesimo tono brusco, considerando la criminosa incoscienza del proprio cognato, Berenice domandò ancora: «Chi paga?» «Cosa? Il biglietto, vuoi dire? Bè, sai, è un po- veruomo, gli compro qualche quadro per aiutarlo. Un vero artista, ti assicuro. E gli do... Penso che qualche volta biso- gnerà invitarlo a pranzo. Non puoi credere...» «Dunque, chi paga?» «Naturalmente, io. Do i soldi al ragazzo, provvede per tutt'e due. Ti assicuro, fa proprio la fame.» Berenice uscì sola poco dopo. Al cinema rionale restò in piedi qualche minuto. S'accese subito la luce, non tardò molto a scoprirli: erano in una delle ultime file, fumavano entrambi buttando in aria gran boccate e scambiandosi sguardi soddisfatti, mentre pescavano a turno, da buoni compagni d'orgia, in un voluminoso pacco di caramelle che il Nino teneva aperto sul bracciolo della poltrona. Una notte, svegliandosi, Berenice ha necessità di andare in bagno. Il bagno è in fondo al corridoio, accanto allo sga- buzzino della serva, bisogna passare avanti alla camera del ragazzo; una cosa seccante. Eppure, via, sarebbe ora di met- tersi a considerarlo quel bambino che è, anziché provare vergogne ridicole. Appena fuori, vede dall'uscio accanto, socchiuso, trapelare luce e, avanzato il capo, scopre il guan- ciale vuoto. Bene, ha dovuto andarci anche lui, s'è bevuto grand'acqua a tavola con quel pasticcio così pesante. Si assi- cura che non stia nella camera: semiscoperto il letto, divari- cate sul tappeto le pantofole: è andato scalzo. Poi s'accorge che il vetro smerigliato del bagno è oscuro, e torna a sen- tirsi irresoluta. Le secca andare avanti, dover aspettare die- tro l'uscio, e magari trovarsi faccia a faccia mentre s'aggiu- sta il pigiama uscendo. Fra le stupide situazioni che le si sono create col ragazzo, questa è certo la più stupida e irri- tante. Però, sarebbe strano che stesse lì dentro al buio. S'av- via cauta sulle babbucce: si va a girar la maniglia, se è occu- pato si torna indietro. Ma non era occupato. Invece, uscendo, s'accorge della luce in camera della serva, al ret- tangolo di vetro sormontante l'uscio. Toh!, si mette anche lei a leggere tutta la notte. Ma non le riesce più di prose- guire, questa volta la perplessità è d'altra natura. Va come un ombra a guardare in cucina, va in salotto e in sala da pranzo, esce persino sulla veranda. Allora tutta la sua incer- tezza svanisce, cessa di almanaccare, è accorta e deliberata come una donnetta che spia. Le basta guardarsi attorno per decidere. Proprio a fianco di quell'uscio, c'è una vecchia consolle della loro casa paterna, un antico mobile di noce ben solido, di cui Paola non aveva mai voluto disfarsi, pur non riuscendo a collocarlo tra il suo arredamento moderno. Postovi innanzi uno sgabello, Berenice se ne serve per sa- lire. S'arrampica sulla consolle agilmente, solleva la sua mole con sicurezza e facilità, non avendo pensato prima a temer d'un capogiro o d'un passo falso. Com'è sopra, ritta, scorge attraverso la spia di vetro, contro l'angusta parete, le ampie volute nere d'un letto di ferro. Sporgendosi, può lan- ciare uno sguardo più in basso: sono lì tutt'e due. Stettero quasi tre ore, con le valige a terra, in attesa del treno sulla banchina della stazione. Neppure Berto riu- sciva a capacitarsi che alla rivista necessitasse così di colpo la presenza della direttrice. «Ma come, se ti avevano già mandato le bozze, ma come!» (Era stato il ritornello di Paola tutta la mattinata.) E a un tratto aggiunge: «Con- tavo tanto, per il Nino, sulla tua influenza educativa.» «Ah!» dice lei trasalendo. E Berto infine zittisce. È inutile continuare ad affliggerla, non ci ha mica gusto ad andar- sene dal comodo, a viaggiare così male. Ora si sembra tutti poveracci in viaggio. Berenice stava tentando di ricostruire in sé l'immagine della sbiadita donnetta, è come se l'avesse vista per la prima volta oggi. (Semplicemente non era stata