Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Il fosso

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Bonanni, Laudomia 1 occorrenze

Subito l'avevano colpita il mortale abban- dono della testa, la profondità dell'occhiaia, e una guancia soffusa di quel pallore che agghiaccia ogni fibra vivente. Poi Annina si mise a premere le dita sugli occhi, forte, con una spaventevole spropositata energia nella cedevolezza di quelle orbite sprofondate. Irina si rimise in piedi con uno scatto nervoso, non riu- sciva del resto più a tenersi sulle ginocchia. Tanto, lo sanno che non sono abituata, pensò con un senso puerile di sfida. Temeva un poco, per riflesso dell'infanzia, gli occhi aspri delle vecchie, che poi l'avrebbero guardata con biasimo (già da tempo zie e prozie criticavano la sua poca assiduita in chiesa e la facoltà prescelta), ma sentiva il malessere salirle alla vita, toccarle lo stomaco. Ebbe una paura folle d'impal- lidire come quella bambina, come una morta. In realtà mai i morti - essa cercava sempre di vederne, suscitano pensieri profondi - mai le avevano fatto tanta impressione: i morti di cera ben composti, col profilo diritto proteso e l'apparenza rigida dura, ma solida e inalterabile della statua. Invece quella volta aveva colto la morte all'impensata, la morte in atto, nel punto di giungere, quando spegne l'alito vivente, succhia a un tratto tutto il sangue e lascia come sospesi nel- l'ultimo palpito, nella mollezza della carne appena ceduta, il capo riverso esanime su una guancia. S'udì lontano il tonfo sordo d'una bomba e istantanea- mente tutte le luci dell'altare si spensero, le false candele sfavillanti di lampadine elettriche. Nell'ombra vitrea della chiesa lingueggiarono più veementi i quattro ceri (certo usciti dalle profondità dei bauli delle vecchie) posti nei can- delabri agli angoli della bara; e in cima al tabernacolo, sotto il piccolo crocifisso nero or ora apparso, una candeluccia sottile, di luce rossiccia, che prima non si vedeva. La piccola folla femminile, tornata alla spicciolata nei banchi, balzò in piedi muta. Irina invece dovette sedersi, un sudor freddo appiccicaticcio la invischiava tutta. È paura, paura della più vile riconobbe, vergognosa e atterrita di sentirsi tremare le gambe così. Con una sottomissione che non le era abituale accettò contrita l'idea delle donne, di quelle vecchie che pregavano lì innanzi, che tutto fosse a causa dei peccati del mondo. Sì, siamo puniti dei nostri peccati, ammise annichi- lita, e si ripose in ginocchio tutta tremante. Le case sven- trate della periferia, i corpi mutilati, le membra sparse che aveva visto (quella coscia, ah! quella coscia bianca squar- ciata, con uno sbrindello di stoffa blu), tutti gli orrori inu- mani e inammissibili del bombardamento aereo sugli inermi, le tornavano dinanzi agli occhi intollerabilmente. Ogni istante può portare la morte (se avessero sganciato un minuto prima'), ci sta librata sul capo, può piombare da un momento all'altro, può fulminare anche me. Liberami, Si- gnore, liberami seppure indegna. S'accorse che di nuovo invocava meccanicamente e con ipocrisia, anzi con una specie di sordo rancore, una punta di ribellione, una inarticolata ma acerba critica. No, non è giu- sto. Dio Signore nostro, liberaci. Ma non è giusto. Nem- meno riusciva ad ammettere in se stessa d'essere così nera peccatrice. Arrotolarsi i riccioli ogni mattina, guardarsi con compiacenza il viso grazioso allo specchio, uscire sempre con rinnovato gusto, incontrare con piacere occhi ma- schili... piccoli innocui peccati della gioia di vivere. Ed essa, sì, li commette ogni giorno, anche quando non sono cadute le bombe, anche quando gente innocente è morta. Si toccò con gesto fugace i riccioli, ai quali aveva messo i cartocci in cantina, poco prima dell'alba, dopo l'ultimo scoppio che aveva frantumato i vetri della veranda; e poi s'era dimenti- ca l'ufficio funebre della prozia. Curvo il capo sulle braccia, da cui le penetrava nel naso un odor fievole di borotalco, rianimante, Irina pensò con affetto, sapendo di non dover neppure chiedere perdono alla sua infinita bontà e tolleranza, a quella buona vecchia senza peccato, che pure era morta. Con un freddo per la schiena, ben più sottile e penetrante della paura, nella sua angoscia e debolezza sentì a un tratto dal profondo l'orrore umano per quella morte immancabile e inevitabile sul letto di casa, tra le pareti domestiche, tra le persone care: quella cosa tremenda e fatale che coglie anche quando il mondo