Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Demetrio Pianelli

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De Marchi, Emilio 2 occorrenze

Finito il pranzo, mandò Giovann dell’Orghen a portare una lettera a Beatrice, da consegnare al signor Paolino delle Cascine e rimase una mezz'ora a contemplare, per l'ultima volta, col cuore ammalinconito, ma non triste, la stesa dei tetti, già rosseggianti nel sole di tramonto, disseminati in cento strutture intorno all'antico campanile delle Ore, coi fumaioli dalle mille bocche aperte, cogli abbaini, le altane verdeggianti, che era insomma da molti anni il mondo delle sue solitarie escursioni, quando dalla finestra correva cogli occhi lungo le gronde, dentro i soffitti, tra le buie armature dei tetti ... Dunque, addio tegole, addio abbaini, addio campanile delle Ore, addio vecchio duomo di Milano, che piú si guarda e piú diventa bello, piú diventa grande, come se ognuno vi aggiungesse per frangia i suoi pensieri migliori. Addio, Milano, città piú buona che cattiva, che dà volentieri da mangiare a chi lavora, ma dove, come in ogni altro paese del mondo, chi non sa fingere non sa regnare. Mezz'ora dopo egli era alla stazione. In un angolo della sala d'aspetto, seduto sulla sua valigia, attende senza impazienza che aprano lo sportello di terza classe della linea di Genova. La stazione va gradatamente rischiarandosi della luce bianca che mandano i rari fanali elettrici, mentre nel cielo, dietro le piante della circonvallazione, resiste ancora come un braciere ardente l'ultimo raggio del crepuscolo. Non è una partenza allegra, ma non può dire nemmeno di sentirsi turbato e rotto il cuore come supponeva. C'è nelle stesse sofferenze un limite, oltre il quale non si sente o non si capisce piú nulla, ma sottentra quasi l'abitudine al dolore, da cui si va, a seconda dei casi, o verso l'indifferenza, o verso la rassegnazione. Demetrio, ascoltando il suo cuore, si sentiva piú vicino a questa che a quella. Qualche cosa di dolce era stillato nella sua vita, e scendeva, sottilissimo filo di consolazione, in mezzo alle vecchie amarezze della sua esistenza. Se si sforzava di rintracciare da qual vena misteriosa scaturisse in lui questa goccia soavissima e fresca di ristoro, gli pareva di ricordarsi d'averla sentita fluire dalla fronte quel momento che Beatrice, tornando verso di lui, aveva collocato la mano sul suo capo. Quell'atto di pietà, quella mano leggera, ferma un mezzo minuto sul capo di un uomo malato, aveva guarito molti mali. Beatrice certo non immaginava il bene che gli aveva fatto. È la forza della pietà e della carità che provoca i miracoli, che dice al paralitico: Prendi il tuo letticciuolo e cammina; al povero Lazzaro: Sorgi dalla tua fossa. Ebbene, vecchio e tribolato Demetrio Pianelli dalle scarpe rotte (notò che veramente le sue scarpe non erano in molto buon arnese), tu non sei forse l'ultimo degli scribacchini del regno d'Italia. Sua Eccellenza non lo saprà mai e non ti farà cavaliere per questo, ma tu hai fatto piangere sulla tua disgrazia gli occhi di una bella creatura; hai saputo far vibrare il suo cuore e schiudere quanto di piú tenero e di piú delicato v'era in lei. O Demetrio o Matteo o Carlambrogio, chi sa che tu non sia passato inutilmente nella vita di questa donna? Eran questi all'ingrosso i concetti fondamentali di quella convinzione, che lo rendeva docile e rassegnato al suo destino: e vi si sprofondò tanto col capo, che non vide Arabella, se non quando la ragazzetta gli pose la mano sulla spalla. Dietro di lei, trascinando un paio di scarpe non sue, Giovann dell’Orghen si fermò a