considerata un personaggio, ma una comparsa.) Si presenta in camera come al solito col vassoio, ben ravviati gli scarsi capelli biondi, pallidina e acciaccata, con l'usuale sorriso sui denti rovinati. Potrà avere trent'anni, forse più o forse meno; questa gentuccia patita non si sa mai che età abbia real- mente. Rammentò di aver notato, come se ne andava, le smilze gambe nude sotto la gonna, d'un bianco d'ovo sodo, e i talloni aranciato vivo fuor delle ciabatte. Carnagione di bionda linfatica, sarà magari liscia senza troppa pulizia. Non provava repulsione, neppure quel vivace senso di biasimo che sarebbe stato lecito aspettarsene. Forse una paesana, ma che, commesso "il fallo", deve andarsene a tirar la vita altrove. Sembrava così seria, così a posto. Ma accade che, dopo anni di vita castigata, si risveglino a un tratto i sensi, un fresco ragazzo può ben incarnare la tentazione. Dagli scherzi di cucina, da quella dimestichezza gomito a gomito, dal toccarsi e cimentarsi per gioco, scocca all'improvviso la scintilla. Come sarà stato?, si chiese. E le parve che dovesse essere tutta colpa del Nino, s'immaginò il ragazzo starle ap- presso con quella sua insistenza, quella pertinacia tranquilla, il lungo accanimento muto che metteva nei giochi. Era tutto quanto ritrovava ormai di lui, il resto le sarebbe rima- sto ignoto. Non riuscì neanche a rammentare in quale occa- sione avesse visto, attraverso la impenetrabile mascherina, quegli occhietti micanti d'eccitazione. «Penitenza, eh?» disse Berto. «Come?» «Una penitenza, dico, star qui ad aspettare.» «Già.» Quell'ignara faccia le procurò un senso di malessere. Se ne distolse, rivolgendo un cauto desiderio alla sua casa, ai libri, al calmo mondo teorico che l'aspettava. Era stato il suo immobile mondo senza dubbi e senza conflitti, quel- l'angolo dello scrittoio dove avrebbe ripreso a lavorare fra le pile dei ponderosi volumi e il mucchio della corrispon- denza inevasa. Malgrado tutto - la implicita sconfortante confutazione e il senso del ridicolo che per di più v'è con- nesso - sperava di potervisi ancora ritrovare a suo agio, ri- sentirvisi tranquilla e autorevole sotto lo sguardo reverente della fedele Pons. Bisognerà certo tener conto di questa esperienza, tener conto... Perché è stupefacente come abbia ritrovato così da solo la via dritta della natura. Non è più come quella caverna dell'infanzia, l'infatuazione a freddo; qui ha operato qualcosa di genuino, una cosa potente seb- bene cieca, capace di sprigionarsi come una gemma dal legno. Ah!, ma ripugna pensarlo la notte in quello sgabuzzino, a fiato a fiato con la donnetta dai denti guasti, nelle sue lenzuola che devono sapere di rigovernatura. E sotto lo stesso tetto con Paola. Ah!, per l'amor di Dio. Si mise a camminare, così concentrata in volto, che Berto le si girò dietro e le tenne gli occhi sulla schiena. Come tornava sui propri passi, e la vide sorridergli gentil- mente, nella sua semplicità ne fu sollevato, si sentì a un tratto gioviale. Le porse da fumare, lei non volle in mezzo a quella gente, riprese ad andar su e giù per un breve tratto. Era combattuta e insieme alleviata, e colma d'uno strano senso di contrizione. Quel poveruomo di pittore ha una fac- cia famelica, di vera fame viscerale, ecco tutto, e quel rosa intirizzito della pelle che si congestiona mangiando è il co- lore d'uno cui manchino al corpo le calorie del cibo. Erano così innocenti, in quelle poltrone del cinema, con la siga- retta e le caramelle, con tutta la loro fanciullaggine in bella mostra: due scolari sfuggiti alla sorveglianza. Sicché, il Nino ha anche imparato a fumare. Ma forse preferisce di gran lunga le caramelle. E quella volta, certo aveva ancora in tasca il danaro, voleva davvero comprargliele. Lo rivide, con le spalle insaccate e la faccetta calugginosa piena di pre- mura, in mezzo al marciapiede, accanto a lei che stava so- spettandolo di chissà