è in pace, né si è già alle retrovie del fronte, anche quando la vita scorre placida e sicura. Ecco quel che in realtà atterri- sce e gela fin nelle midolla: il pallore inaudito, il mortale abbandono d'un viso, spento sul guanciale di tanti sonni vivi. A un tratto il prete scese dall'altare verso il feretro. Era piccolo, goffo, nel gran paludamento nero variegato d'oro, che toccava terra. È addirittura senza collo come un neo- nato nel bavaglino, pensò la ragazza con un sorriso interiore irriverente, rallegrata da qualcosa di buffo che le pareva ve- dere nel pretino. Poi notò la sua aria stanca quasi affranta, il viso smunto, con una gran fronte puerile e senile a un tempo, nuda e pallida sotto un esiguo ciuffetto di sottili ca- pelli scarmigliati: un'aria di corruccio e di misticismo, un'a- ria di consapevolezza triste. La colpì a un tratto, accanto a quella piccola faccia esangue, la testa nera forte, il profilo duro del frate novizio che reggeva per le coste spesse il gran libro sacro con due robuste mani adunche. Ah!, ma bisogna ricordarsi che c'è qui la salma della buona vecchia e cercar di pregare per la sua anima: anima semplice e pura: ed è certo già lontana di qui. Dove?, si chiese Irina sbigottita, con uno di quei repentini diacci spa- venti che l'assalivano da qualche tempo al pensiero della morte. Prima non vi pensava mai, era una cosa estranea a lei, staccata da lei, che non riusciva a figurarsi in alcun modo riferita a sé, come i bambini. Queste orfanelle che se- guono tutti i funerali, che magari se ne fanno una festa perché si esce dal convento e dal rigido orario, certo non pen- sano a quel che giace nel feretro, sotto il mazzetto di rose. Né vi pensano i due chierichetti, tutti compresi dall'impor- tanza del loro ufficio. Li guardò con simpatia. Stavano ritti a lato dell'offi- ciante, il più grande col turibolo, l'altro con l'aspersorio. Il primo era un monelluccio dall'aria vispa, un monello di strada irrequieto, coi piedi sporchi in due zoccoli dalle stringhe sfilacciate. A Irina piacque la sua aria decisa, il fare disinvolto che spiegava. Notò che, come finiva di mano- vrare il turibolo, subito si volgeva al compagno e gli ripren- deva bruscamente la vaschetta, tenendo ambi gli strumenti sacri con una fierezza non priva d'un certo senso vittorioso di sopraffazione. Ma quando vide come l'altro cedeva la sua vaschetta con mansuetudine e incrociava le manine sul ven- tre, subito Irina parteggiò per lui e fu presa di tenerezza per quel bambinuccio dal visetto mite. (Il prepotente è della razza di quelli che scatenano le guerre, ecco come accade.) Ma è carino quel mansueto, tocca il cuore com'è carino. Anche lui, tal quale il pretuccio, aveva un'aria malinconica: un visetto tutto candido, capelli cascanti sulla fronte, palpe- bre grevi, bianche, di sotto cui filtrava uno sguardo dolce dolce. E anche lui, come un neonato, senza collo; e così spi- rante mansuetudine, somigliava sorprendentemente al pic- colo prete. Sembra una figuretta d'antica pittura, uno di quegli infanti di grandi casate, destinati al sacerdozio, cui usavano talvolta far indossare vesti talari per attrarli, come un gioco allettante, un poco crudele. Il prete goffamente girava intorno al feretro agitando l'aspersorio (tutte le fiammelle s'allungavano sulla sua scia come per seguirlo, ripiegandosi sui colaticci grumosi) e il novizio gli reggeva il gran mantello scivolante, con un'aria risoluta, accigliato nel profilo duro e scuro di uccello, quasi impaziente di quella goffaggine. Ma nella riverenza appena accennata, col capo alto e gli occhi levati dinanzi al gran crocifisso ritto in fondo alla bara, il piccolo prete senza collo acquistava d'un tratto una dignità sorprendente, spo- gliandosi d'ogni ridicolo. Egli forse non ha alcuna paura della morte, pensò Irina. E subito lo vide in alto, molto in alto su quella piccola folla percorsa ogni tanto dal terrore, su se stessa così tormentata, persino su quel novizio così ri- soluto e carnale nella energia dei tratti bruni predaci. No, non può esservi niente di ridicolo in quel mantello troppo grande che gli casca, in quel piccolo capo scarmigliato senza collo, quando è così evidente che nulla gli cale di quel ch'è terreno e tanta tristezza gli spira dal volto per quelli che non sanno staccarsi dalle cose del mondo. D'un tratto la riprese il senso dell'ignoto, la cieca reve- renza e sottomissione, il turbamento del luogo e delle cose sacre, la ineluttabilità di curvarsi e sottomettersi senza pur capire. Come vide