Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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UNA SERENATA AI MORTI

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Faldella, Giovanni 1 occorrenze

Ciò nondimeno il bel Rolando, deposta la chitarra, aggavignò la Ghita, e la fece ballonzolare, abballottandola ed accantonandola di tanto in tanto in un angolo contro alla scopa, mentre essa lo stringeva, pur riluttando con le grida. L'organista per ristabilire l'ordine, propose ed allestì, che si ripassasse in quartetto la famosa danzeria del maestro Caronti. Si accondiscese; ma prima di tutto il cottimista ordinò che si bevessero da tutti insieme altri quattro litri. Il panattiere disse che accettava, ma che voleva entrare per sua parte nel conto: - Chi mette bocchino, metta quattrino. - Chi parla di pagare, quando comando io?... E se qualcheduno si muove per uscire, piglio la falcetta e gli taglio le gambe. - Comanderai, quando avrà finito di comandare Ambrogione ? disse l'organista pro bono pacis e per proprio vantaggio. - A questo patto accetto ? si acquietò Gregorio. Dopo mezz'ora di accordature innaffiate dal nero vino di Freisa, il quartetto si poté dire montato. Si suonò la Perseveranza, scottish; e poi il Cane di guardia, marcia in cui ad ogni tanto i sonatori si fermavano ad abbaiare: Bau! Bau! Ciò elettrizzò l'osteria; e Gregorio entusiasmato ordinò per suo conto sette litri. Nell'emozione di versare egli stesso il vino, lasciò cadere per terra una bottiglia, che venne prosciugata dal pavimento. Ma gli altri sei litri se li bevettero i congregati, senza perderne una goccia. Oltre l'intiero quaderno del maestro Caronti, si suonò e si cantò la Biondina in gondoletta ? Cò sto caldo, cò sto caldo, insima ai monti ? La fioraia di Firenze, cavallo di parata del bel Rolando ? Smuova i fieuj d'Gianduja ? e i Bougianen an dio di Brofferio. Il bel Rolando uscì a dire: - C'è una bella luna... Dovremmo andare a fare delle serenate. Rosina vieni abbasso È un'ora che son qui, Già la luna sen va a spasso E succede chiaro il dì. - Indispettito il padre di Rosina… ? continuò con voce da tiranno il dottore... - Ma io ho sete ? conchiuse Ambrogione: ? Ghita porta dei peperoni, del formaggio e mezza brenta di vino... Ho sete, ho fame... Spazzacamino... Quasi tutti assaggiarono il formaggio pro forma, e solo per rendersi più abili a bere. Alcuni non poterono mandar giù un boccone. Solo Protaso e Gregorio ne fecero un buon striscio. - Cantiamo... La serva va in cantina.. E il prete... - Auff... Andiamo a fare la serenata... Non si resiste più qua dentro ? esclamò il bel Rolando. Rosina vieni abbasso È un'ora che son qui... - Andiamo! - concesse Ambrogione - ma si portino con noi i viveri. Uscì nel cortile; sollevò una carrettella di sotto la travata, vi aggiogò il carbonaio e il fabbroferraio. Vi caricò la spinetta, un canestro di bottiglie, un altro di vivande, una mezza tinozza di vino... Allons! marchons - Partons pour la gloire et pour la Syrie. Il denso silenzio campagnuolo era rotto da quel carriaggio di briaconi notturni. Tutti si guardavano le pance illuminate dal chiarore della luna. Arrivati sul sagrato, videro la piazza colma, bianca, di quell'uniforme luce lunare, a cui faceva da nera sponda l'ombra dei tetti e dei balconi. Ambrogione si fermò a pensare, inorecchito come presentisse dell'acqua, e poi disse: - Io non ho paura, so nuotare. In un baleno si spogliò; e tenendo in bocca il fagotto degli abiti, traversò la piazza a nuoto asciutto. Il seguito col carro gli corse dietro come a Faraone nel Mar Rosso. Infatti il grido del dottore fu: - Viva Mosè in Egitto! Raggiuntolo dall'altra parte, il bel Rolando si permise di dirgli: - Signor Ambrogione, sarà meglio andare a casa... - Vai tu, piccirillo!... Va' a pigliare la poppa... Con qualche fatica il gigante cotto riuscì a rivestirsi, dopo aver provato invano a mettersi uno stivale in testa. Trasse in disparte il bel Rolando, gli pose in mano una chiave, e gli sussurrò: - Va' tu con mia moglie. Al giovinotto la voglia di profittarne fu cacciata dalla certezza che l'indomani sarebbe stato pugnalato. Balbettò: - No... no... grazie! - ...Come? Grazie!... Il bel Rolando si sentì livido da una guardata velenosa nel collo... - Ho sete! - ricominciò Ambrogione... E faceva stappare delle bottiglie... Era il tocco dopo la mezzanotte; al rumore dei tappi che