far riverenza al sor Demetrio che andava a vedere il mare. Il piú felice degli uomini avea indosso, non ancora ben distesi dal sole, gli abiti del povero Cesarino. "Come hai saputo che partivo stasera?" "La mamma, quando son tornata dagli esami, mi ha detto: "Sai? lo zio Demetrio va via." "Dove va?" chiesi naturalmente. "È stato traslocato in un altro ufficio dal governo." "E non mi ha detto niente? Non ti credo. A me l'avrebbe detto, in un orecchio, ma l'avrebbe detto." Se la mamma avesse voluto accompagnarmi, venivo subito a trovarla, e non l'avrei lasciato partire. Mi son fatta accompagnare sul tardi dal Berretta. Non era già piú in casa. Allora ho pregato Giovann dell’Orghen di accompagnarmi alla stazione. È proprio vero? Lei va via, cosí senza dir nulla? ... " Arabella, un poco affannata per la corsa fatta, parlava con un'eccitazione piú di dispetto che di rammarico. "Che ti può fare adesso lo zio Demetrio? lascialo andar via" egli disse sorridendo. "Lo so bene, lo so bene ... , basta!" Arabella alzò gli occhi sul quadrante dell'orologio e ve li tenne fissi come se facesse dei conti sulle ore. Vestita dell'abitino nero che aveva indosso agli esami, con scarpe a bottoni lucidi che le serravano delicatamente il collo del piede, con in testa un tocco d'astrakan, da cui si svolgevano a onde i capelli chiari, la bianchezza della sua carnagione spiccava in mezzo a tutto quel nero; gli occhi profondi e intelligenti guardavano molto lontano, al di là delle cose, come fanno tutti gli occhi che pensano. "Lo so bene" ripeté, seguitando l'idea che le passava davanti. "Non avrei creduto che dovesse finire cosí. Povero papà!" "La mamma lo fa per il vostro bene" fu presto a dire Demetrio, che nella voce quasi severa della fanciulla credette di intendere un'altra voce che si corrucciasse in lei. Non mai Arabella gli era parsa cosí somigliante al povero Cesarino come quella sera che la rivedeva nell'abito elegante e nella luce bianca dei fanali. Il suo profilo suscitò la memoria del giovinetto collegiale che un altro Demetrio bifolco incontrava ai tempi della mamma Angiolina, quando, i piedi in due zoccoli di legno e una forcona in ispalla, usciva dalla stalla dei buoi. Giovann dell’Orghen intanto, vestito degli abiti di un disertore, andava ramingando davanti a tutti gli sportelli, guardando in terra, se mai la Provvidenza avesse lasciato cadere un mozzicone di sigaro. Demetrio stava accostando nei suoi rapidi confronti il passato al presente, i vivi ai morti, quando s'intese l'ululato di Giovedí, che i guardiani chiudevano nello scompartimento riservato ai cani che viaggiano. Povero Giovedí!.. non voleva distaccarsi dal suo padrone. Arabella, che aveva sognato nella notte il verso del cane, ebbe un brivido in tutta la persona. Tratta dalla successione delle idee, soggiunse: "Stamane la mamma mi ha dimandato se io sapevo com’era morto il mio povero papà. Essa non sa ancora tutta la verità ... ." "Risparmiatele questo dolore ... E in quanto a te, Arabella, abbi pazienza. Vedrai che ti troverai bene alle Cascine. Paolino è buono e sarà per voi un secondo padre. Ci sono delle necessità, figliuola mia, ci sono delle necessità, credi a me, innanzi alle quali è religione chinare la testa." "Lo so, povero zio!" esclamò con pieno abbandono la ragazza, alzando il braccio sul collo di Demetrio, che sedeva piú basso. Colla maniera con cui circondò il collo e con cui gli prese la mano, gli fece capire ch'essa non aveva bisogno d'altri commenti, e che sapeva tutto. Le anime semplici sono anche le piú trasparenti. Essa tornò a sollevare gli occhi lucenti al quadrante dell'orologio, mentre