gli officianti tornare all'altare, in fretta, confusa, recitò molti requiem per l'anima della defunta, can- tilenati dentro con l'intonazione lamentevole e meccanica delle beghine, avendo finalmente la sensazione di essere en- trata lì per uno scopo. S'alzò ultima e s'avviò per la gran navata in punta di piedi. Di nuovo il rombo degli aerei si riudiva alto e fermo sulla volta. Gli studenti affrettarono il passo, si concitò a un tratto il trapestìo di zoccoli delle orfanelle, come incalzato. Irina si trovò sola in fondo alla chiesa, l'orecchio vigile, sotto la balaustra dorata dell'organo sormontante la porta. Stamattina insistono troppo, succede qualcosa, stamattina bombardano la città. Ebbe la sensazione che lo strumento muto da cent'anni rombasse per ricavare dalle sue profon- dità una voce rampognante. Dalle due grandi iscrizioni che fiancheggiavano l'uscita, nere, minacciose, alcune parole parvero staccarsi e balzare agli occhi... miserandas mace- ries... terra tremante... Ah! Intollerabile il terrore tornava a ora a ora. Fuori, nel gran sole, già sfilavano innanzi i frati e le or- fanelle in una lunga fila ondeggiante. Gli studenti mette- vano nel carro funebre la bara, spiando il cielo. A Irina venne fatto di domandarsi se almeno pensassero che lì den- tro c'era la spoglia mortale della buona vecchia che prepa- rava per le loro merende i panetti fatti di nascosto con una sua segreta riserva di farina. Essi parevano molto attenti al cielo, alla formazione che inclinava verso la montagna: uno la indicò col braccio rassicurando. Avviluppate nei veli neri, a capo curvo, le donne si ponevano dietro il carro a tre a tre. Irina restò in disparte. Non poteva mettersi con loro, seguire il feretro con quel vestituccio chiaro, a spalla la rete gonfia d'involti, il fazzoletto da naso in capo. Senza dir delle gambe nude, perenne scandalo per la parentela an- ziana. Le venne in mente come za' Lisetta andasse matta pei suoi sandali, affermando che mai più si sarebbe ridotta, lei povera vecchia, con quei piedi così dolenti, se ai suoi tempi avesse usato di portarli in libertà, arieggiati e leggeri. Solo allora, a quel ricordo, rivedendo la faccia grassa bona- ria della prozia, tutta piena di rughe argute nel riso, le si inumidirono gli occhi. Era allegra tollerante di cuor largo, l'unica vecchia della parentela che fosse amata e cercata dai giovani. (Anche pei biscottini all'anice e i panetti, s'in- tende.) E presto sarà dimenticata. I ragazzi già si vede che sono impazienti di sbrigarsene. Ed essa stessa, Irina, che spreme quella lacrimuccia tardiva, non aveva forse messo i cartocci ai capelli e fatto premurosamente la fila al forno quella stessa mattina, dimenticandosi del funerale? Il corteo era già scomparso e il carro girava l'angolo, di- nanzi alla chiesa non rimaneva nessuno. Giungeva appena come un ronzìo, tratto tratto più cupo, il rombo lontano della formazione che s'era sparpagliata in evoluzioni insi- stenti sul campo d'aviazione. Sentendosi debole e affranta, la ragazza si sedè in terra, su uno dei gradini tondi di pietra, ch'era liscio e caldo come una gamba nuda. Al tonfo della rete, di nuovo si ricordò del pane e la prese a un tratto una bramosia di mangiarne. Severamente si ammonì che non doveva; slacciando le maglie intricate s'accusò d'ingordigia, si ripeté che levarne un pezzo avrebbe significato restar senza a un pasto o privarne la mamma, che al solito avrebbe detto di non volerne. Ma già le dita da sole avevano rotto un orletto croccante, il cui profumo la penetrava più adden- tro dell'emozione di poc'anzi. Appoggiata alla pietra calda del vecchio portale, mangiò avidamente, senza un pensiero al mondo, sentendosi tutta ristorare dalla vampa avvilup- pante del sole. Solo allora, sebbene dalla mattina avesse in- numerevoli volte spiato il ciclo, s'accorse di quanto fosse azzurro e radioso. Vi si perdette con gli occhi, rapita, men- tre succhiava l'ultima crosta. Poi torse il capo in su e guardò l'alta facciata splendente, d'un colore d'oro vivo carnale, dietro cui l'azzurro si faceva più compatto, profondo, d'una intensità quasi notturna. Ah! Signore, sospirò Irina. Di- nanzi, sulle montagne blu variate dai marezzi verdi dei pa- scoli, l'aria era invece pallida trasparente pura come cri- stallo, piena d'uno sfolgorio minuto di pulviscoli diaman- tini.Un simile cielo, una così perfetta bellezza. (Ecco che Dio a un tratto ti vince, semplicemente, pienamente, solo col mostrarti la bellezza.) Lo vedeva, quel cielo, spirare tanta