quali ignobili calcoli. (Il mondo d'un ragazzo è pur sempre semplice trasparente e candido; tutto, s'è visto, vi accade con la facilità rigorosa della vita.) Voleva, sì, che non lo accusasse a suo padre d'aver preferito al chiuso del cinema le vie domenicali, ma soprattutto deside- rava, un po' goffamente, comportarsi da uomo. E lo era. Era un uomo, quello che voleva offrir caramelle, più di quanto lei fosse mai stata donna. Lo era persino in quel de- siderio di gustare il dolce in compagnia, non tenta che i fan- ciulli e i vecchi prendersi piacere da soli. Con sommo stupore, Berto vide la sua rigida cognata guardarsi a lungo in uno specchietto, ferma a pochi passi da un gruppo di contadine tra i loro canestri. Tentò di farle cenno, avvertirla che giungeva il treno, ma quella non ces- sava di mirarsi come fosse nella sua camera. S'era dimenticata, Berenice - lei che non tirava mai fuori lo specchio dalla borsetta - a guardare la propria fac- cia. A un tratto ci s'accorge che ora o mai più ci si potrà ve- dere, sapere come s'è realmente, come gli altri ci vedono, come ha potuto vederci un ragazzo. Perché lì, in quella casa ove il tempo pareva arrestarsi, invece s'è vissuto davvero - e si continuerà a vivere fervorosamente poiché c'è un figlio che cresce - con gli spiriti desti al fluire dell'esistenza e la sensibilità spronata da un mordente senza pari. Per questo tanto spesso le accadeva di sentir mutati i propri rapporti col mondo, di sentirsi mutata essa stessa e sempre in pro- cinto di scoprirsi. Così, adesso può vedere che la bella faccia regolare e pastosa di dea, che ancora credeva di mostrare agli occhi del prossimo, non c'è più: i tratti inspessiti, quella pesantezza non ancora floscia ma già ceduta, lo sguardo opaco sotto l'arco mantenuto nitido dalle pinze. E il ra- gazzo ha forse visto questi peli che rispuntano irreducibili per il collo. Ora sa d'esser vecchia e lo apprende con quella irrevocabilità che di solito alle donne è risparmiata. Quando scorse Berto farle cenno, tornò rapidamente. Già la folla si assiepava, carica di bagagli, tumultuando. Si tenne indietro, finché lui non ebbe agitato trionfalmente le braccia da uno sportello di prima classe. Appena sceso, s'ap- prestò a farla salire, sporgendo premuroso le mani ai suoi gomiti senza toccarla. Su quella faccia così cordiale, così soddisfatta d'averla sistemata bene, dové dire con cruda fretta: «Ti avverto, il Nino va la notte in camera della serva» e distolse gli occhi. «Cosa?» fu costretta a guardarlo. Stava lì, col medesimo sorriso, non lo mutava ancora dopo che essa ebbe ripetuto. «Chi, Faccia-di-crusca?» balbettò infine, incredulo e triste come un uomo ingiustamente colpito. Be- renice s'arrampicò da sola, inciampando nell'orlo del man- tello, e subito sentì le mani di lui servizievoli sospingerla. Lo vide ancora dal finestrino, immiserito, con le braccia in giù, e in volto quella pietosa espressione di smarrimento. È pur sempre il buonuomo che s'ingegnava col suo malde- stro garbo a nutrire l'affamato artista e a dirigere il proprio figlio sulla retta via, è stato duro colpirlo. Ah!, ma biso- gnava bene che una volta o l'altra si rendesse conto, fosse costretto a pensarci su seriamente. Si raggomitolò nel posto d'angolo guadagnatole da lui, chiuse gli occhi e lo cancellò dalla mente. È del ragazzo che si tratta. Non aveva potuto esimersi da questo, un dovere così increscioso e sleale: fargli la spia. Eludendo fino all'ultimo una risoluzione, evitando anche di proporsela, già da stanotte sentiva che avrebbe do- vuto in ultimo farlo, metterglisi di nuovo attraverso la strada, tradirlo per la seconda volta. Non è concesso che ai ragazzi saper sempre e con infallibilità quel che vogliono, quel che c'è da fare. Chini gli occhi alla borsa, da cui non avrebbe mai più tratto così incautamente lo specchio, ri- piegò umiliata nella sua debole e confusa condizione di adulta.