Demetrio abbassava i suoi sulle rughe delle sue vecchie scarpe. Stettero cosí forse un minuto, senza parlare, durante il quale risonarono ancora le lamentele di Giovedí chiuso in gabbia. S'intesero cosí senza parlare, stringendosi tratto tratto la mano con un battito di tenerezza. Arabella dopo un po' di tempo, nel consegnare allo zio una busta che pareva una lettera, riprese a dire: "La mamma la prega d'accettarlo per sua memoria. È il suo ritratto." "Ringraziala" balbettò lo zio, senza alzare gli occhi. Arabella disse di sí con un colpo delle palpebre. Durante il tempo che lo zio Demetrio stette allo sportello a comperare il biglietto, essa sedette sulla valigia, abbandonando le mani sulle ginocchia, assorta in una grande quantità di cose, che non avevano ordine, ma che la trascinavano colla forza di una corrente, di cui sentiva nella testa il frastuono. La stazione era andata di mano in mano popolandosi di gente che si aggirava frettolosa nella luce scialba e biancastra che pioveva dai globi, in mezzo al sordo rotolío delle carriole che menavano i bauli e alle voci sonore e imperiose che annunciavano le partenze. I treni in arrivo fischianti e rumoreggianti sotto la tettoia, il picchiar dei ferri, il suono delle catene, il bisbiglio, lo scalpiccío di tante persone mosse e sospinte anch'esse da pensieri, da voglie, da inquietudini proprie, o dalla forza delle cose, tutto ciò bastò a distrarre Arabella dai pensieri indeterminati, misti di presentimenti e di risentimenti, coi quali essa cominciava troppo presto la storia della sua giovinezza. Guai se gli occhi avessero la vista del futuro! A distrarla tornò indietro lo zio Demetrio, che colla piccola ombrella sotto il braccio e il biglietto in mano le fece capire ch'era giunta l'ora d'andarsene. Giovann dell’Orghen prese la valigia e si avviò verso la scala d'ingresso. Arabella si attaccò al braccio dello zio e lo accompagnò fin sulla soglia. Era pallidissima, ma non piangeva per non conturbare con lagrime inutili la malinconia del viaggiatore. Questi, col corpo in preda a piccole scosse, colle rughe del volto tese a uno sforzo supremo, disse ancora qualche cosa colla mano, mosse le labbra a un discorso che non volle uscire, e lí sulla soglia, sotto gli occhi del controllore, baciò sulla fronte Arabella, mettendole la mano sulla testa, come aveva fatto la sua mamma con lui. E si divisero senza piangere. Demetrio, quando si trovò solo nel suo scompartimento di terza classe, immerso nella poca luce d'un torbido lampadino giallognolo, poté abbandonarsi interamente, con minor soggezione di sé stesso, alla piena dei varii pensieri, che in quell'epilogo della sua oscura tragedia uscivano da cento parti a invadere l'anima. Sentendosi la testa calda come un fornello, quando il treno cominciò a muoversi nella crescente oscurità della sera, appoggiò la faccia al finestrino e stette a bevere l'aria con le labbra aperte, cogli occhi fissi a un cielo non ancora chiuso del tutto agli ultimi respiri del crepuscolo. Passando sul cavalcavia del vecchio Lazzaretto, da dove la città si apre ancora alla vista del viaggiatore in tutta l'ampiezza del corso, co’ suoi bianchi edifici, — e già splendevano di lumi case e botteghe — la salutò con un sospiro. Poi il treno, affrettando la corsa, cominciò a battere la bassa campagna nelle umide e fitte tenebre della notte, assecondando colle sorde scosse il correre tumultuoso dei pensieri. Non era una campagna ignota, anzi erano gli stessi prati suoi, dov'era nato, dov'era cresciuto ragazzo. Oltre il quarto o il quinto casello cominciò a riconoscere anche al buio i vecchi