infinita serenità, che a un tratto la minaccia umana di lassù perdé ogni verosimiglianza. Una pienezza di vita scor- reva per le sue vene scaldate da quella vampa di sole e rin- corate da quel cantuccio di pane. Ambe le mani inconscia- mente carezzavano l'erba in terra. Colse un piccolo fiore giallo - ve n'erano tanti nella spina di pesce di mattoni tra uno scalino e l'altro - e l'osservò deliziandosi tutta della sua gracile bellezza. E allora si ricordò delle violacciocche marrone che ogni anno spuntavano di fra i trafori del ro- sone e che mai aveva mancato di guardare, fin da bambina, quando voleva che assolutamente gliene cogliessero. Levò gli occhi con una specie di trepidazione. C'erano, erano nate come sempre, lassù, nel poco terriccio trasportato dal vento, quasi espresse dalla pietra. Quella vista le procurò una inesplicabile gioia e un senso profondo di sicurezza. Riabbassando gli occhi, vide in fondo alla scalinata un soldato tedesco: ritto contro un albero, disegnava su un album la bella facciata romantica. Era un ragazzo alto e smilzo, con gli occhiali, forse uno studente, un bravo fi- gliolo innamorato anche lui delle cose belle. A Irina non parve strano che quel ragazzo straniero, a tante miglia dalla sua patria che forse mai più avrebbe rivista, empisse di dise- gni il suo album per riportarlo a casa. Ah!, pensò Irina, vorrà mostrarlo alle sue sorelle, e dirà quanto era ammira- bile questa chiesa, dirà che v'erano nate violacciocche nei trafori del rosone, e certo si ricorderà di com'era splendente il cielo, raggiante il sole. Un sole mai visto, dirà, un cielo senza eguale. E forse si ricorderà anche della ragazza seduta sui gradini tondi di antica pietra, con la spina dei mattoni intermessa e nelle connessure quell'erbetta sottile e tenace che spunta così leggiadramente sui sagrati delle chiese ita- liane. Con occhi colmi di simpatia umana, Irina guardava quel ragazzo con gli occhiali, il suo ciuffetto biondo, la divisa di quel verde mare così vivido al sole. E non le pareva più in- verosimile che il colore così bello di quella divisa potesse essere tanto aborrito e che quel ragazzo rappresentasse, lì nella sua terra, distruzione e terrore. Le parve anzi a un tratto che la tenacia guerriera di quella razza così esecrata somigliasse in un modo sorprendente all'avidità di vivere che sentiva in sé. Essa stessa aveva mangiato la porzione di pane di sua madre e non ne era pentita e per poco che ci pensasse ancora su avrebbe mangiato il pane di tutta la fa- nilglia. Com'è mai questo? E lui, quel ragazzo, che c'entra? Essa lo amava davvero con fraterno amore, per quel ciuffo biondo così puerile, per l'appassionata attenzione con cui tracciava le linee che domani, nel ricordo, gli avrebbero ricreata la visione di una pietra dorata dai secoli di un cielo benedetto dalla creazione del mondo, di una bellezza unica e incomparabile. No - Irina ne fu convinta - non morirà tornerà a casa, deve mostrare questo disegno. Ora il pericolo era lontano da lei e da ogni cosa, come può esser lontano l'orrore di un incubo allo svegliarsi nella piena luce del giorno. Tutte le sue fibre vitali suadente- mente la riportavano alla più fiduciosa sicurezza. La guerra non è arrivata ancora, forse non arriverà mai o non passerà di qui. Si stirò, protese le gambe nel sole. Che pazzia star lì a tremare giorno e notte: ma come mai una bomba po- trebbe cadere proprio dove sta Irina, ritrovare la casa di Irina? Questa notte bisognerà dormire tranquillamente, non dar retta alla mamma, non lasciare le lenzuola per nulla al mondo: potranno anche cader bombe - ormai è un tri- buto quotidiano - ma troppo strano sarebbe, assurdo, che scegliessero proprio quella casetta isolata, con quell'orticino a fianco. Chissà perché, l'idea dell'orto la rassicurò comple- tamente. Il tedesco aveva smesso di disegnare e guardava innanzi trasognato. Dalla porta della chiesa irruppero due ragazzi, si precipitarono per gli scalini vociando. Il trapestìo degli zoccoli risvegliò gli echi della pietra assolata nella torpi- dezza del mezzogiorno. (Il rumore della guerra - pensò fuggevolmente Irina - lo strepito degli zoccoli ai piedi in- faticabili dei ragazzi, quello che domani ecciterà al ricordo la memoria più di qualunque altro suono.) Quel chiasso schietto la rallegrava più che mai. Ah! ma quanto è lontana la morte, quella vera, quella ineluttabile, quella di za' Li- setta. Come mai prima non s'era ricordata d'esser tanto giovane? Si levò in piedi con impeto, rimise a tracolla la