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PROFUMO

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Capuana, Luigi 2 occorrenze

Oppure rimanevano zitti, seduti accosto - egli, fumando; Eugenia, con le braccia abbando- nate sul grembo e gli occhi socchiusi -, pensando e fantasticando ognuno per proprio conto, lasciandosi invadere sempre più, ella dalla sdegnosa rassegnazione a quella vita monotona, fredda, per la quale non si sentiva nata; Patrizio da un senso di pace e di riposo, che a poco a poco gli addormentava nel cuore le diffidenze e i sospetti contro la sua cattiva sorte. Una, due volte la settimana, quell'atonia era interrotta dalle risate di Giulia. Allora, improvvisamente, per le stanze, pei corridoi, fin per l'ufficio, risuonava ed echeggiava l'allegro chiacchierio di lei, le sue risate, e le sue strampalerie di ragazza che ha sulla punta della lingua quel che le ribolle dentro, e lo getta attorno alla spensierata, per proprio gusto, senza punto badare agli altri. Venivano talvolta, assieme con lei, anche le sue sorelle; e allora conducevano via Eugenia a passeggio, alla chiesa dove si celebrava qualche festa religiosa serale, o dalla zia Vita, che parlava sempre della buon'anima di suo marito; buon'anima che gliene aveva fatto vedere di cotte e di crude, come ella diceva. E per ciò si contentava di rimaner sola e di viver sola con la serva, quantunque non fosse poi tanto vecchia e le tentazioni non le mancassero. Oh, non era nata pel mondo! Infatti voleva farsi monaca; ma suo padre, che non intendeva ragione, l'aveva costretta a maritarsi. La mamma: "Fa' la volontà di Dio, figliuola mia!". E l'aveva fatta dieci anni, in mezzo a un vero inferno. Eppure si era in- grassata! "Ora vi sembro una carrozza, donna Eugenia mia. Da ragazza, ero un fil di paglia." Eugenia si divertiva stando ad ascoltarla. Ascoltava però più volentieri le confidenze di Giulia. Nei giorni in cui ve- niva a trovarla sola e rimandava subito Pina dalla quale s'era fatta accompagnare, Giulia non la finiva più di ragionare del suo Corrado; le leggeva, una dopo l'altra, tutte le lettere di lui. "Più lunga del passio!" esclamava, cavandone una di tasca. "Già la so a memoria." Giulia le recava spesso i saluti di Ruggero, che non vedeva l'ora di ritornare. Col pretesto delle lezioni del fratello, allora ella sarebbe venuta tutti i giorni; le pareva mill'anni! E alcune settimane dopo, entrò in camera di Eugenia, sventolando il fazzoletto dall'allegrezza: "Eccolo qui! Eccolo!" Ruggero parve alquanto impacciato di quell'annunzio rumoroso. Lo svelto abito grigio da mattina gli stava benissimo. "Peccato che mio fratello non sia biondo" disse Giulia. "Sembrerebbe un inglese." "Di Marzallo" aggiunse Ruggero, ridendo. E strinse la mano che Eugenia gli stendeva. "Vestito così sbricio, pare più alto, è vero?" le susurrò Giulia in un orecchio. "Bel giovane, non c'è che dire. Son lie- ta che sia mio fratello." "Ora si tratterrà un pezzo" disse Eugenia, dopo di averlo invitato a sedere. "Fino a dicembre." "È diventato più serio in questi mesi." "Con gli anni si mette senno. È diventata, mi pare, un po' più seria anche lei." "Oh, io? ... Sempre la stessa." "Guarda! Parla quasi fosse una vecchia!" "S'invecchia in tanti modi!" rispose Eugenia. "Tu sì, cara Giulia, non invecchierai mai." "Come la zia Vita, con la sua buon'anima. Perciò ha una proposta di matrimonio al mese, beata lei! Tentazioni, co- me le chiama. Gliela danno a intendere le femminucce, per cavarle di mano qualche soldo. Parlatele di quelle tentazioni e la fate felice. Io le dico spesso: "Zia, è vero che il tale ti ha chiesta?". Non è vero niente, nomino il primo che mi capi- ta in bocca. "Ma sì, figliuola mia! Non mi vogliono lasciare in pace! Quasi non ne avessi avuto abbastanza con la buo- n'anima!" Se le dicessi: "È vero zia, che ti ha chiesto il papa?" risponderebbe egualmente: "Ma sì, figliuola mia!"