fondi di casa Pianelli, e piú in là San Donato, e tra una macchia bruna di pioppi il fabbricato chiatto e lungo del cascinale, da dove una volta un Demetrio bifolco usciva coi piedi negli zoccoli e coi calzoni rimboccati fino al ginocchio. In una bassura, nascosta da un muro sormontato da un tettuccio a triangolo, riposava da venticinque anni una donna, una povera donna, che inutilmente anch'essa aveva lavorato per il bene de' suoi. " Ciao , mamma ... " disse una voce, che un Demetrio irritato e sordo non volle ascoltare. Un tratto ancora e il treno avrebbe rasentato uno stagno, all'orlo del quale appare la stupenda abbazia di Chiaravalle: ed eccola infatti uscire quasi dall'acqua livida, a venir addosso nella sua nera e solenne costruzione, colla stupenda macchina del campanile impressa come un'ombra sull'aria oscura; e piú in qua, segnato da alcuni lumi rossicci, il solido edificio delle Cascine, la reggia del signor Paolino. A quella chiesa quante volte aveva accompagnato la sua mamma nei tempi che meno si pensava alle miserie del mondo! C'erano, in quell'antico convent o degli angoli cosí tiepidi e santi, con certe figure lunghe e patetiche su per i muri: c'erano dei corridoi cosí lunghi con cento cellette che davano sul verde luminoso delle praterie: c'era insomma in quella vecchia badia del medio evo un tal senso di riposo, che solo a pensarci il cuore se ne immalinconiva. Peccato non esserci vissuto trecent'anni prima! peccato non esserci due braccia sotto terra. In quella chiesa Beatrice avrebbe detto il suo sí un'altra volta. Ributtato da questi pensieri, Demetrio si ritrasse dal finestrino, appoggiò la testa nell'angolo delle due pareti di legno, chiuse gli occhi come se si atteggiasse a dormire; e mentre il treno lo portava via sbattacchiandolo, una canzone ancora in fondo al cuore sussurrò in tono quasi di canzonatura "To-to ... finito."

Dalle tre finestre e dalla ringhiera si guardava in un cortile stretto e profondo come una torre, di cui non vedevi la fine; ma davanti l'occhio spaziava sopra una moltitudine di tetti e di tettucci, sovrapposti, accavallati l'uno all'altro, d'un uniforme colore bruciaticcio, con una moltitudine di abbaini e di soffitte sporgenti, di altane aperte, di comignoli di tutte le fogge, di tutti i colori, colle bocche nere, spalancate, sbadiglianti, con cappelletti in capo, di ferro, a guisa d'elmi, di visiere, di cuffie, di ombrelle: una folla insomma di figure che nella luce del crepuscolo e nelle notti chiare di luna parevano assumere un atteggiamento, un sentimento di vita. Eravamo già alla seconda domenica di quaresima e la stagione favorita da un marzo galantuomo si avviava allegramente a braccio della primavera. Il sole entrava vivo e festante per le tre finestrelle. Su per le tegole scorreva l'aria fresca mattutina e, qua e là, da qualche balcone alto o da qualche terrazza usciva un ramettino verde di sambuco. Demetrio, infilato l'ago, stava rattoppando una delle tasche de' suoi calzoni della festa, ingegnandosi da sé come deve fare chi ama la roba e non può spendere, canticchiando sottovoce e sollevando di tratto in tratto gli occhi al magnifico campanile delle Ore, che gli stava davanti, di un bel colore rossiccio, colle sue leggiere e vaghe ornamentazioni di terra cotta, che usciva da un mucchio di tetti disordinati come un bel soldato diritto. Oppure si arrestava incantato a contemplare la magnificenza del Duomo, di cui vedeva una membratura, un ricamo di marmo sul fondo celeste, che sfumava tremolante, per cosí dire, nella nebbiolina rosea del mattino. Sonarono le sei, quando entrò Giovann dell'Orghen col