rete. Anche il tedesco riponeva il suo album. Sulle gambe elasti- che, che il sole aveva già acceso d'una vampa rosea, Irina cominciò a scendere la scalinata, mettendo la punta dei sandali sulla curva levigata della pietra per non pestare l'erbic- ciola e i fioretti. Anche interiormente si sentiva placata e piena di equilibrio. Bisognerà riflettere se questa ansia di vita proviene dalla carne caduca o se è l'immortale che in noi vince protendendosi verso l'infinito. Un pensiero profondo, se ne potrà discutere col profes- sore, è un uomo intelligente (sebbene quell'imbelle ragio- natore essa in fondo lo disprezzi un poco), fa piacere ascol- tarlo e incitarlo è divertente. (Ah! Diomira, dirà, avete amato un tedesco oggi.) Le pareva anche, a un certo mo- mento, di aver avuto un altro pensiero importante, uno di quelli da rammentare e rimuginare, sulla guerra, ricordava anzi di aver afferrato con emozione un senso profondo e re- condito. Uno dei ragazzi le passò innanzi di corsa. E a un tratto riconobbe il chierichetto dal visino mansueto, tutto acceso e ridente - ben messo, con giacca di lana e scarpe di vera suola - e le parve che avesse in mano qualcosa, un giocat- tolo. A stento, sugli zoccoli mezzo staccati, lo seguiva l'al- tro, pieno di muto desiderio, servizievole e sottomesso. (No, non dev'essere stato a proposito dei ragazzi, come po- trebbe entrarci con essi così spensierati la guerra?) Rise, Irina, allegramente. Creature felici, i ragazzi, anche col legno ai piedi hanno le ali.

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PROFUMO

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

Gli cinse le braccia attorno al collo, e reggendosi su la punta dei piedi, gli porse la bocca sorridente, con tale abban- dono e tale grazia infantile, che Patrizio, ad arrestare la piena del sentimento, la baciò rapidamente e si affrettò a dirle: "Guarda!" Additava un piroscafo impennacchiato di fumo, che attraversava la tremolante luminosa striscia del mare" e pareva un giocattolo, così rimpicciolito dalla distanza. "Oh!" mormorò Eugenia, scontenta di quella diversione. Patrizio tentava sempre di dominare il profondo turbamen- to da cui veniva assalito a certe carezze di lei. Voleva almeno nasconderlo, non per sè, ma per lei. Aveva osservato più volte che la commozione di lui la sovreccitava maggiormente, ed egli temeva che la delicata compagine di quel gentile organismo non dovesse soffrirne e guastarsi per soverchia tensione dei nervi. Aveva osservato che la giovinetta timida e pudibonda, stretta tra le braccia e posseduta con pari timidezza e pudore nei primi giorni del matrimonio, veniva, di me- se in mese, inattesamente trasformandosi; e la inesperienza di lui, vissuto casto per natura, per educazione e per le cir- costanze d'una vita agitata e piena di tristezza, gli faceva guardare con un misto di stupore e di terrore quel che ad altri sarebbe parso cosa ovvia e naturale. Accorgendosi però dello scontento di Eugenia, rimasta muta con gli occhi fissi laggiù, verso il mare, dove il pirosca- fo filante a tutta corsa si scorgeva appena, avendo già sorpassato la tremola striscia luminosa, Patrizio l'accarezzò col braccio che la cingeva alla vita, e ripetè la sua frase prediletta: "Non ti par di sognare?" Dall'abisso sottostante montava ora più forte lo stormire delle fronde; i lumi si erano spenti per la campagna; la mo- notona melodia dello stornello arrivava al loro orecchio affievolita e a intervalli, dispersa dal vento che la spingeva per l'opposta direzione, gli stridi degli uccelli notturni tacevano tra le rocce; in fondo alla vallata, il rumore delle acque scor- renti si mesceva col fremito degli alberi. E, siccome ella non rispose, Patrizio continuò: "Quattro mesi addietro, quando le difficoltà del nostro matrimonio parevano proprio insormontabili, e io cominciavo a disperare, se qualcuno fosse venuto a dirmi: "Abbi fede; tra non molto tu sarai lontano da questi luoghi dove hai tanto sofferto; starai, abbracciando per la vita la sospirata persona, su la terrazza di un antico convento, all'ombra del campa- nile proiettata dal lume di luna; e là, sotto un cielo divinamente splendido, di faccia alla terra addormentata e al mare lontano, inaugurerete la vostra vita di innamorati solitari, facendo scoccar baci dove i frati non sognarono mai che baci si sarebbero potuti scambiare senza offesa a Dio" se qualcuno fosse venuto a dirmi questo, io avrei creduto che costui volesse farsi beffe di me! ..." "Rientriamo" disse Eugenia. "Hai