Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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LE NOVELLE DELLA NONNA. Fiabe fantastiche

679053
Perodi, Emma 1 occorrenze
  • 1992
  • Newton Compton Editori s.r.l.
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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E, senza aggiunger altro, salito su di un certo abbaino del tetto, mentre gli altri frati erano a processione, camminò fin sulla cella di fra' Amalziabene e, rimossi che ebbe alcuni tegoli ed embrici, scoperchiò in più punti il soffitto per modo che l'aria fredda potesse entrare nella camera. Poi discese e disse: - Fra' Amalziabene è servito! Il giorno dopo, l'esile e scarno fraticello incominciò a tossire, e per una settimana si trascinò fuori della cella con la febbre addosso; ma poi non poté più levarsi, e in capo a pochi giorni spirò serenamente con gli occhi rivolti al cielo. I frati piangevano, fra' Gaudenzio e i suoi partigiani si calarono il cappuccio sulla fronte e si finsero afflitti, ma invece eran tutti contenti che fra' Amalziabene avesse tolto loro l'incomodo. Il giorno stesso della morte del suo nemico, fra' Gaudenzio mise in pentola un pezzo di carne invece dei ceci, e il Padre guardiano, con la mente rivolta al morto, non se ne accòrse neppure. Passò qualche tempo, e fra' Gaudenzio era contentissimo, perché il Padre guardiano non gli diceva nulla e lo lasciava spadroneggiare in cucina. Neppure i frati fiatavano, e rimettevano la collottola mangiando buone minestre e arrosti migliori. Un giorno, però, mentre eran tutti a refettorio, il Padre guardiano fece chiamare il cuoco. - Fratello, - gli disse, - hai forse fatto un patto col Diavolo per trascinarci tutti all'Inferno? - Perché? - domandò fra' Gaudenzio. - Già quel santo frate Amalziabene ci rimproverò di aver ceduto alla gola e di trascurare i digiuni e le regole dell'Ordine, mangiando cibi grassi e ghiotti. Sparito lui da questa terra, tu hai ricominciato a cucinare cibi che non si convengono a chi vive di elemosine ed ha fatto voto di povertà. Stanotte, fra' Amalziabene mi è apparso in sogno e mi ha rimproverato. Dunque, fratello, pensa di non espormi a nuovi rimproveri. Fra' Gaudenzio tornò in cucina a capo basso, umile e contrito d'aspetto, ma fra i denti sfilava contro il morto una giaculatoria di bestemmie da far venir giù il convento. - Anche da morto mi perseguita, quel nemico del benestare; ma gliela voglio far io! - borbottava. Quel che voleva fargli non lo diceva. Aspettò che tutti dormissero nel convento, poi scese nel sotterraneo dove si collocavano i morti, e trovato il cadavere di fra' Amalziabene già interamente spoglio della carne, ne prese il teschio, se lo portò nella cella e ve lo nascose. Il dì seguente fra' Gaudenzio andò là dove scorre un limpidissimo ruscello e, lavato quel teschio con cura, vi tolse con un coltello tutte le ossa che formano il viso, così che il rimanente serbò la forma di un piccolo bacile; poscia egli ritornò alle sue pentole, e mentre per il convento cuoceva ceci e fagioli, fagioli e ceci, per sé si cucinava starne, lepri e tordi, ai quali aveva imparato a dar la caccia, e poi, per ispregio a fra' Amalziabene, li mangiava nel suo teschio dicendo: - Senti che buon odore di cacciagione! Vuoi favorire? Senza complimenti! La cosa durò per alcuni giorni, e fra' Gaudenzio era tutto felice di far quello spregio al suo nemico e di aver trovato mezzo che tutti facessero astinenza, meno che lui, quando una mattina, che è, che non è, il Padre guardiano adunò tutti i frati, anche quelli addetti alla foresteria e alla cucina, e disse: - Fratelli, qui si commette un sacrilegio. Mi è apparso il poverello d'Assisi, col viso lacrimante, e mi ha detto: "Fra' Bonifacio, non permettere che nel luogo dove Gesù mi dette le sue stimmate, si profani una cosa sacra". Dopo questo avvertimento, fratelli, io vi ho adunati. Chi di voi è colpevole si accusi. I frati rimasero tutti a testa china e nessuno di essi si alzò a dire: "Il colpevole sono io!". E poiché nessuno parlava, il Padre guardiano aggiunse: - Se il colpevole non ha coraggio di accusarsi, cessi almeno dal peccare. Fratelli, preghiamo per lui! A quell'invito, tutti congiunsero le mani sul petto, tutti chiusero le palpebre in segno di raccoglimento e tutti pregarono, anche i partigiani di fra' Gaudenzio, tutti insomma, meno che lui. Dopo, la radunanza si sciolse e ognuno tornò alle proprie occupazioni, compreso fra' Gaudenzio, che aveva nascoste certe starne in un panierino per accorrere alla chiamata del superiore, e temeva che il gatto gliele rubasse. Ma nonostante le preghiere dei frati, fra' Gaudenzio continuò a servirsi del teschio del morto come di una scodella, e a ogni boccone ghiotto ripeteva il sacrilego detto: - Senti che buon odore di cacciagione! Vuoi favorire? Senza complimenti! Passarono così altri otto giorni senza che accadesse nulla di nuovo nel convento, quando una sera fra' Gaudenzio, entrando nella sua cella, udì un gran trambusto e vide il teschio che ruzzolava sul pavimento. - È pien di topi! - disse. E preso il teschio lo ripose nel nascondiglio e si coricò. Ma era appena entrato a letto, che gli convenne rialzarsi, e credendo che fossero i topi che facevano quel rumore, disse: - Ora vi servo io! Ma avea un bel dire che li avrebbe serviti: egli era al buio, e, prima che avesse battuto l'acciarino per accendere il lume, il rumore continuava e fra' Gaudenzio si sentiva ora addentare un piede, ora tirar per la tonaca, ora mordere il naso. - Che topi impertinenti! - ripeteva, - or ora vi servo io! Ma per quanto facesse non riusciva ad accendere il lume, e i topi intanto pareva che si moltiplicassero in un battibaleno, perché lo addentavano in ogni parte del corpo e non era a tempo a impedire i morsi e gli sgraffi. Mentre egli si lamentava dal dolore e, scoraggiato, aveva cessato i tentativi per accendere la lucernina, vide a un tratto nella sua cella un gran chiarore, che partiva dall'alto. Alzati gli occhi, scòrse un'apertura nel tetto, e, affacciato a questa, un mostro con la faccia di drago e la gola di fuoco da cui cadevano a migliaia certi Diavoletti piccoli, neri e pelosi, con i denti lunghi e le granfie aguzze e che fra' Gaudenzio aveva presi per topi. Benché fosse un gran burlone e non avesse paura né di Cristo né del Diavolo, pure in quel momento fra' Gaudenzio non ebbe coraggio di far bravate e disse soltanto: "È finita!". - No, - gli rispose il mostro, cessando un momento di vomitare Diavoletti, - non è punto finita, purché tu mi consegni il teschio di fra' Amalziabene, che nella tua cella non è ben custodito. - Prendilo pure, - rispose il frate. I Diavoletti pareva che non aspettassero altro che quel permesso per portarlo su. Lo addentarono in cento, poi spiegaron le ali e in un momento il teschio fu consegnato al mostro, il quale, prima di sparire, disse: - Tu mi rendi con questo dono un segnalato servigio, perché mi aiuti a fare un gran dispetto a quel Francesco d'Assisi, che quasi quasi mi ha portato via più anime del Nazzareno stesso. Che cosa vuoi in compenso? - Sanità, lunga vita e un buon arrosto tutti i giorni. - E poi? - Nulla; quando dovrò morire portami pure all'Inferno, purché non ci sia fra' Amalziabene né altri che predichi di mangiar ceci e radicchio. I Diavoletti apriron l'ali ed uscirono tutti dall'apertura del tetto, lasciando nella cella un puzzo di zolfo così forte che fra' Gaudenzio dovette spalancare le imposte della finestra per