saltavano via, si unirono i ventiquattro rintocchi dei morti. Passò per la testa di Ambrogione più chiara una torbida idea. Il medico disse: - Adunque facciamola questa serenata. Allora tutti si volsero verso il balcone della stanza, dove dormiva la figliuola del Sindaco. Il medico salì sul carretto a martellare la spinetta... Ambrogione allargava e rinchiudeva poderosamente il mantice della fisarmonica, l'organista inviperiva sul violino, il bel Rolando faceva vibrare mestamente la chitarra. Tutti cantavano il coro della Mascherata dei quaranta pagliacci, che si adattava da per tutto: E la bella Borghezzese Sarà sempre il mio sospir. - Adesso andiamo in barca - sentenziò Ambrogione, come un lucido dirizzone l'avesse preso; e avviò i due bipedi aggiogati al carretto sulla strada che conduce al torrente Borghera. Quando si trovarono un po' dilungati dalla piazza, si accorsero che il dottore ed i suoi partitanti si erano squagliati. - Vigliacchi! - borbottò Ambrogione... - Ma, tanto d'avanzato!... Berremo tutto noi. - È vero! - approvò l'organista, tremolando fra la paura e il freddo. Quando giunsero in riva alla Borghera, Ambrogione sventrò come un bombardone un interminabile euhpp! per svegliare il barcaiuolo nella chiatta. Impaziente, assaltò egli stesso una barca e snodò la fune che la legava ad un piantone. Quindi invitò i suoi seguaci ad accompagnarlo in barca. Vedendo che il barcaiuolo, svegliatosi, si era messo al governo del timone, molti si affidarono di accettare l'invito. Ma l'organista rifiutossi. Ambrogione lo scosse e ordinò ai bipedi del carretto: - Bipedi, gettatelo nell'acqua. L'organista s'inginocchiò sul ghiareto. Pareva una scena di sacrifizio umano. Dove l'onda era crespa, la luna faceva succedere un movimento di carta dorata, e inargentata; e dove l'acqua spaziava liscia, si appozzavano splendori. Qua e là guizzavano larghi nereggiamenti, come schizzi immani di seppia. Nevicavano i fili d'erba sulla riva; la ghiaia imbruniva nei contorni morbidi dell'ombra, e mandava qua e là scintillamenti ossei. Ambrogione si mise a ridere, e si contentò che l'organista rimanesse a terra, purché suonasse il violino in ginocchione. La brigata in barca si versò da bere; e poi cominciò a cantare e a suonare. Dalla sponda l'organista la accompagnava raspando il violino, genuflesso come un condannato a morte. La musica sull'acqua faceva un effetto magico; diventava più fina, più trasparente, più godibile... Pareva trasmessa per mezzo del telefono da un paradiso incarcerato nel centro della terra. La ripercussione delle onde sonore sulle onde liquide era un incanto... Le fantasie logore dei poeti avrebbero ridetto che i venti, i quali passeggiano sui fiumi, sostavano innamorati sull'ali ad ascoltare, e i pesci boccheggiavano le armonie a fior d'acqua. Ambrogione spicciativo, brutale nei suoi capricci, quietò appena cinque minuti in barca, poi fissando un nero cespo di ontani sulla riva lontana, ordinò che si ritornasse a terra. Là annunziò solennemente: - Andiamo a fare una serenata ai morti. Poi verrete a casa mia a mangiare il cardo con la salsa calda e i tartufi. Nessuno gli rispose di sì. Anzi l'organista, assunto un coraggio apostolico, da uomo di chiesa con annesso stipendio, disse: - No... Non va bene... È una profanazione... I nostri vecchi... Ma Ambrogione minacciò: - Vi dico che verrete con me, dovessi spingervi innanzi a colpi di revolver. Protaso, al pari del resto della brigata, ammutolì. Tutti camminavano, come la biscia all'incanto. L'organista non vedeva più splendere la luna, fuorché sulla punta delle sue scarpe. Ruminava in mente il modo di evadersi: pensava e ripeteva: - Ah! se fossi rimasto a casa, chiuso col chiavistello... Ritrovandosi sulla piazza considerò che poteva con una stranezza minore evitare la maggior pazzia di Ambrogione, e gli propose: - Se andassimo a far la serenata sulla punta del campanile! - L'idea non è cattiva... - Io so dove sta la chiave... È qui. - Pigliala subito. L'organista, tosto levato un mattone da una buca presso la finestra del campanaio, vi trovò la chiave del campanile. Ambrogione si caricò sulle spalle la cesta colle bottiglie rimaste, e cacciandosi innanzi il bel Rolando e l'organista cogli strumenti, salì poderosamente le numerose e ripide scale legate l'una in vetta all'altra nell'interno della torre. Egli era così rigoglioso che pareva il succhio sanguigno di