paura?" "Sì." "Di che cosa?" "Non lo so." Aveva paura anche lui, ma sapeva benissimo di che cosa: della sua cattiva sorte, che superstiziosamente egli credeva stesse in agguato a tramargli qualche crudele sorpresa. E da più settimane ruminava come scongiurarla, con qualche sa- crificio a modo degli antichi, offrendo alla malvagia deità un'ostia che la placasse. Ne rideva talvolta, ma non cessava di pensarvi. E mentre Eugenia si stringeva a lui lungo il corridoio che doveano traversare, quasi temesse l'apparizione del- lo spettro del frate morto ultimo nel convento, egli ripensava quel sacrifizio che ormai gli pareva urgente, se voleva sviare in tempo il pericolo da cui si sentiva minacciato. Entrati nella cella scelta per loro camera, accanto a quella della mamma, il primo oggetto che gli venne sotto gli oc- chi fu un antico vasetto arabo, di cristallo iridato; cimelio salvato, Patrizio non sapeva in che modo, dal disastro seguito alla morte del padre, e del quale non aveva voluto disfarsi neppure nei momenti più difficili, quando la somma offertagli da un amatore inglese lo avrebbe liberato da qualche impiccio. Eugenia aveva collocato il vasetto su una mensolina, in evidenza. Piaceva anche a lei per la stranezza della forma, per la leggerezza, per quel luccichio di colori che pareva lo facesse formicolare come cosa viva a ogni più lieve movimento fra le mani di chi l'osservava. Fu un lampo; egli non esitò. Staccatosi rapidamente dal braccio di sua moglie, si slanciò verso la mensolina, prese il vasetto e levatolo in alto, con gesto di offerta, lo scagliò contro il pavimento ... "Lo scongiuro è fatto!" esclamò, traendo un gran respiro di soddisfazione.

Le Fate d'Oro

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Perodi, Emma 3 occorrenze

. - Sono la Fata dei bambini abban- donati: sono la vostra Fata! - Le tre bambine le saltarono al collo. Ora torniamo un bel passo addietro. Il mercante, rimasto solo, era andato a letto e si era addormentato profonda- mente; ma dopo poco incominciò a sognare pareva che i ladri gli rubassero suoi te- sori; gli sembrava di sentir rotolare le mo- nete sul pavimento; voleva urlare e non poteva. Si svegliò spaventato e andò in cantina per sincerarsi. I mucchi delle monete erano tutti a po- sto; soltanto quand'egli prendeva una mo- neta in mano ci vedeva sempre da una parte o dall’altra il viso piangente di una delle sue bambine, e dagli angoli bui della cantina sentiva partire gemiti ed ululati di lupi. Richiuse la cantina e tornò a letto, e lì riprincipiò a sognare i ladri e si ride- stò. Insomma, non aveva un momento di pace, tanto che dopo una settimana di quella vita avrebbe dato tutti i suoi tesori per riavere le sue bambine e riacquistare la tranquillità. Si mise una bisaccia in spalla, e via per il mondo a cercarle. Camminò sette anni, sette mesi e sette g'iorni, quando una sera arrivò stanco sfi- nito in riva ad un bellissimo lago. Sulla sponda del lago incontrò una vecchia. - Sapreste dirmi in che paese siamo? - Siamo nel reame di un Re poten- tissimo, che oggi fa sposo l'unico suo figlio; anzi vado al banchetto nuziale, e possiamo fare la strada insieme. - Il mercante s'incamminò, e per la strada seppe che la sposa era una povera ragazza, ma tanto mai buona e tanto mai bella che nessuna poteva starle a confronto, altro che le due sorelle di lei, che erano già spose di due Principi coronati. Al mercante venne voglia di vedere quella perla di principessa e di parlarle, perciò domandò alla vecchina se gli poteva ottenere un'udienza. La vecchina glielo promise, ma sul più bello la perse di vista e arrivò solo, stracciato e polveroso al palazzo reale. I servitori Io mandavano via, i cani stessi gli abbaiavano alle calcagna, ma lui tanto fece, tanto s'arrabattò che gli riuscì di mettersi in fondo allo scalone di dove doveva scendere la sposa, in mezzo al cor- teo, per andare al banchetto. Quando il mercante vide la sposa si sentì tremare le ginocchia e sussurrò: « Bri- ciolina! » Briciolina si voltò, riconobbe il padre e gli si buttò al collo. Costì il corteo do- vette fermarsi, perché Briciolina era sem- pre abbracciata a lui, e poi se lo mise al fianco, fece chiamare le sorelle e tutte gli fecero un'accoglienza, come se le avesse fatte crescere nel cotone. Il mercante, guarito dall'avarizia, con- solato dalle figliuole, dimenticò i patimenti sofferti, e tutti insieme fecero una festa coi fiocchi. E i tre cacciatori? Che non l'avete capito? Erano i tre Principi che sposarono le figliuole del mer- cante.