non morir soffocato. Quell'apparizione del Diavolo in persona e di tutti i Diavoletti, non gl'impedì poco dopo di dormire saporitamente, né di sognar l'arrosto, che si era assicurato vita naturale durante. Però la mattina dopo ebbe una chiamata che gli fece arricciare il naso. Un novizio andò in cucina a dirgli che il Padre guardiano lo aspettava. - Che vorrà? - diceva fra se stesso fra' Gaudenzio, prendendo un aspetto umile per presentarsi al superiore. - Qui gatta ci cova! Fra' Bonifacio lo attendeva ritto in una stanzetta attigua al refettorio, e appena lo vide lo squadrò da capo a piedi come farebbe un giudice. - Fra' Gaudenzio, chi non può mentire né sbagliare mi ha detto che tu hai commesso un sacrilegio; dov'è il teschio del glorioso fra' Amalziabene? Allorché Iddio domandò a Caino che cosa aveva fatto del fratel suo Abele, il fratricida non ebbe maggiore spavento che fra' Gaudenzio quando si sentì fare quella domanda a bruciapelo dal suo superiore. Tremò, impallidì e non ebbe fiato di rispondere. - Dico a te, fratello, - ribatté il Padre guardiano in tono fermo. - Sono forse un becchino, io, Padre reverendo? Non mi muovo mai dal focolare e non bazzico certo nelle tombe! - rispose fra' Gaudenzio dopo un momento. - Le tue parole non significano nulla. Io ti ho rivolto una domanda precisa, perché il tuo sacrilegio mi è noto, e voglio da te risposta eguale. - Io non posso darvene, Padre reverendo, perché non so nulla. - Ebbene, va' nella tua cella e medita sul tuo peccato. Da qui a tre giorni, se non mi avrai detto dov'è il teschio del glorioso fra' Amalziabene, tu sarai cacciato dal convento. - Faccio la santa ubbidienza; ma dopo tre giorni, Padre reverendo, vi darò la stessa risposta d'oggi; e intanto, chi cucinerà per il convento? - Non ci pensare; rifletti piuttosto sul tuo peccato e pèntiti. Dopo la fondazione dell'Ordine nessun frate ha meritato la pena che san Francesco stesso, apparsomi in chiesa, mi ha imposto di darti per servire d'esempio agli altri. Fra' Gaudenzio non fiatò, e appena fu nella sua cella incominciò a tremare e piangere, dicendo: - Diavolo, rendimi il teschio di fra' Amalziabene; rendimelo, te ne supplico, te ne scongiuro! Ma il Diavolo non gli rispondeva, e fra' Gaudenzio continuava a piangere come una vite tagliata. Era sgomentato dalla punizione di esser cacciato dal convento e di dover andar ramingo per il mondo, e forse morir sulla forca. In convento ci stava al sicuro, e ora cosa sarebbe accaduto di lui? - Povero me! - ripeteva. E intanto si faceva notte e nessuno si rammentava che egli non aveva mangiato dalla sera avanti. Per i frati era un reprobo, un dannato al quale nessuno osava più accostarsi. Quando sul grande bosco di abeti e cipressi che circonda la Verna furono scese le tenebre, fra' Gaudenzio cadde stanco di sonno e di fame sullo strapunto; ma appena ebbe chiusi gli occhi vide un gran chiarore e, alzando lo sguardo al soffitto, scòrse il drago con la gola di fuoco. - Eccoti l'arrosto, fra' Gaudenzio, - disse il Diavolo lasciandogli cadere accanto un porcellin di latte, di un bel color d'oro, cotto a puntino, e che faceva gola soltanto a vederlo. - Non ne voglio del tuo arrosto, Satana. Mi hai da rendere il teschio di fra' Amalziabene, se no son rovinato. Il Diavolo fece una risataccia e sparì. L'odore che tramandava il porcellin di latte era tanto appetitoso, e la fame di fra' Gaudenzio era così grande, che, senza pensare ad altro, staccò una coscina e la mangiò, e dopo quella le altre tre e poi la schiena, la testa; insomma, a farla breve, in capo a un'ora, dell'arrosto del Diavolo non ci restavano altro che gli ossi, e quelli li mangiò un gatto, che aveva gli occhi che facevan lume, e che era entrato nella cella senz'aprir l'uscio. Ma