quell'albero in muratura. Giunti nel castello delle campane si affacciarono al firmamento. Che dominazione! Alcuni cortili di case, che da basso figurano in lontananza fra loro, qui parevano essere proprio riuniti sotto gli sputi dal campanile. Ambrogione guardò fieramente nel cortile di sua casa, quasi schiodando colle pupille le impannate della stanza coniugale. Era scuro; sua moglie dormiva... Egli rapidamente si tranquillizzò. - Ho sete... Come si deve bere bene qui sopra in excelsis Deo!... Ci deve essere ancora nel canestro un'ala di pollo... Adesso... soniamo... Le ondate sonore si diffondevano spaziose, quasi arricchivano di forza i lombi dei suonatori; e ad un tempo un senso di benessere igienico, estetico, alleggeriva, sollevava, rassicurava tutti. Finita la prima suonata, l'organista si accorse che gli altri della banda non lo avevano seguito. Ambrogione guardò in giù, e vide ch'era sparito anche il carretto colla spinetta. - Manigoldi! Poi si ritornò a suonare... Un ampio fremito ondeggiava intorno. Sbucò un gufo spaventato e strisciò come un velluto ombroso sulla testa di Ambrogione. - Alt! - disse egli con voce da capitano di nave. Quindi con entusiasmo d'oratore ubbriaco: - Andiamo al cimitero. L'organista, scendendo per le scale, avrebbe voluto rompersi il collo, pur di non seguire Ambrogione nella sacrilega impresa. Ma, a farlo apposta, si trovò in istrada saldo e netto sulle gambe. Si ricordò un'altra volta, che gli altri si erano discostati; e questa solitudine gli aumentò il terrore. Ambrogione se lo cacciava dinanzi a piattonate nella schiena e a pizzicotti nei fianchi. Osava persino minacciarlo barzellettando: - Se non trottate, vi rovescio addosso il campanile, e vi... schiaccio... Il bel Rolando andava di per sé di buon portante. Quando si fu fuori del paese, all'organista si piegarono le gambe. Camminava ginocchino come un prigioniero sfinito. Comparve il viale del camposanto. Protaso assalito da un brivido non trovò altra ripresa fuorché addossarsi ad un albero colla testa penzoloni. Ambrogione vincendo la ripugnanza di accostarsegli, si mosse ferocemente per ghermirlo, e staccarlo dall'albero: - Troio! L'organista si difese col sonare il violino, traccheggiando in tutta la persona. Ambrogione ne fu disarmato, colpito da un'idea. - Pitocco! Sta' pure lì; e suona. Ma non cessa dal suonare... se no, ti fulmino con la pistola. Protaso seguitò a suonare, come l'avesse morso la tarantola. Sfregacciava con l'archetto nell'impugnatura, e quando arrivava le corde sul cavo armonico, mandava raspature gemebonde, sdruccioli, guizzi di note che facevano rizzare i capelli: sonava ripiegando a pancia, come un soffietto, rompendosi, curvandosi, aprendosi come un compasso; si alzava, si torceva come uno spirale, traboccava in singulti, come se recesse secco sopra un invisibile leggio. Ambrogione e il bel Rolando continuarono il cammino da soli. Ad un tratto quest'ultimo si sedette sopra un paracarro. - Che? anche tu?... ti ballano i morticini davanti li occhi?... O temi che venga Caterina dalla Maternità di Torino a tirarti i piedi, o la bionda Nina al cimitero di Vercelli?... Piangi?... Devi suonare, suonare... su, via, alzati! dico... Veniamo ai voti fra voi due. Che dici? Bestia! pari e dispari... Non ti muovi? Sei freddo come un marmo? Devo seppellirti...? Su, gratta la chitarra... Il bel Rolando con la mano tronca, febbrile, trovò i1 coraggio di straziare un accordo. Ambrogione tranquillossi. - Bravo! stai lì... lascerò dietro due colonne vive, di musicanti, dico musi... cani... Fermi...! Olà! Quindi con l'impeto di un masnadiero e collo sgarbo di un orso prese d'assalto il muro del cimitero. Ritto sulla vetta, quel truce gradasso dominava nella notte. Dentro il camposanto scintillavano le croci intagliate nel chiarore lunare, quasi armi apparecchiate per combatterlo. Egli allargò spaventosamente la fisarmonica con un muggito interminabile, come se aprisse un abisso di sonorità sotto il pedale di un organo stregato. Quindi la rinchiuse con un soffio da smorzare la luna e l'intelligenza. Poi si diede ad agitarla, divincolarla con una frequenza di movimenti di su, di giù, nel mezzo, cagionando tremolii concentrici, cicalecci di vecchie sdentate, civetterie rabbiose, sospiri strozzati, lordure musicali, stomachevoli. In un punto si sentì passare un cane vicino all'orecchio, e poi sollevarsi un cespo nero