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Le parve di esser trasportata nella povera capanna di paglia e stecchi della vecchia nonna, e di veder questa seduta dinanzi al focolare spento, che piangeva piangeva, e fra i singhiozzi esclamava: - Fragolina mia, perchè mi abban- doni? Non ti ho forse raccolta nel bosco? Non ho forse riscaldato nell’inverno le tue piccole membra? Non ho calmata la tua fame? Non ti ho cullata, baciata, amata tanto? Perché mi abbandona ora che sono vecchia; perché mi fai piangere così? - E seduto sulla porta della capanna, Fragolina udiva Moreccino, che gemeva anch'egli dicendo: - Sorellina, da quando tu sei scom- parsa nel bosco, io non ho avuto più pace. Il sole s'è fatto scuro agli occhi miei, i fiori hanno perduto il loro soave profumo, il bo- sco mi pare una solitudine spaventosa. Tor- na, Fragolina, torna fra noi che ti vogliamo tanto bene, che siamo tanto infelici senza di te! - Fragolina non vedeva più il popolo esultante, non vedeva più nulla, tranne i suoi cari nella piccola capanna, e non sen- tiva altro che i loro gemiti. Il primo ministro si permise di toc- care con la penna d'oro la mano della Regina per rammentarle che ella doveva firmare, ma Fragolina fece un gesto di ne- gazione. - Firmate, Maestà! - La Regina ebbe vergogna delle pro- messe che le chiedevano, ebbe orrore della rinunzia che volevano da lei. Ella prese la penna e la gettò per terra; prese la corona e la buttò fra la folla; si strappò il vezzo di perle, e, calpestando tutto quel popolo minuscolo, scese dal trono e corse via per le sale e fuori del palazzo. Grida irate del popolo le giunsero agli orecchi. Ella sen- tiva dietro a sé il brusìo di tante piccole gambe che la inseguivano, ma non si la- sciò sgomentare. Udì i campanellini d'argento che suo- navano a raccolta, le trombettine che squil- lavano incessantemente, ma ella correva sempre. Giunta che fu all'imboccatura della scala, dalla quale era discesa nel mondo sotterraneo, vide un esercito di formiche af- faticate a otturarne il passaggio. Fragolina le prese a manate e le lanciò lungi da sè. Le formiche, per vendicarsi, le corsero sul collo, sulle braccia, le invasero tutto il corpo e si diedero a pungerla furiosamente; ma Fragolina resisteva al dolore, e saliva a quattro a quattro i piccoli gradini sca- vati nelle viscere della terra. Essa incontrava sempre nuovi eserciti di formiche affaticati a distruggere l'opera loro, a rompere le comunicazioni tra il mondo sotterraneo e quello dove splende il sole, dove si soffre, ma si ama tanto; e Fragolina le calpestava, le distruggeva, nè si lasciava atterrare dai loro attacchi. Quando arrivò su, nel bosco dove cre- scevano le fragole, ella faceva sangue da tutto il corpo e il suo visino era spaventoso a vedersi. In terra ella trovò il fastello delle le- gna per la nonna, il panierino delle fra- gole gittate via la mattina, e, raccolto l'uno e l'altro, si diede a correre. Ma da più parti le guardie del corpo, capitanate dal maggiordomo, l'avevano raggiunta, e ora si sentiva tirar per un braccio, ora per una gamba, e udiva maledizioni e grida contro di lei. Fragolina correva sempre, senza voltar- si, e non si fermò altro che sulla porta della capanna dalla quale partivano ancora i ge- miti della nonna e le grida di Moreccino. - Eccomi, son qua, sono Fragolina, soccorretemi! - La vecchia fu inchiodata dalla gioia vicina al focolare; Moreccino corse dalla sorella, le lavò il viso con l'acqua della fontana, le fece mille carezze e riuscì fi- nalmente a calmarla. Fragolina, contenta di aver ritrovato la sua nonna e di lavorare per lei, non rim- pianse mai le ricchezze perdute. Quando coglieva le fragole nel bosco, sentiva tante volte delle vocine che le di- cevano: - Vuoi essere regina? Avrai un po- polo ubbidiente, avrai ricchezze a profu- sione; vieni giù nella profondità della terra dove sono nascosti i tesori! - Ma Fragolina si metteva le mani agli orecchi, pensava alla nonna e non si la- sciava tentare da quelle promesse. Un giorno, mentre era intenta alle solite sue occupazioni, le comparve dinanzi l'omìno, seguito da una turba di cavallette recanti sulla groppa dei canestrini pieni di brillanti, di diamanti, di perle, di rubini, di topazî. - Buon giorno, Fragolina. - Buon giorno, omìno; che cosa vuoi da me? - Queste ricchezze, le vedi? - Sì. Ebbene? - Esse son tue, se.... - No, riportale pure a chi te l'ha date. Son poverella e poverella resterò.... non voglio abbandonar la nonna mia nè Moreccino. - Conducili con te.... - Qui vi fu un momento di sosta.... La tentazione era molto forte.... Ma ad un tratto Fragolina rialzò il capo e disse fieramente: - Va', non mi tentar più. Con le ric- chezze non si compera la felicità. - E l'omìno se n’andò sotto terra mogio mogio e, come si dice, colle pive nel sacco.