appena fra' Gaudenzio ebbe nello stomaco il cibo preparato nell'Inferno, svanì ogni timore della pena promessagli dal Padre guardiano, e provò molta contentezza per avere fatto lo spregio al teschio di fra' Amalziabene. - Son contento, - diceva stropicciandosi le mani. - Così quel frate giallo quando sentirà sonare la tromba del Giudizio Finale, si dovrà arrabattare per ritrovare il suo teschio; e se non va all'Inferno a cercarlo, resterà senza! Dopo aver fatto quella buona cena, fra' Gaudenzio si riaddormentò, e la mattina, nel destarsi, provò desiderio che il termine assegnatogli dal Padre guardiano giungesse presto. - Ieri, - diceva, - sono rimasto davanti a lui tutto impappinato; ma quando m'interrogherà gli saprò rispondere a tono, e se mi vuol cacciare dal convento, tanto meglio: l'arrosto me lo sono assicurato, e a procacciarsi il pane non ci vuol gran fatica. La sera, alla solit'ora, si spalancò di nuovo il soffitto, e il Diavolo con la testa di drago gli disse: - Buona sera, fra' Gaudenzio. - Buona sera. Tienlo pure quel teschio di frate, io non so che farmene, - disse il cuoco. - Mi fa piacere che tu abbia messo giudizio, - replicò il Diavolo. - Tanto quel teschio non te lo rendevo né con le buone né con le cattive. La sera, quando siamo tutti a cena nell'Inferno, ci versiamo il vino che, in quel boccale, acquista un sapore squisito. Mangia, fra' Gaudenzio, e non ti far cattivo sangue. Nel dir così lasciò cadere nella cella una bella lombata di vitella, cotta a puntino, che mandava un odore capace di risuscitare un morto; poi sparì. Fra' Gaudenzio pensò che quell'arrosto sarebbe stato anche migliore mangiato con un pezzo di pane e annaffiato da un fiasco di vin vecchio, e sapendo che a quell'ora tutti i fratelli dormivan la grossa, andò in dispensa, prese il pane, e poi scese in cantina e prese un fiasco di quel vino che serbavano per dir la messa. Ritornato in cella mangiò l'arrosto fin all'osso, e questo lo dette al solito gatto con gli occhi che facevan lume, e dopo aver veduto il fondo del fiasco, si coricò e dormì come un ghiro. Il giorno dopo si destò tardi, svegliato dal rumore del tuono. Si alzò e stava al buio, non osando aprire le imposte di legno, quando sentì avvicinarsi gente all'uscio della cella e bussare. Fra' Gaudenzio, che aveva messo il paletto, disse fra sé: - Per due giorni mi hanno dimenticato, e se avessi aspettato la loro carità, sarei morto di fame; se ora si rammentano di me, vuol dire che mi preparan qualche brutto tiro; tutto sommato è meglio lasciarli bussare. Il rumore continuo del tuono rintronava tutta la cella, e i bagliori dei lampi la illuminavano ogni momento; ma fra' Gaudenzio non aveva paura e gongolava, sentendo che di fuori continuavano a bussare all'uscio. Finalmente si fece udir la voce di fra' Bonifacio, non più imperiosa come due giorni prima, ma supplichevole. - Apri, fra' Gaudenzio, per l'amor di Dio! - Padre reverendo, - rispose il frate facendo la voce debole, - son due giorni che non ho preso cibo, e non ho forza di scender dal letto. - Dimmi, fra' Gaudenzio, dove hai nascosto il teschio di fra' Amalziabene. Non senti che il Cielo si scatena contro il convento perché accoglie un sacrilego? - Non sento nulla, - disse il frate ridendo. - Fra' Gaudenzio, non ti ostinare nel diniego. Già tre fulmini sono caduti sulla casa, ma per fortuna nessun fratello è morto. Dimmi dov'è il teschio! Fra' Gaudenzio si ricordò di aver veduto un teschio in un sotterraneo della chiesa di San Salvadore, che era in Valle Santa, e rispose a fra' Bonifacio: - Giacché son vicino a morte, voglio confessare il mio fallo; il teschio di fra' Amalziabene lo portai nel sotterraneo di San Salvadore, per avere una reliquia del nostro glorioso