." "Come la imita bene nella voce, nei gesti! Par di sentire proprio lei" disse Eugenia. "Ora ci vedremo spesso" riprese Ruggero. "Verrò ad annoiare l'Agente per le matematiche." "L'hanno bocciato! ... Papà è su le furie, quantunque lo prevedesse." "Una volta poi finirò d'essere studente!" sospirò Ruggero. "E allora prenderai moglie. Dovresti trovarne una come questa qui!" "Matta!" fece Eugenia, battendole un colpetto su la mano, Il cavaliere venne in persona per presentare il discepolo al professore. "Se non è professore, meriterebbe di esserlo" egli rispose alla cortese protesta di Patrizio. "Sia severo. Costui ha la testa dura. Non vuol capire che le matematiche quadrano la mente e servono a tante cose, anche per gli avvocati, se do- vrà essere avvocato. Diciamo piuttosto che è la poca o punta voglia di studiare. Dal liceo si torna in paese, non si apre più libro, e si dimentica il po' che si è appreso. Costui è abituato a far così. Se n'avvedrà poi, quando non potrà più ri- mediarci; glielo dica lei, che ha più autorità di me. Ai miei tempi, non c'erano tante scuole, e si studiava alla meglio. Oggi le scuole ci sono; manca la volontà. E poi se la prendono coi professori! Se lo tenga qui, gli faccia anche copiare carte dell'Agenzia, se le fa comodo; purché stia occupato e non vada uccellando qua e là coi cattivi compagni." "Non è più ragazzo" disse Patrizio "e non ha bisogno di prediche." Ruggero, a capo chino, girava il cappello tra le dita. "Di prediche ne ha fin troppe!" rispose il cavaliere, stirandosi le fedine. "Ma fa il sordo; e il peggio sordo è chi non vuol sentire. Passo a salutare la sua signora. Sta bene? Me ne rallegro. Nervi, dice il dottor Mola. Proprio odor di zaga- ra? Sembra una favola. Guarda un po' a che siamo soggetti! Povera signora! Basta. Quando possiamo contarle le disgra- zie sono niente. Le mie figliuole vanno matte della sua signora. Giulia poi! A me fa gran piacere ch'ella pratichi una persona così buona. Così questo signorino si specchiasse nel signor Agente! Lei è ammirevole; lavoro e studio, studio e lavoro. Il mondo non esiste per lei. Lo invidio. Non ha rompicapi, non si fa bile, come me, che certe volte temo di scop- piare! Non si scomodi; so la strada. Ha fatto bene a mutare stanze. Queste dovevano produrre gran tristezza alla sua si- gnora. Certi ricordi, benché cari, è meglio tenerli un po' lontani. Tanto, che cosa si fa? Quel che è avvenuto, è avvenuto. Lei non può consolarsi, lo so. Tutte le sere al camposanto! È un conforto anche questo. Pietà filiale commoventissima!" In piedi e già mezzo congedato, il cavaliere continuò per un altro buon quarto d'ora, tornando a parlare delle lezioni. "Ora costui è nelle sue mani!" conchiuse all'ultimo. "Son venuto a consegnarglielo." E quella sera, andando al camposanto, Patrizio rifletteva con senso d'amarezza quanto fosse mutata ogni cosa d'at- torno a lui dopo la morte della sua mamma. Oh, la dolce solitudine d'una volta! Oh, l'intimo silenzio di quelle stanze nei primi mesi della loro vita a Marzallo! Eugenia, allegra e piena di salute. Egli, felice di vederla a quel modo, di sentirla parlare e cantarellare, venendogli con- tinuamente dinanzi con mille affettuosi pretesti. Di là, nella sua camera, su la poltrona, la mamma, che era pur sempre mamma con tutta la sua gelosia, con tutti i suoi rancori. Conforto, alito tiepido che gli scaldava il cuore! Ora, egli non si raccapezzava più! Giulia, le di lei sorelle, Ruggero invadevano il suo posto, disturbavano la sua soli- tudine, si frapponevano tra Eugenia e lui, rovesciavano da cima a fondo l'ordine e la tranquillità della sua vita. Eugenia andava già spesso fuori di casa, quasi cercasse ogni occasione per starsene lontana da lui. E lui, lui stesso, che cosa fa- ceva per tenersela legata, per non lasciarsela sfuggire? Era divenuto indifferente? O credeva che quella malinconica freddezza, da cui si sentiva lentamente circondare, fosse pace desiderabile e buona? Non si raccapezzava. Anche il ricordo della sua povera mamma gli si rattiepidiva in fondo al cuore! L'abitudine, il tempo che andava tra- scorrendo avevano già alquanto spuntato l'acutezza del suo dolore. E dapprima gli era parso che aumentasse, che cre- scesse, ogni giorno, da dover diventare infinito! Ah, Signore, che tristezza! Si fermò alla porta del camposanto, quasi