solito pentolino del latte e col pane fresco della colazione. Era detto Giovann dell'Orghen , perché tirava i mantici a Sant'Antonio e in altre chiese. D'origine era svizzero tedesco. Venuto a Milano dietro la carriola del padre arrotino nel quarantotto, era rimasto qui come un ciottolone delle sue montagne che l'acqua abbia menato in giú. Al disotto del linguaggio milanese viveva ancora qualche reminiscenza del suo vecchio terteufel , che Demetrio fingeva di capire tanto per fargli piacere. Il nostro galantuomo aveva fatto nella sua vita il giardiniere, l'arrotino, il guattero, il sacrestano, e, divenuto vecchio, sordo, debole di gambe, s'era ridotto a tirare i mantici e a trasportare i contrabassi e i violoncelli degli allievi che vanno al Conservatorio ... Era insomma una specie di artista anche lui, ridotto dalla miseria dei tempi a vivere in una soffitta sotto il colmo del tetto, due scalette piú in alto di Demetrio. "A che ora c'è la messa a Sant'Antonio?" gridò costui. "Alle dieci e mezzo" rispose il sordo, che sapeva pigliare le parole al volo. "Viene a dirla un vescovo missionario chinese colla coda, che è a Milano per la liberazione dei moretti." Giovann dell'Orghen rise all'idea di quel vescovo colla coda. "Oggi non tiro i mantici, perché sto sul campanile a suonare le campane a festa. Sentirà tra poco che concerto. Altro che Verdi!" E il buon diavolo tornò a ridere, alzando la faccia pulita colla barba appena fatta e colla pelle quasi lucente, sotto un magnifico cappellino di paglia, o magiostrina , come dicono, preludio di primavera. "Gli ho portato il latte bianco e il pane cotto nel forno" disse ancora collocando la roba sulla tavola "e vado subito perché il prete m'ha promesso anche la cioccolata." "Addio, uomo felice!" gridò Demetrio e pensò, quando l'altro fu uscito: "Che gli manca per essere felice? Se avesse una camicia di piú, forse gli nascerebbero in cuore dei pensieri d'ambizione. Se anche gli manca un paio di scarpe, non ha rispetti umani lui: va in ciabatte ... Chi si contenta è beato, ricco, è tutto quello che vuole. In fondo è il mio sistema: e non c'è mestiere piú stupido che il pretendere di raddrizzare le gambe ai cani." Dopo la gran predica del cavalier Balzalotti si era persuaso anche di piú che a lavar la testa agli asini si butta via ranno e sapone. In Carrobio non s'era piú lasciato vedere. Venne qualche creditore in ritardo ed egli lo mandò difilato a Melegnano, dal sor Isidoro Chiesa, da quel talentone. "Che! che! voleva giusto mangiarsi il fegato, perderci salute e denari, compromettere la sua dignità e il suo onore per gli occhi di uno ... di una bella pigotta ! Bel nome se si vuole; bisogna proprio dire che c'è della gente che ha nulla da fare a questo mondo, se passa il tempo a inventare questi titoli! No, no, non voleva saperne egli di partita doppia ... Grazie tante, sor Demetrio riverito, una bella figura!" E arrossiva ancora a pensarci. A casa sua egli aveva i suoi vasi, tre gabbie di canarini e faceva conto di adottare anche una tortorella. Le bestie almeno capiscono la ragione, e, fin che possono, ti si mostrano riconoscenti. Ma le donne ... , queste donne ... Alla larga! Non aveva tempo di giuocar alla bambola lui! Accese un fornellino a spirito, vi collocò un ramino con un'oncia di burro, levò da un armadietto un paio d'uova portate dalle Cascine, e quando furono spumanti le tolse, pose sul fornello il pentolino del latte. Invitò Amoretto, il piú giudizioso dei suoi canarini, a tenergli compagnia. Aprí lo sportello d'una gabbia, l'uccellino saltò sulla tavola e cominciò a beccare. Intanto, per non perdere