dentro il camposanto. Saltò a capo fitto nell'agone. Era una mischia orribile. Aveva contro di sé tutti i morti... C'erano le nonne che lo minacciavano con le rocche; tutti i parroci, di cui si legge l'iscrizione nel corridoio della parrocchia, lo allontanavano coll'aspersorio. Don Beltrame Coraglia gli buttava gocce roventi... Contadini, spose di duecento anni fa, gli si avventarono contro colle unghie ricurve... Gli innocenti tentavano di fustigarlo colle verghe. Si chiudevano vecchie tabacchiere; sentì scricchiolare il pettine della sua povera mamma sotto la pesta sanguinosa. Scoppiavano fragorosamente i cadaveri nelle tombe... Colonne di fuoco gli ballonzolavano attorno, ed egli, orribile clown funereo, combatteva contro tutti col soffio della fisarmonica. Correva, rinculava, avanzavasi all'impazzata, spingendo, ritraendo, agitando lo strumento, come dovesse purgare ogni angolo col vento e collo strazio della sua musica. Ma fu sopraffatto... Gli furono addosso le conocchie, gli aspersori, le unghie... lo ardevano i fuochi... lo strozzava il fetore, lo impacciavano le vesti, lo impauriva, assordava il fragore tumultuante degli scoppi cadaverici... tutto lo toccava, lo forava, lo opprimeva... Sentì sotto le piante il petto tenero di un bambino mortogli nelle fasce. Balzò in aria, e si scatenò verso il muricciuolo. Ne guadagnò la cima, lasciandovi l'impronta di due guanti sanguigni. Ululava, ululava così tremendamente, che i boari levatisi alle due antimeridiane per dare il fieno nelle stalle, recitarono un De profundis. Nessuno seppe precisare quanto egli abbia corso. Lo si poté congetturare il giorno dopo, quando si trovò l'impugnatura della fisarmonica dentro il cimitero e la carta rossa del mantice a un miglio di distanza, e un vaccaro scoperse poi le linguette e le molle d'acciaio, e i bottoni di porcellana sotto il fogliame in un bosco a un altro mezzo miglio di lontananza. Egli fu rinvenuto al mattino sull'orlo di un fosso, coi calzoni spalmati di fango, la giacca a brandelli, il petto scoperto, scalfitto e intriso d'erba fra la neraggine irsuta della pelle, la faccia chiazzata e logora come invecchiata, la schiuma alla bocca, gli occhi lividi e ingigantiti, i capelli pesti e insafardati di letame, ma tuttavia con un anelito da Mongibello. L'organista venne immediatamente licenziato con un motivato verbale del Consiglio comunale e della Fabbriceria della parrocchia, e dovette risalire in un paesello di montagna per raccattarvi polenta e castagne tanto da poter campacchiare senza la sicurezza di scoprire un altro tesoretto musicale del maestro Caronti. Stavolta anche il bel Rolando fu proprio costretto a sloggiare dal suo nido; ossia venne esiliato dal paese, come ne ragionano le vecchie, quando fanno il pane al forno. I maldicenti invidiosi suppongono, che egli faccia da forza armata e protettrice a una famosa mondana d'ambasciatori. Invece i suoi parenti annunziano (ed è la verità) che, dopo avere lavorato al Gottardo è disegnatore in un'officina a Londra, e si fa onore e manda giù buone notizie con vaglia internazionali. Perciò la compagnia del Santo Cordone assicura che egli ritornerà presto in paese per erigervi una nuova cappella in suffragio delle Anime. Il dottore dovette penare per guarire Ambrogione, molto più che non abbia faticato allora, quando il camallo si era rotta una gamba sullo stradone. Non potendo il grosso cottimista pei suoi interessi e per la famiglia abbandonare il paese, sentì con molta amarezza sopratutto per riguardo alla moglie e alle sue creature una terribile notificazione fattagli dal Parroco: "Ambrogione, siete irregolare! Siete incorso nella scomunica maggiore!". Per farsela togliere, il cottimista spinto dalla moglie, egli già così fiero, accettò la penitenza canonica di girare a porte chiuse quattro volte intorno all'altare, come un ciuco stangato e ricevette poi veramente, dal Prevosto, parecchie bastonate sulla testa e sulle spalle con accompagnamento di parole latine ed acqua benedetta. Il suo personone di orso domato soffrì un gran ribasso; non frequenta quasi più l'osteria, dove il dottore per un po' di tempo imperò esclusivamente, e poi scadde anche lui di moda essendosi sbandata anche la sua clientela dei frottolisti. Appena si parla di musica e di morti, al povero Ambrogione si imbrusca e si intenebra la faccia.

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