volesse raccogliersi tutto nel solo pensiero della sua povera mamma prima di entrare, e si affacciò al parapetto murato su l'orlo della rupe. L'abisso si sprofondava nella gola tortuosa che si perde- va più in là, nella vasta pianura. Laggiù, laggiù, lungo il torrente, una fila di carri montava per la salita; contadini a piedi e a cavallo sbucavano dalle viottole nascoste tra gli alberi, brulicavano a frotte nere per lo stradale grigio, simili a mo- struose formiche. Le taccole, appollaiate nelle fenditure della rupe, gracchiavano, quasi borbottassero da un nido all'al- tro. Solo un falchetto in ritardo ora si librava su le ali tremolanti, ora si lanciava come freccia per l'aria imbrunita, e squittiva acutamente, forse impaurito di quella forma nera, rizzatasi all'improvviso dietro il parapetto in cima alla rupe. In fondo, lontano, montagne di nuvole cineree salivano minacciose dal mare, spinte su dal libeccio che aveva comincia- to a soffiare. Patrizio guardava giù, attorno, lontano, abbandonandosi a quella specie di momentaneo oblio da lui ricer- cato, lasciandosi penetrare tutto dalla solenne malinconia delle cose al cader della sera, che su quella cima di rupe, con la campagna che si scuriva là sotto, e fuggiva fino al mare, digradante di forma e di colore, riusciva più solenne. Si scosse, e tirò il cordone della campana che pendeva fuori della porta del camposanto. "Ah, voscenza!" disse il custode, salutandolo. "Credevo che questa sera non venisse." E Patrizio ebbe una stretta al cuore, quasi il rimprovero gli arrivasse dalla tomba della sua povera mamma.

Ruggero non sapeva precisamente nemmeno lui che cosa volesse e sperasse da quella passione a cui si era abbando- nato dapprima come a uno svago di vacanze e che era diventata a poco a poco molto seria. La tormentosa ansietà che gli faceva girare il capo, spingendolo ad almanaccare cento cose una più assurda dell'altra, lo paralizzava poi nel punto più propizio a lanciare una parola o fare un gesto, un passo decisivo. L'attitudine di Eugenia lo metteva in imbarazzo. Era gradito? Era sgradito? Non lo sapeva con certezza. A volte gli pareva di sì, a volte no. E ogni mattina, avviandosi verso il convento per la lezione di matematiche, prendeva una riso- luzione, tracciava un disegno, scegliendo il luogo, l'ora: preparando con l'immaginazione tutta la scena, quasi i fatti do- vessero accadere proprio come li disponeva lui, o nella selva, o su la terrazza, o in camera di Eugenia, mentre Giulia era distratta o lontana e occupata a stuzzicare l'Agente che fumava digerendo la colazione. Ma se una coincidenza fortuita faceva che le circostanze corrispondessero in gran parte col piano immaginato, e ch'egli ed Eugenia si trovassero quasi soli in fondo a un viale o in un angolo della terrazza, e il ragionamento filasse così bene che sarebbe bastato cogliere al balzo un motto, un atto di lei, per dire alfine quella parola, quella frase preparate con grande studio, rimuginate tanto, e che già gli ribollivano dentro e pareva dovessero sfuggirgli di bocca anche all'insaputa, l'animo gli mancava. Prendeva il largo, faceva dei giri, lasciava scapparsi di mano l'occasione; o rimaneva muto, come adombrato, incapace di saltare l'o- stacolo. E tornava a giurare a se stesso che un'altra volta sarebbe stato meno timido e meno sciocco; sì, meno sciocco. Non parlava, e pretendeva d'esser capito! Santa però lo aveva capito subito, vedendolo assiduo al balcone; e le lunghe occhiate erano state sufficienti per ottenere un buon esito. Un giorno, all'improvviso, ella s'era ritirata dalla finestra, sor- ridendo; e poco dopo era tornata ad affacciarsi per dirgli sottovoce: "Lasciatemi stare: che cosa volete?". "Voglio il vo- stro cuore, comare Santa!" Ah! Con quella non aveva esitato, non aveva avuto timore di niente. Ma era paragone da far- si? E gliel'aveva immolata, povera Santa! E non s'era più fatto vedere al balcone, dalla mattina alla sera, senza una ra- gione! E il giorno che le aveva sentito cantare: "Chiantai un ciuri la misi d'abrili ... Chistu è l'amuri ca un putia finiri ... Facitivi la cruci, ca passau!" era