tempo e per mandare innanzi un po' di bene per l'anima, aprí il suo vecchio Kempis e cominciò a scorrerlo cogli occhi al disopra del piattello. Era un volumetto molto sciupato e gonfio, tenuto insieme a stento da una vecchia rilegatura di pelle con qualche avanzo dei fregi d'oro che le mani di molti ladri del Paradiso avevano slavato o graffiato nei duecent'anni o quasi dalla stampa del vecchio libro. Demetrio l'aveva caro, perché era stato della sua mamma, che lo aveva ereditato dalla sua, e tutti vi avevano pescato, come in un gran mare, qualche consolazione. Nella sua vecchia stampa il libro, dove Demetrio lo aperse, diceva: Confesserò contro di me la mia injustitia: confesserò avanti a Te, o Signore, la mia debolezza. Giovann dell'Orghen cominciò a scampanare a Sant'Antonio colla pazza fiducia di un sordo. E il libro: Sovente è picciol cosa quella che mi abbatte et contrista . "Questo è vero," pensò Demetrio, "noi ci lasciamo spesso deviare ed affliggere da un'ala di mosca." I canarini, eccitati dalla musica delle campane, cinguettavano e gorgheggiavano per cinquanta. " Mi propongo di fortemente operare et invece basta una mediocre tentatione perché io pruovi massima angustia ... ." Demetrio credette di leggere un rimprovero nelle parole del vecchio libro, e socchiuse un poco gli occhi, come se volesse discendere collo sguardo fino in fondo alla coscienza. Quando li riaprí, ne vide innanzi due altri, che stavano osservandolo in un modo strano e indiscreto. "Chi ti ha insegnata la strada, brutta bestiaccia?" " Beb " rispose Giovedí, che credette di sentire nella voce dello zio un sentimento piú umano a suo riguardo. E indovinò giusto. Questo nuovo sentimento di maggior tolleranza verso la piú brutta bestia del mondo era nato nel cuore di Demetrio una mattina che, essendo egli andato a far mettere un piccolo segno sulla fossa del povero Cesarino, vi aveva trovato Giovedí, umido di guazza, colle zampe nel terriccio ed il muso sulle zampe, in atto di fare compagnia a qualcuno. Alzando il viso al disopra della tavola, Demetrio credette di vedere di nuovo le quattro zampe del cane brutte di terra. Non ebbe piú cuore di dir delle insolenze ad una bestia, che veniva ad implorare un boccone di pane. Giovedí non aveva nulla da vendere, quasi nemmeno la coda, ed era da compatire se abbaiava per fame. Gli buttò dunque un boccone di pane fresco, che il cane lasciò cadere in terra e non toccò come se fosse veleno. Invece non cessò dal guardare, co' suoi due occhi di bestia affettuosa e intelligente, ora lo zio, ora l'uscio, col corpo in preda ad una viva inquietudine. Subito dopo Demetrio sentí un passetto sulla scala, quindi l'uscio si aprí e comparve Arabella. "Sei tu?" esclamò lo zio, lasciando cadere la forchetta nel ramino. La povera tosetta , vestita d'un modesto abito bigio, col velo in testa e un fazzolettino di lutto al collo, pallida in mezzo a tanto nero, venne avanti colle mani raccolte sul libretto da messa e fece un cenno del capo, come se volesse dire: "Sono io". Ma la voce non uscí. Essa tremava di vergogna e di soggezione. "Che cosa vuoi? chi ti ha accompagnata?" "Ferruccio." "Siedi." "Zio!" soggiunse la fanciulla, aprendo i suoi larghi occhi di velluto, "è proprio in collera con noi?" "Sono in collera con nessuno, ma sto a casa mia" si affrettò a dire lo zio senza tante cerimonie. "Non ci abbandoni per carità, zio, per carità! ... " La voce di Arabella s'intenerí e rasentò il pianto, contro il quale ella faceva di tutto per resistere. Lo zio rispose con una ruvida alzata di spalle e brontolò: "Non sono ... ." "Se abbiamo sbagliato, zio," continuò