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Appena questi scòrse Duolo, abban- donò la sua preda, tornò a fior d'acqua e rivolse a lui pure la difficile domanda. Il principe Duolo aveva studiato un po' più del fratello minore, ma non era molto istruito, perchè, come abbiamo detto, sua madre era morta mettendolo al mondo, ed egli aveva imparato da lei soltanto quelle cose che le mamme insegnano ai bambini. Pensa e ripensa, rispose: - Il cielo è la cosa più grande che vi sia, perchè non c'è uccello che possa raggiungerne i confini, ed è tanto potente da tener la terra sotto i piedi e da abbrac- ciare il sole e la luna: dunque il cielo deve essere la cosa più forte, più potente del mondo. - Appena Duolo ebbe pronunziate queste parole, fu afferrato dal Nano e trascinato sott’acqua. Intanto Celeste aspettava il ritorno dei due fratelli; ma vedendo che il tempo pas- sava ed essi non tornavano, si spaventò e mosse in cerca di loro. Presso il ruscello egli si diede a cercare le orme dei loro piedi, e vide che queste cessavano sulla sponda, ove scoprì l’impronta di una mano, a guisa d’artiglio. - Queste non sono le impronte delle mani dei miei fratelli, - pensò Celeste, e prima di fare altre indagini, s'inginocchiò per guardare nel fondo del ruscello. Appena il Nano vide che Celeste non metteva le mani nell'acqua, temendo gli sfuggisse, si trasformò in una vecchia con- tadina, salì alla superficie e gli disse: - Buon giorno, Principe. Dovete aver camminato molto, perché avete l'aspetto stanco. Perché non fate un bagno in que- sto ruscello così chiaro? L'acqua è fresca e i frutti di queste piante di loto sono ec- cellenti per saziar l'appetito. - Celeste ringraziò cortesemente la vec- chia, e mentre le parlava non perdeva d'oc- chio le mani dalle unghie acuminate che ella cercava di nascondere sotto il grem- biule. Egli suppose che fosse lei che aveva tratto in perdizione i suoi fratelli, e saltò su gridando: - Strega maledetta! Perché non ti disseti con quest'acqua e non ti sfami con queste frutta invece d'impossessarti di crea- ture umane? Se non mi rendi i miei fra- telli saprò ben io vendicarli e punirti. - La vecchia tremò dalla rabbia e get- tando la veste che la impacciava, disse: - Siccome siete tanto accorto da in- dovinare quel che ho fatto dei vostri fratelli, salvateli. Ma per riaverli dovete ri- spondere a questa domanda: Qual'è la potenza maggiore del mondo? - Celeste volse gli occhi al cielo e ri- flette un momento; quindi, sorridendo, si volse alla vecchia e disse: - Ecco qual'è possanza, ecco qual'è valore: La purezza del cuore, che sfida ogni timore, La fedeltà, l'onore, che sfida anche la morte; Ecco qual'è possanza, ecco qual'è valore, Ecco quel che il mortale, venera come forte. - Quando il Nano del ruscello ebbe udito queste parole si diede per vinto, e inginoc- chiandosi dinanzi al Principe lo proclamò maestro di saggezza e gli offrì di render- gli i fratelli, purché gli concedesse di vi- vergli a fianco. Celeste non seppe ricusargli questo fa- vore a condizione che egli non molestasse più nè lui nè altri. Allora il Nano si tuffò nel ruscello e ne trasse fuori il principe Sole e il prin- cipe Duolo, i quali, sbalorditi come erano, non capivano nulla di ciò che era loro succeduto. I tre Principi vissero per un certo tempo nella foresta. Il Nano li serviva con amorosa cura, recava loro i frutti profumosi del loto e le uova delle gallinelle acquatiche. Un giorno ai tre fratelli giunse la no- tizia che la gelosa Regina era morta. Allora il principe Celeste capì che non era più necessario di rimaner nascosto nella foresta, e partì in fretta, insieme con i fra- telli, alla volta della capitale. Il Re, che viveva ancora, fu molto fe- lice di rivederli, ma era tanto vecchio e debole che non campò a lungo. Dopo la sua morte, Celeste fu fatto Re e governò saggiamente e onoratamente, amato dai fratelli e dal popolo. E il Nano? Il Nano aveva preso a voler bene ai tre Principi, e quando essi tornarono alla Corte, si stabilì nelle fontane del palazzo.

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