diventato rosso dalla vergogna in camera sua. C'era corso poco non aves- se rotto la promessa fatta prima a Eugenia e poi all'Agente. E che cosa ne aveva ottenuto? Almanaccava altri piani, disponeva altre scene. Ora, finita la lezione, scendeva nella selva e infilava i viali sotto le finestre di lei, sperando di trovarla affacciata, come l'altra volta. Avevano discorso un bel quarto d'ora, in uno di quei giorni che Giulia non veniva con lui; e gli era parso un gran che, quantunque avessero ragionato di cose affatto indiffe- renti. Quel parlarsi così, lei dalla finestra, lui di laggiù, quasi ci fosse stato un impedimento a farlo da vicino, gli aveva da- ta la strana illusione d'un furtivo colloquio di amore; e per ciò ricercava l'occasione di rinnovarlo. Il caso ordinariamente lo aiutava. A quell'ora, da quel giorno in poi, egli l'aveva trovata spesso alla finestra, o l'aveva veduta affacciarsi appena giunto, quasi ella stesse in ascolto per sentire il rumore dei passi di lui pel viale. Però quella volta la sorte gli era stata avversa. Passeggiava da un pezzo su e giù, e i vetri delle finestre di Eugenia rimanevano ancora chiusi. Si era fermato a discorrere col Padreterno, che potava la siepe nana di bosso; e alzava la voce per farsi sentire: "Si lavora, eh? Sagrestano, giardiniere, ciabattino! ..." "Un po' di tutto, per la pagnotta, signorino mio." Ruggero guardò in alto. Neppure un'ombra dietro i vetri! E alzò più forte la voce: "Ve n'andate?" "Ho finito. Vado a spazzare la sagrestia." Ruggero riprese a passeggiare lungo il viale, con gli occhi alla finestra, impaziente. Se Eugenia si fosse affacciata, no, egli non avrebbe saputo dirle nulla, come tant'altre volte! Infine, che cosa voleva dirle? Che mai pretendeva? Niente, niente! Voleva dirle soltanto: "Perché così rigida con me?". Null'altro. Sì, e poi? Come si era messo in testa che poteva essere corrisposto? ... Perché no? Perché no? Ah! Gli sarebbe parso di toccare il cielo col dito. Arrivato in fondo al viale, presso il muro di cinta, s'era messo a cogliere cime di spigo, e le stropicciava tra le mani, aspirandone l'odore, assorto, quando udì il rumore d'un'imposta che veniva aperta. Ma non si voltò subito, per dominarsi. Il cuore gli balzava. Poi salutò Eugenia da lontano, cavandosi il cappello. "Rubo poche cime di spighe" disse. "Hanno un odore troppo acuto" ella rispose. "Ne vuole qualcuna?" Stendeva la mano in atto di porgergliele. "Se riesce a darmela da costì ..." "È facile; guardi." E corse sotto la finestra. "Che cosa fa?" "Mi arrampico a questo mandorlo." "No; può cascare!" "Ho studiato ginnastica." "No!" ella insisteva, vedendolo salire lestamente di ramo in ramo. "Allunghi il braccio." Era già all'altezza della finestra e si spenzolava dal ramo, che s'incurvava pel peso e pareva dovesse spezzarsi. "Oh, Madonna! Dia qua, e scenda subito." Eugenia sporse fuori il braccio, ed egli le afferrò la mano, quasi lo facesse per caso, ritenendola un momento. "Come trema!" "Ho paura per lei." "Si sta così comodi quassù! Possiamo conversare." "Che stravaganza! Scenda, scenda, o mi ritiro." Egli invece si sedeva sul ramo, ridendo: "Si sta così comodi! È un nuovo modo di far visita alle signore" continuava. "Si rischia qualche cosa; le signore do- vranno esser grate ... E lei, all'opposto, minaccia di ritirarsi!" Ma non avrebbe voluto dirle soltanto questo. E si passava la lingua sulle labbra, quasi a provarsi di scioglierla, lieto di veder Eugenia impaurita pel temuto pericolo. "Il ramo cede. Se mi scavezzassi il collo! ..." E per chiasso lo scosse facendolo piegare. "Cattivo!" ella esclamò. E si ritrasse dalla finestra. Però guardava dall'interno, allungando il collo, pregando: "Scenda! Scenda!". E allorché capì che non avrebbe facilmente ubbidito, tornò ad affacciarsi, severa: "Possono vederlo. Che direbbero? Non sta bene. Lo faccia per me!" "Per lei ho fatto ben altro, e non se n'è neppure accorta!" brontolò. Gli pareva d'aver detto anche troppo, e attese un istante la risposta, prima di accingersi a discendere. La risposta non venne. Solamente ella lo seguiva con gli occhi mentre si