quella voce piena di lagrime "ci perdoni per questa volta. La mamma non fa che piangere." "È lei che ti manda qui?" gridò lo zio con una esagerata ruvidezza. "No, non sa che sono venuta. Ho detto che andavo a messa con Ferruccio, che aspetta qui sulla scala. È venuto anche Giovedí." " Beb!" soggiunse il cane a sentire il suo nome, guardando ora la ragazza, ora lo zio. "Povera mamma, ha quasi la febbre. Va compatita se non è pratica. È il nonno che le ha detto di far cosí, ma adesso si accorge anche lei che aveva ragione ... ." "Chi aveva ragione?" chiese con un sogghignetto sarcastico Demetrio, mostrando i denti. "Lei, zio ... ." "Ah! lo so bene. Grazie tante." "Non abbiamo piú nulla da mangiare. I bottegai non ci dànno piú nulla. Ieri e ieri l'altro ho provveduto alla meglio, facendo vendere da Ferruccio la medaglia de' miei esami, ma non si può andare avanti cosí, zio, non si può. I ragazzi fanno compassione." La voce di Arabella andò morendo in un singhiozzo, contro il quale ebbe ancora la forza di reagire, forse per la paura che il pianto non le lasciasse il tempo di dire tutto quello che era venuta per dire. "Per amore del nostro povero papà, zio, non ci tolga la sua benevolenza ... ." Il cane venne anche lui a posare le due zampe sulle ginocchia di Demetrio. Capiva anche lui che la fanciulla cercava di intenerire lo zio: la voce piagnucolosa della bimba faceva tremare la povera bestia. Demetrio si contrasse nella sua scontrosità come una foglia secca. I nervi del viso guizzarono sotto la dura corteccia. Non era piú il credenzone, l'allocco d'una volta, e non per nulla il cavalier Balzalotti avevagli insegnata l'arte di stare al mondo. Le donne quali piú quali meno, sono tutte commedianti, specialmente certe donne ... "Già, sono io che vi faccio patire la fame!" brontolò agitandosi sulla sedia. "Si dirà anche questa. Io sono il ladro, il pedante, il tiranno, e se vi dò un buon parere è per fare il mio interesse, si sa. Io ho le olle in cantina piene di marenghi ... Vieni avanti, mangia!" Demetrio aveva versato, colla mano convulsa, il latte nella scodella, che spinse colla mano fino all'orlo del tavolo, mettendo vicino un pane. "E lei?" balbettò la fanciulla. "Mangia, non far smorfie. Già ... gli altri hanno grandi chiacchiere, ma, quando si tratta di tirar fuori un quattrino, stanno a Melegnano, gli altri. Ed io sono il ladro, il tradi ... ditore ... Mangia dunque, non farmi scappar la santa pazienza." Arabella si avvicinò al tavolo e cominciò a mangiare, come se lo facesse soltanto per obbedienza e per non irritare di piú lo zio. Ma alle prime cucchiaiate di latte caldo le sue guancie si fecero rosee e gli occhi brillarono di una gioia intensa nel fissare il fondo della scodella. Demetrio cercava di tirarsi in mente tutte le raccomandazioni fattegli dal suo superiore; ma in quel momento non poteva vedere che tre poveri fanciulli quasi morti di fame. Si è o non si è cristiani, e, per quante fossero le colpe di quella donna, si deve lasciar morire su una strada tre poveri innocenti? Arabella lasciava cadere nella scodellina anche le sue lagrime e se le mangiava poi col pane. Demetrio, fatte due o tre giravolte per la stanzetta, seguitò come se parlasse a sé stesso: "Perché non dovrei aver volontà di aiutarvi? Ah! dunque, io ho men cuore del vostro cane ... L'ho provata anch'io la miseria e so che sapore ha: ma contro la miseria non c'è che un rimedio: volontà di lavorare e risparmio, risparmio e volontà di lavorare. Tu hai nominato tuo padre ... Se sapeste tutto ... Se fosse qui lui a vedere ... ." "Ah, zio, zio!.." proruppe la bambina, portandosi