fratello. Fra' Bonifacio, appena ebbe udito questo, s'incamminò salmodiando, sotto la pioggia battente, alla testa dei suoi frati, verso la detta chiesa, e, trovato il teschio nel luogo indicato dal cuoco, lo sollevò da terra con grande venerazione e lo portò con le sue mani nella tomba di fra' Amalziabene. Il temporale cessò, e fra' Bonifacio pensava qual punizione infliggere al cuoco, quando un frate andò di corsa ad avvertirlo che il lato del convento dove era la cella di fra' Gaudenzio ardeva, probabilmente per la caduta di un fulmine. Il Padre guardiano dimenticò in quell'istante tutto il giusto risentimento che nutriva verso fra' Gaudenzio, e direttosi alla cella di lui, bussò forte all'uscio, dicendogli: - Fratello, fa' uno sforzo e apri; le fiamme salgono sulla tua cella. - Lasciale salire, Padre reverendo, io non ho forza di muovermi. Allora di fuori i frati si diedero ad urtare con pali contro l'uscio per abbatterlo; e fra' Gaudenzio, che non vedeva le fiamme, rideva, sentendo che si affannavan tanto per salvarlo mentre non correva nessun pericolo. Batti e batti, l'uscio alfine cedé, e quando i frati stavano per penetrare nella cella, videro il Diavolo con la testa di drago e la gola di brace, che stava nel vano a impedire loro il passaggio. Essi fuggirono spaventati, e in un momento le pareti della cella crollarono con gran fracasso e attorno al letto su cui giaceva fra' Gaudenzio, si formò come una fornace ardente; le fiamme salivano dal pavimento, penetravano dalle stanze vicine e già il frate si sentiva ardere i capelli e la barba e scottare le carni. - È questa la lunga vita che mi hai promesso? - diss'egli al Diavolo in tono di rimprovero. - Se ti preme la vita, te la concedo eterna, - rispose Satana. - Ma l'arrosto? - domandò fra' Gaudenzio. - L'avrai tutti i giorni. - Allora son tuo. Appena fra' Gaudenzio ebbe detto queste parole, si sentì sollevato dal mostro dalla faccia di drago e dai Diavoletti, i quali formarono sotto a lui come una nube densa, e dopo averlo spinto sopra al tetto, lo trascinarono in un burrone profondo, che si spalancò per inghiottirlo. Il convento continuò a ardere dal lato della cella di fra' Gaudenzio, e i frati, che si erano tutti rifugiati in chiesa a pregare, e non avevan veduto come egli fosse stato portato via, credettero che avesse trovato la morte nelle fiamme. Però capirono che fra' Gaudenzio, prima di morire, aveva ingannato il Padre guardiano, perché il teschio portato in processione nella tomba di lui, fu trovato il giorno dopo sul praticello dinanzi alla cappella degli Angioli, e per quante volte lo collocarono accanto alla salma di fra' Amalziabene, per altrettante lo trovarono or qua or là, ma mai al posto ove lo mettevano. E qui la novella è finita. Intanto il temporale era cessato e la Vezzosa staccava già, dal chiodo cui l'aveva appeso, il cappotto del babbo, per tornarsene a casa, quando Maso le disse: - Aspetta che ti accompagnamo; due passi non ci faranno male; e poi ho da dire una cosa a tuo padre. Un istante dopo tutti i Marcucci erano fuori con la Vezzosa, la quale, accostatasi a Cecco, gli disse: - Sentite, Cecco, ho da chiedervi un favore. - Dite pure. - Me lo potete lasciare per qualche giorno quel libro di Silvio Pellico? l'ho letto già ma non so staccarmene, e mentre mi fa piangere, mi pare che mi renda più buona e m'insegni a esser tollerante, e sapete se della tolleranza ne ho bisogno! - Tenetelo pure per sempre, - rispose il giovane. - Ma ad un patto. - Quale? - Che nel leggerlo pensiate a chi l'ha tanto letto prima di voi e ve l'ha dato. - Non dubitate, - rispose la Vezzosa. E siccome era giunta a casa sua, lasciò i Marcucci a parlare col babbo e corse in camera.

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