lasciava calare tra un ramo e l'altro, e, vìstolo saltare a terra, respirò: "Grazie! Non lo faccia più!" "Che cosa dovrò fare dunque?" "Niente" ella rispose. Perché rimaneva alla finestra? Quella breve altezza le pareva un abisso e le dava le vertigini. Si sentiva attirata lag- giù, attirata da quegli sguardi, da quel sorriso pieno di sconforto, da quel silenzio, che pure significava tanto, più di qua- lunque parola; attirata da quella giovinezza fiorente, da quell'aria balda della persona solidamente impostata su le gambe svelte, da quel piede piccolo e ben calzato, che batteva il suolo con moto irrequieto intanto che gli sguardi continuavano a provocarla. Oh, ma sarebbe stato per poco! Altri due giorni ancora, e la Madonna l'avrebbe liberata e salvata! Altri due giorni ancora, e si sarebbe buttata ai piedi di Patrizio per chiedergli perdono, per confessargli tutto, per avvertirlo del pericolo corso e premunirlo per l'avvenire! La bella Madre Santissima doveva aprire la mente anche a lui, doveva toccargli il cuore, farvi scaturire una fontana d'affetto in cui avrebbero tuffate le labbra tutti e due, insaziatamente. Se non faceva questo miracolo lei, Madre di ogni grazia, chi avrebbe potuto farlo? Gli occhi le si riempirono di lagrime la mattina del venerdì, quando le campane suonate a festa dal Padreterno e gli spari dei mortaretti la svegliarono di soprassalto, interrompendole un sogno penoso. Le si accapponava la pelle anche sveglia, quasi ella fosse sfuggita davvero alle minacce di morte di quell'orrida figuraccia che l'aveva inseguita pei corri- doi del convento, per la terrazza, per la selva, incalzandola fin sul ciglio della rupe, da cui si sarebbe slanciata pazza di terrore, se le campane non l'avessero destata. Era molle di sudore freddo, e si sentiva stringere la gola. "Che hai?" le domandò Patrizio. "Sognavo una brutta scena." "Sei ghiaccia! Senti? Il Padreterno si sfoga." Ella chiuse gli occhi, rovesciando supina la testa sul guanciale. Come era dolce quell'allegro suono di campane lan- ciate a distesa mentre la minore squillava con colpi argentini, acutissimi, irrequieti. Pareva che le suonassero proprio sul capo e la sollecitassero a levarsi. Ma ella rimaneva inerte, col cuore ansante, come sconvolto da un addio angoscioso, quasi Ruggero fosse là, così accosto da sentirne il respiro sulla faccia; ed esitasse, timido e rispettoso, nel punto di un bacio supremo, intanto ch'ella non avrebbe esitato più a concedergli le sue labbra ... per la prima e l'ultima volta ... avanti che la Madonna avesse compiuto il miracolo! Rimaneva inerte prostrata da languore delizioso, tutta vi- brante alle ondulazioni del bronzo delle campane che continuavano a suonare a festa: con dentro la gola un singulto sa- litole dal profondo del petto e che non poteva sprigionarsi; singulto che le metteva spavento, perché le pareva dovesse, insieme, sprigionarsele dalla bocca un nome, quel nome che le avrebbe vuotato il cuore e l'avrebbe lasciata libera e pa- drona di se medesima! "No! No!" ella balbettava ansante, spalancando gli occhi al sentirsi inattesamente baciare. "Oh Dio! ... Sei tu? ... Sei tu!" "T'eri riaddormentata?" domandò Patrizio. "Sognavi di nuovo?" "Sì! Sognavo un mostro che m'inseguiva ... mi inseguiva." "Ah!" E credette di sorprendere negli sguardi di lui un lampo di diffidenza, un'ombra di sospetto. Per ciò lo guardava fisso, alla prima luce del giorno, mentre egli, aperti gli scuri e finito di vestirsi, si passava le mani sul viso ancora intorpidito dal sonno, ritto nel mezzo della camera, coi capelli e la barba in disordine, come incerto di quel che doveva fare. Eugenia si levò a sedere sul letto. Le campane davano gli ultimi squilli, quasi stanche della gioia di aver sonato così a lungo dopo il silenzio di parec- chi anni! Soltanto la minore continuava i rintocchi argentini, più forti, più precipitosi; poi, tutt'a un tratto, tacque essa pure. "È una bella giornata?" domandò Eugenia. "Bellissima." "È di buon augurio." "Perché?" "Non canzonarmi, se te lo dico." E soggiunse esitante: "Pel triduo".

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