a un tratto il fazzoletto agli occhi, e lasciando traboccare quel gran fiume di pianto che aveva trattenuto fin qui. "Cosa?" "So tutto ... ." "Cosa sai?" "Mi dica che non è vero." "Che cosa ti hanno detto? ... " "Che il povero papà s'è ammazzato ... ." "Chi?" Demetrio strinse i due pugni in aria, con un rapido movimento d'ira, come se volesse scagliarsi contro l'assassino che aveva parlato. Gli occhi cominciarono a veder male, e il cuore ... sentí che il cuore andava in pezzi sotto i colpi di quei singhiozzoni, che minacciavano di soffocare la povera tosetta . Colla gola stretta, strozzata da un'adirata passione, si appoggiò colle mani alla sponda della sedia, dove stava la fanciulla e aspettò che finisse di piangere. Ma vedendo che non poteva smettere, alzò lentamente una mano, che pareva inchiodata sul legno della sedia, e la posò dolcemente sulla testa di Arabella. Questa sentí tutto il significato di quella tenera carezza e il cuore volle scoppiare. Nemmeno lo zio seppe trovare una parola da dire in quel momento, tanto il dolore gli stringeva lo stomaco. Gli occhi si riempirono di lagrime dure e cristalline, che egli tolse, passandovi sopra con forza il grosso fazzoletto di cotone. Arabella, quando poté parlare, raccontò che, stando una sera sul pianerottolo a prender acqua alla pompa, sentí sulla scala di sopra Ferruccio, che indicando l'uscione del solaio, raccontava a un altro ragazzo che il sor Cesarino si era impiccato lassú. Aveva creduto di morir di spavento; ma capí subito che la mamma non ne sapeva nulla e che la gente cercava di nascondere la verità. Non era morta ancora, perché la Madonna Addolorata l'aiutava ... , ma non ne poteva piú. "No, zio Demetrio, non ne posso piú" esclamò aggrappandosi colle braccia al collo dello zio, accostando la sua faccia pallida e lagrimosa a quella accigliata e ruvida dell'uomo. "Non ne posso piú ... e il cuore mi si spezzerà davvero se non ci aiuta. Lei mi dirà tutto, com'è stato ... Ah Signore! il mio povero papà! mi dica che non è vero ... Che cosa abbiamo fatto di male noi al Signore? O Madonna, Madonna!" Arabella pronunciò il nome della Madonna con due gridi pieni di una disperata protesta, e subito dopo Demetrio se la sentí venir meno nelle sue braccia, come se morisse lí lí. "Arabella, povera figliuola mia" uscí a dire una voce, che Demetrio stentò a riconoscere per sua, tanto veniva dal profondo dell'animo. E, come se veramente si snodasse in lui uno spirito nuovo, forte, operativo, fece sedere la fanciulla, ne asciugò il viso grondante, l'appoggiò alla tavola, corse a un armadio a prendere dell'aceto, ne bagnò la fronte e i polsi, la rincorò con paroline d'amore sussurrate all'orecchio, volle infine che prendesse un granello di zucchero tuffato nel rhum; e, quando vide che il sangue rifluiva alle guancie, corse di là, finí di vestirsi, prese alcuni denari, il cappello, il bastone, una cesta di vimini, e rincorata di nuovo la tosetta : "Andiamo," disse "ne parleremo con comodo. Non dir nulla per ora. Fu una disgrazia per tutti ... L'aria ti farà bene ... Vuoi appoggiarti? Asciuga gli occhi." E uscirono. Giovedí correva innanzi, ma ad ogni svolto di scala si voltava indietro a guardare lo zio e la nipote, e gridava: beb! Sulla porta trovarono Ferruccio, al quale Demetrio consegnò la cesta e i denari e diede alcuni ordini per la spesa. Per strade secondarie si avviarono finalmente verso il Carrobio. Demetrio però si guardava sempre intorno con sospetto, per paura d'imbattersi per caso nel cavalier Balzalotti, che gli aveva dato quei tali consigli.

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